Categoria: Fatti

  • Corrado Alvaro, dalla Russia con amore

    Corrado Alvaro, dalla Russia con amore

    «Guardo giù nella strada e mi ricordo di colpo l’impressione che ebbi all’arrivo, quando, passato l’arco di trionfo imperiale sulla piazza Sadowa, uguale a quelli che da Roma emigrarono nel nord, mi trovai tra la folla di Mosca».

    Scrittore fra i più significativi del Novecento e sceneggiatore e intellettuale di prim’ordine, è stato anche un apprezzatissimo giornalista e reporter di viaggio. Partito dall’entroterra della Calabria – era nato nel 1895 a San Luca, sperso cuore dell’Aspromonte –, Corrado Alvaro visitò il mondo spingendosi fino in Russia, alimentando, più che appagando, con l’errare la sua inestinguibile sete di conoscenza verso tutto quello che era incognito e straniero. Sete che aveva come origine l’inesauribile passione per la letteratura, su tutte quella francese – nel 1923 tradusse parti de La prigioniera, quinto volume della Recherche di Marcel Proust – e quella, appunto, russa.

    La Russia di Corrado Alvaro

    E per un uomo occidentale la Russia, oggi come ieri, è senz’altro il primo e più immediato approdo corrispondente a un mondo cosiddetto “altro”. La misteriosa Russia – o per meglio dire, la Repubblica socialista russa, principale repubblica dell’Unione Sovietica sorta nel 1922 sulle macerie dell’Impero russo a seguito dell’aspra guerra civile e del Terrore rosso – catturò la curiosità di Corrado Alvaro. Lo scrittore calabrese ebbe modo di visitarla fra la primavera e l’estate del 1934 come inviato speciale de La Stampa.
    Quell’eccezionale relazione di viaggio uscì a puntate sulle colonne del quotidiano torinese, che al tempo dirigeva Alfredo Signoretti. Mondadori, poi, nel 1935 la raccolse nel volume I maestri del diluvio. Viaggio nella Russia Sovietica, pubblicato poi anche col titolo, editorialmente più efficace, Viaggio in Russia.

    Per Corrado Alvaro l’attività giornalistica fece da preludio a quella letteraria. Già nel 1916 – durante la Grande Guerra e ancora prima di contrarre matrimonio con Laura Babini – il sanluchese cominciò a collaborare per alcune testate come Il Resto del Carlino, Il Corriere della Sera, Il Mondo, Il Becco giallo. Quei lavori anticiparono la pubblicazione, nel 1917, dei suoi primi versi, raccolti nel libricino Poesie grigioverdi, delle sue prime novelle, La siepe e l’orto, edite nel 1920, e soprattutto del suo primo romanzo, L’uomo nel labirinto, pubblicato nel 1926.

    Antifascismo e amicizie

    Furono anni decisivi per il Paese. Il 1922 coincise con l’avvento del Fascismo e l’inizio di un ventennio che segnò in maniera indelebile la storia italiana del Ventesimo secolo. Alvaro mantenne una certa distanza dal Partito nazionale fascista e fu fra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Ciononostante la sua attività culturale non fu ostacolata dal regime, come accadde invece a molti altri uomini di cultura dell’epoca.

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    Margherita Sarfatti, musa di Benito Mussolini

    Collaborò col Popolo di Roma, testata filofascista di cui, per un breve periodo nell’estate del ’43, appena conclusa la parabola antidemocratica dello Stivale, ricoprì anche il ruolo di direttore. Taluni spiegano la clemenza del regime verso l’intellettuale calabrese attraverso la grande amicizia con Margherita Sarfatti, giornalista, critica d’arte, confidente e musa ispiratrice di Benito Mussolini.
    Nel 1934, anno di altissimo consenso del popolo italiano verso il governo Mussolini – precedette le “imprese” fasciste in Abissinia che assai entusiasmarono le piazze del Belpaese –, Corrado Alvaro ottenne quindi l’incarico dalla Stampa di realizzare un reportage nella Russia di Stalin.

    Dopo la Rivoluzione del 1917

    Si trattava di visitare un pianeta per definizione inintelligibile, che ha da sempre effuso un miscuglio di seduzione e repulsione, dato vita a scenari distorti e sentimenti contrastanti nell’uomo occidentale, attratto da quel misterioso – perché distante e perciò oscuro e poco raccontato nella sua vera essenza – mondo al di là del trentesimo meridiano Est. Un sentimento che ha origini antiche e senza dubbio ingigantitosi con la Rivoluzione bolscevica del 1917, il crollo dell’Impero degli zar e l’istituzione dell’Unione Sovietica col suo modello economico e sociale che proponeva di “esportare” nel Vecchio Continente.

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    Lenin incita la folla russa: la Rivoluzione ha inizio

    La Russia, la terra del samovar, della balalaika e della banja, delle cupole a cipolla e delle foreste di larici e betulle, il Paese venato dai lunghissimi fiumi: la Lena, il Volga, l’Oka, il Don, l’Ob’, l’Amur, l’Enisej. Un universo in bilico tra Oriente e Occidente che nel Novecento, dopo la Rivoluzione, ha ammaliato ed entusiasmato sempre più cronisti e scrittori. Fra questi, anche Joseph Roth e Stefan Zweig, autori, fra il 1926 e il 1928, di relazioni di viaggio poi confluite in note opere letterarie.

    «Una grande scuola di addestramento»

    Corrado Alvaro intraprese il suo viaggio in Russia nella primavera del 1934, nel bel mezzo del secondo piano quinquennale. L’anno che si chiuse con l’assassinio di Sergej Kirov, alto dirigente del Partito e sodale di Stalin. L’evento scatenò la reazione violenta del Piccolo Padre, ossessionato da possibili tradimenti, anche e soprattutto orditi nella sua cerchia di fedelissimi,. Iniziò così la stagione di repressione e sangue passata alla storia col nome delle Grandi purghe.
    Dopo il diluvio della Rivoluzione d’ottobre – intenzionata, riprendendo una affermazione di Viktor Šklovskij, a rifare «l’uomo dalle budella» – e la nascita del nuovo Stato, gli anni Trenta in Unione Sovietica videro affievolirsi l’illusione del comunismo universale di matrice leniniana. Continuarono comunque a essere anni di enormi stravolgimenti. In quel decennio, segnato dal terrore delle epurazioni staliniane, nacquero nuove classi sociali, esplosero le migrazioni interne, si sfruttarono fino all’impoverimento le terre. L’URSS diventò, fra trionfi e fallimenti, il laboratorio di un nuovo modo di vivere.

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    Cittadini sovietici in un gulag durante le Grandi Purghe

    Nel Paese, sconfinato, multietnico e multilingue, si susseguirono i tentativi di instaurare una convivenza civile fra tutte le etnie che lo popolavano – erano 170 milioni gli abitanti nei Soviet a quel tempo –, comprensibilmente intontite da quella Rivoluzione che in una manciata d’anni aveva provocato un epocale cataclisma, cancellando tre secoli di zarismo autocratico. «Una grande scuola di addestramento alla vita civile e ai rapporti umani»: così fotografò Alvaro l’Unione nel ’34.
    Lo scrittore, sulla scorta di una grande cultura “russa” costruita e consolidata attraverso incessanti studi privati, negli articoli su La Stampa raccontò i mutamenti sociali del Paese, la realtà in parte nascosta della Russia sovietica.

    Corrado Alvaro e la propaganda in Russia

    Descrisse la nascita di una nuova borghesia, non si sa quanto diversa rispetto a quella antecedente, detestata, vituperata e annientata. Riferì della fame e delle carestie che, dopo l’holodomor ucraino del ’32-’33, ancora erano diffuse in numerose aree rurali della sterminata Unione. Ma, soprattutto, si soffermò sull’utilizzo subdolo della propaganda, così instradante della condotta del popolo russo. Memento che ne accompagnò l’intero itinerario fu infatti badare alla potenza degenerante della propaganda: «Tra i fenomeni che formano e limitano il suo carattere bisogna annoverare questo in primo piano”.

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    Il poeta Vladimir Majakovskij

    L’autore di Gente in Aspromonte scrisse pagine civili, dedicandosi all’ostracismo, alle vessazioni e alle espulsioni ordinate e indotte verso la categoria degli intellettuali. Quella generazione stava dissipando i suoi maggiori poeti: Esenin si era suicidato, o era stato suicidato, nel 1925; Majakovskij si era sparato nel 1930, Mandel’štam sarebbe morto in un gulag nel ’38 e Cvetaeva in esilio negli Urali nel ’41.

