Categoria: Fatti

  • Biennale filosofia a Cosenza: tutti gli appuntamenti dal 31 ottobre

    Biennale filosofia a Cosenza: tutti gli appuntamenti dal 31 ottobre

    Il 31 ottobre 2025 prenderà il via la Biennale di Filosofia di Cosenza, un grande evento che per tre mesi riporterà il pensiero filosofico fuori dalle aule universitarie per restituirlo alla città, ai giovani e alla comunità, restituendo alla filosofia il suo ruolo originario: interrogare la realtà e generare coscienza collettiva. Il macrotema di questa prima edizione è la parola “Natura”. Dall’Archivio di Stato alla Biblioteca Nazionale, dai musei dell’Università della Calabria alla Taverna dei Tre Filosofi ai fino al Beat Music Club, la filosofia tornerà nei luoghi della vita quotidiana, riaffermando che il pensiero non è patrimonio di pochi, ma bene comune.

    BIENNALE FILOSFIA COSENZA: FOCUS SU TELESIO

    Il cuore della Biennale sono le quattro maratone filosofiche, vere giornate di immersione nel dialogo, con interventi dalle 8:30 del mattino fino alla sera. La prima maratona, intitolata “Bernardino Telesio e la Natura”, si terrà il 31 ottobre all’Archivio di Stato, nel Chiostro di San Francesco, e sarà dedicata al filosofo cosentino nato nel 1509, autore del De rerum natura iuxta propria principia, che per aver osato osservare la natura con i propri occhi e non attraverso le dottrine aristoteliche venne inserito nell’Indice dei libri proibiti. Interverranno, dialogando con Luigi Gallo, lo storico Luigi Bilotto, che indagherà l’intreccio tra storia e filosofia, parlandoci del suo ambiente, della sua epoca, e delle sue vicende familiari; Roberto Bondì, che metterà Telesio accanto a Galileo per capire cosa significa rivoluzionare lo sguardo; Riccardo C. Barberi, che intreccerà fisica e pensiero. E i ragazzi del Polo Fermi-Brutium non saranno spettatori, ma co-protagonisti. Perché una filosofia che non passa alle nuove generazioni non è futuro, è archeologia.

    Nel pomeriggio Mimmo Tàlia affronterà il tema degli algoritmi che decidono la nostra vita, e dopo di lui Delly Fabiano in un dialogo con Antonio Romeo affronterà le connessioni tra la Matematica e la filosofia. A chiudere la prima giornata sarà, alle ore 18:00, il concerto lirico “Voci per Gaza”, un momento di intensa riflessione civile a cura del Conservatorio “Giacomantonio”, con Pietro De Rose (baritono), Chiara De Carlo e Maria Maiolino (soprano), Fabio Napoletani (tenore) e Luigi Sassone al pianoforte.

    Inoltre il 31 Ottobre alle 11:00, presso l’Archivio di Stato, al centro storico di Cosenza, verrà inaugurata una mostra documentale dedicata a Bernardino Telesio, con l’esposizione di carte originali e testimonianze storiche che restituiranno l’immagine di una Cosenza centro propulsore del pensiero europeo.
    La Biennale Filosofia è ideata e presieduta da Stefania Maranzano, socia fondatrice della Civitas Solis Cosenza aps, l’associazione organizzatrice dell’intera manifestazione. Con il sostegno della Fondazione Carical, proseguirà il 20 e 27 novembre con la seconda e la terza maratona, “Interazioni” e “Interconnessioni”, ospitate stavolta presso la Biblioteca Nazionale di Cosenza, nella sala Giorgio Leone, in piazzetta Toscano, dedicate rispettivamente al dialogo tra i saperi e alle reti visibili e invisibili che definiscono il nostro mondo iperconnesso.

    IL SIGILLO DI ALARICO

    La quarta ed ultima maratona del 2025, il 4 dicembre, “Intelligenza e psiche”, torna alla sede iniziale, l’Archivio di Stato. La giornata si concluderà con la consegna del Premio “Sigillo di Alarico”, ispirato alla figura del re visigoto che, secondo la leggenda, venne sepolto nel fiume Busento con un tesoro mai ritrovato, simbolo del patrimonio nascosto e ancora vitale della nostra terra.
    Parallelamente, la Biennale intreccerà col il SiMU e il Polo Fermi-Brutium, filosofia, letteratura e arti attraverso la rassegna “LibriAmo – Conversazioni con l’autore”, programmata tra novembre e gennaio, con incontri pensati per difendere lo spazio della lettura in un tempo in cui si legge sempre meno.
    Elemento distintivo della Biennale è il coinvolgimento attivo delle scuole superiori attraverso i Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (PCTO) e i “Salotti filosofici a scuola” che si svolgeranno al Polo Fermi-Brutium nei giorni 4 e 11 novembre e 22 gennaio. Si tratta di laboratori dialogici, non lezioni frontali, in cui docenti e studenti discutono alla pari recuperando la tradizione dei salotti filosofici come luoghi di libertà intellettuale.

    L’intero percorso sarà affiancato da visite guidate e conferenze ai musei afferenti al SiMU – il Sistema Museale dell’Università della Calabria – tra cui il RiMuseum dedicato alla Biodiversità, l’Orto Botanico, Paleontologia, Zoologia, Mineralogia. Gli studenti saranno coinvolti come protagonisti della ricerca, osservando reperti, toccando la natura, comprendendo la complessità dei sistemi viventi non come sfondo inerte, ma come organismo da tutelare.

    FILOSOFIA E CONVIVIALITÀ

    Il 27 novembre, alla Taverna dei Tre Filosofi in via Trento, si terrà un pomeriggio letterario con approfondimenti letterari e culturali, nel segno della filosofia intesa come esperienza conviviale e comunitaria. Il 4 dicembre, all’Archivio di Stato, dopo la quarta maratona filosofica, nel pomeriggio si svolgerà l’evento “PoEtica – Variazioni Cromatiche”, con letture sceniche di brani di tre poetesse, a cura degli attori emergenti laboratorio teatrale “Cilla”, e un concerto di chitarra e flauto del Conservatorio Giacomantonio. Il 18 dicembre, al Beat Music Club su corso Telesio, l’appuntamento “La filosofia incontra la poesia – Inonija. Visioni, suggestioni, versi” unirà parola e musica in un evento dedicato alla forza evocativa del pensiero poetico.

    La Biennale è coordinata da una commissione scientifica che riunisce figure di alto profilo: Vittoria Carnevale, direttrice del SiMU; Luciana De Rose, presidente di Italia Nostra-Cosenza; Luigi Gallo, membro dell’Accademia Cosentina; Antonello Lavergata, docente e membro del comitato scientifico della Fondazione Collegio San Carlo di Modena; Anna Ziviello ed Eduardo Zumpano, docenti calabresi.

    L’inaugurazione si terrà il 31 ottobre 2025 alle ore 8:30 presso l’Archivio di Stato di Cosenza, nel Chiostro di San Francesco, per lavori di restauro della facciata attualmente l’accesso sarà dall’ingresso laterale in via Paparelle. La Biennale durerà fino a gennaio 2026 e tutti gli eventi saranno ad ingresso libero.

