Il 25 marzo scorso i Carabinieri della Compagnia di Roccella Jonica e della locale Stazione CC Forestale hanno aperto le porte della caserma agli alunni delle scuole secondarie di primo grado. È l’avvio di una serie di incontri che si prefiggono lo scopo di promuovere sul territorio la cultura della legalità.
La stazione dei Carabinieri di Roccella Jonica aperta alle scuole
Gli studenti delle prime classi intervenute, il terzo anno delle scuole medie dei Comuni di Riace, Bivongi e Stilo, sono stati condotti attraverso un percorso conoscitivo delle prerogative e dei compiti dell’Arma dei Carabinieri. Insieme ai militari presenti hanno così affrontato varie tematiche. I carabinieri hanno illustrato loro le principali funzioni esercitate sul territorio dalle diverse articolazioni che compongono l’Istituzione.
Una lezione di legalità
Nel corso delle attività gli studenti hanno inoltre osservato da vicino il parco auto – moto della Compagnia Carabinieri, ponendo domande sulle modalità di impiego dei mezzi nei servizi d’istituto.
L’incontro si è rivelato funzionale al rafforzamento del sentimento di legalità nei giovanissimi intervenuti, i quali hanno avanzato numerosi quesiti, mostrandosi fortemente interessati e incuriositi dalle tematiche proposte.
Dalla curva del San Vito-Marulla fino ai paesi più poveri dell’Africa. La storia della Terra di Piero comincia sugli spalti di un campo di calcio, dentro una moltitudine di persone che si sentono comunità. Ragazzi uniti non solo dalla fede per la squadra della propria città, ma probabilmente legati anche da un insopprimibile insofferenza verso le ingiustizie. E se hai questo fuoco dentro, allora il tuo posto è accanto agli ultimi.
Piero Romeo in Africa
Il loro leader era Piero Romeo e oggi Sergio Crocco spiega che senza quel ragazzo generoso e sfortunato, la Terra di Piero non ci sarebbe. Non ci sarebbero i pozzi realizzati in centro Africa, le scuole per i bambini e le bambine della Tanzania o del Madagascar, né il parchi solidali costruiti a Cosenza, e nemmeno il sostegno alle vecchie e nuove povertà di casa nostra.
La Terra di Piero oggi rappresenta una delle realtà più vivaci nella galassia del Terzo settore, intervenendo capillarmente sui numerosi aspetti attraverso cui si disvela il disagio, la fatica del vivere, la sofferenza sociale, dai progetti in Africa, fino alla distribuzione di pasti alle famiglie in difficoltà nel corso del lockdown (ma anche successivamente).
Il viaggio in Africa con Padre Fedele
«L’Associazione nasce pochi giorni dopo la morte di Piero – racconta Crocco – all’inizio in modo spontaneo, quasi naturale, per dare corso e continuità agli ideali e ai progetti che avevano animato la sua vita: la mensa dei poveri e l’aiuto alle popolazioni della Repubblica Centrafricana». Forse è proprio quel viaggio nel buco nero della miseria africana, fatto da Piero Romeo assieme a Sergio Crocco, Paride Leporace e Padre Fedele ad essere una sorta di seme. L’associazione si struttura, si spoglia piano dello spontaneismo iniziale, diventa organizzazione che attrae volontari, chiama donne e uomini generosi, individua i campi di intervento e mobilita risorse e intelligenze per costruire solidarietà.
Sergio Crocco in Africa nella mensa con i bambini
I primi passi della Terra di Piero
I primi passi furono rappresentati dalla realizzazione di pozzi nella Repubblica Centrafricana. Il progetto prendeva il nome di “Pozzo farcela”, coniugando l’ironia e la leggerezza con l’impegno solidale. Ma quello fu solo l’inizio.
Il “mal d’Africa” aveva contagiato quelli della Terra di Piero e i volontari tornarono per costruire scuole, dormitori, mense in Madagascar, Namibia, Senegal e Tanzania. Si tratta di progetti ed interventi che hanno visto i volontari impegnati nel bonificare lebbrosari, edificare luoghi per imparare e giocare, superando le barriere architettoniche. Infatti da un certo momento in poi la Terra di Piero si concentra sulla tematica della disabilità. E lo fa a suo modo: rimboccandosi le maniche e costruendo luoghi praticabili da tutti i bambini, anche quelli meno fortunati.
Il Parco Piero Romeo nel centro di Cosenza
Nasce il Parco Piero Romeo, nel cuore della città, il primo luogo di gioco interamente fruibile da tutti. Oggi quel parco, soprattutto nel corso della bella stagione, è animato dall’allegria giocosa dei bambini. Ma Crocco sul terreno dell’impegno a favore dei disabili, ci tiene a sottolineare un progetto passato forse sotto silenzio, quello della realizzazione presso dieci lidi balneari, sei sul Tirreno e quattro sullo Ionio, di pedane e carrozzine che consentono ai disabili di raggiungere il mare. A tale scopo si è anche provveduto a formare i bagnini.
Non solo Parco dei nonni
E proprio di fronte al Parco Piero Romeo, presto potrebbe sorgere il Parco dei Nonni, attorno alla struttura, proprietà del Comune, che in passato ospitava un bar e che adesso diventerà una trattoria inclusiva, dove lavoreranno come cuochi anche ragazzi down.
La Terra di Piero è una fabbrica di idee, dalla quale escono produzioni teatrali, progetti, impegno concreto. Come la “spasera di coperte” che Maria, calabrese d’adozione e volontaria, sta preparando assieme a molte altre persone. Si tratta di realizzare coperte fatte a mano, da vendere per farle «diventare mattoni per costruire scuole in Tanzania e provare a salvare le bambine dall’infibulazione grazie allo studio».
Una scuola in Tanzania che nasce grazie all’impegno della Terra di Piero
Maria ha conosciuto la Terra di Piero per vicende personali ed è rimasta sedotta dal coraggio e dalla generosità di quel mondo fino a scegliere di restare e impegnarsi anche lei. «Sergio mi ha affidato la cura del progetto contro l’infibulazione ed è nata l’idea di realizzare così tante coperte da riempire piazza Fera. Abbiamo coinvolto in questo progetto diverse altre realtà solidali e quando saremo pronti esporremo i nostri prodotti che diventeranno banchi e scuole per le bambine africane, perché il sapere può cambiare le cose». Ci sarà presto una “spasera di coperte”, annuncia Maria, che non è calabrese ma il dialetto l’ha imparato bene. E che ha imparato pure che la solidarietà può avere le sembianze di una coperta.
Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. Cosenza sarà per tutto il 2023 Capitale italiana del volontariato. Attraverso I Calabresi la Fondazione intende promuovere e far conoscere una serie di realtà che hanno reso possibile questo importante riconoscimento.