    Un tour sotto controllo 

    «A Mosca! A Mosca!», reclamavano le protagoniste delle Tre sorelle di Anton Čechov. E come ogni viaggio in Russia che si rispetti, oggi al pari di allora, quello di Corrado Alvaro non poté che principiare da lì. Da Mosca, la Terza Roma, divenuta capitale nel 1918, dopo il diluvio. Nella città de Il Maestro e Margherita, Alvaro fu colpito istantaneamente dal suo ritmo immutabile, dalla «uniformità della sua gente» che saettava attorno alle sacre mura rosse del Cremlino e lungo i viali attraversati dai tranvai e tappezzati da giganteschi cartelli propagandistici, satirici e anticlericali.

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    La vetrina di un negozio nella Mosca degli anni ’30

    Lo scrittore andò per parchi urbani, circhi, teatri di carattere didattico – un’istituzione in URSS: «Tutta la Russia è oggi una grande messinscena» –, accompagnato come ogni burgiuà, ogni borghese occidentale – una parola che in quella Russia emetteva il suono di un insulto –, da una guida. E anche qua le virgolette sarebbero doverose, ché è ben riduttivo definire guida una persona che vigila ogni tuo passo, che, con un «sistema di investigazione minuta e quotidiana», supervisiona e affianca l’intero soggiorno dello straniero senza mai proferire una parola più del necessario.

    Le “speciali guide turistiche sovietiche” trasmisero durante il viaggio in Russia la loro disciplina ad Alvaro. Lo catechizzarono, facendogli capire con gli sguardi e i silenzi che non facesse domande inappropriate, che non si incapricciasse se l’itinerario prestabilito subisse delle modifiche improvvise e immotivate. Un rigore che possiamo immaginare assai indigesto per il viaggiatore, senz’altro curioso di posare gli occhi anche su un minuscolo frammento in più di quell’inafferrabile Paese. Di quel «rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma», per dirla con una celebre espressione di Winston Churchill.

    Da Mosca a Stalingrado, da Pietroburgo a Baku

    Tuttavia, la percezione dell’atmosfera illiberale vigente non condizionò la straordinaria inchiesta in Russia di Corrado Alvaro. Anzi, all’uscita de I maestri del diluvio un giudizio d’aria bolscevica si espresse dicendo che lo scrittore si era lasciato andare a «un nebuloso sentimentalismo».
    Il lungo viaggio di scoperta vide товарищ Alvaro soggiornare e visitare molte grandi e piccole città oltre a Mosca. Dimorò a Bolscevo, villaggio dell’entroterra della capitale, esplorò la grigiastra Gor’kij – l’odierna metropoli di Nižnij Novgorod, ribattezzata in omaggio allo scrittore Maksim Gor’kij, apprezzato da Stalin –, poi Kazan, Rostov – la più mediterranea delle città sovietiche –, Saratov, Samara, Stalingrado – oggi Volgograd ma interessata da un processo, in stato avanzato, volto a ripristinare il precedente nome.

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    Il palazzo di Caterina a Tsarskoye Selo, subito fuori San Pietroburgo

    Lo scrittore e intellettuale fece visita agli sfavillanti palazzi di Caterina e Alessandro a Carskoe Selo, poco fuori Pietroburgo – realizzati rispettivamente dagli architetti di origini italiane Francesco Bartolomeo Rastrelli e Giacomo Quarenghi –, luoghi che hanno segnato la storia del Novecento. Proprio da qua partì verso l’esilio degli Urali e la barbara esecuzione di Ekaterinburg del 17 luglio 1918 l’ultimo zar Nikolaj Romanov con la famiglia.
    «Sono belle le sere sul Volga. Dalle rive scendono gli armenti di pecore ad abbeverarsi alla corrente, bianche e luminose, e schiariscono dei loro riflessi l’acqua già violacea».
    Il sanluchese viaggiò per incalcolabili ore in treno e a bordo di vapori e battelli, lungo i tanti e multiformi scali della Madre Volga. Si spinse fino al Caucaso, a Baku – capitale dell’Azerbaigian dopo la dissoluzione dell’URSS –, la città del petrolio, «ossessione del mondo moderno» senza il quale “non è più possibile ormai né pace né guerra, né morte né vita», pensiero unico nelle piazze della città «del fuoco eterno».

    Corrado Alvaro e il desiderio di perdersi in Russia

    Lo scrittore coprì le enormi distanze sovietiche in uno stato di dormiveglia, trasognato, avvinto da un inedito stato d’animo russificante, quasi dimentico di sé e dell’immensità intorno, di una terra «troppo sperduta per essere umana».
    Il viaggio in Russia sortì un curioso effetto in Corrado Alvaro. In più di una circostanza, il calabrese si lasciò solleticare anche da inquiete fantasticherie e desideri d’oblio: «Penso di scendere dal treno, di perdermi in questo spazio che è tutta una strada, trovarmi in qualche luogo a lavorare la terra, nascosto agli occhi di tutti, fra gente remota, e di me non si saprebbe più nulla, via tutto quello che ero ieri, via il passato, via l’avvenire. Cancellarsi e perdersi in un’altra dimensione del mondo. Questo pensiero mi balena più volte durante il viaggio».

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    Un cavallo pascola nella sconfinata steppa russa

    I bisogni e le speranze del popolo

    Il lento e diversificato viaggio gli fu propizio pure per lasciarsi andare a descrizioni di paesaggi, di cieli, di atmosfere, ora europee, ora asiatiche. I lunghissimi prospekt delle città, contornati da grigi palazzoni identici fra loro e inframezzati dalle rovine delle case vecchie, i paesaggi remoti delle steppe e cinti dagli impenetrabili monti, le aree arse e scabre che gli ricordarono i villaggi d’Oriente o un paesello appena sconquassato da un terremoto.

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    Donne al lavoro in un gulag sulle isole Soloveckie

    Nei mesi in Russia, Corrado Alvaro visitò campi collettivi, fabbriche di trattrici, università e accademie, redazioni dei giornali delle fabbriche. Incontrò ufficiali dell’esercito, operai, “kulaki, i braccianti trasformati, dalla sera alla mattina, in operai per rispondere alle esigenze produttive del nuovo Stato – i pochi ancora non risucchiati nell’articolato sistema penale dei gulag che, dalle terribili isole Soloveckie ai campi lungo il fiume siberiano Kolyma, non risparmiava nessun presunto nemico del popolo. Nel solo biennio ’34-’35, secondo i documenti dell’NKVD, il commissariato del popolo per proteggere la sicurezza dell’Unione, il numero dei prigionieri nei vari campi sfiorava il milione di unità.
    E, ancora, vide pastori, artisti, ingegneri, cittadini di estrazione e cultura varia, tutti uniti dal comune sentimento, assai lungi dal lenirsi dopo lunghissimi secoli di fame e subalternità, di aperta ostilità verso la vecchia civiltà borghese. Ma tanto accecati da non vedere il mostro che gli si aggirava dentro casa.

    Memorie da un mondo in costruzione

    Corrado Alvaro parlò ma soprattutto osservò, ché «la vita quotidiana è scritta in viso a quelli che passano». Ascoltò i loro discorsi, le loro esigenze, le loro speranze. Tutto ciò senza cedere al giudizio, ma col solo intento di raccogliere «il maggior numero di memorie» e di incastrarle come tesserine di un puzzle di migliaia di pezzi al fine di consegnare una testimonianza oggettiva della Russia sovietica.
    Eppure, lo abbiamo intuito, di influenze esterne ne avvertì. Lo scrittore ravvisò tutta la precarietà di quel mondo in costruzione, ma pure una forma di pericolo imminente, indefinito ma constante, così vivo sui volti dei russi – già marchiati dal «segno degli anni tempestosi» della Rivoluzione –, così percepibile nell’aria che riportò alla mente del fine intellettuale le letture circa i moti italiani del 1848.

    Corrado Alvaro: La Russia? Atmosfera d’emicrania

    «Guardo dal finestrino le vecchie case di legno della campagna d’un tempo come resti di una vita antica. I boschi di abeti seguitano all’infinito orlando l’orizzonte pallido della lunga sera».
    Attraverso la visita ai vecchi villaggi punteggiati di isbe, alle nuove città senza acquedotti e fognature, ai kolchoz, i campi collettivi, e ai sovchoz, i poderi gestiti dallo Stato, nel suo prezioso resoconto di viaggio lo speciale burgiuà descrisse la vita socialista collettivizzata, il fermento culturale, le folle in piazza, nei teatri, nelle biblioteche, nei circoli culturali; una società viva, in movimento, in cui ogni angolo era buono per un comizio. Lo scrittore non poté non notare i discorsi e le urla, i congressi estenuanti e le disquisizioni interminabili – «un’atmosfera d’emicrania» – che si tenevano dappertutto: nelle piazze, nei salottini, nelle fabbriche.