    Le sedi coinvolte includono l’Archivio di Stato nell’ex convento di San Francesco di Paola, la Biblioteca Nazionale di Cosenza, in piazzetta Toscano, sala Giorgio Leone, la Taverna dei Tre Filosofi in via Trento, il Beat Music Club su corso Telesio, il Sistema Museale dell’Università della Calabria e il Polo Fermi-Brutium, con un calendario che comprenderà maratone filosofiche, salotti, incontri con gli autori, concerti, laboratori e visite guidate. Durante tutto il periodo saranno attivati percorsi formativi e laboratoriali destinati alle scuole, riportando la filosofia là dove è nata: nella vita reale, tra le persone.

  • Alla ricerca del voto perduto

    Alla ricerca del voto perduto

    Quasi il 60% dei calabresi è rimasto indifferente al richiamo della partecipazione democratica, decidendo di non andare a votare e questo dato è la misura della sconfitta della politica, tutta intera, sia quella che sta brindando, che quella che si lecca le ferite.

    Roberto De Luca, docente di Sociologia dei fenomeni politici presso il Dispes, ha ormai un approccio disincantato nei confronti della disaffezione dilagante verso il voto, di cui coglie le origini utili per proporre alcune interpretazioni.

    L’importanza di poter scegliere

    “La chiave per ridestare la partecipazione dei cittadini è il voto di preferenza – spiega il docente – nelle comunali e nelle regionali l’affluenza aumenta rispetto alle politiche”. La scelta del candidato restituisce importanza al voto, assume maggiore responsabilità, ci si sente meno alieni rispetto ai risultati. Preferenza dunque significa partecipazione, ma non facciamoci illusioni, perché il voto, pur avendo per tutti lo stesso valore, non ha la stessa qualità.

    Occhiuto e Tridico

    Il voto “ragionato”

    “Il voto maturato all’ultimo minuto, dopo aver valutato e pesato candidati e programmi – spiega ancora De Luca – è un voto di qualità, perché esprime una scelta ragionata”. Ma questo voto di qualità, che potremmo definire d’opinione, quanto pesa realmente sulla bilancia elettorale? Probabilmente assai poco, anche grazie alla significativa presenza nelle liste di quelli che De Luca chiama “grandi elettori”, cioè persone in grado di catalizzare enormi numeri di consensi sulla propria persona, portando in dote alla lista un importante spinta verso il successo, come è accaduto a Gianluca Gallo, assessore uscente e vero trionfatore con i suoi 30 mila voti, che lui non esita ad interpretare come il premio per quattro anni di duro lavoro.

    Gianluca Gallo recordman di consensi

    La qualità del voto e la qualità degli eletti

    Ci sono altre categorie di catalizzatori di voti, come per esempio i sindaci e in questo caso il voto è davvero d’opinione. “Quando accade che un sindaco si candidi, per esempio alle regionali, spesso raccoglie vasti consensi. Si tratta di voti che confermano la buona considerazione verso il lavoro svolto si amministratore, un consenso costruito sulla base di una valutazione concreta”, continua De Luca, per il quale in questi casi si può certamente parlare di “voto ragionato e per ciò stesso di qualità”. Da questo emerge con una certa evidenza he esiste una relazione tra qualità del voto e qualità dei destinatari del voto stesso, cioè tra qualità dell’elettorato e qualità degli eletti. “Se il voto maturato sulla scorta di una esperienza concreta di buon governo, o sulla valutazione di un programma, oppure sul giudizio espresso sulla credibilità dei candidati è certamente un voto di qualità, allora ugualmemte di qualità saranno gli eletti”, conclude il docente.

    L’astensionismo di chi rinuncia a far sentire la propria voce

    La crisi dei partiti e il nuovo consenso

    A questo punto vale la pena guardare alle dinamiche che costruiscono il nuovo consenso. “La crisi dei partiti e la fine del finanziamento pubblico, hanno fatto scomparire gli aparati, le strutture, le sezioni, da cui avevano origine forme di militanza che erano i mattoni del consenso, mentre oggi le sedi dei partiti, per esempio il Pd, sono solo luoghi di conflitto tra truppe diverse dello stesso partito”, fotografa lapidariamente De Luca, spiegando che quei luoghi di confronto e discussione, oggi sono solo spazi per riti e liturgie distanti dalle persone. E qui veniamo all’impotenza della siistra, perché è chiaro che un partito frammentato, litigioso e percepito come separato dal reale, non sia in grado di portare a sé la famosa società civile, che oggi è rappresentata dalle associaizoni del Terzo settore. Solo intercettando quell’universo si può davvero imaginare di vivificare la proposta politica.

    Wanda Ferro, emissaria in Calabria della Meloni, non è stata eletta.

    Sconfitte inattese

    Fin quando questo sforzo non sarà tentato, saremo sempre ostaggi di chi possiede e gestisce pacchetti piuttosto ampi di voti, senza dimenticare che contro questi satrapi nulla possono nemmeno potenti emissari romani. E’ il caso di Wanda Ferro, influente sottosegretaria del governo candidata alle regionali come diretta emanazione della Meloni. Doveva essere un trionfo, invece è stata una umiliante sconfitta. E comunque chi oggi muove voti come pedine, non deve peccare di Hybris, perché le recenti elezioni raccontano pure di declini precipitosi di chi in passato era stato tra i grandi rastrellatori di voti, come è accaduto per Enza Bruno Bossio e Franco Iacucci.

    La recente manifestazione di solidarietà con il popolo palestinese (Foto di Francesco Arena)

    La moltitudine nelle piazze e le urne vuote

    Su queste elezioni più che sulle altre aleggia beffardo lo spettro di Pietro Nenni, anzi della sua frase riguardo le “piazze piene e le urne vuote”. Chi avesse immaginato che la straordinaria partecipazione alle manifestazioni a sostegno del popolo palestinese si sarebbe trasformata in consensi per la sinistra, ha scoperto di aver sbagliato alla grande. In realtà non era difficile immaginare che le cose sarebbero andare diversamente, visto che chi è sceso in piazza appartiene a quella “Moltitudine” non riconducibile a un recinto definito, spesso sospettosa verso le elezioni che considerate un rito stanco e comunque per nulla organica alla sinistra ufficiale. Dentro quella moltitudine c’è certamente una discreta quantità di persone che la loro scelta l’hanno portata fino alle urne e si tratta secondo De Luca “di quei giovani colti che avevo visto all’Unical e il cui voto ha qualla qualità che serve alla democrazia”.

  • Lo studente che diventò Rettore

    Lo studente che diventò Rettore

    Un’onda di entusiasmo travolge l’Università della Calabria. Con il 78% dei voti ponderati Gianluigi Greco è stato eletto nuovo rettore per il sessennio 2025-2031. E’ un plebiscito, un “sì” corale a un uomo giovane che rappresenta il futuro senza tradire le radici. A soli 48 anni, Gianluigi Greco diventa il rettore più giovane – dopo il fondatore Beniamino Andreatta –  nella storia dell’Università della Calabria, un primato che è un record anagrafico, ma è anche un simbolo di vitalità per un ateneo che, tra i più importanti del Mezzogiorno, aspira a essere faro di innovazione in un Sud troppo spesso relegato ai margini della grande narrazione nazionale.