Un accordo tra Cosa Nostra e ‘ndrangheta, per colpire lo Stato, per destabilizzare il Paese. La sentenza di secondo grado del processo “Ndrangheta stragista” riscrive la storia d’Italia. La Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria (Bruno Muscolo presidente, a latere, Giuliana Campagna) ha infatti confermato gli ergastoli già emessi in primo grado nei confronti del boss di Cosa Nostra, Giuseppe Graviano, e dell’uomo forte della ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, Rocco Santo Filippone, nell’ambito del procedimento “Ndrangheta stragista”. I due sono stati condannati anche in secondo grado quali mandanti del duplice omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, fatto avvenuto nei pressi di Scilla il 18 gennaio del 1994.
Il pubblico ministero, Giuseppe Lombardo
Una notte della Repubblica
I giudici di secondo grado, quindi, hanno avvalorato l’impianto accusatorio portato avanti dal pm Giuseppe Lombardo (applicato anche nel procedimento d’appello) circa l’esistenza di un accordo tra le due principali organizzazioni criminali del nostro Paese nella strategia stragista che doveva cambiare gli equilibri d’Italia, in una fase di passaggi tra la Prima la Seconda Repubblica, dopo l’annus horribilis, il 1992, con l’uccisione dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nelle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Il piano di Totò Riina
L’inchiesta, mastodontica, ha ricostruito il ruolo delle principali cosche della ‘ndrangheta, i Piromalli e i De Stefano, che, attraverso alcuni summit (il più famoso dei quali, a Nicotera Marina), avrebbero aderito al piano eversivo voluto da Totò Riina, in quel momento capo indiscusso della mafia siciliana. Infatti, nel complessivo attendismo della ‘ndrangheta, dove molte famiglie e molte cosche, abituate ad una pacifica e fruttuosa convivenza con lo Stato, erano restie ad azioni eclatanti, le famiglie più potenti invece, quelle che ruotano intorno ai Piromalli/Molè ed ai De Stefano-Tegano-Libri – che, non a caso avevano, ad un tempo, i più profondi legami con Cosa Nostra e con la massoneria deviata di Licio Gelli – si muovono nell’ombra, all’insaputa del resto della consorteria.
Totò Riina dietro le sbarre
Una sentenza di secondo grado che, quindi, inserisce questi fatti in un disegno complessivo, quando, invece, per anni, gli attentati ai militari dell’Arma erano stati inquadrati come episodi sganciati da contesti più grandi. Per gli assalti ai Carabinieri, infatti, vengono utilizzati due giovanissimi criminali, Consolato Villani e Giuseppe Calabrò, certamente fedeli, efficienti e spregiudicati, ma non immediatamente riconducibili alle famiglie di ‘ndrangheta che erano alle spalle dell’azione. L’ennesimo, geniale, depistaggio della ‘ndrangheta.
Franco Pino e gli altri collaboratori di giustizia
Una inchiesta che si basa, soprattutto sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, tra cui quelle di Franco Pino, del 2018. Frasi commentate da due soggetti vicini alla famiglia Piromalli in una intercettazione che ha rappresentato il colpo di scena finale nel procedimento di secondo grado. In quelle captazioni del 2021, divenute pubbliche solo in queste ultime settimane, si faceva infatti riferimento al volere dei vertici della cosca di Gioia Tauro di insanguinare anche la Calabria. Apparentemente con azioni scollegate (proprio come gli attentati ai carabinieri) ma, di fatto, inserite in un medesimo e inquietante disegno criminale.
«Il colpo di grazia allo Stato»
Collaboratori di giustizia, tanto calabresi, quanto, soprattutto, siciliani. Come Gaspare Spatuzza, per anni braccio destro del boss Graviano. La voce di Spatuzza postula dunque l’esistenza di una intesa fra Cosa Nostra ed i calabresi che avevano disposto, ordinato ed organizzato gli assalti ai carabinieri avvenuti fra il dicembre 1993 ed il febbraio 1994 nel reggino. In questo contesto la frase di Graviano «… bisognava agire per dare il colpo di grazia allo Stato e che i calabresi già si erano mossi…» pronunciata per fare comprendere a Spatuzza (cioè a colui che più di ogni altro aveva collaborato con lui, coordinando e svolgendo materialmente le attività criminali connesse alla esecuzione delle stragi continentali) che non si poteva più indugiare oltre e che si doveva procedere e colpire ancora.
Il collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza
Da Moro a Berlusconi
I lunghi, lunghissimi, dibattimenti di primo e secondo grado hanno allargato quasi all’infinito il raggio d’azione, coinvolgendo nella narrazione dei collaboratori figure influenti della politica italiana: da Bettino Craxi a Silvio Berlusconi. Ma il procedimento ha attraversato decenni di storia italiana e locale: dal ruolo che la ‘ndrangheta avrebbe potuto avere nel sequestro del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, alla carriera politica di Giuseppe Scopelliti, ex governatore calabrese, che spiccò il volo dopo l’attentato a Palazzo San Giorgio del 2004, fasullo secondo l’impostazione accusatoria.
Crimine, servizi segreti e massoneria
Il quadro inquietante nella commistione tra organizzazioni criminali, politica, massoneria, viene completato dal ruolo rivestito dai servizi segreti. Impegnati per decenni in attività volte ad assicurare la permanenza del paese nel blocco occidentale, prevenendo ed impedendo infiltrazioni del blocco avverso, venuto meno, per l’appunto, la controparte, sentivano di avere perso la loro missione e con essa gli enormi spazi di manovra – talora illegali – che la stessa gli garantiva. Così come per Cosa Nostra il procedere del maxi processo verso le condanne definitive era stato il preoccupante annuncio dell’inizio di un declino inarrestabile, così, per alcuni settori di tali apparati, lo smantellamento di Gladio (autunno 1990) era stato il segnale di un intollerabile ridimensionamento del proprio potere.
Insomma, le mafie e le schegge infedeli di apparati statali sembrerebbero accomunati, in quegli anni, ad uno stesso destino: i nuovi equilibri geo-politici stavano mutando i meccanismi di un sistema in cui erano prosperate. La loro sopravvivenza era quindi legata alla necessità di impedire che quei cambiamenti travolgessero quel sistema: entrambe avrebbero concorso per il mantenimento dello status quo. La strategia stragista doveva proprio permettere di individuare i nuovi referenti politici, in grado di portare avanti i piani granitici elaborati ed eseguiti nel corso della Prima Repubblica. Perché più le cose cambiano, più restano le stesse.
