Mario Occhiuto condannato, in primo grado, a tre anni e sei mesi per bancarotta fraudolenta. Per il senatore di Forza Italia ed ex sindaco di Cosenza anche il divieto di esercizio dell’attività d’impresa per 3 anni e l’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Il pubblico ministero aveva chiesto la condanna di Occhiuto a 4 anni.
La vicenda giudiziaria che ha portato alla condanna di Occhiuto lo vedeva coinvolto nella qualità di ex amministratore della società di progettazione di edifici “Ofin”, fallita nel 2014, della quale il forzista era stato amministratore fino al 2011. A condurre le indagini era stata la Guardia di Finanza. Secondo le accuse della Procura della Repubblica di Cosenza, prima del fallimento dalla “Ofin” sarebbero venute a mancare somme di denaro per un ammontare complessivo di tre milioni di euro.
In precedenza, per la stessa vicenda, i giudici avevano inflitto per bancarotta fraudolenta alla sorella di Mario e Roberto Occhiuto, Annunziata, una condanna a un anno e quattro mesi. In questo caso, l’imputata aveva optato per il rito abbreviato.
È un gioco strano, in cui sembra che la palla voglia andare dalla parte contraria a quella dove corrono gli uomini. I giocatori si lanciano, carichi di fatica e sudore e lei, la palla – sbagliata perché ovale – passa di mano in mano. Ma resta sempre indietro. Però alla fine giunge dove gli uomini volevano portarla: oltre la linea di meta. È il rugby, bellezza.
Alcune decine di anni fa da queste parti, tutti gli altri davano calci a un pallone o al più tentavano di centrare un canestro. Ma qualcuno si incantava a guardare gruppi di omaccioni che sembrano azzuffarsi allegramente. E decideva che quello sarebbe stato il suo gioco, per sempre.
Giovani atleti in azione
Tonino Mazzuca: il pioniere del rugby a Cosenza
L’avventura comincia agli inizi degli anni Settanta, quando il compianto Tonino Mazzuca, che studiava a Perugia (dove il rugby era già di casa) porta la passione per il rugby a Cosenza.
Attorno a lui, lentamente si aggregano ragazzi, richiamati dalla novità, forse anche dalla diversità di questo sport. Per loro anche un modo per andare contro corrente. Tra i primissimi, Enzo Paolini, avvocato con un passato di militante radicale, vicino a Giacomo Mancini e oggi tra le altre cose anima del Premio Sila. Tutte vite, le sue, attraversate senza levarsi la maglietta sporca del fango di chissà quanti pacchetti di mischia. Già: se sei stato in una partita di rugby a Cosenza come altrove, se correndo in avanti hai passato la palla all’indietro, quel modo di vivere te lo porti dentro in ogni cosa.
Una mischia spettacolare degli atleti cosentini
Gli esordi al Morrone del rugby cosentino
Appena dopo arrivano gli altri, fino a che si forma una squadra in grado di partecipare ai tornei.
Ma niente è facile in quegli anni: il campo dove ci si allena è il vecchio stadio Morrone, sede del Cosenza nel cuore della città, a via Roma.
I ragazzi della palla ovale sono paria. I calciatori, che gli cedono il campo solo a tarda sera, li guardano con stupore e una certa ironia.
Tutto questo significa partite quasi al buio e docce fredde negli spogliatoi. Ma a vent’anni a queste cose si bada poco. Magari le si ricorda dopo, in una serata alla Club house della squadra di rugby, dedicato allo storico pilone Ciccio Macrì, «amico straordinario, atleta dalla grande forza fisica molto temuto dagli avversari», racconta Massimo Ferraro.
Club house: il luogo della memoria
La Club house è il luogo dell’incontro e della memoria. È un piccolo angolo d’Inghilterra nel cuore del sud Europa, un pub molto british vicino al Marulla. Alle pareti i trofei, le magliette storiche, le foto con le facce da ragazzi di quelli che oggi sorridono in quel luogo, con i capelli e le barbe ingrigite.
L’occasione dell’incontro è una partita di calcio, ma ogni scusa va bene per stare assieme e mantenere il fuoco della passione. Oggi sono professionisti, ma il fango dei campetti e il furore delle mischie non si scordano. Anzi, si celebrano tutti i giorni come un impegno quasi cavalleresco. Non si vedrà mai un rugbista fare quel che accade normalmente nei campi di calcio, dove i giocatori si rotolano per terra dopo un blando scontro e simulano gravi infortuni, salvo riprendere baldanzosamente la partita poco dopo. È, per dirla senza esagerazioni, una questione d’onore più ancora che di correttezza sportiva.
Tanti anni dopo: la Club house Macrì piena zeppa di persone (e ricordi)
Uno sport politico
Infatti il rugby ha un’etica che va oltre il gesto atletico: vincere è ovviamente importantissimo, ma di più lo sono il bel gesto, il sacrificio per la squadra, la lealtà. È una visione quasi “politica” dello sport che va oltre la banalità decoubertiana del “partecipare” ed esalta invece l’essere parte di un gruppo mettendo da parte le tentazioni di protagonismo.
Perché il rugby è uno sport di sacrificio. Passare la palla indietro significa condividere una strategia, aver fiducia nel gruppo, valorizzare i talenti di tutti, partecipare alla fatica e alla vittoria, senza eroi, ma tutti uguali combattenti.
Il rugby a Cosenza nel ricordo di Civas
Nella Club House intanto sul maxischermo prosegue la partita di calcio e dalle cucine arriva Pino Falbo, detto Civas.
Nessun riferimento al whisky: il suo soprannome è quel che resta dello storpiamento del nome di un famoso giocatore straniero particolarmente bravo nella touche, cioè nella rimessa in campo laterale della palla, pratica cui Pino eccelleva.
«Ho iniziato a giocare a rugby perché piaceva a mia madre», dice ridendo Pino Civas mentre ha appena finito di friggere una padella omerica di patate ‘mpacchiuse per il gran numero di commensali. Pino sarà anche stato bravo con la palla ovale, ma in cucina non scherza per niente.
Una partita di rugby anni ’70 in città
Per amore di mammà
Certo, è difficile immaginare una madre che si appassiona a un gioco così ruvido. Eppure «a lei piacevano le mischie», cioè quel mucchio di uomini tra i cui piedi a un certo punto sgusciava una palla strana e qualcuno la prendeva per cominciare a correre. Insomma Pino Civas Falbo ha cominciato per amore della mamma a «mettere la testa dove altri non avrebbero osato mettere nemmeno i piedi», come disse il rugbista francese Jean-Pierre Rivesper descrivere una mischia. E ha proseguito fino all’88, quando ha giocato la sua ultima partita.
Giovanni Guzzo
Il regalo di don Giacomo al rugby di Cosenza
Intanto sullo schermo la partita prosegue e la rievocazione pure. Anche di chi intanto se n’è andato, come Giovani Guzzo, in memoria del quale ogni anno si gioca un torneo che porta il suo nome.