    Una lunga storia cominciata qui

    Nato a Cosenza nel 1977, Greco è un figlio di questa terra, un calabrese doc che ha respirato l’aria aspra e generosa di Cosenza e delle colline di Arcavacata fin dai primi passi. Il suo percorso accademico è una storia d’amore con l’Unical. Qui si è laureato, qui ha conseguito il dottorato, qui ha scalato i gradini della docenza fino a diventare professore ordinario di Informatica. Dal 2018 dirige il Dipartimento di Matematica e Informatica (Demacs), trasformandolo in un polo di eccellenza che attira finanziamenti europei, giovani talenti e partnership globali. E oggi, per la seconda volta nella storia dell’ateneo – dopo Nicola Leone, suo predecessore e mentore –, un ex studente prende le redini dell’università che lo ha formato. Questa continuità non è un vezzo nostalgico ma è la prova che l’Unical sa crescere dall’interno, nutrendosi dei propri semi per fiorire rigogliosa. Gianluigi Greco non è un estraneo catapultato da chissà dove. E’ uno di noi, un calabrese che ha scelto di restare e di lottare per rendere questa terra competitiva nel mondo.

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    Gianluigi Greco, rettore dell’Unical

    Ruolo strategico

    In un Mezzogiorno che lotta contro la fuga dei cervelli, lui potrebbe essere il ponte che trasforma bit in opportunità concrete, algoritmi in posti di lavoro, ricerca in sviluppo territoriale. Per la Calabria intera, Gianluigi Greco è un lusso accademico; è una leva strategica per invertire la rotta, per fare dell’Università della Calabria un hub che esporta talenti anziché importarli.
    E come ha fatto Gianluigi Greco a conquistare il cuore della comunità accademica? Certamente non lo ha fatto con proclami vuoti, ma con un ascolto profondo, forgiato nei ruoli di servizio: dal 2018 membro del Senato Accademico, dal 2020 coordinatore della Commissione Didattica, artefice delle politiche strategiche che hanno portato l’Università ai vertici del Sud sotto la guida Leone. La sua elezione, con un’affluenza record grazie al voto per la prima volta elettronico, riflette un consenso trasversale: docenti che vedono in lui il garante dell’eccellenza, studenti che intravedono un futuro modulabile e inclusivo, dipendenti che si sentono protagonisti grazie allo Statuto 2023 che ne amplifica il peso elettorale.

    L’Unical come un albero con radici nel mondo

    È l’uomo del “noi” pericleo, come lui stesso cita da Tucidide: un’unità coesa, dove l’università non è un’isola, ma è un albero fiorito che radica nel territorio e allunga rami verso il mondo. Il suo programma elettorale? Un capolavoro di ponderazione, studiato nei minimi dettagli per un ateneo che deve navigare la fine del PNRR e le sfide post-pandemia. Un manifesto di “furore del fare”, omaggio a Beniamino Andreatta, primo rettore e visionario fondatore dell’Unical, la più preziosa istituzione di cultura della nostra regione, con internazionalizzazione e inclusione come pilastri, ricerca qualitativa per massimizzare il Fondo di Finanziamento Ordinario senza inseguire numeri vuoti, collaborazione con la società al posto di una “terza missione” astratta.

    Propone un’università “telematica ma personale”, con corsi flessibili che conciliano studio e lavoro, per combattere la dispersione e attrarre talenti dal Sud. Parla di policlinico come priorità, ma non l’unica: c’è l’innovazione digitale per il territorio, l’espansione dei confini della conoscenza critica, la crescita generalista che valorizza tutte le discipline. È un piano innovativo e strategico, che guarda al globale senza perdere il contatto con la Calabria: un faro per il Mezzogiorno, dove l’IA non è un gadget, ma uno strumento per diritti, sviluppo e rinascita.

    Il nuovo rettore tra coloro che lo hanno sostenuto

    Da Arcavacata la promessa di un sogno possibile

    Mentre gli studenti tornano nelle aule e i professori brindano, Gianluigi Greco non è solo un nome eletto, ma è una promessa. Una rivoluzione gentile, che parte da Arcavacata per illuminare l’intera regione. Perché in lui la Calabria non vede un solo un rettore, ma un sogno possibile, un Sud che innova, include, conquista. Adesso l’Unical – e la nostra terra – è nelle sue mani sapienti. E noi aspettiamo di volare.

  • Gianluigi Greco nuovo rettore dell’Unical

    Gianluigi Greco nuovo rettore dell’Unical

    Il professore Gianluigi Greco è il nuovo rettore dell’Unical. Guiderà l’Università della Calabria per il sessennio 2025-2031. Nelle elezioni rettorali celebrate oggi, il direttore del Dipartimento di Matematica e informatica ha prevalso su Franco Ernesto Rubino, direttore del Dipartimento di Scienze giuridiche e aziendali, ottenendo complessivamente 643,6 voti, pari al 78%, contro i 175,6 dell’avversario (22%).

    I VOTI

    In particolare, Greco ha ricevuto 556 voti dal corpo docente (143 Rubino). Ha poi ottenuto 125 voti dagli studenti (voto pesato 22,9), rispetto ai 54 ottenuti da Rubino (voto pesato 9,9), nonché 351 voti dal PTA (voto pesato 48,8) contro i 157 (voto pesato 21,8) dell’avversario e 68 voti dai ricercatori RTDA (voto pesato 6,8) rispetto agli 8 (voto pesato 0,8) di Rubino.

    L’introduzione del voto elettronico tramite la piattaforma Eligere e della modalità telematica per chi si trovava impossibilitato a raggiungere il Campus per comprovati impegni istituzionali o per certificati motivi di salute, hanno garantito la piena espressione del diritto di voto, un regolare svolgimento delle operazioni elettorali e un’ampia partecipazione, testimoniata da un’altissima affluenza.

    GIANLUIGI GRECO ELETTO NUOVO RETTORE UNICAL

    L’elezione di Gianluigi Greco segna l’affermazione di un candidato giovane ma già conosciuto a livello nazionale, che assicura una certa continuità di visione con la governance uscente. Infatti ha lavorato fattivamente all’interno degli organi di governo – in particolare come coordinatore della Commissione didattica del Senato accademico e della Commissione per le politiche strategiche di Ateneo – contribuendo concretamente al raggiungimento degli ottimi risultati che hanno contrassegnato il sessennio guidato dal rettore Nicola Leone. Con l’elezione di Gianluigi Greco, per la seconda volta nella storia dell’Ateneo, l’Unical sarà guidata da un suo ex studente. Il mandato inizierà ufficialmente il 1° novembre 2025 e terminerà il 31 ottobre 2031.

    IL PROF DI INFORMATICA

    Nato a Cosenza nel 1977, Gianluigi Greco è professore ordinario di Informatica presso l’Università della Calabria, dove ricopre dal 2018 il ruolo di Direttore del Dipartimento di Matematica e informatica. Dal 2018 è anche membro del Senato Accademico, organo in cui dal 2020 coordina la Commissione Didattica. Dal 2019 è altresì coordinatore della Commissione “PRO3” per la definizione e il monitoraggio delle politiche strategiche di Ateneo. In precedenza, dal 2019 al 2022, è stato coordinatore del Corso di Dottorato di Ricerca in Matematica e Informatica e, dal 2017 al 2020, è stato membro del Comitato Tecnico Scientifico del Centro Linguistico di Ateneo.