«Le provincie italiane con un più alto indice di presenza mafiosa sono concentrate in Calabria, in particolare Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia». Una frase lapidaria nella sua durezza che diventa ancora più significativa se si pensa che non è della Dia o del Viminale. E nemmeno del ministero di Giustizia o della Dna. A pronunciarla, infatti, è stata la Banca d’Italia nel dossier del dicembre del 2021 La criminalità organizzata in Italia: un’analisi economica.
Nei giorni scorsi il documento è tornato alla ribalta grazie alla Cgia di Mestre, che ha inteso stigmatizzare alcuni aspetti legati al Pil e al fatturato di quella che viene definita “Mafia spa”. Già, perché, stando ai dati e numeri di Bankitalia, il fatturato annuo delle mafie italiane, stimato al ribasso in 40 miliardi di euro all’anno, entra nei numeri dello Stato, concorrendo addirittura ad aumentare il prodotto interno lordo.
Mafia Spa, un giro d’affari inferiore solo ad Eni ed Enel
Si legge infatti nel documento della Cgia di Mestre: «In massima parte questo business, e relativo fatturato, è gestito dalle organizzazioni mafiose e conta un volume d’affari pari a oltre il 2 per cento del nostro Pil. Stiamo parlando dell’economia criminale riconducibile alla “Mafia spa” che, a titolo puramente statistico, presenta in Italia un giro d’affari inferiore solo al fatturato di Gse (gestore dei servizi energetici), di Eni e di Enel». Numeri di per sé degni di nota, ma «che sono certamente sottostimati, in quanto non siamo in grado di dimensionare anche i proventi ascrivibili all’infiltrazione di queste organizzazioni malavitose nell’economia legale».
Il Paese soffre ma dice di arricchirsi
La Cgia di Mestre non usa troppi giri di parole per condannare questo tipo di contabilità: «È quanto meno imbarazzante che dal 2014 l’Unione Europea, con apposito provvedimento legislativo, consenta a tutti i paesi membri di conteggiare nel Pil alcune attività economiche illegali come la prostituzione, il traffico di stupefacenti e il contrabbando di sigarette». Basti pensare che «grazie a questa opportunità, nel 2020 (ultimo dato disponibile) abbiamo gonfiato la nostra ricchezza nazionale di 17,4 miliardi di euro (quasi un punto di Pil)». Uno stratagemma utile per far quadrare i conti, forse, ma anche «una decisione eticamente inaccettabile».
Un sequestro di sigarette di contrabbando
La distribuzione delle mafie sul territorio nazionale
Misurare l’intensità del fenomeno mafioso è complesso perché le azioni e le attività delle mafie sono nascoste per definizione. Sfuggono spesso alle attività investigative, figurarsi alle rilevazioni statistiche. Inoltre, hanno confini labili che rendono difficile individuare le singole fattispecie criminali. Ecco perché per questo genere di analisi si punta su «un approccio multidimensionale, che consente di estrarre informazioni da indicatori diversi e di catturare le diverse modalità con cui le mafie agiscono su un territorio». L’indice della presenza mafiosa si calcola, quindi, considerando quattro diversi domini, ciascuno, a sua volta, composto da quattro diversi indicatori elementari.
Gli indicatori utilizzati da Banca d’Italia per la sua analisi
Il dossier passa, poi, ad analizzare la distribuzione della mafie nel Paese secondo criteri geografici. Ed è qui che emerge il peso della criminalità organizzata nella punta meridionale dello Stivale. «Le provincie con un più alto indice di presenza mafiosa sono concentrate in Calabria (in particolare Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia)». Sono comunque in “buona” compagnia. L’elenco dei territori più a rischio comprende, infatti, anche la Campania (Caserta e Napoli in particolare), la Puglia (principalmente il Foggiano) e Sicilia (specie la parte occidentale dell’isola). Ritenere che il fenomeno riguardi soltanto il Mezzogiorno sarebbe, però, fuorviante. Nel Centro Nord, ad esempio, spiccano per indice di “mafiosità” dell’economia locale Roma, Genova e Imperia. I territori dove la presenza della criminalità organizzata si sente meno sarebbero, invece, le province del Triveneto, la Valle d’Aosta e l’Umbria.
Mafia Spa: più criminalità, meno crescita
La presenza della criminalità organizzata in un territorio ne condiziona in misura profonda il contesto socioeconomico e ne deprime il potenziale di crescita. Scrive, infatti, Bankitalia «che le province che sono state oggetto di una più significativa penetrazione mafiosa hanno registrato, negli ultimi cinquanta anni, un tasso di crescita del valore aggiunto significativamente più basso». Inoltre, andando oltre la sfera economica, la presenza di attività illegali inquina il capitale sociale e ambientale.
Ci sono studi – Peri (2004), ad esempio – che mostrano come la presenza delle 20 organizzazioni criminali (approssimata con il numero di omicidi) sia associata a un minore sviluppo economico. Altri – Pinotti (2015) – sostengono che «l’insediamento di organizzazioni mafiose in Puglia e Basilicata nei primi anni Settanta avrebbe generato nelle due regioni, nell’arco di un trentennio, una perdita di Pil pro capite del 16 per cento circa».
Un altro grafico dal report di Bankitalia
I risultati, insomma, mostrano un’associazione negativa tra l’indice di penetrazione delle mafie a livello provinciale e la crescita economica negli ultimi decenni. In particolare, le province con un maggiore livello di penetrazione mafiosa (quindi Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia) hanno registrato un tasso di crescita dell’occupazione più basso di 9 punti percentuali rispetto a quello delle province con indice di presenza mafiosa inferiore. Anche la crescita della produttività risulta inferiore nei territori in questione. In termini di valore aggiunto, lo stesso esercizio produce una crescita inferiore di 15 punti percentuali, quasi un quinto della crescita media osservata nel periodo.
Mafia Spa e pubblica amministrazione
Oltre a ridurre la quantità e qualità dei fattori produttivi, la presenza mafiosa incide negativamente sulla loro allocazione e quindi sulla produttività totale dei fattori. In primo luogo essa genera distorsioni nella spesa e nell’azione pubblica. «I legami corruttivi tra associazioni criminali e pubblica amministrazione condizionano la spesa pubblica che viene ri-orientata verso finalità particolaristiche, a discapito dell’interesse generale. In secondo luogo, la presenza mafiosa crea distorsioni anche nel mercato privato. L’infiltrazione mafiosa nell’economia legale, infatti, impone uno svantaggio competitivo per le imprese sane. L’impresa infiltrata da un lato può beneficiare di maggiore liquidità e risorse finanziarie (i proventi delle attività criminali), dall’altro può condizionare la concorrenza usando il suo potere coercitivo e corruttivo, sia nei confronti delle altre imprese sia nei confronti della pubblica amministrazione».