Quelli raccolti attorno al tavolo imbandito sono stati i pionieri della palla ovale a queste latitudini, hanno vissuto gli inizi al Morrone, la sua demolizione e la fatica di cercare un altro campo. Poi la possibilità di usare il San Vito, concesso da Giacomo Mancini grazie alle richieste di Paolini.
Hanno visto i trionfi e oltre trent’anni dopo la storica promozione del Rugby Rende in serie B, restano i testimoni di un’epopea che ancora prosegue.
Che Guevara rugbista
Hasta la meta
Intanto la partita di calcio finisce, se fosse stata di rugby avrebbe avuto un terzo tempo, quello della convivialità. Attorno alla palla ovale ogni cosa è differente, anche il tifo, mai aggressivo o violento Lo spiega Bernardino Scarpino, detto Stecca, il quale racconta dei tifosi gallesi che al Flaminio, nel corso di una partita tra Italia e Galles, avvolgono nelle bandiere i bambini delle famiglie italiane per proteggerli dal vento. Un altro mondo, oppure un altro modo di vedere il mondo. Ma se la palla con cui giochi è fuori dalla norma e invece di calciarla in avanti la si deve passare all’indietro, un poco eretici devono essere anche i giocatori. Eretici e forse un poco romantici rivoluzionari, come il mediano di mischia Ernesto Guevara.
La Calabria era una delle maggiori produttrici di manna. Pregiatissima e purissima, simile alla cera e dolce come il miele, la preziosa manna si esportava all’estero dove si vendeva come dolcificante naturale e regolatore intestinale.
La raccolta della manna incuriosì i viaggiatori stranieri più di ogni altra attività produttiva della regione. Le loro informazioni sull’industria sono ricche di dettagli: i luoghi e il periodo in cui si raccoglieva, chi erano i proprietari degli alberi, quanti erano e quanto guadagnavano gli operai, le tecniche di estrazione e di produzione, i tipi di manna e le sue proprietà in campo medico, come si commercializzava e quanto profitto si ricavava dalla sua vendita.
La manna migliore in Calabria? Sullo Jonio
Duret de Tavel, Auguste de Rivarol, Orazio Rilliet, Gerhard vom Rath, Francesco Lenormant nell’Ottocento scrivevano che la manna più pregiata si raccoglieva dall’olmo o frassino selvaggio delle montagne vicino Corigliano e Rossano, al di sotto della zona dei faggi e delle querce. L’albero poteva fruttificare regolarmente all’età di dieci anni e la sua produzione continuava per trenta o quaranta, pur diminuendo molto negli ultimi anni.
Incisioni su un albero per la raccolta della manna
Verso la fine di luglio i contadini praticavano con un falcetto tagli orizzontali nel tronco dell’albero profondi circa un centimetro. Quindi sistemavano ai piedi foglie di acero o di fico d’india per raccogliere il succo vischioso che scendeva da ciascuna apertura. Questo succo qualche volta trasudava naturalmente sul tronco e sui rami, senza la necessità di provocarne lo stillicidio intaccandone la corteccia. La manna gocciolava da mezzo dì alla sera, sotto forma di un liquido incolore e trasparente. Si raccoglieva la mattina, quando il fresco della notte l’aveva disseccata dandole consistenza.
Il succo che restava attaccato sul tronco e sui rami, conservandosi più puro, dava la qualità superiore, chiamato in commercio “manna in lacrime”. La “manna comune”, più ordinaria e meno ricercata, era quella che si raccoglieva sullo strato di foglie steso a terra per accoglierla nella sua caduta.
Guai a chi la tocca
I viaggiatori scrivevano che la manna era una delle più pesanti e inique corvée che il suddito doveva al sovrano. E «guai a quel contadino nella cui casa fosse stata trovata una quantità anche minima». Il re dava in appalto la produzione della manna a una Compagnia. Questa vessava i disgraziati campagnoli, «costretti a svolgere la raccolta in condizioni e con una sorveglianza davvero barbare».
Nel 1786, Johann Heinrich Bartels, illuminista tedesco di Amburgo, annotava sulla produzione della manna nella provincia di Cosenza:
«Con la manna prodotta in gran quantità in questa zona, specialmente nella parte orientale della provincia, si alimenta, com’è noto, una ricca attività commerciale. Solo il Re può però racoglierla, non i feudatari. Ad essi spetta il compito di provvedere alla raccolta materiale all’epoca prestabilita, nei mesi di luglio e agosto. La raccolta dura sulle cinque settimane. Durante tutto questo tempo tutti coloro che vengono chiamati dal feudatario per raccogliere la manna sono tenuti a mettere da parte i loro affari privati e a lavorare solo per il Re. Nel caso trasgrediscano a questo divieto, sono passibili di pene durissime.
Un produttore di manna dei nostri giorni
Per tutto questo ricevono un risarcimento di 3 carlini al giorno. A dire il feudatario riceve per ogni uomo che impiega 5 carlini, ma ne trattiene due per sé. Per volere del Re la raccolta della manna viene sempre data in appalto. Per evitare furti, il governo è tanto geloso di questo prodotto che per tutto il tempo della raccolta si vedono in giro per i boschi gli sbirri, la cosiddetta Guardia, coi fucili spianati pronti a far fuoco su chiunque si azzardi da quelle parti senza l’accompagnamento di una persona abilitata. I raccoglitori possono mangiare quanta manna vogliono, ma pagano con la vita il minimo furto».
Le incisioni sugli alberi
Bartels descriveva poi nei dettagli le tecniche di produzione della manna in Calabria: «Il modo in cui viene prodotta la manna è duplice, in parte richiede la mano dell’uomo, in parte no. Nel primo caso si fanno delle incisioni sul tronco dell’albero dalle quali fuoriesce la manna che viene raccolta in piccoli recipienti. Le incisioni sono orizzontali e si fanno a poca distanza l’una dall’altra, da un pollice e mezzo a due. La lunghezza dell’incisione forma con l’altezza un rettangolo equilatero. L’incisione che si produce con un coltello a forma di piccola falce ha una profondità di mezzo pollice. Ai piedi dell’albero, per raccogliere la manna che fuoriesce dalle incisioni, si sistemano le grandi foglie spinose dei fichi d’India, una pianta che cresce in quantità sui bordi delle strade, e fa da siepe come da noi il roveto, foglie che seccando diventano concave.
Fiori di frassino, l’albero che produce tra le migliori qualità di manna
Per evitare che la manna goccioli per terra, sotto la prima incisione si fa una fessura alla quale si attacca una foglia sui cui gocciola la manna prima di finire nel recipiente a terra. Si comincia ad incidere l’albero dal basso e poi a poco a poco si procede verso l’alto, e, se la stagione lo permette, si fanno delle incisioni anche sui rami grandi. Se all’epoca della raccolta piove o il tempo è mite, la raccolta è meno abbondante del solito in quanto la mancanza di caldo rallenta la fuoriuscita della linfa e la pioggia lo lava via. Il colore rassomiglia alla cera che gocciola da una fiaccola e ha un sapore dolce di miele. Nel secondo caso l’uomo si limita a raccogliere quel che viene fuori col calore del sole».