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    Un congresso del PCUS, il Partito comunista dell’Unione Sovietica

    Attraverso le colonne della Stampa e poi le pagine del suo libro, Alvaro diede il polso di un Paese, la Russia, pieno di contrasti. Di una civiltà traboccante contraddizioni, in attesa di formare una propria identità, una terra d’illusioni e miraggi in cui era facile confondere realtà e finzione. Analizzò i diritti dei lavoratori e delle donne, rifletté sui problemi materiali dell’URSS, pesandoli di minore gravità rispetto a quelli morali e umani che già allora angustiavano l’Occidente. Rimase stupito e scosso dalla scarsissima reperibilità e dei prezzi esorbitanti dei generi di prima necessità – pane, burro, uova, farina, frutti di bosco –, e dell’arretratezza per quel che concerneva lo sviluppo delle infrastrutture.

    L’odio verso gli occidentali

    «I russi, dalla crudezza della loro vita, si raffigurano terribilissime le nostre condizioni; noi di lontano li stimiamo più progrediti; essi noi ingiusti e crudelissimi; ognuno secondo il carattere della sua civiltà».
    Da un lato la società russa concedeva ai turisti privilegi inimmaginabili per il popolo (a fini propagandistici, ovviamente, e frutto spontaneo ma avvelenato di una “stima diffidente” verso gli occidentali). Dall’altro denunciava «le condizioni del proletariato occidentale oppresso dai capitalisti», ché, scrisse Alvaro, «se con l’odio si fa poco nella vita, nell’arte è un buon concime come ogni sentimento forte».

    In vero, screditando il modello occidentale fascista – per i russi, dal lago dei Ciudi, al confine con l’Estonia, e fino alle sponde atlantiche di Lisbona, erano e sono tutti occidentali fascisti –, la monotematica comunicazione di regime della Terra dei Soviet provava a nascondere sotto il tappeto gli enormi problemi locali, esaltando le gesta di un Paese che non c’era, reclamizzando i cambiamenti di un Paese che nelle sue periferie – il Paese vero – non era cambiato per niente rispetto ai decenni precedenti.

    Dal sogno di Lenin all’incubo di Stalin

    Girovagando per l’Unione, Corrado Alvaro tentò inoltre l’impresa di indagare lo spirito dei russi, il loro inscalfibile patriottismo intriso di fatalismo. Ne cercò la fonte scavando, sempre più disilluso, i temi delle emigrazioni interne dagli angoli ultraremoti del Paese, dalla sconfinata steppa ai grandi centri, e del sistema giudiziario sovietico, nazionale e locale.
    Si imbatté nel distacco e totale disinteresse dei russi verso il denaro e il domani – tematiche così calde invece per l’uomo occidentale. Nelle pagine di di Alvaro si parla dell’industrializzazione forzata, dei salari da fame – “addolciti” con le tessere per il pane –, del potere d’acquisto pari a zero, dell’abitudine alle ore straordinarie di lavoro gratuite cui ogni buon Homo sovieticus era chiamato a beneficio della collettività.

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    Lenin e Stalin

    Denunciò a riguardo l’intenzione del governo di creare un novyj sovetskij čelovek, un uomo nuovo sovietico senza interessi privati, «spoglio d’ogni influenza di vita occidentale», sacrificato al fine ultimo del benessere collettivo che sarebbe un giorno giunto. «Se i russi hanno voluto abolire ogni segno della vita privata, vi sono riusciti pienamente».
    «L’arcangelo che liberi l’uomo dal lavoro duro non è venuto e non verrà mai, e le rivoluzioni che promettono il paradiso sono inebrianti per pochi giorni, il tempo in cui l’umanità si prende un’amara vacanza, prima di tornare alle sue leggi».
    Lo scrittore calabrese comprese che il sogno di Lenin di realizzare un comunismo globale era pressoché fallito, che «l’esperimento bolscevico», in mano a Stalin, si era oramai irrimediabilmente deformato. In una frase, riportò con largo anticipo tutti gli squarci di un disegno che sarebbe ufficialmente venuto meno svariati decenni più tardi.

    Russi e calabresi

    Quello di Corrado Alvaro per la Russia non va letto come un fatto così fuori dall’ordinario, bensì una passione che non poteva non accendersi, come ravvisa Francesca Tuscano nel saggio Alvaro tra la Calabria e la Russia. Tradizione e traduzione contenuto in Corrado Alvaro e la letteratura tra le due guerre.
    La cultura arcaica, etica e gerarchica – sotto certi aspetti e in taluni casi anche di stampo matriarcale – dell’Aspromonte di Alvaro, di fatti, era più vicina di quanto non si potesse immaginare a quella ortodossa russa.
    Aspromontani e russi uniti da una comune vita rurale, tradizionale fino all’immobilismo, dalla fierezza con cui affrontavano le difficoltà. Popoli abituati a soffrire, legati dalla visione fatalistica dell’esistenza, dalla capacità a resistere a tutto, alle invasioni, alla povertà, financo dalla loro inclinazione a inserire nei loro racconti particolari sempre un po’ cruenti, dal mescolare assieme vita e morte.

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    Contadini russi all’epoca del viaggio dello scrittore calabrese

    E poi la tradizione migratoria, «l’eterno nomadismo» dei sovietici e la “vocazione” all’emigrazione dei calabresi, popoli amabili e pittoreschi, ospitali e diffidenti, fedeli alla propria civiltà, entrambi.
    Due popoli e due culture così geograficamente lontane ma affini, per ingenuità e quella felicità primigenia che resisterebbe anche agli orrori più belluini, quelli che annienterebbero altri popoli.
    «Nei suoi viaggi Alvaro riuscì sempre a trovare ogni più piccolo segno di umanità in tutte le situazioni, a tutte le condizioni, per quell’amore verso l’uomo e la realtà che possiede chi sa di avere dentro di sé i segni di una civiltà alla quale sa di appartenere. E con civiltà si intende quella antropologica e sociale delle proprie origini».

    Contro i totalitarismi

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    Una vecchia edizione de “L’uomo è forte” di Corrado Alvaro

    Lo scrittore di San Luca non smise di interessarsi alle vicende russe e il mondo sovietico continuò a pulsare dentro il suo petto. Curò, assieme a Raissa Naldi, l’antologia Poeti russi del secolo XX. Tradusse racconti di Fëdor Dostoevskij e Lev Tolstoj. Tessé una collaborazione con Tat’jana, seconda dei tredici figli del grande scrittore di Guerra e pace, e di Sof’ja Tolstaja. Ridusse per il teatro I fratelli Karamazov. Nel 1937 iniziò una collaborazione con Omnibus di Leo Longanesi, incentrata sempre sul globo sovietico. E nell’anno seguente diede alle stampe uno dei suoi romanzi più conosciuti, strettamente legato al viaggio in URSS e ideale conclusione delle pagine russe del ’34: L’uomo è forte.

    Esplicita critica verso il totalitarismo dei regimi – in primis quello, toccato con mano, della Russia di Stalin – e in generale scritto di denuncia «delle condizioni dell’uomo sotto ogni oppressione», L’uomo è forte fu vietato in Germania, mentre in Italia, seppur visto con sospetto, venne diffuso ricevendo addirittura nel 1940 il Premio dell’Accademia d’Italia.

    Corrado Alvaro, la Russia e lo Strega

    L’esperienza in Unione Sovietica ritornò anche nel 1950 nel memoir Quasi una vita, vincitore l’anno successivo del Premio Strega. Alvaro, tutt’oggi unico calabrese ad avere ottenuto il più ambito premio letterario italiano, superò nella finale, cristallizzata come quella della “grande cinquina”, fuoriclasse della scrittura come Carlo Levi, Alberto Moravia, Mario Soldati e Domenico Rea.

    Documento illuminato e di grande valore storico sulla società russa alle porte della Seconda guerra mondiale – o Grande guerra patriottica come viene chiamato, da loro che ne sono usciti vincitori, il conflitto dai russi –, il reportage seguì quelli realizzati negli anni Venti in Francia (Lettere parigine) e nel 1931 in Turchia (Viaggio in Turchia) e confermò la statura di scrittore e intellettuale universale di Corrado Alvaro, reporter cosmopolita, viaggiatore umanista, acuto intuitore delle trasformazioni della società e attento esploratore sempre nel rispetto di realtà antropologiche e culturali trasversali e “altre”; uno scrittore non dimentico delle sue radici e al contempo orientato sempre più in là, alla ricerca di interrogativi e risposte validi a ogni latitudine, per ogni civiltà.