    Con all’attivo oltre 200 pubblicazioni scientifiche nell’ambito dell’Intelligenza Artificiale, il prof. Greco ha ricevuto i più importanti premi e riconoscimenti scientifici nel settore, tra cui l’AAIA Fellowship (nel 2022, per i contributi alla diffusione dell’intelligenza artificiale a livello internazionale), l’EurAI Fellowship (nel 2020, per le attività di ricerca considerate tra le più rilevanti condotte in Europa), l’IJCAI Distinguished Paper Award (quale migliore lavoro scientifico a livello internazionale dell’anno 2018), il Kurt Gödel Fellowship Award (nel 2014, conferito dalla prestigiosa società austriaca Kurt Gödel Society), il Marco Somalvico Award (nel 2009, quale migliore ricercatore in Italia) e l’IJCAI-JAIR Best Paper Award (nel 2008, per la migliore ricerca degli ultimi 5 anni). È membro del comitato editoriale di numerose riviste di informatica e, in particolare, è Associate Editor della rivista “Artificial Intelligence Journal”, riferimento internazionale nel settore.

    AI VERTICI DELL’IA

    Da gennaio 2022 il prof. Greco è Presidente dell’Associazione Italiana per l’Intelligenza Artificiale, società scientifica di riferimento nel settore, fondata nel 1988 e cui afferiscono oltre 2000 professori e ricercatori di Università e centri di ricerca. In rappresentanza dell’ecosistema italiano della ricerca, dal 2023 coordina la task force sull’IA istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Dal 2024 è, inoltre, membro del Joint Advisory Group on AI, gruppo consultivo italo-canadese sull’Intelligenza Artificiale.

    Sul fronte del trasferimento tecnologico, numerose sono le iniziative progettuali che il prof. Greco ha coordinato con partnership industriali, supportando altresì diversi soggetti istituzionali nell’adozione di tecnologie digitali, tra cui recentemente AGENAS, AGID e MEF.

    È membro del Consiglio di Amministrazione nonché responsabile delle attività di trasformazione digitale e trasferimento tecnologico dell’ecosistema Tech4You, finanziato dal MUR per promuovere l’innovazione tecnologica in Calabria e Basilicata. È socio fondatore di due spin-off universitari. È membro del consiglio direttivo del Digital Innovation Hub Calabria, e del comitato tecnico-scientifico del Polo di Innovazione ICT e Terziario Innovativo “Pitagora”. È inoltre Presidente del Centro Studi Internazionali Telesiani, Bruniani e Campanelliani.

  • Evviva le Minne

    Evviva le Minne

     

                                                                                                   di Paola Sammarro

    Questo doveva essere un articolo “ironico, divertente” e allo stesso tempo riflessivo, su quanto le tette (le minne, per noi calabresi) siano da sempre croce e delizia per gli uomini, capaci di trasformare qualsiasi maschio in un ebete bambinone pervertito. Solo che non mi viene nessun taglio ironico, non ho voglia di ripercorrere nessun mito antropologico e culturale sul seno femminile, e spiegare agli uomini perché è profondamente da stupidi osservare le “minne” delle femmine come se non ne avessero mai viste di altre in vita loro.

    Il caso Grillo e le “ragazzate”

    Solo a scriverlo mi sto profondamente annoiando e pure – a dire il vero – infastidendo. Perché mentre penso al taglio di questo articolo Ciro Grillo e tre suoi amici sono stati condannati in primo grado per violenza sessuale di gruppo a 8 anni, quasi altri 6 anni per convincere tribunali e opinione pubblica che non è stata proprio una “ragazzata consensuale” ma un vero e proprio stupro. E allora ogni volta dover trovare il giusto equilibrio tra serietà, leggerezza, informazione e rivendicazione dell’ovvio, diventa un impegno di una pesantezza che mi sono pure seccata di sostenere.

    Il seno femminile nel mondo dell’immaginario

    Mostrare le minne

    Ma davvero a quarant’anni devo rispondere a chi sostiene che se esci con una scollatura profonda è perché “vuoi che ti guardano le minne, sennò ti copri!”? No Machominchion (nome di fantasia, nda), metto una maglia scollata perché semplicemente ci sto più comoda, mi piace di più, magari mi piace pure osservare le mie minne allo specchio, ma resta che io non lo debba giustificare a nessuno e che tu non sia autorizzato a fissarle-toccarle-giudicarle, come se fossero un bene pubblico. Il corpo delle donne non è un oggetto, non è un mezzo sessuale non consensuale per esprimere la propria foga rozza e priva di desiderabilità, che è la vostra idea di approccio sessuale.

    La Madonna del Latte, opera del Borgognone, 1490 circa

    Santa o Puttana

    “Se metti in mostra il seno e perché vuoi che te lo guardino, che ti lamenti a fare? Fanno le puttane in vetrina sui social e poi si lamentano” Il neologismo Slut-shaming, termine inglese, indica l’atto di umiliare, colpevolizzare o denigrare una persona (soprattutto una donna) per il suo comportamento sessuale reale o percepito, spesso accusandola di essere “troppo disinibita”, “promiscua” o “immorale”.

    E questo atteggiamento non lo ritroviamo solo nelle espressioni di un “vecchio bavoso” seduto al bar squallido di periferia, ma in ogni adolescente, ragazzo, uomo, a cui continuiamo ad alimentare e normalizzare una cultura dello stupro, in cui la colpa viene spostata dalla persona che commette la violenza a quella che la subisce.

    La violenza non è solo lo stupro

    La violenza – giusto per chiarire il concetto – non è solo lo stupro. Quando si parla di cultura dello stupro parliamo pure di quegli atteggiamenti che ci paiono “bonari” e che invece ci fanno cadere le “minne a terra” e sono: la molestia verbale di strada, che consiste in commenti sessuali non richiesti, fischi, apprezzamenti volgari o allusioni fatte da sconosciuti in luoghi pubblici — per esempio per strada, alla fermata dell’autobus, nei parchi, per una foto sui social.

    Insomma Giacominchio (altro nome di fantasia) smettila di invadere ogni spazio femminile. Lasciaci libere di avere le tette! Di mostrarle se vogliamo, di toccarcele, di coprirle, di non usare reggiseni. Smettila di fischiarci come a delle capre per strada, facendoci sentire osservate, insicure o costrette a modificare il nostro modo di fare per non farvi salire una “munta” ingiustificata (munta in calabrese è l’eccitazione sessuale).

    Approcci non richiesti, contatti fisici invadenti, sguardi insistenti, per queste minne e per come in generale ci vestiamo hanno rotto le scatole. E non sono per niente – cosa importante – eccitanti.

    La sessualizzazione delle minne

    L’erotizzazione dei seni non è naturale o inevitabile. Dipende da costruzioni sociali, da tutti i porno visti, dalle commedie di Pierino che vi hanno spacciato come film divertenti. Dipende dalla pessima educazione sessuale che avete ricevuto e che non siete stati capaci di decostruire. E dipende pure molto dalla religione, dal mito “sante o puttane” e anche dal fatto che gli uomini sono abituati ad invadere ogni spazio pubblico e privato delle donne, compreso ovviamente il loro corpo.

    Lo sa benissimo la società patriarcale e capitalista in cui viviamo, tant’è che vi sbatte in faccia le minne ovunque: seni usati per vendere di tutto, dai reggiseni ai profumi, alle automobili. In tv, nel cinema, nella pornografia, il topless è diventato addirittura un codice erotico potente, spesso più del nudo integrale. Il seno è uno dei principali oggetti di desiderio, ingrandito, messo in scena, modificato chirurgicamente.