Le conclusioni della banca centrale italiana
Banca d’Italia non ha dubbi: gli effetti delle mafie sull’economia sono «una delle principali determinanti della bassa crescita e dell’insoddisfacente dinamica della produttività nel nostro paese». Basti pensare che proprio Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia hanno registrato negli ultimi 50 anni una crescita dell’occupazione e del valore aggiunto più bassa. Un effetto, questo, connesso alle distorsioni nel funzionamento del mercato: «La corruzione e/o l’uso del potere coercitivo sono in grado di condizionare i politici locali e distorcere l’allocazione delle risorse pubbliche; d’altro canto, l’infiltrazione nel tessuto produttivo distorce la competizione nel settore privato, con le imprese mafiose in grado di conquistare quote di mercato significative sfruttando una maggiore disponibilità di risorse economiche, la maggiore propensione a eludere le regole e, non ultimo, il potere coercitivo».
La facciata di Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia
Come uscirne? Non esistono ricette semplici. Banca d’Italia una sua idea, però, la ha: «La misurazione e comprensione del fenomeno mafioso, l’analisi delle determinanti e degli effetti della presenza della criminalità organizzata e un’efficace azione di contrasto richiedono infatti dati granulari e la possibilità di incrociare e integrare, attraverso opportune chiavi identificative, più fonti informative. Ne gioverebbero sia la comunità scientifica, con la possibilità di spostare più avanti la frontiera della conoscenza, sia le autorità investigative che potrebbero sfruttare tali risultati per rendere più efficace la loro attività di contrasto».
Franco Malanga ha salutato a pugno chiuso e se ne è andato
Ha concluso una vita intensa, costellata di tante vicende pirotecniche. Sovversivo e comunista.
Malanga ha fondato sul finire degli anni ’70, quando militava nella sinistra “extraparlamentare”, la prima Casa del Popolo nel cuore dell’antico quartiere del Cancello di Paola.
Lì allora si tenevano le riunioni dei compagni, che provenivano da piccole formazioni come Potere operaio o il Pcd’I (marxista-leninista).
Un primo piano di Franco Malanga
Malanga: da Radio Bronx alle candidature
All’interno del locale c’era una piccola biblioteca di testi “alternativi”. Ci si ritrovava lì per organizzare dibatti e mostre con dazebao all’aperto. Franco, inoltre, contribuì a fondare, sempre a Paola, Radio Bronx e partecipò a manifestazioni “contro il sistema”.
Ironico e sarcastico, lo si ricorda anche a un corteo no global vestito con l’uniforme dell’Armata Rossa per irridere con goliardia l’“autorità costituita”.
Nel 2012 e nel 2017 Franco si è candidato al Consiglio comunale di Paola da indipendente per Rifondazione comunista, raccogliendo l’appello di chi lo voleva in lista come compagno di battaglia.
Malanga sovietico
Malanga e le sfilate in abiti imperiali
Franco Malanga, nella sua seconda vita, ha vestito anche i panni di Roberto il Guiscardo, di Carlo V e di Federico II.
Ha sostenuto l’impero, la monarchia e il Regno delle due Sicilie. Lui, con le sue sfilate in costume medievale, ha mobilitato centinaia di soldati armati di spade e durlindane che hanno attraversato le strade di ogni posto innalzando al cielo i propri stendardi. L’associazione dei Normanni, che ha animato per tantissimi anni, ha organizzato cortei storici in costume che hanno strabiliato le folle di tutta Italia.
Al cospetto della Regina
Resta memorabile la sfilata a Cosenza vecchia, quando Malanga venne accolto in pompa magna dall’allora sindaco Giacomo Mancini.
Ancora: fondò l’Ordine degli Amici di San Francesco di Paola, che si è spinto in Francia, precisamente a Frejus, per rendere omaggio alla città che ha consacrato il Taumaturgo come suo protettore.
Un’altra volta, Franco e i suoi figuranti hanno “osato” competere a Venezia con le maschere del Carnevale, uscendone trionfatori e premiati in Piazza San Marco per la bellezza degli abiti esibiti. Ma il top è stato a Londra, dove rese onore da pari, nientemeno che alla regina Elisabetta, che lo ricambiò con diversi doni e tantissimi elogi.
Malanga nei panni di San Francesco di Paola
A tu per tu con De Crescenzo e Piperno
Animatore di eventi culturali, Franco ha promosso i “Venerdì letterari”, ovvero dei cenacoli, in cui artisti di ogni genere esponevano la propria opera.
L’iniziativa ha avuto ospiti illustri: ad esempio, Luciano De Crescenzo, che ha ricevuto un premio speciale.
Rimane nei ricordi di tanti l’incontro con Franco Piperno, una notte d’estate di molti anni fa, quando il fisico espose le sue teorie sul firmamento e l’ordine delle stelle nella suggestiva area del castello diruto dei Normanni.
Malanga normanno
Malanga scrittore: di sé e della Paolana
Franco, infine, ha scritto dei libri, tra i quali una autobiografia e una storia della squadra di calcio della Paolana.
Queste sono solo alcune caratteristiche di un personaggio poliedrico e coerente allo stesso tempo, che ha arricchito con le proprie “imprese” la vita della sua comunità. E questa omaggia il suo figlio estroso con dispiacere. Ma anche con un certo compiacimento: chissà come sarà l’ultima sfilata di Franco in cielo, dove lo accoglierà con gioia e letizia un illustre concittadino, San Francesco di Paola.
C’è sempre uno più puro che ti epura: stavolta non lo dice Pietro Nenni e non si riferisce agli ultrà sinistra vintage.
Si applica, più prosaicamente, al Movimento 5Stelle e, in questo caso, a Davide Tavernise, capogruppo pentastellato in Consiglio regionale.
Tavernise, per farla breve, ha querelato il trentenne Michele Amantea per diffamazione. E fin qui la storia non fa notizia. Le cose cambiano se ci mettiamo di mezzo una canzone carica di satira e vernacolo, entrambi al vetriolo.
Tavernise vs Amantea: le note della discordia
Querelante e querelato hanno dei tratti comuni: sono coetanei e di Mirto Crosia. Dopodiché le similitudini si fermano.
Tavernise è rimasto in Calabria e ha fatto una carriera politica lampo (in perfetto stile grillino), Amantea vive e lavora a Milano da anni, dove si dedica anche alla sua grande passione: la musica.
Al riguardo, gli addetti ai lavori lo conoscono come No Sfondo & Volp Fox, il nome d’arte con cui produce le sue canzoni, piene di rabbia e di denuncia, appena stemperate dall’ironia.
L’ultimo brano di No Sfondo, Chiné (cioè “Chi è?”), è finito nel mirino di Tavernise, che si è identificato nei versi e ha reagito con le carte bollate.
