Il primo ad essersene accorto, a inizio novembre, è un magazine australiano, il Crikey: su Adobe Stock sono in vendita immagini del conflitto israelo-palestinese realizzate con l’AI. E dunque, dopo la stagione del citizen journalism, quando Liberation titolava un famoso numero “Tous Journalistes?”, oggi con l’AI siamo finalmente tutti Robert Capa, reporter di guerra armati di prompt al riparo della scrivania di casa.
Ad accorgersi delle foto di guerra prodotte con l’IA è stato il giornale australiano “Crikey”
Stavolta però più che il trastullo personale con contorno di polemica – ormai stucchevole – sul suo essere o meno fotografia, oggetto della discussione è lo spostamento del confine etico. Il fatto cioè che quel trastullo, quella guerra immaginaria e immaginata secondo stereotipi strappalacrime simil-worldpress, diventi business sulla pelle di 15mila morti, dal momento che trova un mercato. Dai 33 centesimi ai 26,40 dollari all’autore ogni volta che l’immagine viene concessa in licenza e scaricata. Di fronte a questo avanzare veloce della tecnologia cui la riflessione etica e normativa non riesce a stare dietro, ci si chiede se intanto l’indignazione abbia una qualche concreta possibilità di moral suasion, pur avvertendo tutto il rischio della retorica.
Più in concreto, ci si augura che nessun organo d’informazione metta in gioco la propria credibilità con l’acquisto di tali immagini, unico argine ad una deriva di cui si renderebbe corresponsabile.
Quanto ad Adobe Stock, a differenza da un’agenzia giornalistica ha una natura puramente commerciale, ma tanto vale ad esimerla da ogni sorta di verifica, e soprattutto di responsabilità? Adobe dichiara di essere impegnata, tramite la Content Authenticity Initiative, nel promuovere l’adozione di credenziali di contenuto, un pedigree di provenienza che consente di sapere come un contenuto digitale sia stato catturato, creato o modificato, e quindi se sia frutto dell’utilizzo di strumenti di intelligenza artificiale. Nel frattempo sembra invece contribuire alla disinformazione, quella guerra nella guerra che già il conflitto fra Russia e Ucraina ci aveva mostrato nella sua veste social contemporanea, iniziata con la guerra di Crimea del 1855, la prima ad essere documentata fotograficamente ed edulcorata da Roger Fenton, reporter a contratto dell’esercito britannico.
Sui musicisti calabresi è stato scritto, si può dire, in modo più o meno scientifico e interessante. In qualche caso in modo ridondante, in altri casi solo per un pubblico di esperti e studiosi. Talvolta si legge un nome sconosciuto che diventa subito gradito ai giovani ricercatori che ne fanno bottino per impreziosire gli studi. Negli ultimi due decenni grazie alla digitalizzazione delle risorse bibliografiche, anche le fonti più inaccessibili e rare sono state portate alla luce.
Per chi vive al Sud le due grandi Biblioteche musicali di Napoli e Palermo sono fonti inesauribili, ma pure il maestoso Museo internazionale e Biblioteca della musica di Bologna offrono gemme importanti della nostra produzione musicale. Studiosi e appassionati si ritrovano spesso in una corsa al dettaglio tecnico, al tassello mancante, al gossip storico-musicale da rintracciare nelle opere e nelle vicende che hanno segnato le vite dei musicisti. Cosicché, seppure non sia ancora la terra di Mozart e Beethoven, la Calabria fa registrare un interesse sorprendente per la musica dei secoli passati.
L’ingresso della Biblioteca civica in piazza XV marzo, sede dell’Accademia cosentina
La musica di Achille Falcone
In questa temperie ipertecnologica non sorprende invece una figura che della tecnica contrappuntistica fece una sua cifra e un modello di smagliante distinzione, sebbene con poca fortuna. Achille Falcone era nato a Cosenza intorno al 1570 dal musico Antonio. Nel Dizionario biografico degli Italiani dell’Enciclopedia Treccani la voce Falcone è curata da Walter Marzilli, ma nel dopoguerra almeno due nomi storici della musicologia italiana hanno compiuto studi e approfondimenti sul compositore calabrese, si tratta di Ottavio Tiby e Luciano Bianconi. Il primo in alcuni articoli dedicati, tra il 1952 e il 1969, ai polifonisti siciliani, e il secondo in un importante studio del 1973 e un articolo del 1972 per la Rivista Italiana di Musicologia dal titolo Sussidi bibliografici per i musicisti siciliani del ‘500 e del ‘600. E infatti il giovane Achille Falcone fu maestro di cappella a Caltagirone e per lungo tempo si è pensato addirittura che fosse siciliano. La sua breve vita, invece, fu spesa quasi interamente a Cosenza dove, giovanissimo, era entrato a far parte dell’Accademia di Aulo Giano Parrasio fondata nel 1511.