    Il corpo come oggetto sessuale

    La colpa è dei capezzoli, solo femminili

    E poi il massimo della dissociazione cognitiva in cui tutti siamo immersi: i social media e la morale! Instagram e Facebook censurano capezzoli femminili, ma non maschili — creando una sessualizzazione basata su una differenza arbitraria e culturale, non anatomica. Il seno diventa così merce erotica, oggetto del desiderio maschile, e parte di un ecosistema visivo e capitalistico che ne sfrutta l’attrazione.

    E quindi, Graziello (nome di fantasia), veramente… ti rendi conto di quanto “si ciuatu”? (ciotia in calabrese vuol dire cretinaggine)

  • Charlie Kirk, se l’omicidio non è una livella

    Charlie Kirk, se l’omicidio non è una livella

    Charlie Kirk, l’estremista di destra ucciso in America qualche giorno fa, è stato commemorato nell’aula del parlamento italiano. A parte la domanda su cosa c’entri la vittima di un crimine commesso dall’altra parte del mondo con l’assemblea degli eletti in Italia, vale la pena ricordare che la richiesta è venuta da Galeazzo Bignami, parlamentare di Fratelli d’Italia cui piacerebbe andare in giro abbigliato da nazista delle Ss e purtroppo non c’è niente da ridere.

    Bignami nella sua divisa da nazista e in un selfie con Giorgia Meloni

    Fa parte, tutta questa pantomima, dell’accorta regia di strumentalizzazione che la destra meloniana e salviniana fa di un crimine che in nessun modo ci riguarda. Anzi, forse un poco sì, solo che a preoccuparsi dovrebbero essere i sostenitori di tutto quello che non piace a chi governa, vista la mole di parole d’odio che si sono ascoltate fin qui. Ma al netto della bizzarria di celebrare un morto che è diventato il simbolo dell’amore e della libertà, pur avendo in vita predicato nefandezze inenarrabili (nel link il suggestivo monologo di Stefano Massini che ne elenca alcune), vorrei raccontarvi una storia. Una storia, purtroppo, vera.

    Omicidio in USA: Charlie Kirk e Melissa Hortmann

    Nella notte del 14 giugno di quest’anno, un uomo bianco, vestito in modo da sembrare un poliziotto, con giubotto antiproiettili, entrò nella casa di Melissa Hortmann e la uccise. E dato che c’era ammazzò pure il marito. Melissa era una deputata del Partito democratico e il marito un rappresentante dello stesso partito. L’assassino ferì anche Joh Hoffman, pure lui un senatore democratico e la moglie. Le ragioni degli omicidi compiuti e di quelli mancati sono legate all’azione politica delle vittime, soprattutto di Melissa, impegnata attivamente nel contrastare le direttive anti migratorie di Trump.

    Melissa Hortman e il marito, rappresentati democratici uccisi in un attentato politico

    Quando l’omicida fu trovato, nella sua casa furono rinvenute cosette assai interessanti: una lista di circa settanta nomi di rappresentanti del Partito democratico da uccidere. Biglietti contro l’annunciata manifestazione pacifica contro Trump e parecchie munizioni.

    Non tutti i morti sono uguali

    In quella occasione non si ricorda alcuna smorfia di indignazione dei parlamentari di Fratelli d’Italia. Bignami doveva essere distratto. Anche la Meloni non si accorse di nulla. Eppure si trattava di un attentato che veniva dall’altra parte dell’oceano alla libertà di opinione e di parola e alla vita di rappresentati democraticamente eletti. Non ci furono proclami per la difesa della libertà democratica, contro l’incitazione all’odio. Né tanto meno l’aula di Montecitorio fu chiamata ad alcuna commemorazione.

    L’odio per l’avversario come pratica politica

    Tutto questo deve essere perché Trump non avvisò la Meloni. Oppure perché ci sono forse, nella gerarchia delle tragedie, morti di serie A e altre che possono essere dimenticate. Oppure, ancora, perché nel Dna di certe forze politiche, magari relegata e chiusa nella parte più recondita della loro natura, resta l’idea che l’eliminazione degli oppositori sia legittimata. Alla fine con Matteotti andò esattamente così.

  • Nicola Gratteri racconta le origini del male

    Nicola Gratteri racconta le origini del male

    La prima puntata di Lezioni di mafie, il programma condotto da Nicola Gratteri su La7, andata in onda il 17 settembre 2025, ci riporta alle radici antropologiche di una delle più potenti organizzazioni criminali del mondo quale la ‘ndrangheta calabrese. Attraverso il dialogo tra Gratteri, lo storico Antonio Nicaso e il giornalista Paolo Di Giannantonio, il programma è stato un interessante resoconto giudiziario, che si apre a un viaggio profondo nella psiche collettiva di una terra aspra, dove l’ombra della mafia coesiste con l’essenza stessa della cultura umana.

    Come aspirante antropologo, vedo in questa narrazione un’opportunità unica per decifrare il crimine, quel tessuto sociale che lo ha generato e nutrito, trasformandolo da fenomeno locale in impero transnazionale.
    La ‘ndrangheta emerge come un sistema rituale e simbolico che riecheggia le strutture tribali antiche del Mediterraneo meridionale. Nata sulle montagne della Calabria – come Gratteri evoca con passione, ricordando la sua infanzia a Gerace, un paese isolato tra rocce e silenzi – questa organizzazione è mera delinquenza economica, ma anche una vera e propria “religione profana” del potere.

    Riti e iniziazioni, tra sacro e sciamanesimo

    I riti di affiliazione, descritti nel programma con dovizia di dettagli storici da Nicaso, richiamano le iniziazioni sciamaniche o le società segrete delle culture preindustriali: giuramenti su sangue e croci, gerarchie basate su vincoli familiari e codici d’onore che trascendono la legge statale. Questi elementi non sono casuali: sono radicati in un’antropologia della sopravvivenza.

    La Calabria, con il suo terreno impervio e la storia di emigrazioni forzate, ha forgiato comunità dove il clan familiare – la ‘ndrina – funge da rete di protezione contro lo Stato assente e le carestie storiche. Come osserva l’antropologo Edward Banfield nel suo classico Le basi morali di una società arretrata (1958), in tali contesti il “familismo amorale” diventa norma: la lealtà al sangue prevale sull’interesse collettivo, permettendo alla ‘ndrangheta di evolvere da bande di briganti ottocenteschi a holding globali.

    Dalle antiche montagne, alla conquista del resto del mondo

    Dalle montagne più dure verso i cinque continenti

    Il programma illumina brillantemente questa metamorfosi antropologica. Partendo dai villaggi montani – luoghi di isolamento che favoriscono la coesione endogamica e il sospetto verso l’esterno – Gratteri e Nicaso tracciano il percorso della ‘ndrangheta verso i cinque continenti. Espansione economica, attraverso il traffico di cocaina o l’infiltrazione in finanza e politica, adattamento culturale darwiniano. La mafia calabrese, a differenza della più spettacolare Cosa Nostra siciliana, opera nel silenzio, un’etica del “non detto” che riflette il codice dell’omertà come meccanismo di difesa comunitario.

    Eppure, qui emerge il dramma umano: l’infiltrazione silenziosa nelle istituzioni legali corrompe il capitale sociale, trasformando reti di solidarietà in catene di dipendenza. Pensiamo alle storie di resistenza raccontate nella puntata – imprenditori e cittadini che “dicono no” – come esempi di agency antropologica, di individui che rompono il ciclo culturale del conformismo mafioso per rivendicare un’identità autonoma.