     

  • La Calabria brucia ancora, cronaca (social) di un disastro annunciato

    La Calabria brucia ancora, cronaca (social) di un disastro annunciato

    Alle sei di questa mattina Reggio Calabria era avvolta dal fumo e dall’odore acre degli incendi ancora in corso che hanno divorato l’hinterland cittadino. Nonostante un morto, intere aree distrutte, la costa Viola sfregiata, l’emergenza è ancora in corso. Da tutto il giorno, e ancora mentre scrivo, l’eco dell’elisoccorso e dei canadair che volano senza sosta rimbomba in tutta la città. L’aria è irrespirabile, come lo era ieri e come lo è stata stanotte.

    Se non fosse chiara la dimensione del disastro che sta colpendo la Calabria e la Sicilia, è sufficiente andare a dare uno sguardo alle mappe del fuoco in tempo reale sul sito della Nasa. Non esistono ammende, riparazioni, mea culpa. Colpire un territorio con questi atti che devono essere inquadrati come vere e proprie condotte terroristiche significa causare danni irreparabili e permanenti che causeranno effetti per gli anni a venire. Non solo in termini di salvaguardia di flora e fauna (e basterebbe quello), ma di costi sociali che si riverberano in tutti gli ambiti.

    L’eterna litania sugli incendi in Calabria

    Adesso ricominceremo con le solite litanie circa le cause di questa ecatombe. In un indistinto e maleodorante vociare da bar, la sequela sarebbe più o meno questa, con alla base sempre il vile danaro: accesso ai fondi europei per la riforestazione, compensi per le missioni in emergenza delle flotte aeree dedicate, rigenerazione dei pascoli, lavoro dei forestali (la proposta di privatizzazione di Calabria Verde cade proprio a fagiuolo), riaccatastamento delle aree agricole e/o boschive in terreni edificabili (ipotesi lunare per la legislazione che tutela le aree ambientali), piromania, roghi colposi nati da errore umano e tramutatisi in disastro ambientale, criminalità organizzata e perfino micragnose ripicche tra vicini di casa per ragioni di varia natura tra cui il deprezzamento dei terreni coinvolti per una più conveniente compravendita.

    Un canadair in azione durante gli incendi dell’estate 2021 in Calabria

    Forse ognuno di questi punti contiene un pezzetto di verità. Ma la verità in questo caso serve a poco. Le indagini per il disastro del fuoco dell’estate 2021 in Aspromonte si sono chiuse con un nulla di fatto. Nessun colpevole, ma un rimpallo di eventuali responsabilità la cui scia arriva al fuoco di oggi, giorno in cui piangiamo un morto, diverse abitazioni minacciate, interi poderi divorati dalle fiamme, boschi ridotti in cenere, linee ferroviarie e arterie stradali interrotte.

    Gestire (male) l’emergenza, nulla più

    Ma il senso vero, la desertificazione delle aree interne, dei costoni di montagna, lasciati alla rovina dell’abbandono, battuti e vissuti più da nessuno, senza coltivazioni, senza uomini che le preservano, non si azzarda a tirarlo fuori nessuno. Parliamo del massimo comune denominatore che rende queste catastrofi sempre più drammatiche.
    Non c’è nessuno che abbia interesse a preservarle e tutelarle se non come cocci di una bomboniera che è comunque andata in frantumi. Territori senza uomini e vallate deserte continueranno a subire questa sorte perché nessuno ha la lungimiranza di programmare strategie adeguate e di lungo termine. Non ci sono droni che tengano. Ci si limita a cercare di gestire – male – l’emergenza. Fin quando non ci sarà più nulla da gestire.

    https://www.facebook.com/rbocchiuto/videos/266892979396507

    Nel frattempo in queste ore non ho sentito un politico, che sia uno, spendere una parola, manifestare solidarietà, o annunciare provvedimenti concreti. In compenso abbiamo tutti visto i video social del presidente Occhiuto alle prese con i droni davanti a una stazione di monitoraggio video. Ma si sa che oggi vale in comunicazione quella strana legge per cui un esempio, che è poi il pallido simulacro di una realtà falsa e distorta, diventa per antonomasia la scopa politica paradigmatica con cui mettere il resto della polvere sotto un tappeto di vuota sostanza. Il medium è andato ben oltre il messaggio.

    Terrorismo e social network

    Vorremmo invece vedere pienamente applicato l’articolo 423 bis del codice penale, inasprito con il DL 120/2021, che punisce gli atti incendiari boschivi con al reclusione da 5 a 10 anni. Vorremmo la certezza della pena, vorremmo indagini approfondite capaci di individuare e punire aspramente chi colpisce il nostro futuro. E non basta: vorremmo che, per la rincorsa che hanno preso gli stravolgimenti climatici che continuano ad essere negati da personaggi come il ministro Salvini (basta scorrere i suoi ultimi post social), simili atti fossero equiparati ad atti terroristici.
    Vorremo questo e tanto altro. Vorremo, ma ci limitiamo a postare.

  • Il reale senza reality: il mio Marc Augé

    Il reale senza reality: il mio Marc Augé

    Era il 2006. In quell’anno recensivo su Diario della settimana il primo romanzo scritto da Marc Augé. L’antropologo e pensatore francese era già noto in tutto il mondo per il successo del suo libro più famoso, quello sui non luoghi. Non un saggio dei suoi più fondamentali quindi, ma un’opera di narrativa, apparentemente eccentrica. Una storia anarchica e antiretorica, lieve e profonda, intessuta d’ombre, gentile e libertaria, come era lui. Il libro fu tradotto e pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri (2005). Si intitolava La madre di Arthur. Era un romanzo teso come un noir che in realtà era un apologo sulla libertà e l’immaginazione, temi molto cari e sfondo ideale di tutto il pensiero di Augé.

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    Un giovane Arthur Rimbaud

    L’amico (non) ritrovato

    Vi si raccontava di un antropologo parigino scapolo impenitente e in crisi col proprio lavoro, con i viaggi, le relazioni, la vita quotidiana – Jean, lo stesso Augé – che cerca ad un certo punto di risalire alle ragioni dell’intricata sparizione di Nicholas. Nicholas è suo amico dall’infanzia ed è scomparso. Docente universitario come lui, alter-ego e compagno di lotte politiche giovanili, Nicholas fa perdere le sue tracce in una fuga improvvisa e misteriosa come quella di Rimbaud in Africa. Jean si mette allora sulle poche impronte lasciate in giro dall’amico, convinto che il suo «complice di sempre» gli abbia intenzionalmente consegnato degli indizi da decifrare.

    Marc Augé, il cui talento letterario e narrativo era già godibile nei suoi testi più noti, assumeva in quel libro forme più originali e persuasive, fuori dal classico armamentario di servizio del lessico oggettivo proprio della scrittura argomentativa da studioso sul campo. Dal saggio al romanzo, dall’analisi al plot, è il salto di genere che Augè compie con gustoso e partecipato divertimento. L’amico Nicholas, acuto studioso di Rimbaud e autore di un’eterodossa quanto misconosciuta biografia del poeta, decide improvvisamente e senza apparenti ragioni di non dare più notizie di sé alla moglie Isabelle e alla signora Duprez, la tirannica madre di lui. La moglie allarmata si rivolge a Jean, ex sessantottino, libertino, ex docente universitario di etnografia, amico e complice del marito, perché la aiuti a ritrovare Nicholas.

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    Gli aeroporti sono tra i non-luoghi descritti da Marc Augé

    Un’odissea minore tra aeroporti e metropolitane

    La madre di Nicholas indispettita dalla fuga del figlio fornisce a Jean la traccia di pochi indizi criptici che orientano le ricerche lontano da Parigi, verso l’amore per un’altra donna e una seconda vita in un eden caraibico. Inizia così una sorta di Chi l’ha visto? la cui trama gialla si aggrappa agli specchi simbolici di una realtà diffratta, tra chiose autobiografiche e bizzarrie che intrecciano le ipotesi sulla fuga di Jean a un ricalco della spericolata biografia di Rimbaud.

    Ruminata nel ventre surmoderno di una Parigi che appare agli occhi dei suoi protagonisti una metropoli ormai troppo ovvia per essere vera, e che invece Augè sa raccontare ancora con crudele e svagato acume antropologico, la fuga dell’amico apre sulla realtà uno sguardo a giro d’orizzonte. Jean si sposta avanti e a ritroso. È l’occasione per ricapitolare le proprie vite, mescolate alla quotidianità etnografica di un’odissea minore che si compie tra aeroporti e metropolitane, facce e incontri interrogativi, in mezzo a periferie e location turistiche colte nella banale e smagata visione di un contemporaneo anodino e dislocato.