Fu chiamato in Sicilia dove gli accadde una vicenda clamorosa e dolorosa insieme, che forse contribuì alla sua morte prematura, avvenuta quando era appena alle soglie dei trent’anni, il 9 novembre del 1600. Si tratta di una storia che offre dati storico-musicali, storiografici e musicologici di grande interesse ma che risulta, sul piano umano, assai deludente per chi ancora vede nella musica la lingua dell’armonia e del dialogo. Per certi versi una storia di grande attualità in cui prepotenza e arroganza, ipocrisia e doppiezza sono la cifra di strane conventicole musicali al servizio del signorotto di turno.
Musiche di Sebastiano Raval per le Lamentazioni di Geremia
La sfida al pentagramma col protetto del vicerè
In realtà a quel tempo erano assai frequenti delle vere e proprie disfide musicali che vedevano contrapporsi virtuosi di uno strumento, cantori o compositori, e Falcone si trovò a duellare con Sebastian Raval, maestro della Real Cappella a Palermo e protetto del vicerè. Raval, spagnolo, nato a Cartagena nel 1550, era divenuto frate dell’ordine di San Giovanni di Gerusalemme dopo una gioventù che potremmo dire spavalda e avventurosa, e non era nuovo alle sfide musicali che lo vedevano sempre perdente (aveva già perso, tra le altre, una sfida a Roma col musico Nanini). Raval ci è raccontato ogni volta come un personaggio arrogante e permaloso ma soprattutto capace di covare un profondo livore nei confronti di chi musicalmente non lo riteneva competente. Un dato umano che con una certa sprezzante postura scientifica oggi è ritenuto secondario rispetto alla rivalutazione delle sue composizioni.
Come spiegano in uno studio Massimo Privitera e Maria Antonella Balsano (Musica sbagliata, Université de Poitiers, 2020), pare che un musico e letterato siracusano, tal Vincenzo Mirabella, gli avesse fatto notare degli errori nelle sue opere. Raval, subito alterato, lo sfidò chiedendogli chi fossero i suoi maestri. Mirabella fece i nomi dei Falcone, padre e figlio, e lo spagnolo iniziò a covare un profondo rancore, specialmente nei confronti di Achille. Incontratolo a Palermo, cominciò a provocare le sue reazioni favoleggiando di aver composto un madrigale a cinque voci con delle soluzioni compositive alquanto complesse. Alle perplessità di Achille rispose con la sfida: il vincitore avrebbe vinto un anello d’oro da mostrare ogni volta come trofeo.
Un testo dello studioso Massimo Privitera
Il contrappunto del cosentino
Achille che era animato da grande fervore per il contrappunto virtuosistico, possedeva una forte padronanza tecnica e un’alta vocazione per le complessità polifoniche più ardite: si lasciò coinvolgere, vincendo inizialmente nonostante alcune mosse infingarde dell’avversario, che aveva cercato di falsificare i manoscritti (relazione di padre Toscano del 18 aprile 1600). Purtroppo lo spagnolo, non contento, volle nuovamente affrontarlo, tappezzando – pare- i “pontoni di Palermo” con una serie di manifesti che chiamavano apertamente alla sfida il trentenne. Anche questa volta, il domenicano Nicola Toscano evidenzia gli inganni di Raval (seconda relazione del 26 luglio 1600). Ma Raval pretende con prepotenza un giudizio a lui favorevole.
La commissione, infine, probabilmente perché collusa e corrotta, dichiara vincitore ultimo il musicista spagnolo, come scrive il padre di Achille nelle sue memorie, e anche secondo quanto riportato da Giuseppe Baini, il musicologo che approfondì la vicenda tra Settecento e Ottocento. Una vicenda tristissima che durò alcuni mesi a partire dalla primavera del 1600 e che, con buone probabilità, influì sulla salute e sul benessere del giovane che tentò, rammaricato, un terzo grado di giudizio chiamando in causa alcuni musicisti romani.
La morte nella sua Cosenza
Rientrato a Cosenza, tuttavia, si ammalò e morì in autunno. Privitera e Balsano, non senza una punta di amarezza, fanno notare come nei concerti successivi il Vicerè chiamasse a raccolta tutti i musici che avevano contribuito al successo del proprio protetto, Raval. Fu così che il padre Antonio decise di onorare la memoria di Achille con la pubblicazione (1603) dei madrigali con i quali il musicista calabrese aveva partecipato alla sfida, accompagnandola con una cronaca della vicenda.