La manna in Calabria: falsi miti e segreti
L’illuminista concludeva soffermandosi sugli aspetti economici della questione, tra convinzioni da sfatare e misteri contabili. «È sbagliato però credere che la manna sgorghi dalle foglie: sgorga, come nel primo caso, dal tronco, e scivola lungo il tronco o, nel caso le foglie ne ostacoli il corso, lungo le stesse foglie. Scorre liquido e puro come acqua e, quando il vento lo raffredda, si fissa in palline che o restano attaccate al tronco o si fermano sulle foglie – da qui la leggenda che sgorgherebbe dalle foglie. Come potete facilmente immaginarvi, gli insetti, le formiche, le lucertole, le api ecc. ne vanno ghiotti. La manna ricavata col solo aiuto del sole è, a detta di tutti, la migliore. È così che la producono gli orni e i frassini, anche se in quantità ridotta.
Manna raccolta ai piedi di un albero
La manna ricavata dall’orno è di colore bianco, simile a cera bianca, quella ricavata dal frassino va più sul giallo. Mi hanno assicurato che questa manna si vende a 7 talleri l’oncia, o a 50 talleri per 6 once. Per me sarebbe stato più importante avere il dato preciso della quantità complessiva della manna raccolta e delle entrate del Re; ma, a quanto pare, in questo paese queste informazioni vengono custodite con uno zelo tale che di fatto se ne preclude l’accesso ad uno straniero Quanto grande sia il profitto lo potete dedurre da questo dato: soltanto a Campana e a Bocchigliero, due piccole località della Calabria Citeriore se ne raccoglierebbero 30.000 libre all’anno».
Camporexit, continua la suspense: Antonio Cuglietta, il sindaco uscente di Serra d’Aiello, è stato confermato alle urne col 62% dei voti.
Gioisce il comitato Ritorno alle origini di Temesa, radicato a Campora San Giovanni e a Serra. Non gioisce affatto una buona fetta di amanteani che ha atteso il risultato delle Amministrative serresi con comprensibile ansia.
Infatti, avesse vinto l’avversario, cioè Vincenzo Paradiso, l’ipotesi di Temesa sarebbe finita in archivio prima ancora di andare al vaglio del Tar. Al quale ora, invece, spetta davvero almeno la prossima parola.
A questo punto occorre riavvolgere un po’ il nastro.
Campora San Giovanni, panorama notturno
Le elezioni di Serra d’Aiello
Un vero e proprio paradosso: un Comune piccolo, prossimo al collasso demografico, decide il futuro di uno parecchio più grande con qualche carta da giocare.
In estrema sintesi, è la vicenda del braccio di ferro tra Amantea e Campora, la sua frazione a sud, che ha deciso di andar via per creare un nuovo Comune, Temesa, fondendosi con la piccola Serra.
Intendiamoci: non sono grandi numeri, visto che questa nuova cittadina, appena nobilitata da un nome antichissimo, non toccherebbe i 4mila abitanti.
E tuttavia è quanto basta per cambiare le grandezze nel basso Tirreno cosentino. Un territorio importante mutilato (Amantea) e una cittadina che dovrebbe, in prospettiva, inglobare altri due Comuni: Aiello Calabro e Cleto.
Possibile che i quattrocento e rotti elettori di Serra d’Aiello siano stati così importanti in questo processo, a modo suo rivoluzionario, sebbene condotto con metodi che il Consiglio di Stato ha riconosciuti capziosi nella sostanza?
La risposta è sì: l’istanza che dovrebbe portare alla nascita di Temesa è partita da Serra d’Aiello e quindi la campagna elettorale si è giocata solo su quest’aspetto.
Reperti del Museo di Temesa a Serra d’Aiello
La posta in gioco
Facciamo una piccola simulazione per far capire cosa accadrebbe a Serra se il progetto Temesa andasse in porto.
Coi suoi 518 abitanti d’anagrafe, il paesino dell’entroterra tirrenico, diventerebbe la frazione più piccola della nuova città. Di più: disterebbe da Campora, il blocco più grosso, circa sette chilometri. Quindi rischierebbe di perdere alcuni servizi essenziali, tra cui l’ufficio postale e la guardia medica (essenziali in una comunità presumibilmente anziana). Su quest’aspetto, Vincenzo Paradiso ha impostato la propria propaganda.
Al contrario, un nuovo Comune, comunque più grande e popoloso, implicherebbe una pianta organica più grande, cioè posti di lavoro negli uffici e, magari, nelle immancabili cooperative. E magari darebbe a Serra lo sbocco al mare. Ma con un problema, in questo caso: le infrastrutture, di cui nessuno ha parlato finora.
Non è il caso di entrare nel merito, perché la volontà popolare è sovrana.
Franco Iacucci, uno dei supporter della Camporexit
A che punto è la Camporexit?
La partita vera, ovviamente, non si gioca a Serra, che pure ha proposto l’iniziativa, né ad Amantea, che l’ha subita. Ma a Campora.
Infatti, è camporese la stragrande parte degli elettori che dovrebbero votare al referendum da cui dovrebbe sorgere la nuova città. Solo che una frazione non poteva prendere l’iniziativa. Inutile, comunque, tornare su un argomento dibattuto a lungo.
Semmai, è importante fare il punto sulla situazione del referendum.
La quale è ferma a metà gennaio. Cioè da quando il Consiglio di Stato ha accolto la richiesta di sospensiva del referendum, avanzata dal Comune di Amantea, e ha chiesto al Tar di intervenire.
Non senza una serie di precisazioni importanti: secondo i magistrati di Palazzo Spada, i giudici amministrativi di Catanzaro dovranno valutare alcuni importanti rischi di incostituzionalità. Tra questi, il fatto che la maggior parte degli amanteani sarà esclusa da voto e i metodi di conteggio della popolazione residente.
I resti dell’Istituto Papa Giovanni XXIII
Una partita difficile per Serra d’Aiello
Se Atene piange Sparta non può ridere, recita un adagio che piace tanto agli amanti della retorica.
Ma in questo caso, il proverbio è inappropriato: potrebbero ridere, al massimo, gli sponsor regionali di Temesa. Cioè l’ex destro e neocentrista Giuseppe Graziano, e il dem Franco Iacucci. Che però non esternano da tempo sull’argomento.
Sul territorio, la situazione è diversa: Amantea, uscita da un anno da un commissariamento per mafia, ha un importante debito in pancia che rischierebbe di portarla al dissesto. Campora, se ottenesse la secessione, porterebbe con sé una quota di questo debito. E questo si sommerebbe alla situazione finanziaria non bellissima di Serra d’Aiello, che a malapena esce da un altro dissesto e ha alle spalle il crack dell’Istituto Papa Giovanni XXIII.
Salvo miracoli, Temesa nascerebbe dissestata.