    In fuga con Rimbaud

    La storia ordita da Augè resta leggera e narrata con stile e abilità. Mantiene nel suo sviluppo un profilo volutamente basso e antiretorico attraversato da un’ironia lieve e da uno spleen amarognolo, senza però rinunciare a colpi di scena e capovolgimenti di prospettiva piacevoli e imprevedibilmente letterari. La storia ancora una volta si chiarifica altrove, in un viaggio, esperienza chiave della scoperta di sé, ultima frontiera intima della lucida teoresi di un Augé che si immerge nella solitudine affollata del mondo globalizzato. La verità sulla sorte dell’amico cercato da Jean ritorna in luce rivelando una condizione sgradevole e spiazzante: «Rimbaud non ha mai smesso di fuggire, di scappare».

    Perché scappava Rimbaud? E perché scappa Nicolas?, l’amico-ombra di Jean, alter ego vicario dell’Augé narratore che ne segue le mosse? La domanda vale per tutti e la risposta e di quelle che oggi ci fanno problema: per evadere dalla “mediocrità soddisfatta” e dall’ipocrisia di un “eterno presente” senza più bellezza, senza speranze e senza miti. È già qui il succo anarcoide e sulfureo dell’etnografia del sé di cui parlava l’Augé di questi sui ultimi tempi di eclissi. Fine della società post-moderna, avvento del relativismo e della società “senza finalità”. Non resta che tagliare la corda come ha fatto Nicholas, sottrarsi, scompaginare i piani, sfuggire al conformismo, come in un verso araldico di Rimbaud: “Ho avuto ragione in tutti i miei sdegni, poiché io evado! Evado!”.

    Marc Augé

    Marc Augé contro ogni conformismo

    Con questo apologo Augé sembra dirci che brancoliamo ormai nella confusione, nel caos e nel pericolo del post-tutto. Neanche gli antropologi sanno più che pesci pigliare. Il diritto alla diserzione amorosa, l’altrove (persino l’esotico volgare dei turismi di massa post-tsunami) sono forse l’ultima frontiera che resta per immaginarci diversi da un mondo oscuro e «de-realizzato», avvolto da quell’angoscia «apparentemente priva di oggetto» che avvelena il nostro senso del tempo.

    Il rimedio è uno solo, etico: «Strappati al collante della storia, che ti coinvolge in azioni cretine o cruente, menzogne, apparenze, sproloqui». Anche se in fondo «non è possibile sfuggire alle proprie origini e tutto sommato è più facile allontanarsi fisicamente che col pensiero». Ma resta sempre la libertà, la scelta estrema: «Una volta messa la propria vita a distanza… ritirarsi, assentarsi». Contro ogni conformismo: «Si doveva, si deve essere screanzati. Senza delicatezza. E scappare. Scappare via, sparire, rimanere lì forse, non tanto distante, ma invisibile, testimone sarcastico e stupito della propria scomparsa».

    Etnofiction

    In questo libro divertente e pensoso l’antropologo si trasforma in un autore narrativamente e umanamente atipico. Augé infatti smesso armamentario di servizio dello studioso sul campo e il lessico depurato dei taccuini di ricerca, con questo libro, aggiungendo più gusto di verità e il suo amore per il paradosso, ha saputo testimoniare in altro modo la perdita di predittività delle scienze umane e smonta dal di dentro le argomentazioni presuntamente oggettive e non falsificabili dell’antropologia classica. Augé ha coniato per questo suo modo di raccontare il termine di etnofiction, per definire le narrazioni ibride come quelle apparse successivamente in Diario di un senza fissa dimora e La Guerra dei sogni. Esercizi di etno-fiction.

    “Diario di un senza fissa dimora”, un libro di Marc Augé

    Il reale senza reality

    Augè insieme a pochissimi altri grandi francesi, pensatori e scrittori eretici, come Victor Segalen, Michel Leiris e lo stesso Levi Strauss di Tristi Tropici, ha saputo a suo modo rinnovare la cifra di un genere ibridando sapientemente antropologia e letteratura. Ci lascia un narrare con metodo etnografico che affascina per intelligenza e sapore di verità, distante anni luce dal compiaciuto e ruffiano egotismo bellettrista di certi pensatori nostrani.
    Non resta dunque che raccontare. Ciò ci rende felici, come spesso accade, o infelici, succede sempre anche questo; ma raccontare è rifare la traccia umana di qualcosa che resiste e che regge come un fatto che non sopporta di essere ridotto a interpretazione. Come un reale che non ha voglia di svaporare in reality. «Oggi è grazie alla mescolanza dei generi che passa il consenso alla schiavitù».

    Ma questa non è più certamente un’etnofiction. Come profetiche e umanissime restano altre parole che Augé consegnava a questo suo libro confessione: «Anch’io ho paura… Capita che un nonnulla – una parola, un gesto – scateni uno stato di allerta, un’attesa tanto più angosciante quanto più è apparentemente priva d’oggetto».

    L’intera parabola percorsa da Marc Augé è stata illuminata da questa sua “disubbidienza” intellettuale trasformatasi via via anche in lezione civile. Per indicare infine l’antidoto non nel primato di una qualche scienza, ma in una sensibilità culturale neo-illuminista, che riarma il pensiero libertario, l’arte e la poesia contro il primato delle cosmotecnologie, contro una condizione che vede l’individuo e la sua libertà sottomesse e soccombenti in una società caratterizzata dall’eccesso, dal caos, dal pericolo, in un mondo ormai quasi del tutto «de-realizzato». Avvolto da quell’angoscia «apparentemente priva di oggetto» che avvelena il nostro senso del tempo.

    In Calabria con Marc Augé

    Per me che ho avuto l’onore di conoscerlo e di ottenere col mio lavoro le sue attenzioni di studioso e di amico, Marc Augé è stato un maestro insuperato. Non solo come etnografo e antropologo, come narratore anarcoide e controcorrente di storie umane lievi e profonde. Ma anche, e non certo secondariamente, come persona. Un uomo indimenticabile, sempre discreto, generoso, ironico, curioso e gentile. Scrisse per un mio libro una prefazione, un contributo al mio lavoro di studioso che per me fu e resta un riconoscimento sbalorditivo per generosità e acume critico. Fui due volte sua guida per altrettanti memorabili viaggi per convegni e scorribande etnografiche, immersioni divertentissime e profonde che facemmo insieme, in auto, sulle strade e sui luoghi della Calabria.

    Ora che è mancato, a distanza di anni, considerata la fuffa parascientifica e paraletteraria che circola oggi da queste parti, consiglio a maggior ragione una attenta rilettura di ogni suo libro e contributo intellettuale. Tutto il suo immenso lascito culturale, filosofico e scientifico è una miniera di intelligenza e originalità di pensiero, un patrimonio da compitare scrupolosamente. Ogni suo scritto è effetto e conseguenza di una caratura intellettuale assoluta, fuori dell’ordinario, che è caratteristica tipica della genialità unita alla più autentica disposizione umana. La stessa che illumina quel suo primo eretico romanzo, così penetrante e appassionato di umanità. Solo i grandi come lui hanno avuto l’umiltà di scrivere senza citarsi e la grandezza di saper rimanere dietro le parole.

  • Silvestra Sesini, dagli orrori nazisti all’amore per Siderno

    Silvestra Sesini, dagli orrori nazisti all’amore per Siderno

    Cum panis… condividere lo stesso pane: il titolo calzante per lo scritto di Antonella Iaschi e per la serata dedicata a Siderno alla memoria di una donna. Si chiamava Silvestra Tea Sesini e ha vissuto più vite, ma con una costante: la condivisione col prossimo delle sofferenze, delle lotte, delle vittorie e delle sconfitte. Da antifascista, da partigiana, da attivista nella politica e nel sociale dopo la débacle del regime. Fino agli ultimi anni passati, lei nata a Biella come Silvia Francesca Luigia Tea, a Siderno.

    L’incontro è stato voluto dalla sezione ANPI insieme alla Federazione Italiana Teatro Amatori e all’associazione Il Gabbiano, col patrocinio del Comune di Siderno rappresentato dall’assessora Francesca Lopresti. Dopo l’introduzione di Federica Roccisano, la scena l’ha dominata in modo sublime l’attrice Daniela Bertini, con la regia di Daniele Matronda. Grande merito va attribuito ad Antonella Iaschi, poetessa e scrittrice che, come Silvestra Sesini, ha scelto di lasciare il Nord Italia per venire a vivere a Roccella Jonica.

    Il marito, l’amica e i nazisti

    Il suo testo – liberamente tratto da scritti della stessa protagonista, di Rosalba Topini e di Domenico Romeo – si apre con lo sguardo di Silvestra che scruta il mare. Pensa al marito Ugo Sesini, ebreo antifascista che finì i suoi giorni nel 1944 a Gusen, dopo l’internamento a Mauthausen.
    «Padre del mio unico figlio, compagno di vent’anni della mia vita», così lo ricorda Silvestra nella versione di Antonella Iaschi. «Sapessi, Ugo, quanto è stato difficile, continua, (…) rapportarmi con un figlio orfano senza fargli mancare il padre, senza fargli sentire la mia solitudine».