    Nicola Gratteri e Antonio Nicaso. La loro collaborazione è iniziata molti anni fa

    Magistrato e antropologo

    Ma ciò che rende Lezioni di mafie un gioiello non è solo l’analisi storica, bensì il suo invito a una riflessione etica profonda. Gratteri, con la sua voce rotta dall’esperienza di una vita sotto scorta, incarna l’antropologo militante: un insider che decostruisce la cultura mafiosa dall’interno, mostrando come essa sfrutti le vulnerabilità umane – paura, povertà, senso di appartenenza – per perpetuarsi. In un mondo globalizzato, dove la ‘ndrangheta usa il dark web e le criptovalute (temi accennati come anticipazione delle puntate successive), questa mafia diventa metafora di un’antropologia post-moderna, ibrida, fluida, capace di mimetizzarsi nelle economie legali. Eppure, il programma ci ricorda che le radici rimangono in Calabria, dove il paesaggio montano è sfondo, ma anche agente culturale che modella l’identità, la lotta alla mafia è una battaglia per reclamare l’umanità collettiva.

  • L’ultima soluzione finale e la maledizione di Levi

    L’ultima soluzione finale e la maledizione di Levi

    Ve le ricordate le parole di Primo Levi? Sì che ve le ricordate, ce le hanno fatte imparare a scuola e sempre a scuola le leggiamo ogni anno, in occasione del Giorno della Memoria, quando ricordiamo i sei milioni di ebrei sterminati dai nazisti (in Italia con la complicità del regime fascista). Ve le ricordate vero? Quando Levi chiede retoricamente e con rassegnato dolore

    se questo è un uomo
    che lavora nel fango
    che non conosce pace
    che lotta per mezzo pane

    e alla fine con la forza della maledizione intima di non dimenticare, di non permettere che sembri che sia stato tutto normale, di lasciare intatto l’orrore. Conviene in questi giorni drammatici ricordarcele queste parole, perché quello che da mesi, da anni, sta accadendo in Palestina non è né diverso, né giusto, né normale, né perdonabile. E’ un genocidio, come pure l’Onu si è deciso a riconoscere e quindi ormai nessuna ipocrisia può negarlo. Si sta compiendo un crudele tentativo di cancellare un popolo. Una soluzione finale.

    Non vi viene in mente un passato lontano che però dimostra di non essere mai davvero passato? Non vi viene in mente la faccia passiva, disarmante, disgustosamente normale di un certo Eichmann, quello della Banalità del Male di Hanna Arendt? Era Eichmann ad avere il compito di realizzare la “soluzione finale”. Chissà che faccia hanno quelli che con gli occhi fissi su uno schermo prendono le coordinate di qualche povera casa con dentro una famiglia palestinese sulla quale fare cadere un missile da centinaia di migliaia di dollari. Sembra un war game, invece è carne e sangue di innocenti.

     

    Questa foto ha vinto l’edizione del World press photo del 2024, ribattezzata la Pietà di Gaza, raffigura il povero corpo di una bambina di cinque anni, uccisa da una bomba israeliana, tenuta in braccio dalla sorella.

    Vittime e carnefici

    Qual è la differenza, vi prego ditemela, tra i boia di uno qualunque dei campi di sterminio nazisti e il ministro israeliano Ben Gviv che fa affiggere davanti alle porte delle celle in cui sono rinchiusi i prigionieri palestinesi, le foto delle loro case distrutte dalle bombe? Dove la differenza tra il rastrellamento del ghetto di Roma del 43 e gli arresti indiscriminati di bambini e adolescenti a Gaza?

    Nell’ipocrisia istituzionalizzata c’è chi inorridisce per il paragone tra un ministro di Netanyahu e un gerarca nazista, oppure pone mille distinguo tra un ufficiale dell’ Idf che ordina di sparare su bambini inermi e quei soldati tedeschi che noi abbiamo visto solo nei film. Eppure certe immagini raccontano un orrore non dissimile, fatto da corpi di bambini sfiniti dalla fame, smembrati dalle bombe, donne e uomini deportati, spogliati di tutto, umiliati, colpiti da raffiche mentre fanno una disperata fila per il cibo.

    Durante l’occupazione israeliana a Gaza sono innumerevoli i bambini morti per denutrizione

    La nuova Soluzione finale

    Appare evidente quale sia l’obiettivo ultimo del massacro perpetrato oggi: una soluzione finale praticata da chi ha scordato il suo passato di vittima nel corso della storia e oggi indossa con consumata abilità l’abito del carnefice potente e spietato. Lo scopo dell’eliminazione fisica di un popolo è stato svelato, con il candore dell’arroganza priva di alcuna forma di pudore, dal ministro delle Finanze del governo israeliano Smotrich, per il quale Gaza è una miniera d’oro sul piano immobiliare e che ha annunciato che “il business plan” della ricostruzione miliardaria è già sulla scrivania di Trump per l’approvazione.

    Una delle imagini generate dall’AI riguardo il futuro immaginato per Gaza

    Costruiranno una città da cui trarre enormi profitti, ma le cui fondamenta saranno posate sul sangue e la sofferenza di innocenti. Non ho conosciuto Primo Levi, non posso sapere cosa avrebbe detto o scritto oggi, davanti allo sterminio di migliaia di palestinesi, civili, donne, bambini. Ho invece conosciuto Settimia Spizzichino, sopravvissuta per coraggio e “tigna”, come avrebbe detto lei stessa, agli orrori di Auschwitz. Posso forse immaginare cosa avrebbe detto contro l’orrore di adesso, lei che visitava le scuole d’Italia per raccontare la mostruosità che aveva vissuto, non diversa da quella inflitta oggi a un altro popolo.

    I pochissimi osservatori presenti a Gaza raccontano che mancando i sudari, i corpi vengono avvolti in teli di plastica

    Le parole di Primo Levi

    Vale la pena di ricordare una intervista di Gad Lerner a Levi, uscita sul Fatto Quotidiano e poi recentemente ripresa da altre testate, fatta a ridosso del massacro commesso dalle Falangi libanesi protette dall’esercito israeliano contro i civili indifesi dei campi profughi di Sabra e Shatila. Le parole di Levi furono durissime contro il falco Ariel Sharon, allora capo del governo di Gerusalemme. Del resto, sono numerosi e importanti gli intellettuali di cultura ebraica a essersi con forza scagliati contro i massacri indiscriminati e contro l’ormai innegabile tentativo di una conquista di territorio che passa attraverso l’eliminazione di un popolo. Né dentro Israele manca una opposizione sempre più forte contro il governo di Netanyahu

    E’ difficile calcolare quanti civili, soprattutto bambini, siano stati uccisi negli attacchi israeliani

    La maledizione incombente

    Oggi per le anime candide che inventano distinguo, che considerano oltraggioso avanzare l’ipotesi di un confronto tra il destino che toccò agli ebrei in Europa negli anni del nazismo e  del fascismo con quanto sta accadendo da tempo immemore in Medio oriente sulla pelle dei palestinesi, cade l’ultimo patetico velo delle parole, quello per cui il termine “genocidio” non si poteva usare.  Ebbene queste persone si rassegnino: è un genocidio.