Ipotesi virtuali
L’eventuale vittoria di Paradiso avrebbe messo la parola fine alla Camporexit perché il primo impegno della sua amministrazione sarebbe stato il ritiro della delibera di giunta che lanciava l’idea di Temesa.
Così, ovviamente, non sarà. L’ultima risposta tocca al Tar, che presumibilmente dovrà pronunciarsi prima dell’estate ormai alle porte.
Il segretario nazionale del Sim Carabinieri, Antonio Aprile, ha inviato «con entusiasmo e orgoglio i suoi auguri» al nuovo vice comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, il generale di Corpo d’Armata Riccardo Galletta. «La nomina di Galletta – proposta personalmente dal ministro della Difesa Crosetto – è un riconoscimento straordinario che sottolinea la sua straordinaria carriera e le sue competenze senza pari». È quanto si legge in una nota stampa diramata dallo stesso Antonio Aprile.
Riccardo Galletta, nuovo vice comandante generale dell’Arma dei Carabinieri
Nel comunicato stampa del segretario nazionale del Sim Carabinieri si legge: «La sua esperienza e competenza, indiscutibili e ammirate da tutti, fanno ben sperare che il generale Galletta offrirà un contributo fondamentale nel suo nuovo ruolo lavorativo, portando l’Arma dei Carabinieri a nuove vette di eccellenza e efficacia. Il generale Galletta, persona di grande stima e rispetto, è ampiamente apprezzato da tutti i Carabinieri per la sua dedizione e il suo impegno instancabile verso il servizio pubblico e la sicurezza del Paese. È un punto di riferimento e un modello da seguire per tutti coloro che desiderano servire l’Arma con onore e professionalità. In questa nuova fase della sua illustre carriera, auspichiamo che il generale Galletta continui a superare traguardi sempre più significativi, dimostrando ancora una volta la sua indomabile passione e il suo impegno incrollabile per la tutela della legalità e del bene comune. Siamo fiduciosi che, grazie alla sua guida illuminata, l’Arma dei Carabinieri raggiungerà livelli di eccellenza ancora più elevati nei prossimi tempi».
Il ponte sullo Stretto: se ne scrive persino negli Stati Uniti (lo vedremo più avanti), ed è al centro del dibattito politico domestico. In Parlamento e anche a Reggio Calabria, dove, nell’ambito del Festival dell’economia, sviluppo e sostenibilità, ideato da Maurizio Insardà, si è tenuto un dibattito dal titolo “Infrastrutture di trasporto e sviluppo del Mezzogiorno” moderato dalla giornalista di Rai 2 Marzia Roncacci. Vi hanno partecipato il capo dipartimento del Ministero delle Infrastrutture e trasporti Enrico Maria Pujia, il docente di Economia politica dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria Domenico Marino, il vicepresidente di Confindustria Sicilia e presidente della Camera di commercio di Messina Ivo Blandina, il responsabile dell’organizzazione aziendale dell’Università Magna Graecia di Catanzaro Rocco Reina e l’assessore ai Trasporti del Comune di Reggio Calabria Domenico Battaglia.
I relatori sono stati concordi nel sottolineare che non sono le risorse il problema della Calabria, ma piuttosto l’incapacità di spesa degli attori in campo, in primis la Regione. Un problema certamente non di oggi. Ogni anno i finanziamenti stanziati tramite i diversi fondi europei vengono utilizzati solo in minima parte. Ciò, secondo Marino, soprattutto per la sovrabbondanza di progetti e bandi, mentre si dovrebbe puntare su 4 o 5 progetti strategici e realizzabili. Altre criticità rilevate dai relatori, in particolare da Pujia e Reina, quelle relative alla carenza di risorse umane adeguate e alle procedure farraginose. Sarebbero necessari investimenti corposi nella formazione, per avere personale in grado di seguire efficacemente l’iter procedimentale fissato dalle norme.
Tutti d’accordo, ma…
Per quanto concerne il ponte sullo Stretto, totale adesione al progetto, peraltro scontata, del rappresentante del Ministero, ma anche da parte degli altri intervenuti. Con l’eccezione significativa dell’assessore Battaglia, secondo il quale lo sviluppo della Città metropolitana di Reggio va inserito nello scenario più ampio dell’ Area integrata dello Stretto,rilanciando l’aeroporto e i porti ricompresi nell’Autorità di Sistema, al fine di fare uscire dalla marginalità un comprensorio ad altissima vocazione storico/culturale e quindi turistica. La posizione baricentrica nel bacino del Mediterraneo, a suo avviso, pone lo Stretto quale ideale testa di ponte per i Paesi emergenti del Nord Africa.
Un aereo fermo sulla pista del Tito Minniti
La sinergia necessaria tra i diversi enti coinvolti ha la sua base normativa nella l. r. del 2015 istitutiva della Conferenza interregionale per le politiche dell’Area dello Stretto. Sulla questione ponte Battaglia chiede innanzitutto chiarezza al Governo, rilevando inoltre che non è pensabile rispolverare un progetto vecchio di 12 anni, non sottoposto alla valutazione di impatto ambientale, del tutto inadeguato all’attuale sistema dei trasporti: «Ci sono sul tavolo delle amministrazioni comunali e metropolitane una serie di opere già finanziate che rischiano di essere inutili se dovesse realizzarsi il Ponte. Per questo come istituzioni del territorio reclamiamo un maggiore coinvolgimento».
Il ponte sullo Stretto e i soldi per la comunicazione
In Parlamento, intanto, la maggioranza non mostra titubanze di sorta.
La Commissione Ambiente e Trasporti della Camera approva un emendamento al decreto legge in discussione – da licenziare in Aula entro il 31 maggio – proposto da Lega e FI, che elargisce 8 milioni di euro ai Comuni di Villa San Giovanni e Messina per una campagna di comunicazione, verrebbe da chiedersi per comunicare cosa.
Ancora, mentre non si conosce la posizione della UE sull’affidamento al consorzio Eurolink, guidato dal Gruppo Salini, vincitore della gara del 2010, un altro emendamento
in commissione Trasporti prevede un secondo adeguamento nei prezzi di realizzazione dell’opera, ulteriore rispetto a quello già previsto nei contratti stipulati anni fa e finiti nel nulla con la messa in liquidazione della Stretto di Messina.
La Camera dei deputati
Misteri contabili
Secondo i tecnici della Camera dei Deputati un secondo criterio, per un secondo aumento che si «otterrebbe sottraendo l’indice Istat a una media calcolata sul valore dei primi quattro progetti infrastrutturali per importo banditi da Rfi e Anas nel 2022». Al che chiedono al governo chiarimenti, considerando «che questi adeguamenti aggiuntivi dovrebbero avvenire senza maggiori oneri a carico dello Stato» come prevede il decreto legge. In sostanza: come si fa ad aumentare il costo dell’opera (che arriverebbe complessivamente a circa 15 miliardi e mezzo), senza intaccare le casse dello Stato?