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    L’ingresso del campo di Mauthausen

    Poi la mente di Silvestra si volge all’amica Anna Maria Enriques, chiamandola con il cognome paterno negatole dalle leggi razziali. «Compagna di studi, di stanza, di ideali, di conquiste, di paure e di dolori, donna e partigiana disarmata, lottatrice coraggiosa che nemmeno le più atroci torture naziste hanno piegato».
    Antonella Iaschi rende bene lo struggimento della partigiana Silvestra Sesini che scrive «sulla battigia due date: i giorni in cui vi ho perso per sempre fisicamente, ammazzati come bestie dai nazisti, ma un’onda più saggia le ha cancellate (…) quelle date non sono nulla nel calendario delle nostre vite. Il ricordo delle ore trascorse insieme è il campo che ho a disposizione per coltivare frutti buoni. Per la cancrena nazista ho perso il vostro corpo, i vostri sguardi, i vostri abbracci, la vostra voce, ma non la forza di portare avanti i NOSTRI valori».

    Condividere lo stesso pane

    Silvestra – Antonella è tormentata. Non è sicura che quello successivo alla Liberazione sia stato e sia un tempo di pace effettiva, o solo un’apparenza. «(…) in realtà quella Pace non è mai nata se ancora esistono la fame e gli stenti, l’ignoranza e la sottomissione alla violenza sia nelle case che nelle strade. Se ancora nel mondo esistono decine e decine di guerre altre. In realtà quella libertà è un’apparenza e lo sarà fino a quando un solo bambino, un solo essere umano dovrà patire sopraffazioni e stenti».

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    Silvestra Tea Sesini

    Solo la morte riesce a separare le due amiche. Silvestra Sesini, grazie a «un provvidenziale trasferimento all’infermeria di Regina Coeli» prima della fucilazione, si salva. «La tua sorte, invece, ha calato la sua falce arrugginita sui tuoi 37 anni (…). (Le SS) ti hanno ammazzata con la pistola insieme ad altri partigiani. Tu che avevi scelto l’Amore e la Resistenza disarmata».
    Per sopravvivere al dolore immenso della morte di due persone così care e vicine, Silvestra sceglie l’unica strada che sente sua fino in fondo, di fare ciò che può rinvigorirla e in parte consolarla: «Ogni giorno della mia vita è e sarà impegno, devoto agli ideali e disobbediente all’indifferenza. Come eravamo noi. Cum panis. Condividere lo stesso pane».

    Silvestra Sesini e Siderno

    Ed ecco, infine, l’approdo di Silvestra Sesini a Siderno, nel 1958. Nelle parole che Antonella Iaschi attribuisce a Silvestra, tutto l’amore per questa terra. E certo non è un caso che, ispirandosi a Silvestra, a scriverle sia una donna che ha sperimentato la stessa emigrazione “al contrario”.

    «A inizio estate qui al Sud l’erba è già imbiondita ma ancora non è bruciata dal sole, i fichi d’India sono puntellati di fiori gialli, i gelsomini sbocciano per le mani veloci delle raccoglitrici mentre decine e decine di fiori spontanei crescono indisturbati. Se questa terra non fosse dimenticata dallo Stato, maltrattata da persone senza scrupoli, e tenuta nell’ignoranza da un sistema scolastico non sufficiente, le sue bellezze la farebbero diventare uno scrigno d’oro. Come d’altronde era un tempo.

    Qui il destino mi ha concesso di nuovo l’emozione grande di incontrare chi non avendo nulla, nemmeno i diritti primari, ti apre il cuore e si affida, senza sapere che sei tu ad affidarti a lui. La gente che si ferma a parlare con me per le strade, in piazza, al mercato, che mi racconta i propri problemi mi ha fatto diventare semplicemente e unicamente Silvestra, una di loro. (…) Questi cieli infinitamente blu, questo mare che sa essere piombo, smeraldo, ametista e turchese, questo arenile dove ogni orma mi dice “sei viva, vai avanti,” mi hanno regalato la consapevolezza di quello che ancora vorrei. È stato talmente facile innamorarmene e decidere di restare».

    Il testamento di Silvestra Sesini

    Ormai anziana, Silvestra Sesini esprime la sua volontà ultima, dando l’ennesima prova di come il nostro andrebbe conservato come mare di vita – non di morte come accade troppo spesso – per come riesce a penetrare nell’anima delle persone che gli si avvicinano: «Voglio che la mia tomba sia rivolta verso il mare. Sì, questo è il mio testamento. Affido ai Sidernesi il mio desiderio di guardare ancora una volta, anzi per sempre, il mare».

  • Primo memorial Renato Morrone: vince la Renovo

    Primo memorial Renato Morrone: vince la Renovo

    La Renovo vince il primo memorial “Renato Morrone”. Il torneo, che si è disputato nel palazzetto dello sport di Casali del Manco, ha ricordato una figura simbolo dello sport in Presila. Renato non è stato solo un presidente di squadre di calcio, ma soprattutto un promotore appassionato della cultura dello sport nella sua migliore accezione. Quella che porta con sé valori come lealtà, amicizia, rispetto, dialogo e sana competizione. Ci ha lasciati troppo presto ma il suo ricordo non muore. Renato è sempre stato in prima linea per la sua comunità.

    A premiare le squadre sono stati la moglie Maria Pia Imbrogno, i suoi figli Stefano e Fabrizio.

    I vincitori del torneo in foto con la famiglia di Renato Morrone e con il consigliere comunale De Luca

    La finale ha visto prevalere la Renovo per 10 a 8 sugli Spinnati. Terzo posto per Aston Birra. Tanta ironia e sano divertimento, conditi anche da sprazzi di bel gioco, hanno animato questa competizione.

    Il torneo è stato organizzato dal presidente della Casali del Manco Futsal, Daniele Cuconato, con il patrocinio del Comune di Casali del Manco. Alla premiazione era presente anche Fernando De Luca, consigliere comunale con deleghe anche all’Urbanistica e lavori pubblici, Pnr e finanziamenti europei.

    «Siamo felici che un torneo ricordi mio padre, un uomo che ha sempre creduto nei valori dello sport. Ci auguriamo che questi ragazzi possano continuare a giocare con passione e raggiungere ottimi risultati. Grazie al presidente della Casali del Manco Futasl, Daniele Cocunato, che ha organizzato il torneo e ha voluto ricordare nostro padre».

    Sono parole espresse dai familiari di Renato Morrone.

    «È stato un bellissimo torneo, – ha commentato Daniele Cuconato – in cui anche la comunità locale ha fatto la sua parte accorrendo numerosa nel corso del torneo. Visto il bel rapporto che si creato con la famiglia Morrone sarà nostra cura come società mantenere vivo il torneo nel corso dei prossimi anni».

    Daniele Cuconato (presidente del Casali del Manco Futsal) e Stefano Morrone

    «In merito alla squadra Casali del Manco futsal – sottolinea Cuconato – anche quest’anno, per il quarto di fila consecutivo, disputeremo il campionato nazionale di serie B, la stagione si preannuncia come sempre difficile quando si ci affaccia in ambito nazionale. I nostri obiettivi sono continuare a fare crescere i giovani che abbiamo in rosa ed eguagliare gli ultimi due anni in cui abbiamo disputato i play off per la promozione in A2, continuando avvicinare la comunità sempre di più alla nostra società e alla nostra squadra».

  • A lezione di storia nella villetta comunale di Firmo

    A lezione di storia nella villetta comunale di Firmo

    “Come pensare e scrivere un libro di storia”. È questo il titolo dell’incontro in programma il 27 luglio alle ore 20:30 nella villetta comunale di Firmo, in Arbëria.
    Durante l’incontro interverrà Vincenzino Ducas Angeli Vaccaro, autore di Onomastica dei Greco-Albanesi del Regno di Napoli e di Sicilia. Secoli XVI-XVIII. Origini e sviluppi negli insediamenti. Cenni di toponomastica.
    Parteciperanno, oltre all’autore del libro, anche Pino Bosco (sindaco di Firmo), Gianfranco Castiglia (dottorando di Ricerca all’Unical), Attilio Vaccaro (Docente di Storia Medievale all’Unical), Antonello Savaglio (deputato di Storia Patria per la Calabria).