Michele Amantea, in arte No Sfondo & Volp Fox
Sfida tra populisti
Che ha detto, anzi cantato, di tanto grave No Sfondo da meritare una querela?
Nelle rime di Chiné, in effetti, ci sono affermazioni piuttosto dure. Eccone una: «’u vi chi ara fine/sei un disonesto/hai censurato gli ultimi/e con me fai lo stesso».
Oppure: «Il primo gesto/per il bene collettivo/è stato di comprarti/un macchinone suggestivo».
Il tutto rappato su un motivo ska, che culmina in un coretto strafottente: «Chiné, chiné/stu consigliere regionale chiné». E via discorrendo.
Nulla di più e nulla di meno di quel che normalmente ci si rinfaccia nei comizi delle campagne elettorali, che nei nostri paesi sono aspre e pittoresche in egual misura.
Ma, soprattutto, nulla di diverso dalle accuse che fino a non troppo tempo fa erano il carburante della comunicazione grillina. Accuse che ora vengono spesso rivolte agli ex seguaci di Grillo.
Ma è davvero Tavernise?
Classe’91 e laurea in Lettere all’Unical, Tavernise proviene da una lunga gavetta nel M5S più “tradizionale”: per capirci, quello dei Vaffa Day e delle denunce online e non solo.
Difficile dire se il target di No Sfondo sia proprio il capogruppo pentastellato. E, soprattutto, se sia solo lui: in questi versi ognuno può identificare il politico che vuole.
Ma questo lo decideranno i giudici, a cui eventualmente toccherà pronunciarsi anche sulla diffamazione, finora solo presunta.
Chi di populismo ferisce…
Chiné è uscita a inizio 2023, Amantea ha ricevuto di recente la notifica di querela, depositata lo scorso undici gennaio.
In attesa degli esiti giudiziari (si spera favorevoli al cantautore, per puro garantismo), resta una considerazione: Tavernise si è arrabbiato perché convinto di aver ricevuto accuse tipicamente grilline.
Chi di populismo ferisce, di populismo muore, insomma.
E che dire ai due protagonisti di questa vicenda curiosa, cantautore e politico, se non: canta che ti passa?
C’è un bambino di neanche sei anni che scrive la letterina a Babbo Natale e non gli chiede un fucile o i soldatini. Tutt’altro, anzi proprio il contrario: «Fai finire la guerra tra Russia e America». Alessandro Bozzo, così piccolo, aveva intercettato e assorbito i temi della guerra fredda: è stato da subito un giornalista-giornalista, come da espressione – forse abusata – mutuata dalla narrazione su Giancarlo Siani. Ha avuto il «sacro fuoco» dentro, da sempre, ha letto tutto il leggibile, giornali e libri, e con una cazzimma e un candore disarmante si proponeva alle testate locali appena aprivano: «Voglio lavorare qui», risposta: «Ma stai ancora studiando!».
Questo è Alessandro raccontato dalla sorella Marianna agli studenti che il 15 marzo (lo stesso giorno in cui dieci anni fa il giornalista di Donnici, appena quarantenne, ha deciso di lasciare questo mondo di ingiustizie e insoddisfazioni) riempivano Villa Rendano per il secondo dei momenti dedicati a lui e più in generale a una più ampia riflessione sul precariato. Non solo nel giornalismo. Non solo in Calabria.
«In dieci anni la situazione nei giornali e in generale nel mondo del lavoro non è migliorata e l’esempio di Alessandro Bozzo dimostra che lo sfruttamento intellettuale e la libertà di stampa sono temi, purtroppo, ancora attualissimi»: questo il refrain negli interventi incentrati sulle difficoltà di fare il cronista e sul precariato imperante non soltanto nelle redazioni.
Dieci anni in due giorni e tre tappe
L’anniversario della morte di Bozzo è stato un lungo e partecipato momento in tre tappe per analizzare il mondo del lavoro: il momento forse più sentito è stato proprio quello con le scuole superiori, il dialogo moderato dalla consigliera comunale di Cosenza con delega alla Cultura, Antonietta Cozza, alla presenza dell’assessore alla Cultura di Marano Principato, Lia Molinaro, e di Lucio Luca, autore del libro Quattro centesimi a riga. Morire di giornalismo (ed. Zolfo, 2022) e giornalista de La Repubblica che da anni segue il caso Bozzo, al quale aveva già dedicato un primo libro, L’altro giorno ho fatto quarant’anni (Laurana editore, 2018).
«Sento Alessandro come un amico – ha detto Luca – anche se non l’ho mai conosciuto, ed è difficile trovare una spiegazione a tutto questo. Probabilmente in lui mi rivedo in tante cose e, anche se non ci ho mai parlato, sono sicuro che mi ha insegnato molto anche professionalmente».
Con Marianna Bozzo c’erano i giornalisti Rosamaria Aquino ed Eugenio Furia, ex colleghi che hanno ripercorso le tappe della sua carriera arricchendola di aneddoti e insegnamenti sulla professione.
Chi era Alessandro Bozzo
Un ragazzo che piaceva a tutti, un leader già dai tempi del liceo scientifico in via Molinella: l’amore per la musica e gli U2 prima che diventassero famosi (essere sulla notizia è anche questo…), per il tennis e il Canada, per Gianni Clerici “lo scriba” e Irvin Welsh, per gli animali fossero un orso o un cardellino.
Il gusto di condensare una notizia nelle prime righe sarà il più grande lascito per una generazione di aspiranti cronisti che ancora lo ricordano e lo rimpiangono.
Alessandro Bozzo in redazione
Alessandro era un finto burbero che dava fastidio a quelli che per semplificare chiamiamo «poteri forti»: spesso dalla sua parte politica ricevette minacce più o meno velate e querele. Nell’agone partitico e giudiziario si fortificava come il gladiatore che affrontava il “nemico” a viso aperto e muso duro. E in conferenze stampa non facili si permetteva il lusso della seconda domanda mentre attorno la claque lo indicava come il rompipalle di turno: «Ma quindi è l’ennesima congiura dei giudici?», e dall’altra parte magari c’erano amici del suo editore.
Presenti e assenti illustri
In platea, ad ascoltare questi aneddoti, gli studenti del liceo scientifico “Enrico Fermi” di Cosenza – lo stesso che lui frequentò negli anni 90 –, del Polo scientifico Brutium, delle scuole secondarie di Marano Principato e dell’istituto comprensivo di Cerisano.
«Mai più quattro centesimi a riga»: questo il messaggio rilanciato da Lucio Luca e dai relatori e già fatto proprio, peraltro, dal sindacato nazionale come battaglia comune.