L’Autorità di Cannizzaro
E mentre rimangono fumose le intenzioni del Governo e del ministro alle infrastrutture sull’alta velocità da Salerno a Reggio e sulla statale 106, un emendamento approvato in Commissione Bilancio della Camera attribuisce all’Autorità di Sistema portuale dello Stretto il compito di individuare «i progetti prioritari necessari all’adeguamento delle infrastrutture locali, avviando un percorso di rifunzionalizzazione, anche al fine di renderle più coerenti e funzionali con la nuova configurazione che sarà determinata dalla costruzione del Ponte», secondo quanto dichiarato dal deputato Francesco Cannizzaro che lo ha proposto.
Ciccio “Profumo” Cannizzaro
Alla stessa Autorità «il compito di sviluppare ed eseguire anche progetti di miglioramento dei Porti di Reggio Calabria, Villa San Giovanni e Messina con interventi che potranno essere identificati come d’interesse nazionale prioritario e strategico e quindi beneficiare di appositi finanziamenti e procedure di semplificazione» per esempio per lo spostamento del porto traghetti di Villa San Giovanni a sud degli invasi. Fin qui le vicende nostrane.
Il Ponte sullo Stretto da Strabone a Wired
Ma il Ponte sullo Stretto di Messina suscita interesse anche oltre oceano. La rivista USA Wired lo ha identificato come il «ponte sospeso più lungo al mondo». È di pochi giorni fa la pubblicazione di un lungo articolo che ripercorre la storia concernente l’attraversamento stabile del tratto di mare tra Calabria e Sicilia. Si parte addirittura, citando lo storico greco Strabone, dai Romani, che nel 250 a.C. provarono a trasportare 100 elefanti catturati in battaglia da Palermo a Roma. Secondo Strabone, usarono barili vuoti e assi di legno per costruire un ponte provvisorio. I pachidermi arrivarono effettivamente nella capitale del futuro Impero, ma non si sa con certezza come.
“Hannibal traverse le Rhône”, Henri Motte, 1878
Aurelio Angelini, professore di sociologia all’Università di Palermo, autore de Il mitico ponte sullo stretto di Messina, ha dichiarato alla rivista che l’idea del Ponte è stata a lungo contrastata dalla gente del posto di entrambe le parti, per motivi politici, economici e ambientali, ma anche per la resistenza al cambiamento. «Siciliani e calabresi sono divisi, ma la maggioranza è contraria al ponte. La forte politicizzazione del progetto potrebbe anche essere un caso di “populismo infrastrutturale”. La retorica intorno al ponte trasuda nazionalismo», dice, «e l’idea è vista come un simbolo della grandezza dell’Italia, o della capacità di costruire un ponte più lungo di quanto chiunque altro abbia mai fatto».
Lobbies, record e diversivi
Wired sottolinea che il progetto è sostenuto da Matteo Salvini, «vice primo ministro e leader del partito populista della Lega, con il sostegno di Berlusconi, ora 86enne, che ha scritto, alla firma del decreto: “Non ci fermeranno questa volta”». Nicola Chielotti, docente di diplomazia e governance internazionale alla Loughborough University di Londra, sostiene che uno dei motivi per cui l’idea continua a riprendere vita è che ci sono tante persone che traggono profitto dal lavoro di progettazione: «Spendono costantemente soldi anche se non si materializzerà mai, e ci sono alcuni gruppi di interesse che sono felici di catturare quei soldi». Un’altra questione, aggiunge Chielotti, è che il progetto è un’utile pedina politica per un governo che finora ha taciuto su alcune promesse elettorali chiave, come la riforma fiscale e una posizione aggressiva nei confronti della finanza internazionale.
Wired fa il confronto con altre opere del genere già costruite per cogliere le difficoltà di realizzazione del progetto, che prevede un ponte sospeso a campata unica con una lunghezza di 3.300 metri: «È il 60 percento più lungo del ponte Çanakkale in Turchia, attualmente il ponte sospeso più lungo del mondo, che si estende per 2.023 metri. Con piloni di 380 metri di altezza, sarebbe anche il più alto del mondo, più del viadotto di Millau in Francia, 342 metri».
Il ponte sullo Stretto e la sostenibilità
La rivista riporta puntualmente alcune obiezioni autorevoli e fondate, di carattere ambientale e di sostenibilità finanziaria dell’opera.
«Siamo ancora in una fase in cui non ci sono prove che (il ponte) sia fattibile dal punto di vista economico, tecnico e ambientale», afferma Dante Caserta, vicepresidente della sezione italiana del World Wildlife Fund. «Lo Stretto di Messina si trova anche in due zone protette cruciali per i movimenti migratori di uccelli e mammiferi marini». E, per quanto concerne la sostenibilità economica: «Per 30 anni abbiamo fatto elaborazioni concettuali che sono costate ai contribuenti italiani 312 milioni di euro. Inoltre, la stima complessiva del costo di 8,5 miliardi di euro dal 2011 è destinata a salire a causa dell’aumento dei prezzi dei materiali e inflazione». E infatti siamo arrivati, come abbiamo scritto sopra, a un costo complessivo di 15,5 miliardi circa.
Auto sul traghetto tra Villa San Giovanni e Messina
Caserta dice anche che non è chiaro se l’economia sostenga il costo. «Non ci sarebbe abbastanza traffico per pagare il progetto attraverso i pedaggi, perché oltre il 75 per cento delle persone che attraversano lo stretto lo fa senza auto, quindi fare tutto questo solo per risparmiare 15 minuti non ha senso, soprattutto perché collega due aree con gravi problemi infrastrutturali».
Il professore Angelini segnala anche la mancanza di un progetto esecutivo. E aggiunge: «Il ponte non ha alcun legame reale con gli interessi sociali ed economici del Paese, e le persone e le merci si stanno già muovendo con altri mezzi». La chiosa è tranchante: «Penso che le possibilità di vederlo mai costruito siano scarse».
L’unica certezza
Abbiamo quindi dato conto di quanto accade in Italia, a livello di dibattito e di decisioni politiche. Abbiamo voluto anche dare conto di quanto pubblicato negli Stati Uniti. Il quadro complessivo sembra confermare l’impressione che il ponte sullo Stretto di Messina sia di prossima e certa realizzazione. Sulla carta. Il dato sicuro è che costerà ai contribuenti “della Nazione” ancora molto denaro.
Lo scetticismo è d’obbligo, così come la perplessità per scelte che privilegiano un disegno astratto rispetto ad altre realizzazioni (alta velocità ferroviaria, statale 106, potenziamento del trasporto marittimo e aereo per l’intera Area dello Stretto) che potrebbero dare un contributo decisivo per fare uscire dalla marginalità questo lembo di terra.
Veniva da Cirò, ma durante gli anni ’30 per i giornali negli Usa Salvatore Caridi era il Mussolini americano. La sua famiglia, in realtà, era originaria di Gallico (RC), poi si era trasferita in quel paese oggi del Crotonese e all’epoca ancora in provincia di Catanzaro. Salvatore era nato lì nel 1891 e proprio tra Cirò e Crotone aveva fatto le scuole prima di dirigersi verso Roma per laurearsi in medicina. Nella capitale, però, Caridi aveva sviluppato presto anche altre passioni: quelle per la guerra e la politica.