  • Zes unica per il Sud: derby in maggioranza per Giorgia Meloni

    Zes unica per il Sud: derby in maggioranza per Giorgia Meloni

    Alzi la mano chi, almeno per un attimo, non abbia subito pensato alla vecchia Cassa per il Mezzogiorno nell’apprendere della disponibilità dell’UE a valutare l’estensione del regime di favore delle Zes (Zone Economiche Speciali) a tutto il Mezzogiorno.
    Occorrerà del tempo, certo, per mettere a fuoco le tante questioni di merito che questa Zes Unica per il Sud, inevitabilmente, solleva sul piano delle politiche di attrazione degli investimenti.

    Zes Unica per il Sud: chi comanda però?

    Una prima questione, affatto secondaria, sembra tuttavia emergere sul piano della coerenza politica dello strumento.
    La domanda è: ma perché un governo che punta sull’autonomia differenziata (Lega e Salvini in primis) sceglie di virare su uno strumento centralista e dirigista come la Zes Unica (voluta fondamentalmente dal ministro Fitto e quindi da Fratelli d’Italia)per il Sud?
    E in tale scenario, le Regioni del Sud, che prima avevano le loro Zes, continueranno ad avere dei ruoli di definizione e governance delle politiche di attrazione e semplificazione? O, piuttosto, saranno chiamate ad una mera esecuzione di uno spartito immaginato a Roma e/o a Bruxelles?
    Ce n’è davvero tanta di incertezza da superare.

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    Le attuali Zes in Italia

    Il derby nella maggioranza: dirigisti vs liberisti

    L’impressione è che, conclusasi la luna di miele post elettorale, comincino a cristallizzarsi quelle differenze di fondo che, comunque, la coalizione legittimamente esprimeva ed esprime.
    La mia impressione è che un derby dirigisti-liberisti appaia chiaramente profilarsi all’orizzonte perché, così come già sta accadendo su Giustizia e Fisco, anche la questione dell’autonomia differenziata non fa impazzire di gioia il maggiore partito dell’alleanza e cioè Fratelli d’Italia. Partito che, sempre più chiaramente, tende a raffreddare gli eccessi liberisti della Lega e, in misura meno accesa, di Forza Italia.

    Zes Unica per il Sud: la sfida perfetta

    Chi definisce la politica industriale? Il governo centrale, sentiti i territori, o saranno i territori a farlo magari in coerenza con le scelte già adottate, ad esempio nei partenariati della programmazione europea 2021/27?
    Risposte non semplici anche perché, alla vigilia delle elezioni europee che saranno, come noto, su base proporzionale, nessuno ha voglia di sbagliare messaggio al proprio elettorato di riferimento.
    La Zes Unica per il Sud è la sfida perfetta: centralismo vs regionalismo, statalisti vs liberisti, Fratelli d’Italia vs Lega e Forza Italia.

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    Il porto di Gioia Tauro è la Zes calabrese

    Semplificazione e strategia

    E la sinistra? Abbastanza incredibilmente il PD, a giudicare almeno da una dichiarazione del capogruppo alla Camera, sembrerebbe non gradire l’annuncio centralista del ministro Fitto accusando, piuttosto, il governo di ritardare colpevolmente, da mesi, l’istituzione della Zona logistica semplificata della Toscana.
    Il che sembrerebbe legittimare un giudizio negativo verso le Zes Uniche per il Sud.
    Insomma una situazione tutta in divenire alla quale occorrerà dedicare la giusta attenzione nei prossimi mesi. Di sicuro il Sud ha bisogno di attrarre investimenti e di dotarsi di procedure autorizzative semplificate.
    La speranza è che nell’ansia della semplificazione non si dimentichi il disegno strategico complessivo della politica industriale al Sud.
    Spesso è accaduto.

  • Fondazione Giuliani: il Tribunale dà ragione al Cda

    Fondazione Giuliani: il Tribunale dà ragione al Cda

    Riceviamo e pubblichiamo:

    *****

    Con provvedimento pubblicato oggi, 19 luglio 2023, la XVI sezione civile Imprese del Tribunale di Roma ha respinto il ricorso presentato nei mesi scorsi dall’ex presidente, Francesco Pellegrini, con cui aveva chiesto di sospendere la delibera del 17 giugno 2022 di costituzione del nuovo Consiglio di Amministrazione della Fondazione “Attilio e Elena Giuliani” ETS, dopo le dimissioni dei precedenti consiglieri dovute al manifestarsi di insanabili divergenze sulla inefficiente modalità di gestione delle attività istituzionali e risorse da parte dell’ex presidente.

    Il provvedimento, per la sua chiarezza e completezza, non necessita di specificazioni o integrazioni di qualunque natura.
    È doveroso però evidenziare che il Tribunale di Roma, recependo integralmente le ragioni sostenute dal Cda in carica – presieduto da Walter Pellegrini e composto dai consiglieri Giovanni Gambaro, Linda Catanese, Francesco Kostner e Mario Occhiuto – fa piazza pulita di chiacchiere, insinuazioni, ricostruzioni fantasiose, affermazioni azzardate e finanche offensive, apparse senza soluzione di continuità su alcuni mezzi di informazione.
    Così come ha fatto finora, con serenità e fiducia, la Fondazione “Attilio e Elena Giuliani” attende che il Tribunale competente si pronunci ora in merito agli altri punti oggetto di contenzioso, anch’essi, al pari di quelli posti al vaglio del Tribunale di Roma, corroborati da documenti e atti inoppugnabili.

    La Fondazione “Attilio e Elena Giuliani” continuerà ad operare affinché gli auspici del suo Fondatore, Sergio Giuliani, al quale rinnova la propria gratitudine, e gli obiettivi programmatici e gestionali posti a fondamento del suo operato, vengano raggiunti, nel superiore interesse della città e del territorio.

    Fondazione “Attilio e Elena Giuliani” ETS

  • Occhio alla penna: se il giornalista lavorava per la ‘ndrangheta

    Occhio alla penna: se il giornalista lavorava per la ‘ndrangheta

    «Sono Giuseppe Talotta e mi voglio costituire». Così esordiva il broker della cocaina presentandosi al carcere di Massa Carrara nel 2015 e interrompendo una breve latitanza di alcune settimane. Il 47enne all’epoca era ricercato dalla Dda di Genova e da quella di Reggio Calabria. Diversi i mandati di cattura a suo carico per una serie di procedimenti giudiziari che lo vedevano coinvolto in un maxi giro di cocaina che dal Sud America arrivava al porto ligure e in Calabria.
    Basterebbe quella frase del narcotrafficante della ‘ndrangheta – agiva per conto del potente clan degli Alvaro di Sinopoli – per evidenziare la particolarità della sua singolare storia, ma c’è altro. Nei giorni scorsi la Cassazione, accogliendo parzialmente il suo ricorso, gli ha concesso il riconoscimento della continuazione dei reati e stabilito. La pena definitiva da scontare sarà di 16 anni e 8 mesi di reclusione.

    La condanna nei giorni scorsi

    Il medesimo disegno criminoso tra i processi di Genova e Reggio Calabria che i giudici di Piazza Cavour hanno sancito definitivamente ha consentito a Talotta di non avere in sede di esecuzione la somma aritmetica delle due condanne (12 e 16 anni). Gliene tocca una sola, calcolata partendo da quella maggiore e aumentata per alcune aggravanti. Questo prevede l’istituto giuridico della continuazione del reato, articolo 81 del codice penale, che può essere applicato a “chi con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di legge”.

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    La Corte di Cassazione

    L’uomo, forse anche stanco di quella vita criminale, si era costituito spontaneamente alle autorità. E non furono in pochi a stupirsi per le modalità scelte. Giuseppe Talotta decide di bussare letteralmente alle porte del carcere. E lo fa da solo, senza nemmeno il suo avvocato, come se non ne potesse più di certe situazioni. Non si è mai pentito, quindi non si conoscono le motivazioni della sua scelta. Ma nel carcere di Genova, dove poi lo trasferiscono, uno dei principali broker della cocaina dei feroci Alvaro fa una scoperta che gli cambierà la vita. Quella in carcere, ovviamente.

    Dalla coca all’editoria: Ristretti orizzonti

    Al Marassi – il penitenziario a due passi dallo stadio Ferraris – di Genova c’è un gruppo di detenuti che si occupa di qualcosa di speciale e che si può trovare solo in altri due istituti penitenziari italiani: una rivista. Il periodico, Ristretti orizzonti, lo affascina ed entusiasma a tal punto che in pochi anni diventa uno degli articolisti più prolifici e uno dei coordinatori più importanti.