La mamma di Alessandro (in primo piano) e parte degli studenti delle scuole durante l’incontro a Villa Rendano
C’è stato chi ha considerato l’iniziativa una passerella, oppure ha deviato il dibattito sul fatto che lo stesso Bozzo si era affrancato dalla schiavitù dei “4 centesimi a riga”, come se il demansionamento e un contratto peggiorativo offertogli dall’editore per cui lavorava non rappresentassero una umiliazione dopo vent’anni di lavoro in quel settore.
L’omaggio di Cosenza
Nel pomeriggio del 15, intanto, il Museo dei Brettii e degli Enotriha ospitato un dibattito a più voci proprio su libertà di stampa e ingerenze della politica nel lavoro delle redazioni, sulle querele temerarie e sul futuro dell’informazione. Il sindaco di Marano Principato, Pino Salerno, e l’assessora Molinaro hanno ricevuto i saluti dell’amministrazione del capoluogo (il sindaco non ha potuto partecipare per il concomitante consiglio comunale sull’autonomia differenziata) mentre Raffaele Zunino con un accorato intervento ha aperto i lavori in rappresentanza del Circolo della Stampa “Maria Rosaria Sessa”.
Lucio Luca firma una copia del suo libro
Moderati da Antonietta Cozza, accanto a Lucio Luca, Marianna Bozzo e Rosamaria Aquino sono intervenuti Francesco Graziadio, consigliere comunale e giornalista nonché ex collega di Bozzo, l’assessore comunale Veronica Buffone e la vice-sindaco Maria Pia Funaro. Hanno preso la parola anche i genitori di Alessandro, Franco Bozzo e Venere Ricca, e la zia Dora Ricca, mentre Roberto Grandinetti ha raccontato i suoi oltre vent’anni di professione facendo luce su soddisfazioni e delusioni vissute all’interno dei quotidiani locali a cavallo del nuovo millennio.
Toccanti le parole di Graziadio, che ha raccontato di come quegli anni abbiano lasciato anche molte macerie tra i rapporti umani prima che professionali di chi ha condiviso la vita di redazione in maniera totalizzante.
Un cunto per le scuole
La doppia iniziativa cosentina aveva avuto una sorta di “anteprima” domenica 12 marzo a Marano Principato, luogo in cui il giornalista di Donnici si tolse la vita: alle 18 nell’auditorium del centro di aggregazione giovanile “Cesare Baccelli”, l’attore Salvo Piparo e il musicista Michele Piccione hanno messo in scena la pièce Volevo solo fare il giornalista – La storia di Alessandro Bozzo tratta da Quattro centesimi a riga.
Il reading, che ricalca la forma del “cunto” siciliano aggiornandolo con i più riusciti esperimenti di teatro civile, era stato presentato in una versione embrionale al festival Trame di Lamezia Terme nel 2019.
Ora il monologo – nella versione arricchita dall’apporto di un polistrumentista – assume una forma più strutturata, e vanta già repliche in tutta Italia, dal festival delle Idee di Venezia al congresso nazionale della Fnsi, la Federazione nazionale della stampa, a Riccione. Qui il monologo dedicato ad Alessandro Bozzo è stato scelto come storia paradigmatica, nella speranza che il suo esempio «non rimanga confinato in Calabria ma diventi il simbolo del futuro sempre più a rischio dell’informazione».
A inizio 2023 lo spettacolo è stato replicato alla Camera del Lavoro di Milano, mentre al termine della replica di domenica scorsa l’amministrazione comunale di Cosenza ha preso l’impegno di riproporlo appena possibile in uno dei teatri della città, con il coinvolgimento delle scuole che si sono già mostrate molto sensibili all’argomento.
Alessandro Bozzo e mezzo secolo da celebrare
Con il sostegno dell’Istituto per gli Studi Storici, del Centro turistico Giovanile di Marano Principato, del Circolo della Stampa “Maria Rosaria Sessa” e della Fondazione Attilio e Elena Giuliani oltre che della libreria Raccontami, l’iniziativa ha segnato anche un’importante sinergia istituzionale tra l’amministrazione comunale bruzia e il centro appena alle porte del capoluogo, interessato da una rinascita culturale nella quale si iscrive la recente inaugurazione della biblioteca intitolata al geo-archeologo Gioacchino Lena.
Alessandro Bozzo e il suo taccuino
Marano Principato è stato, peraltro, il primo soggetto a entrare nel patto intercomunale “Città che legge” approvato l’estate scorsa dalla giunta di Cosenza.
Le due giornate ospitate tra Cosenza e Marano Principato sono state un modo per celebrare i cinquant’anni di Alessandro Bozzo e ribadire che il suo esempio non deve essere dimenticato.
Mettiamo il caso tu abitassi in un paese montano della Calabria e sia in emergenza. Chiami il 118. L’ambulanza si ferma a metà strada per dei guasti al motore. Devi aspettare l’arrivo di un’altra macchina. Rifai il percorso all’indietro. Altri 50 minuti. Poi ti dicono: «Signora, è arrivata troppo tardi».
È il 5 novembre 2021. Melissa, una bambina di Parenti (CS) con una paralisi cerebrale infantile, ha una crisi epilettica fortissima. Il medico di paese corre nell’immediato a prestare soccorso. Testa prima una bombola di ossigeno presente in casa, poi la utilizza sulla bambina per tamponare precariamente la crisi respiratoria che le ha causato l’ingurgito del vomito.
Si attende l’arrivo dell’ambulanza, ma la situazione è instabile e problematica. Solo dopo 1 ora e 40 minuti dalla chiamata al 118, Melissa arriva in ospedale. Troppo tardi però. La bambina finisce in rianimazione e lì rimane per 10 giorni prima di ritornare a casa.
Ad aprile del 2022 Melissa ha un’altra crisi epilettica. Il 118 viene chiamato alle 5, ma l’ambulanza si rompe a metà strada. Si deve attendere l’ambulanza privata, che riesce ad arrivare in Pronto soccorso alle 08.30.
«Ho paura di dormire in pigiama»
Quelle crisi Melissa le ha superate, non certo per la tempestività dei soccorsi. Quelle ore, però, pesano come un macigno.
Dalla prima crisi i genitori di Melissa hanno paura di dormire in pigiama. Meglio farlo vestiti: «Riusciamo in questo modo a non perdere tempo, mettere la bambina in macchina e raggiungere l’ambulanza». La paura è che arrivare in ritardo stavolta possa rivelarsi fatale. Ma la lotta non è solo quella per la vita. È anche battaglia ad un sistema che guarda a questi luoghi con indifferenza.
Strade che franano e malasanità in Presila
Le corse di Melissa in ospedale hanno riportato all’attenzione i disagi propri di territori come la Presila, loro malgrado simbolo di malasanità e viabilità precaria. La distanza che divide Parenti, il paese dove vive Melissa, dal Pronto soccorso più vicino è di 33 km. Servono 50 minuti per percorrerli. In caso di emergenza si impiega il doppio: dalla chiamata al 118 all’arrivo in ospedale trascorrono, solo se si è in buoni rapporti con la Fortuna, ben due ore.