Salvatore Caridi, un soldato da medaglia
E così a 20 anni si era arruolato nella Legione garibaldina. Sotto la guida di Ricciotti Garibaldi, insieme ad un altro paio di centinaia di volontari desiderava combattere per la liberazione dell’Albania dai turchi, nonostante il niet in tal senso del governo italiano. E volontario, Salvatore Caridi, era partito anche per la Grande Guerra. Era già medico a quel punto e gli toccò svolgere la professione in prima linea. Da tenente, riportò più di una ferita mentre prestava i suoi soccorsi ai soldati, conseguendo per questo numerose decorazioni al valore militare. Poi, con la pace, tornò a fare il medico in Calabria. Ma durò poco.
1941, milizie fasciste e membri della Legione garibaldina in piazza Venezia a Roma
Da Cirò agli States
Guerre laggiù non poteva combatterne, ma la passione per la politica lo portò fino alla poltrona di vice sindaco. In quel ruolo, si dedicò soprattutto alla toponomastica cittadina dando sfogo all’amore per i conflitti con l’intitolazione di molte strade a martiri del Risorgimento e luoghi di battaglie delle guerre d’Indipendenza. Poi – sarà perché, diceva Churchill, gli italiani vanno alla guerra come fosse una partita di calcio e vanno a una partita di calcio come fosse la guerra – importò nella sua Cirò quel football arrivato da Oltremanica e destinato a conquistare il mondo.
Ma a Salvatore Caridi la Calabria e i tornei di pallone in paese andavano stretti. Perciò, fresco di specializzazione in ginecologia, si imbarcò nel 1921 alla volta di New York per stabilirsi a Union City. E occupare le cronache nella doppia veste di filantropo e di leader fascista.
Salvatore Caridi, il “Mussolini americano”
Salvatore Caridi durante un raduno nazifascista in America
Caridi, infatti, non divenne soltanto un punto di riferimento per tante donne italoamericane che dovevano affrontare un parto. Iniziò a creare circoli culturali dove celebrare l’amore per la patria. E di lì a poco le camicie nere, che già infestavano il Bel Paese, fecero la loro prima apparizione pure negli States. Da presidente del North Hudson Chapter of the Italian War Veterans il medico calabrese riuscì ad arruolare in queste pseudosquadracce a stelle e strisce centinaia di ex combattenti della Grande Guerra filofascisti emigrati come lui negli States. E così, insieme a Giuseppe Santi e la sua newyorkese Lictor Association, divenne punto di riferimento dei mussoliniani d’America.
I nazisti del New Jersey
Da quelle parti, d’altronde, l’anticomunismo che animava Salvatore Caridi ha sempre fatto proseliti, oggi come allora, così come l’ultradestra. Prova ne è il momento di “massima gloria” politica del ginecologo cirotano. Siamo nel 1937 e nel suo New Jersey si svolge un grande raduno. In un’area di circa 100 acri si ritrovano i nazisti del German American Bundsotto la guida di Fritz Kuhn. Si passeggia in Adolf Hitler Strasse, i bimbi si godono i giochi per junge e mädel. Sfilano uomini in camicia bruna e svastica d’ordinanza, circondati da migliaia di braccia tese.
Kuhn sul palco tra saluti fascisti e nazisti
Ai raduni di Kuhn partecipano anche le camicie nere della Lictor Association
Nazifascisti a stelle e strisce
Svastiche e Stars and Stripes
Una strada a Camp Seigfreid
Piccoli nazisti americani crescono
Nazisti sfilano in New Jersey
Fascisti italoamericani a un raduno organizzato da Kuhn
Cotanto parterre de rois ammira sul palco, oltre a Kuhn, anche esponenti del Ku Klux Klan e lo stesso Salvatore Caridi. È lì accompagnato da 5-800 camicie nere. Imita la postura del suo idolo, saluta «gli amici nazisti» e invita tutti i presenti a «tirare un pugno sul naso a chi offende Mussolini o Hitler». Sogna un fronte nero-bruno comune anche su questa sponda dell’Atlantico.
Salvatore Caridi, un Mussolini tra gli enemy aliens
Il nazifascismo oltreoceano cresce ancora per un po’. Kuhn riempirà il Madison Square Garden nel 1939 con un altro maxi raduno in cui celebrerà George Washington come «il primo fascista della storia americana». In sala i «Free America» si mescolano ai «Sieg Heil», fuori 1.700 agenti di polizia tengono a bada la folla. Poi però con l’entrata in guerra degli Yankees cambia tutto. Fossimo stati in un romanzo di Philip K. Dick, Caridi e Kuhn di lì a poco sarebbero finiti alla Casa Bianca o giù di lì. In un film di Landis, al contrario, a bagno nell’acqua.
Nella realtà il führer degli States finisce a Sing Sing e viene invece rispedito in Germania di lì a breve, dove morirà nel 1951. Al Mussolini americano toccano in sorte la reclusione nei campi destinati agli enemy aliens, i nemici stranieri, un po’ come succedeva in Australia anche a chi magari fascista non era e l’addio alla cittadinanza. Suo figlio Nino, nel frattempo, combatte i pupilli del padre nella US Army 10th Mountain Division.
I nazisti si dirigono verso i Madison Square Garden sotto gli occhi della polizia
Le camicie brune sfilano a New York
Il Madison Square Garden pieno di nazisti
L’intervento di Fritz Kuhn con l’immagine di George Washington alle sue spalle
Le proteste all’ingresso del Madison Square Garden
Kuhn, terzo da sinistra, condotto in prigione dopo l’arresto per appropriazione indebita nel 1939
Cose buone
Una volta libero a guerra conclusa, Salvatore Caridi è tornato spesso in Calabria da New York, dove si è spento quasi novantenne nel 1980. Come nella vulgata sul dittatore di Predappio, il ginecologo calabrese nel suo paese come oltreoceano ha fatto anche cose buone. Niente treni in orario per lui o creazioni di istituti previdenziali già esistenti, però. Caridi in New Jersey è stato protagonista di numerose iniziative nel sociale a tutela degli immigrati italoamericani. Da ricordare, in tal senso, il suo impegno nella fondazione di un convalescenziario a Jersey City per i meno abbienti. C’è anche il suo nome tra quelli che la comunità italiana ha inciso sul basamento della statua di Cristoforo Colombo nella Hudson Bay, riporta l’Icsaic.
La camicia era nerissima, l’anima forse no.
Che succederebbe se ai piedi del Partenone scoprissero che Cosenza è nota come l’Atene della Calabria? Forse nella capitale greca assisteremmo a proteste di piazza veementi quanto quelle degli anni in cui la Troika si era abbattuta su Tsipras e i suoi connazionali. Da diversi anni, più che Atene, Cosenza ricorda infatti l’arcirivale Sparta. Nella città che si faceva vanto della sua cultura l’arte fatica sempre più a trovare casa. E quando la trova – se la trova o non la sfrattano dalla precedente – scoppiano immancabili i conflitti.