    Per tutti quelli che lo hanno negato, il consiglio è di rileggere Levi. Quelli che per tutto questo tempo si sono nascosti dietro l’ipocrisia, che hanno fatto finta di non sapere, gli ignavi e i complici avvezzi al silenzio. Gli uomini e donne di Stato e le persone comuni che hanno scelto di fare finta di nulla, come i moltissimi che quando il fumo usciva dai camini dei lager si girarono dall’altra parte. Rileggete quelle parole e più di tutto l’intimazione finale: “Scolpitele nel vostro cuore, Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi.” Questa maledizione è per voi.

     

  • La scuola che c’è e quella che ci vorrebbe

    La scuola che c’è e quella che ci vorrebbe

    Se vogliamo comprendere la società, dobbiamo guardare dentro le aule delle sue scuole. Le caratteristiche che troveremo in quelle aule, in larga misura saranno rappresentative del tipo di società che ci troveremo davanti, infatti è lì che si disegna l’orizzonte di valori dentro cui ci si muoverà negli anni a venire, ecco perché per i governi controllare la scuola resta strategico. Malgrado la straripante influenza dei new media, dei social e di alcuni programmi televisivi di infima qualità, la scuola resta il luogo sociale formalmente demandato alla riproduzione immateriale, come la chiamava Gorz, il luogo cioè dove valori, saperi, tradizioni, vengono trasmessi dai vecchi ai giovani.

    Democrazia e opportunità

    Ma non solo: in democrazia la scuola è anche  il solo contesto dove costruire opportunità in grado di cambiare i destini delle persone – e dunque di intere comunità –  attraverso l’acquisizione dei saperi, la costruzione della propria consapevolezza, ma soprattutto attraverso la formazione di un Ethos democratico in grado di mutare gli individui in cittadini.

    Tutto ciò è più che sufficiente per spiegare perché la scuola sia da sempre un terreno di battaglia e che chi è mosso da tentazioni autoritarie, nazionaliste, mal celatamente repressive, la consideri un avversario da battere. Il nemico resta quell’attivismo educativo improntato a una idea riformista, che in Italia ha avuto pionieri che ancora oggi abitano con i loro esempi le lezioni che si tengono in classe e influenzano metodologie: gli ideali antifascisti di Bruno Ciari, l’eresia della Barbiana di don Milani e più tardi di don Sardelli e della sua esperienza dell’Acquedotto Felice, la fantasia irriverente di Rodari, l’impeto libertario di Mario Lodi, il concetto di “libertà responsabile” di Margherita Zoebeli. Tutti esempi di una idea di scuola – e dunque di una società –  antiautoritaria, democratica, plurale e aperta.

    Il merito a scuola rischia di essere una gabbia

    Il Merito e l’Inutile

    Le parole hanno un senso, anzi hanno una loro potenza. Rimarcare dentro la scuola concetti come “profitto” e “merito”, ha come sovrascopo relegare all’inutile lo studio di alcune discipline legate al pensiero libero.

    Lo scopo è quello di incatenare la scuola al lavoro e all’impresa, partendo dalla tirannia semantica. Il concetto di merito affascina, chi mai sarebbe contrario alla meritocrazia? E invece nella società il merito è la veste etica della disuguaglianza: la povertà è una colpa, ci viene spiegato, dunque insegnare l’ideologia del merito equivale a forgiare una generazione competitiva e spietata, che ignora che lo stesso merito ha direttamente a che fare con le opportunità di partenza e come spiega Pierre Rosanvallon «organizza l’immaginario delle società contemporanee» L’altra faccia del merito è il tema dell’inutile, cioè lo studio di tutto quello che non produce profitto: l’arte, la poesia, la filosofia, la musica. Tutte le discipline che alimentano il pensiero critico, fanno sorgere il dubbio, suscitano disobbedienza riflettendo sulle disuguaglianze sociali, sulle loro origini e sui danni ambientali non sono funzionali a una società finalizzata all’omogeneizzazione, destinata al dualismo “lavoro – consumo”, costruita sulla convinzione che lo sviluppo economico sia il solo fattore di miglioramento della vita.

    La tentazione di misurare deforma la valutazione

    L’irresistibile tentazione di misurare tutto

    Da parecchio valutare non è più soltanto mettere voti. L’irruzione nella scuola italiana di sistemi di test che mirano a “pesare” gli studenti è ormai consolidata, malgrado le critiche. I test di logica, matematica, o di competenze nozionistiche, non tengono conto, anzi mortificano la capacità di scrittura, la creatività, il pensiero divergente, tutte cose non casualmente rinchiuse nel recinto dell’inutile.

    La scuola che coinvolge

    La scuola che servirebbe

    La scuola che ci vorrebbe è quella che educa alla complessità, che ripudia le scorciatoie del complottismo e dell’antiscientismo, che annuncia la necessità di attrezzarsi attraverso lo studio per affrontare le sfide che ci sono e quelle che verranno. Ci vorrebbe una scuola in cui l’Educazione civica non fosse rappresentata da improbabili lezioni di educazione stradale, ma parlasse dei valori della Costituzione, della libertà, della tolleranza, della multiculturalità,  attraversando e permeando tutte le altre discipline e non restando, come è adesso, una sorta di cenerentola cui dedicare qualche ora di lezione. Una scuola che insegni ai ragazzi a muoversi con sicurezza tra fake news e slogan, che la politica non è una cosa che fa schifo, o per pochi, ma al contrario è partecipazione, è dire quel che si pensa e dunque avercelo un pensiero.

    La scuola come luogo di partecipazione

    Una scuola che insegni l’etica della democrazia, che implica il riconoscimento e il rispetto dei diritti delle minoranze. Che insegni l’etica della responsabilità, verso gli altri, soprattutto quelli differenti da noi. La responsabilità verso l’ambiente e il destino planetario, cioè di tutti. Ma anche la responsabilità delle nostre parole e delle nostre azioni. Una scuola, per dirla con Hartmut Rosa, «che risuona quando brillano gli occhi all’insegnante e agli studenti, dove non c’è silenzio, ma un brusio dinamico, uno spazio di dissenso possibile nella costruzione collaborativa della conoscenza. Insomma il contrario della scuola dell’alienazione»

    Scuola e politica

    C’è sempre qualcuno che grida che “a scuola non si fa politica”. E invece sì, si fa eccome. Quando si sceglie una pagina da leggere, un film da vedere, un quadro da guardare in silenzio, si fa politica. Quando si racconta la Storia si fa politica, nei confini tracciati sulle carte geografiche c’è la politica. Nei versi di Dante non meno che in quelli di Dino Campana o del calabrese Franco Costabile c’è politica. Tra i banchi di scuola si fa la nuova umanità, per questo studiare resta la forma di politica più potente.

     

     

  • Unical e Palestina: si può stare in silenzio?

    Unical e Palestina: si può stare in silenzio?

    L’Università della Calabria ha celebrato da poco l’inaugurazione del suo 54º anno accademico, un momento di riflessione e orgoglio per un ateneo che si conferma tra i più dinamici del Sud Italia. Tuttavia, a segnare l’evento è stata un’azione dirompente: l’irruzione di studenti e attivisti del “Coordinamento Cosenza Unical per la Palestina” durante il discorso del rettore Nicola Leone.