A far dilatare il tempo è in primis l’attesa dell’ambulanza, che impiega circa un’ora e 40 minuti per raggiungere il paese e ritornare in ospedale. Conteggio non proprio realistico perché ad aggravare la situazione si ci mettono le condizioni disastrate in cui versa un tratto di strada da cui è obbligatorio passare.
Il tratto di strada in questione è soggetto a periodiche frane. Le soluzioni finora? Chiusura temporanea nei periodi più critici o riduzione ad una sola corsia, con tanto di semaforo per gestire il senso alternato. In queste condizioni, nei casi di emergenza, si deve percorre una strada alternativa che raddoppia il tempo di arrivo. Questo con la bella stagione: nei mesi invernali le temperature possono scendere parecchio sotto lo zero e le strade si trasformano in piste di ghiaccio. Con tutto quello che ne consegue.
Riaprire il Pronto soccorso di Rogliano
La riapertura del Pronto soccorso dell’Ospedale Santa Barbara di Rogliano – chiuso nel 2010 – sembra essere per i cittadini la soluzione più ovvia.
Il reparto farebbe da avamposto all’omologo di Cosenza. Risolverebbe così due problemi: da una parte il sovraffollamento del Pronto soccorso dell’Annunziata, dall’altra la gestione momentanea delle emergenze provenienti dai paesi della Presila. Ma questa riapertura non s’ha da fare.
L’ospedale di Rogliano
Il motivo non è ben chiaro, la struttura e le strumentazioni presenti al suo interno si prestano alla richiesta dei cittadini. Eppure, in un recente incontro tenutosi tra commissari e cittadini proprio davanti all’Ospedale Santa Barbara di Rogliano lo scorso 1 marzo, la richiesta dei cittadini di Parenti di riaprire il Pronto intervento sembrerebbe caduta nel nulla.
Presila a rischio spopolamento, non solo malasanità
Risolvere, seppur in parte, uno dei due problemi – sanità e viabilità – potrebbe alleviare le angosce di chi vive in questi territori e non solo. Lo scorso 22 luglio i cittadini sono scesi in strada al grido di «Nessuno tocchi la sanità». Si sono anche mobilitati per acquistare loro un’ambulanza. I costi elevati di gestione e la mancanza di personale specializzato, però, li hanno costretti a rinunciare. L’ambulanza di stanza a Parenti andrebbe a gestire le emergenze di chi vive nelle contrade limitrofe che, tra l’altro, si trovano ad una distanza dall’ospedale ancora superiore. Ma non dovrebbero essere i cittadini a farsene carico.
Lo striscione affisso dai cittadini su un guardrail
E poi c’è sempre il problema delle strade. In queste condizioni il rischio di spopolamento è alto. La viabilità, infatti, ha anche un costo sull’economia di un paese fatto da imprenditori e artigiani che hanno deciso di investire nel territorio che ora sembra tradirli. Restare in condizioni simili preoccupa, ma per molti è obbligatorio.
Cosenza capitale nazionale della solidarietà per il 2023? «Una scommessa un po’ folle», dice Gianni Romeo, figura storica del terzo settore in Calabria e non solo e, da sette anni, presidente del Centro servizi per il volontariato (Csv) della provincia di Cosenza. I numeri sono lusinghieri e a favore dell’iniziativa: 160 associazioni per circa 1.200 volontari sono una base sociale di tutto rispetto. E garantiscono alla città di non sfigurare rispetto agli altri due capoluoghi che l’hanno preceduta nel ruolo: Padova e Bergamo.
Un risultato così non si improvvisa. Anzi, è il frutto di una lunga storia.
Un primo piano di Gianni Romeo
I Csv: cosa sono
Iniziamo dal Csv. Esiste dai primi anni ’90 e, come i suoi omologhi nel resto d’Italia, anche quello di Cosenza si rapporta a una “casa madre”: Csv Net.
Prima della riforma del 2017 esisteva un Centro in ogni provincia, ora ne è previsto uno ogni milione di abitanti.
Con due eccezioni vistose: Reggio Calabria e Cosenza, che a rigore non coprono il dato numerico.
E tuttavia, spiega Romeo, «la particolarità del territorio cosentino e la forte presenza di volontari giustificano l’eccezione e il riconoscimento».
I Csv: come funzionano
Il Centro servizi per il volontariato è un Ente di terzo settore, che fornisce servizi alle associazioni e promuove la cultura del volontariato.
Questi servizi sono di varia natura: «Aiutiamo le associazioni a fare convegni o le dotiamo delle attrezzature di cui hanno bisogno», spiega ancora Romeo a titolo d’esempio.
Quello di Cosenza è piuttosto strutturato: «Abbiamo quattro sportelli: per la precisione, a Fuscaldo, Corigliano, Castrovillari e San Marco Argentano e disponiamo di undici dipendenti part time che, assieme a una coordinatrice, costituiscono la parte tecnica».
Gianni Romeo e i suoi volontari
Servizio civile e lavoro: i nuovi gol del Csv
Servizio civile e inserimento nel mondo del lavoro. Sono gli ultimi step del Csv di Cosenza.
Ecco come li racconta Romeo: «Il servizio civile è un settore che conosco molto bene, perché a suo tempo fui obiettore di coscienza. Col Centro di Cosenza abbiamo deciso di inserirci in questo discorso, tra l’altro già praticato da molte associazioni importanti».
Quest’inserimento è propiziato dalla trasformazione del vecchio Servizio civile in Servizio civile universale. Infatti, prosegue il presidente, «stiamo operando una selezione tra 500 domande di servizio civile».
Per la formazione lavorativa, «abbiamo avviato un dialogo con la Camera di commercio di Cosenza e siamo in contatto con aziende interessate alla nostra proposta: formare, attraverso il volontariato, dei giovani, immigrati ma anche italiani in difficoltà (penso ai ragazzi delle case famiglia) che possano inserirsi nel circuito produttivo». Una partnership che potrebbe dimostrare «come il terzo settore, tradizionalmente no profit, sia in grado di interagire con l’economia reale senza usurparne le funzioni».
Due parole su Gianni Romeo
I Csv non si improvvisano. Ma neppure Gianni Romeo ci si improvvisa, e non è un modo di dire.
Reggino di origine, classe ’60 e cattolico di formazione, Romeo ha trascorso la quasi totalità della propria vita professionale nel terzo settore, a partire da quando non si chiamava ancora così. «Iniziai nel 1979, quando ancora ero studente all’Unical, come volontario in una storica casa-famiglia: La Terra, che si occupava di minori. Ne divenni presidente e, grazie all’impegno dei volontari, siamo riusciti a dare servizi anche ai migranti e a creare un centro polifunzionale».