Cosenza: l’arte nella Atene della Calabria
“La Bagnante” di Emilio Greco è la statua presa più di mira in questi anni sul Mab
Dall’Atene della Calabria alla Disneyland di Cosenza vecchia?
Il primo è quello della statua di Donna Brettia. Personaggio leggendario, presunta prima donna guerriera (cosa che agli spartani non dovrebbe dispiacere) della storia occidentale, la scultura che la raffigura è sostanzialmente un’appendice del già problematico museo storico all’aperto realizzato da un’associazione – la guida l’ex preside Franco Felicetti – a Cosenza vecchia pochi anni fa. E proprio come quel museo ha avuto una nascita a dir poco travagliata. Il progetto di Felicetti e soci risale ai tempi in cui era sindaco Perugini e prevedeva la realizzazione di alcuni murales a tema storico tra le vie della città antica, uno per ogni popolo susseguitosi nella dominazione di Cosenza lungo i secoli.
Uno dei dipinti del museo del centro storico
Come contorno alle opere del percorso, l’associazione ipotizzava che imprenditori locali aprissero locali a tema nelle immediate vicinanze: café chantant in omaggio agli angioini, una taverna spagnola per gli aragonesi, una birreria tedesca per gli svevi e così via, in una ipotetica gentrificazione simil Disneyland che ha fatto storcere il naso a parecchi. Dei murales non si fece nulla, ancor meno di würstel e crauti o nacchere e flamenco.
Restano salsiccia e broccoli di rapa nelle cucine del quartiere, tributo ai bruzi difficilmente riconducibile al progetto museale: c’erano già prima. E restano i dipinti: il successivo sindaco, Mario Occhiuto, diede il via libera, a condizione che gli artisti li realizzassero su pannelli da appendere e non direttamente sulle pareti secolari di Cosenza vecchia. Neanche il tempo di affiggerli con un telo sopra e già il primo era scomparso – lo ritrovarono pochi giorni dopo – prima dell’inaugurazione ufficiale. Un altro l’ha fatto cadere il vento mesi fa ed è rimasto per terra in un vicolo a lungo.
La statua nell’angolino
Felicetti, comunque, in mancanza dei bar a tema ha rilanciato. E ha provato a donare alla città anche la statua di uno dei personaggi protagonisti dei dipinti: Donna Brettia, appunto. Una donazione modale la sua, ossia vincolata a determinate condizioni. Il Comune – questo il diktat del donatore – doveva collocare la scultura in piazza Valdesi, porta della città vecchia, con tanto di spadone puntato verso colle Pancrazio.
A piazza Valdesi, però, per mesi c’è stato solo il basamento. Nessuno si era premurato di coinvolgere la Soprintendenza, passaggio obbligato quando si tratta di intervenire in un centro storico. Poi è sparito pure il basamento, mentre la statua restava chiusa in un magazzino. Nei giorni scorsi l’hanno riposizionata in un punto più defilato, da cui il centro storico, seppur a pochi passi, a stento si vede. La spada punta ora più verso Rende, quasi la soluzione per la città unica fosse l’Anschluss. A Sparta avrebbero gradito, ad Atene chissà.
La statua dopo l’inaugurazione
La statua prima dell’inaugurazione
La base, oggi rimossa, su cui doveva poggiare la statua in piazza Valdesi
La base attuale del monumento donato da Felicetti
Da Donna Brettia ai Bee Gees
Tutto è bene quel che finisce bene? Macché. Prima che la inaugurassero qualcuno ha pensato di omaggiare Dalì piegando la spada di Brettia come i celebri orologi del pittore surrealista. Poi, a cerimonia avvenuta (e spada raddrizzata), è partito l’appello di storici, archeologi e semplici cittadini contro la scultura. Mistificherebbe la storia di Cosenza in nome del turismo, denunciano in estrema sintesi gli accademici (e non solo) chiedendone al Mic la rimozione.
Donna Brettia tornerà in magazzino? Farebbe comunque una fine migliore di quella toccata in sorte per il momento all’altra scultura protagonista delle cronache recenti: il monumento a Sergio Cosmai. O, secondo la più disincantata e insensibile expertise dell’Atene della Calabria, ai Bee Gees, con quelle sagome à la Stayin’ Alive a custodire il ricordo del delitto dell’ex direttore del carcere di Cosenza sull’omonimo viale.
Il monumento a Cosmai qualche anno fa, dopo la rimozione della scritta che lo circondava
Il lungo addio
Velato omaggio burocratico-amministrativo anche a H. G. Wells e al suo La macchina del tempo – l’inaugurazione dell’opera risale a marzo 2013, il Comune però l’ha commissionata ufficialmente alcuni mesi dopo – l’installazione dedicata a Cosmai era già ridotta a metà da anni. La scritta che la circondava, infatti, risultava pericolosa secondo la Polizia stradale. Su quella sorta di potenziale ghigliottina gravò a lungo il sospetto – poi fugato dal tribunale – di aver causato la morte di due ragazzi in un incidente stradale. La portarono via lasciando lì solo i Bee Gees, di cui la famiglia stessa di Cosmai auspicava da anni la rimozione ritenendo celebrassero più i killer della vittima. A far sparire anche quelli ha provveduto nei giorni scorsi l’amministrazione Caruso, attirandosi subito le critiche di chi l’aveva commissionata, ossia l’ex sindaco e oggi senatore Occhiuto.
Regimi a Cosenza e una nuova Atene della Calabria
C’è chi apprezza così tanto la statua di Mancini da metterle la sciarpa quando fa più freddo
«Un’opera di arte contemporanea non deve per forza piacere a tutti, semmai deve interrogare in virtù dell’idea che le sta dietro, perché a partire dal secolo scorso l’arte è diventata soprattutto concettuale. Adesso magari metteranno al suo posto l’ennesimo busto celebrativo, come si usa nei regimi totalitari o nei posti dove regna l’ignoranza», ha argomentato con amarezza. Parere simile aveva riservato, pochi mesi fa, alla quasi altrettanto discussa statua di Giacomo Mancini piazzata di fronte al municipio. Ma il problema, probabilmente non è questo. In fondo, come diceva Borges, «chi dice che l’arte non deve propagandare dottrine si riferisce di solito a dottrine contrarie alle sue».
Il fatto è che poco dopo la rimozione hanno iniziato a circolare in rete foto di quel che restava dell’opera buttato in terra ai piedi di una rete, con polemiche al seguito. Tutto mentre il gruppo consiliare “Franz Caruso sindaco” si affrettava ad assicurare che «l’installazione è attualmente custodita nei locali comunali per essere riposizionata in un altro luogo idoneo e non ostativo della sicurezza e dell’incolumità pubblica. Anzi, è bene precisare che sarà ricollocata l’intera opera, con l’aggiunta, cioè, della striscia in ferro riportante una frase di Sergio Cosmai».