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    Il carcere di Marassi a due passi dallo stadio di Genoa e Sampdoria

    C’è una ‘ndrangheta che scrive, dunque, e lo fa su un giornale vero e proprio. La più enigmatica organizzazione criminale d’Italia aggiunge un’altra sfaccettatura alle mille che già ha. Ristretti orizzonti, bimestrale, ha la sua redazione centrale nel carcere di Padova e due decentrate nei penitenziari di Parma e Genova.
    L’unica differenza con un periodico convenzionale è rappresentata dalla gerenza, dai nomi di chi coordina e scrive. Sì, perché invece di Enzo Biagi o Indro Montanelli alcuni articolisti e coordinatori si chiamano Giuseppe Talotta, Carmelo Sgrò o Domenico Papalia: nomi “pesanti” di narcotrafficanti e boss di ‘ndrangheta.

    Colpevoli anche di scrivere?

    L’iniziativa, più che meritoria, è partita nel 1998, e negli ultimi anni ha fatto parlare parecchio di sé. Alcune testate nazionali di recente hanno battagliato non poco dopo la denuncia di un’associazione alla Dia. Oggetto dello scontro era il fatto che tra gli articolisti della rivista da un po’ di tempo si erano aggiunti anche detenuti in regime di 41 bis.
    Ma al di là del dibattito, delle denunce e dei controlli, la rivista prosegue le sue pubblicazioni. Parla del pianeta carcere, racconta le mille problematiche degli istituti penitenziari italiani e l’intero ordinamento come emerge anche da relazioni ufficiali di organi governativi e da articoli di giornale. Solo che Ristretti orizzonti fa parlare di carcere direttamente i detenuti e questo non va giù a tutti.

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    Riunione in una delle redazioni di Ristretti Orizzonti (dalla pagina Fb della rivista)

    In realtà, il punto di vista di chi vive determinate condizioni può essere molto utile. Tanto più quando si parla di riforme carcerarie che nulla hanno a che fare con i reati commessi e le pene da scontare. Un carcere più in linea col dettato costituzionale (la pena deve tendere alla rieducazione del detenuto) aiuterebbe il sistema giustizia italiano e quindi anche la sicurezza delle città. Il dibattito resta aperto.

  • Le Invasioni degli ultraflop

    Le Invasioni degli ultraflop

    C’era La Niña (e non solo) e cantava anche bene: tanto di cappello alla sua virata finale sull’acustico, scelta intelligente vista l’esiguità dei presenti.
    C’era pure la pinta: con 5 euro potevi prenderne una di birra fresca in una Villa vecchia con quasi più bagni chimici che avventori, a pochi metri da una pleonastica distesa di forze dell’ordine intente a controllare il deserto.
    Ma nemmeno la Santa Maria avrebbe potuto compiere il miracolo di riempire piazza XV marzo a Cosenza venerdì per la seconda serata del redivivo Festival delle Invasioni. Non c’era riuscita, d’altra parte, nemmeno la laica quanto magica parola capace di attrarre a tutte le latitudini masse da ogni dove: gratis.
    Conferma inequivocabile che Cosenza e l’arte vivono da tempo una relazione complicata.

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    Polizia stradale, provinciale, municipale, Carabinieri, Finanza e ambulanza alla Villa Vecchia di Cosenza per Invasioni

    Top of the flop

    Il “dramma della solitudine” si era consumato già la sera prima, con una diserzione di massa epocale: meno di 30 biglietti venduti e Rendano Arena – così avevano ribattezzato l’area ai piedi della statua di Telesio per l’occasione – che, complici le temperature, ricordava più il Sahara che un concerto in piazza. Un risultato per Cosenza paragonabile in altri ambiti solo a successi come il primo viaggio del Titanic o al Mineirazo ai Mondiali brasiliani del 2014.
    Così da Palazzo dei Bruzi avevano provato a mettere una pezza a poche ore dal probabile secondo, tragico, vuoto: niente più biglietto da pagare e ingresso libero come in tante edizioni del passato. Toppa tardiva e, secondo molti, peggiore del buco. Comunque di dubbia utilità: queste Invasioni a Cosenza avevano fatto storcere il naso prima ancora che cominciassero, tant’è che gli spettatori sono sì decuplicati rispetto alla sera prima, ma sempre 2-300 (poliziotti, infermieri e artisti inclusi) in tutto saranno stati i presenti nei momenti di piena.

    Il Comune di Cosenza: Invadete Invasioni!

    Il primo a temere il fiasco era stato, su queste stesse pagine, il consigliere comunale di Cosenza che più si era impegnato nell’organizzazione di queste Invasioni, Francesco Graziadio. Avvertiva «una certa diffidenza per i nomi non proprio conosciutissimi» nei giorni scorsi e non si sbagliava. Impossibile non notarlo lì in prima fila, la birra mezza vuota, appoggiato alle transenne con sguardo sconsolato.

    Attorno a lui nessun big dell’amministrazione, soltanto quei pochi cittadini che avevano risposto al disperato appello sui social del Comune di poche ore prima seguito al flop di giovedì sera: «Oggi è importante che sia la nostra città ad invadere il suo festival, riscoprendo non solo le avanguardie musicali presenti in cartellone, ma soprattutto facendo proprio un appuntamento che acquista il suo senso solo grazie alla presenza e alla partecipazione».

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    Francesco Graziadio ai piedi del palco durante il concerto de La Niña

    Tutta colpa del biglietto?

    L’appuntamento con l’acquisizione di senso al momento è rimandato al 2024, presenza e partecipazione hanno optato per altri programmi serali. In compenso, non mancherà il tempo per riflettere su una serie di errori da non ripetere in futuro.
    Non tanto quello di aver chiesto di pagare un biglietto (con l’immancabile codazzo di polemiche a riguardo): a Cosenza i ticket per Invasioni non sono una novità assoluta, sebbene la stragrande maggioranza delle venti edizioni precedenti siano state interamente gratuite.
    E forse nemmeno quello di aver puntato esclusivamente su nicchie musicali di indubbio valore per gli appassionati del genere, ma non certo calamite di folle oceaniche. I grandi nomi a Invasioni ci sono sempre stati, ma a Cosenza si sono esibiti anche artisti meno noti eppure capaci di attirare e conquistare lo stesso il pubblico. E quelli di quest’anno non avevano nulla da invidiare ad altri colleghi passati dal medesimo palco in precedenza.

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    I Ghetto Kumbè a Cosenza sul palco di Invasioni 2023

    Cosenza, tu chiamale se vuoi… Invasioni (ma erano altro)

    Il vero problema, probabilmente, è che le Invasioni – e non da questa edizione – sembrano sempre più solo un brand per Cosenza. Un’etichetta da appiccicare a un concerto estivo qualsiasi– che la musica sia alternativa o commerciale poco conta – convinti che solo di quello si tratti. E che basti solo quello perché vada tutto bene. Tra i pochi in piazza ieri erano in tanti a ripeterlo, un motivo ci sarà.
    Non c’entra la nostalgia, è proprio lo spirito del festival a essere ormai un fantasma. Era successo con Mario Occhiuto sindaco, seppur a piazze piene, tant’è che si era affrettato a richiamare Franco Dionesalvi nell’organizzazione nel tentativo di rimediare. E si è ripetuto anche stavolta sotto Franz Caruso.

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    La Niña si esibisce di fronte a quattro gatti

    Una volta il Festival delle Invasioni si protraeva per giorni, tra iniziative (non solo concerti) disseminate per Cosenza: l’arte, il confronto, l’incontro con culture differenti invadevano, appunto, la città, la contaminavano in positivo. Ora l’obiettivo – rispettabile, certo, ma non altrettanto nobile – pare sempre ridursi al far lavorare i commercianti attorno alla piazza e al dire «da noi ha suonato il celeberrimo Tizio o Caio» perché fa figo.

    Invasioni sui social? Brescia – Cosenza

    E poi c’è la questione della promozione. I nomi in cartellone sono usciti a pochi giorni dall’inizio del festival. Impossibile trovare al concerto qualcuno che confermasse di aver visto un manifesto sull’evento da qualche parte. Perfino sul palco non c’era il logo del Festival delle Invasioni, quasi quella serata a Cosenza vecchia non avesse nulla a che fare con la kermesse.

    Nemmeno una mezza foto su Instagram, sebbene servisse forse a poco, dato il numero di followers della pagina del Festival: 383. Poco più attiva la pagina Facebook/Meta: una decina di post dal 28 giugno a questo articolo, non esattamente un bombardamento mediatico. Twitter non pervenuto. Quanto a Tik Tok, se cerchi qualcosa su “Invasioni” e “Cosenza” trovi i video dei bresciani inferociti sul prato del Rigamonti dopo il goal salvezza del rossoblu Meroni ai playout di serie B.
    Son soddisfazioni, ma basteranno per lanciare un festival che inizia un mese e mezzo dopo quella partita?