Poi il passaggio successivo, sicuramente più importante, almeno dal punto di vista quantitativo.
La premiazione del volontario dell’anno
Il Banco alimentare
«Nel 1996 fui tra i promotori del Banco alimentare della Calabria, con cui aiutiamo circa quarantamila persone». Come a dire: il lavoro è tanto, il malessere pure.
Il Banco alimentare, di cui Romeo è diventato direttore generale, si interfaccia sia coi privati, da cui raccoglie le eccedenze, sia con le associazioni e gli enti no profit accreditati. «Che sono oltre seicento di vario tipo: si va dalle Caritas diocesane alle case famiglia e per ragazze madri per finire con le sezioni locali della Croce Rossa».
L’impegno di Romeo è tanto e i problemi non mancano.
Volontari e istituzioni: un dialogo difficile
I volontari del Banco Alimentare
A partire dal dialogo, tutt’altro che facile, con le istituzioni. «A livello regionale, purtroppo, non c’è nulla di organico», lamenta Romeo. Che incalza: «Il Csv e le associazioni sono interpellati solo per attività di “supplenza”, cioè per cose che il personale, amministrativo e non solo, che gravita attorno alla Regione, non riesce a fare».
Con la Provincia, «che è fortemente ridimensionata, anche a livello finanziario», il rapporto è minimo, mentre col Comune di Cosenza «per via della situazione finanziaria tragica» si è prossimi all’assenza.
L’impegno e la speranza
«C’è molto bisogno di volontariato, soprattutto in gravi momenti di crisi come l’attuale. E purtroppo non è una frase fatta», chiosa Romeo.
La ricetta è una: «Strutturarsi a rete col minimo di gerarchia funzionale che serve».
È opportuno chiarire anche questo concetto: «Per gerarchia non intendo rapporti di “potere” ma responsabilità operativa. Significa soprattutto coordinare e, ripeto, dare servizi».
Ma ciò non esclude altre forme di organizzazione: «Di recente abbiamo promosso un meeting tra i Csv del Sud, per elaborare progetti comuni su aree più vaste di quelle di stretta competenza dei singoli centri».
Morale della favola: «Soli non si va da nessuna parte. E, a proposito del volontariato e delle sue difficoltà quotidiane, mi si creda: neanche questa è una frase fatta»
Inutile giraci intorno: il crack della Silicon Valley Bank ha creato sgomento. È caduto un mito e quando crollano i miti ti senti smarrito, incapace di elaborare una ragione, avverti la tua debolezza.
È un po’ come quando perdi un grande amore. Negli ultimi 40 anni chiunque (e fra questi il sottoscritto) parlasse di start-up, di risk capital, di innovazione finanziaria, di nuova imprenditorialità legata ai follow up della ricerca universitaria finiva per citare la Silicon Valley Bank come eccellenza mondiale e come modello (best practice, dicono quelli bravi) da replicare nei contesti produttivi maggiormente orientati alla ricerca.
Il crollo della Silicon Valley Bank ha determinato una immediata reazione negativa dei mercati
Non vi era convegno, seminario, club deal o acceleratore d’impresa che prescindesse da lei: l’istituzione finanziaria californiana capace di dare credito alle idee d’impresa piuttosto che agli immobili da ipotecare in garanzia, come fanno le banche di casa nostra. E giù la raccomandazione (rigorosamente inascoltata) data a diverse generazioni di politici di creare istituzioni finanziarie (magari anche regionali) con la specifica mission (oh yes) di dare credito alle idee di ragazze e ragazzi, magari squattrinati, ma con una solidità visionaria e nuove ipotesi di prodotto, di modelli di consumo da lanciare sul mercato.
Inutile ora cercare di capire le cause (tassi elevati, inflazione sottovalutata, aspettative in forte ritirata, il Metaverso che entra in conflitto con l’economia reale, la FED troppo ortodossa in materia monetaria, probabilmente un po’ di tutto ciò). Ci vorranno mesi, e forse anni, per un’analisi seria e credibile.
Cerchiamo piuttosto di capire se è in crisi il modello della Silicon Valley. Anche perché, per quanto apparentemente lontana, questa evoluzione del modello dell’innovazione a tutti i costi potrebbe a breve presentare il conto, non proprio gradevole, a tutti i paesi dell’UE e, fra questi, soprattutto a quelli che hanno creato distretti industriali legati all’innovazione.
L’Università della Calabria, polo di eccellenza nel settore dell’innovazione
La Calabria dell’innovazione
E qui entra in gioca anche la nostra remota e lontana Calabria che, come noto, ha poggiato buona parte delle sue idee di sviluppo proprio sull’innovazione e sul ruolo delle università. Ripetiamoci: il problema non è solo il rischio di contagio del crollo finanziario in sé (le banche europee hanno portafogli diversificatissimi e non specializzati come nel caso della SVB). Risentiranno magari di qualche reazione emotiva in borsa ma i fondamentali dovrebbero tenere. Almeno si spera.
Ad entrare in discussione potrebbe essere, piuttosto, il concetto stesso di distretto innovativo con filiere iper specializzate dove il valore è dato esclusivamente dal tempo necessario ad una linea di ricerca applicata di diventare prima brevetto, prototipo, business idea, progetto d’impresa e poi finalmente start up. Per dirla con gli americani (e sempre con quelli bravi) il time-to-market.
Sono anni che suggerisco ai decisori politici di casa nostra, a volte amici a volte meno, di recuperare l’idea sempreverde della filiera integrata per allineare la politica industriale alle vocazioni territoriali e soprattutto di non confondere l’occupazione di breve periodo con il vero obiettivo di questa scelta.
Il campanello d’allarme della californiana SVB significa, alle nostre latitudini, che la cultura dell’innovazione non deve trasformarsi in ossessione di mercato. Prodotti con cicli di vita troppo brevi, ad esempio, non diventano, meccanicamente, un fiore all’occhiello del sistema produttivo. Possono essere, al contrario, elementi di rigidità e di propensione alla crisi strutturale con effetti negativi a catena su occupazione, risparmio, domanda, investimenti.
Questo non significa essere contro l’innovazione. Significa che il legame tra uomo e cultura, tecnologia e prodotto sta perdendo coerenza e logica.
Non è caduta solo una banca. È caduta la Silicon Valley Bank.
L’antropologia culturale dell’uomo veloce, multitasking a tutti i costi e virtualizzato nel metaverso potrebbe ricevere dal mercato un brusco richiamo alla realtà.
Ma io no, non posso negarlo, ho perso un altro mito.
Gestisci Consenso
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.