“L’ex monumento” a Sergio Cosmai tra i rifiuti
Qualità della custodia a parte, insomma, alla famiglia del defunto toccherà forse pure la beffa di partecipare a una seconda inaugurazione della già poco gradita scultura. Se non a Cosenza, nell’hinterland: il sindaco Magarò ha proposto di metterla nel suo paese in caso qualcuno a Palazzo dei Bruzi voglia davvero farla sparire per sempre.
Sarà Castiglione Cosentino la nuova Atene della Calabria?
Il concorso internazionale di danza “La Chance dance competition” parla calabrese. Grandi soddisfazioni ed emozioni al teatro Orione di Roma il 29 aprile scorso per la scuola “Artedanza” di Catanzaro, diretta dal maestro Giovanni Calabrò. Oltre 50 le scuole di danza provenienti da tutta Italia che si sono esibite dinanzi ad una giuria di fama internazionale. Oltre ai premi ottenuti in tutte le categorie, Artedanza trionfa come “migliore composizione coreografica” e “migliore gruppo concorso”. Grandi soddisfazioni per il direttore artistico, maestro Giovanni Calabrò e per i maestri Giuseppe Torchia, Ylenia Rotundo, Serena Rotundo e Ludovica Mercurio.
I premiati:
Solisti under classico: 1° posto Giulia Grillo; secondo posto Anna Pia Gualtieri
Solisti Under Contemporaneo: primo posto Anna Pia Gualtieri; secondo posto Sofia Laudadio
Duo Under Contemporaneo: primo posto allo specchio Giulia Grillo e Anna Pia Gualtieri
Solista Under Modern: primo posto Alice Dara, terzo posto Diletta Torchia
Gruppo Under Modern: secondo posto OFFICE & CO Adelaide Silipo, Giulia Muscolo, Federica Borrello, Alice Dara
Solista Juniores contemporaneo: terzo posto Giulia Maria Rotundo
Solista Juniores Modern: primo posto Federica Rotella
Solista Seniores Classico: primo posto Christian Lamanna
Solista Seniores Contemporaneo: primo posto Christian Lamanna
Solista Seniores Modern: primo posto Roberta Bagnato
Miglior composizione coreografica: Giovanni Calabrò
Vigilanza 110 in sicurezza, controlli a tappeto in tutt’Italia. La Calabria tra cantieri e ditte ispezionate fa il pienone nelle irregolarità riscontrate dai carabinieri per conto dell’Ispettorato nazionale del lavoro.
Infatti, su 15 cantieri edili controllati 15 presentavano problematiche e 21aziende su 22 sono risultate irregolari, per varie motivazioni.
Carabinieri e ispettori del lavoro in azione
Il 29 marzo scorso nell’ambito di Vigilanza 110 in sicurezza 2023, promossa e coordinata dall’Ispettorato nazionale del lavoro, si è svolta un’operazione straordinaria di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori e di contrasto al sommerso nell’edilizia, che ha interessato tutto il territorio nazionale, con la sola esclusione delle Province di Trento e Bolzano e della Regione Sicilia.
Il 27 aprile sono usciti i dati provinciali.
Un battaglione imponente di ispettori del lavoro (541 ordinari e 177 tecnici) e di carabinieri dei nuclei ispettorato del lavoro, supportati da militari dei vari comandi provinciali dell’Arma per un totale di 634 militari impiegati (di cui 350 del Comando per la tutela del lavoro ha gestito la megaispezione.
Alle operazioni ha partecipato anche personale ispettivo di Asl, Inail e Inps.
I cantieri edili sono spesso luoghi-simbolo dello sfruttamento
Tutti i numeri di Vigilanza 110
Oltre l’80% dei 334 cantieri ispezionati è risultato irregolare, con un sequestro preventivo già convalidato; sono 166 i provvedimenti di sospensione delle attività d’impresa, di cui 110 per gravi violazioni in materia di sicurezza e 56 per lavoro nero. La verifica ha toccato 723 aziende e 1795 posizioni lavorative.
Il tutto sotto il coordinamento dalla Direzione centrale per la tutela, la vigilanza e la sicurezza del lavoro dell’Ispettorato nazionale del lavoro.
Ecco il bollettino, quasi bellico, degli accertamenti: 433 aziende irregolari; 349 posizioni lavorative irregolari; 116 lavoratori in nero, tra cui 29 lavoratori extra-Ue, (dei quali 17 senza permesso di soggiorno); 568 prescrizioni per violazioni in materia di sicurezza; 166 sospensioni dell’attività d’impresa; 289 persone deferite alla autorità giudiziaria in stato libertà per violazioni varie.
Insicurezza e lavoro nero
Le principali contestazioni riguardano il rischio di caduta dall’alto, le irregolarità dei ponteggi, il rischio elettrico, l’omessa fornitura e utilizzo dei Dpi (dispositivi di protezione individuale), l’organizzazione e viabilità inadeguata dei cantieri e la mancata protezione dalla caduta di materiali.
Inoltre, risultano numerose le omissioni nella sorveglianza sanitaria dei lavoratori, nella formazione e informazione dei lavoratori, nella redazione del Dvr (documento valutazione rischi), del Pos (piano operativo di sicurezza) e del Pimus (piano di montaggio, uso e smontaggio dei ponteggi).
L’attività ispettiva ha evidenziato una rilevante presenza di lavoratori in nero nei cantieri edili (116). Su questi gravano anche ipotesi di indebita percezione del reddito di cittadinanza.
Risultano accertati, inoltre, casi di somministrazione illecita e distacchi non genuini, utilizzo di prestazioni lavorative da parte di pseudo artigiani, violazioni negli orari di lavoro, omessa registrazione di ore di lavoro e omissione contributiva e mancata iscrizione alla Cassa Edile (94 aziende non iscritte).
Lavoratori in protesta
La peggiore è la Calabria
La Calabria divide il podio negativo con la Campania: tutti i cantieri e le aziende edili ispezionati sono risultati irregolari per vari motivi.
I carabinieri impegnati in Vigilanza 110 hanno setacciato 15 cantieri e 22 aziende scelti a campione.
A Catanzaro hanno verificato 4 cantieri e 5 aziende, a Cosenza 4 cantieri e 9 aziende, a Crotone 1 cantiere e 1 azienda, a Reggio Calabria 5 cantieri e 6 aziende e a Vibo Valentia 1 cantiere e 1 azienda.
Inoltre sulle 50 posizioni lavorative verificate in 11 casi si è proceduti alla sospensione per motivi legati alla sicurezza e alla mancanza di contratti lavorativi e in ben 44 casi (compresi i sospesi) sono state imposte prescrizioni e multe per mettersi in regola.
Le multe milionarie di Vigilanza 110
L’importo delle sanzioni amministrative e ammende già comminate in tutta Italia, a seguito dell’ispezione straordinaria del 29 marzo scorso, è pari a 3.038.828 euro. Prossimamente dati più completi e nuovi controlli e ispezioni sempre legati alla violazione delle norme nei cantieri edili e nelle aziende collegate, soprattutto in materia di sicurezza dei lavoratori.
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