    Il Rettore Nicola Leone durante l’inaugurazione dell’anno accademico

    Con slogan come “Palestina libera!” e striscioni che denunciavano la “complicità delle università con Israele”, i manifestanti hanno interrotto la cerimonia per protestare contro gli accordi accademici con atenei israeliani e le collaborazioni con industrie belliche come Leonardo e Thales, accusate di alimentare il conflitto a Gaza. L’episodio, pur senza degenerare in violenza, ha messo in luce una tensione profonda: il ruolo delle università come spazi di sapere neutrale versus la richiesta di posizioni politiche nette su questioni globali.
    Questa protesta, che si inserisce in un’onda nazionale di mobilitazioni pro-palestinesi negli atenei italiani, solleva interrogativi cruciali. Da un lato, i manifestanti hanno esercitato il loro diritto alla libertà di espressione, dando voce a un’urgenza etica condivisa da molti: la solidarietà con il popolo palestinese in un contesto di crisi umanitaria. Le loro accuse di “complicità” toccano un nervo scoperto, quello delle responsabilità istituzionali in un mondo interconnesso, dove collaborazioni accademiche e industriali possono avere implicazioni politiche. Dall’altro lato, l’irruzione ha interrotto un momento simbolico di unità accademica, sollevando critiche su modi e tempi della protesta. L’Università della Calabria, descrivendo l’episodio come un “confronto vivo”, ha cercato di riaffermare il suo ruolo di spazio di dibattito. Ma è davvero possibile, o desiderabile, che un’università rimanga neutrale su questioni così divisive?

    Libertà accademica e attivismo politico

    Il cuore del problema sta nel bilanciamento tra libertà accademica e attivismo politico. Le università sono luoghi di confronto, dove idee opposte devono poter coesistere senza censure, ma anche senza che il dialogo venga soffocato da azioni che, pur legittime, rischiano di polarizzare invece che costruire. La protesta di oggi ha avuto il merito di accendere i riflettori su una questione globale, amplificata da immagini e video condivisi in tempo reale su piattaforme social e web.
    Tuttavia, il rischio è che il messaggio si perda in una dialettica di scontro, anziché tradursi in un dialogo strutturato che coinvolga studenti, docenti e istituzioni.
    L’Unical, con i suoi oltre 30.000 studenti e un ruolo centrale nel Mezzogiorno, ha l’opportunità di trasformare questo episodio in un’occasione di crescita. Organizzare tavoli di discussione aperti, con esperti di geopolitica e rappresentanti di tutte le sensibilità, potrebbe essere un passo per canalizzare l’energia della protesta in un dibattito costruttivo. La sfida è chiara: come conciliare l’eccellenza accademica con la responsabilità sociale, senza cedere né alla neutralità ipocrita né alla politicizzazione divisiva? La risposta non è semplice, ma l’università, come luogo di pensiero critico, è chiamata a cercarla.

    Un momento della protesta

    La protesta del “Coordinamento Cosenza Unical per la Palestina”, rappresenta un caso emblematico delle tensioni che attraversano le istituzioni accademiche in un’epoca di crisi globali. L’irruzione nell’Aula Magna, con slogan come “Palestina libera!” e “Se bloccano la flottilla, blocchiamo tutto!”, non è stata solo un atto di dissenso, ma un tentativo di forzare l’università a prendere posizione su un conflitto che, pur geograficamente lontano, ha profonde ripercussioni etiche e politiche. Analizzando l’evento, emergono tre nodi critici: il diritto di protesta, la “neutralità” accademica e il rischio di polarizzazione.

     Il diritto di protesta e la sua messa in scena

    L’azione del Coordinamento è stata pacifica ma volutamente dirompente, con l’irruzione e l’affissione di striscioni come quello sul Ponte Bucci (“complicità e responsabilità delle università con Israele”). La scelta di interrompere un evento simbolico come l’inaugurazione accademica ha garantito visibilità, amplificata da post sui social che hanno documentato l’evento in tempo reale. Tuttavia, questa strategia solleva una questione: la teatralità della protesta, pur efficace nel catturare l’attenzione, rischia di alienare chi potrebbe essere aperto al dialogo? I manifestanti hanno denunciato accordi con atenei israeliani e collaborazioni con aziende come Leonardo e Thales, accusate di sostenere il conflitto a Gaza. La loro richiesta – la rottura di questi legami – è chiara, ma la modalità scelta ha lasciato poco spazio a un confronto immediato, trasformando l’evento in uno scontro simbolico più che in un’occasione di dibattito.

    Una fase della protesta a favore della Palestina

    La neutralità accademica: un mito insostenibile?

    L’Unical ha risposto descrivendo l’episodio come un “confronto vivo”, riaffermando il suo ruolo di spazio di dibattito. Ma la pretesa di neutralità accademica è problematica. Le università non operano in un vuoto: gli accordi con atenei stranieri o industrie belliche non sono mai solo “tecnici”, ma portano con sé implicazioni politiche. La protesta ha messo in discussione il silenzio istituzionale su queste connessioni, accusando l’Unical di complicità indiretta in un conflitto che molti studenti percepiscono come un “genocidio”. Tuttavia, la neutralità ha anche un valore: garantisce che l’università rimanga un luogo di pluralismo, dove tutte le voci – incluse quelle pro-israeliane o neutrali – possano esprimersi. Rompere accordi accademici con Israele, come chiesto dai manifestanti, potrebbe essere visto come un atto di censura verso studiosi e istituzioni israeliane, non tutte necessariamente allineate con le politiche del loro governo. Qui si gioca la sfida: come bilanciare responsabilità etica e apertura intellettuale?

    Foto

     La polarizzazione e il dialogo

    La protesta si inserisce in un’onda nazionale di mobilitazioni studentesche pro-palestinesi, come i sit-in all’Aquila contro Leonardo. Questo movimento riflette una crescente sensibilità tra i giovani per le questioni globali, ma anche una tendenza alla polarizzazione. I critici dell’azione, che l’hanno definita “controversa”, sottolineano che politicizzare un momento celebrativo come l’inaugurazione rischia di alienare chi non condivide la causa. Sui social noto che commenti si dividono: alcuni utenti lodano il coraggio degli attivisti, altri lamentano la “mancanza di rispetto” per l’evento accademico. La “frattura profonda” evidenziata dall’episodio non è solo tra studenti e istituzione, ma anche all’interno della comunità accademica, dove sensibilità diverse si scontrano senza un terreno comune. La richiesta di “dialogo strutturato” avanzata da alcuni osservatori è sensata, ma richiede volontà da entrambe le parti: i manifestanti devono accettare la complessità del tema, e l’università deve riconoscere che la neutralità non è sempre una risposta sufficiente.

    Alcuni militanti del coordinamento Cosenza Unical per la Palestina

    Il ruolo dell’Unical nell’area del Mediterraneo 

    La protesta all’Unical è un microcosmo delle tensioni globali che attraversano le università, chiamate a essere al contempo templi del sapere e arene di confronto politico. L’azione del Coordinamento ha avuto il merito di portare il conflitto israelo-palestinese al centro del dibattito, ma ha anche evidenziato i limiti di un approccio che privilegia l’irruzione al dialogo. L’università ha l’opportunità di trasformare questa frattura in un’occasione di crescita, promuovendo spazi di confronto che includano prospettive diverse, da quelle degli attivisti a quelle di chi difende la cooperazione accademica internazionale. La sfida è costruire un dibattito che non semplifichi la complessità geopolitica, ma la affronti con rigore e apertura. Solo così l’Unical potrà onorare il suo ruolo di faro culturale nel Mezzogiorno, senza cedere né al silenzio né alla polarizzazione.