La produzione di Achille Falcone è giocoforza ridotta: perché è scomparso in giovane età e perché qualcosa si è perso nei secoli. Ci giungono un madrigale per tenore e basso continuo pubblicato in edizione moderna a cura del professor Bianconi, mottetti, molti brani polifonici (in un volume sono raccolti una quindicina di madrigali composti per varie occasioni e altri madrigali a 5 voci che aveva composto per la sfida). Ma pure ci giunge un senso di profonda amarezza per la perdita di un talento così giovane che avrebbe potuto dare alla città di Cosenza e alla Calabria grande risonanza, e perché questa vicenda si fa testimonianza di come sia facile per il potere capovolgere giudizi ed evidenze anche nell’arte musicale.
Femminicidi e non solo. Un argomento tornato alla ribalta dopo l’assassinio di Giulia Cecchettin. La Fondazione “Attilio e Elena Giuliani” e l’associazione culturale Xenia dedicano un incontro-dibattito al tema Violenza di genere: conoscere, agire, educare, prevenire. L’iniziativa si svolgerà a Villa Rendano il 30 novembre 2023 alle 17, col patrocinio del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Cosenza, della Fondazione scuola forense della provincia di Cosenza e della Scuola forense “Bernardino Alimena” di Cosenza.
Villa Rendano, sede della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani ETS
Violenza di genere: la parola a prof e legali
La serata è aperta dai saluti istituzionali.
Li porgeranno:
• Walter Pellegrini, presidente della Fondazione “Attilio e Elena Giuliani”;
• Ornella Nucci, presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Cosenza;
• Claudio De Luca, presidente della Fondazione scuola forense della provincia di Cosenza;
• Laura Monteforte, direttrice della Scuola forense “Bernardino Alimena”.
Gli interventi nel dibattito, invece, sono a cura di:
• Antonella Veltri, presidente nazionale dell’associazione D.i.re;
• Rosa Masi, avvocata del Foro di Cosenza;
• Antonella Paura, avvocata, socia Ami (Associazione matrimonialisti italiani) e membro del direttivo della Camera civile di Cosenza;
• Vanessa Piluso, avvocata e legale del Centro antiviolenza “R. Lanzino” di Cosenza;
• Elisa Mazzei, docente di materie letterarie;
• Elena Palermo, docente di materie letterarie.
Introduce e modera la discussione Gabriella Coscarella, presidente di Xenia.
Il dibattito sarà arricchito dalla mostra grafica “La ribell(e)” di Luigi Fabbricatore Strigaro.
Eranova è un paese particolare, nato dalla ribellione di una comunità di contadini calabresi al loro feudatario. Eranova è lo sfondo narrativo di Un paese felice, l’ultimo romanzo di Carmine Abate, uscito lo scorso ottobre per Mondadori.
Eranova, soprattutto, è la metafora delle contraddizioni di una modernità cattiva, che travolge le tradizioni senza costruire realmente: è il volto di Gorgone con cui spesso si è presentato il progresso in Calabria.
Di queste e altre cose legate al suo romanzo, parlerà l’autore in persona a Villa Rendano il 25 novembre alle 17 nel corso di una intervista dal vivo con Antonietta Cozza, consigliera comunale di Cosenza con delega alla Cultura.
Due parole su Carmine Abate
Carmine Abate è il classico migrante di successo: è nato nel 1954 a Carfizzi, in provincia di Crotone.
Di famiglia arbëreshë, dopo gli studi in Lettere a Bari ha seguito il padre emigrato. Perciò si è trasferito per alcuni anni in Germania. Per la precisione ad Amburgo, dove ha insegnato in una scuola per i figli degli emigranti e dove ha pubblicato i primi libri in tedesco. Sono l’antologia di racconti Den Koffer und weg! (inedita in Italia) e il saggio Die Germanesi (scritto con Meike Behrmann), pubblicato in Italia nel 1986 con il titolo I Germanesi da Luigi Pellegrini.
Tornato in Italia, Abate vive a Besenello, in Trentino. Il suo La collina del vento, (Mondadori, Milano 2012) ha vinto il Premio Campiello.
«I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi…»: così recita l’articolo 34 della Costituzione, per conciliare merito e bisogno nel diritto allo studio.
Ed è quel che ha fatto la Fondazione Attilio e Elena Giuliani con la prima edizione del Premio “Sergio Giuliani”: la consegna di due borse di studio, destinate ad altrettanti studenti scelti secondo il doppio criterio della bravura e della necessità economica.
I premi sono stati consegnati durante una cerimonia svoltasi lo scorso 11 novembre a Villa Rendano, sede della Fondazione. I destinatari delle borse sono il Dipartimento studi umanistici e il Dipartimento di Farmacia e Scienze della salute e della nutrizione, entrambi dell’Università della Calabria.
Un momento della cerimonia del Premio Giuliani a Villa Rendano
La storia del Premio Sergio Giuliani
«Con l’istituzione del Premio “Sergio Giuliani” abbiamo realizzato uno dei nostri scopi sociali, inseriti nello statuto proprio su iniziativa del fondatore», spiega Walter Pellegrini, editore e presidente della Fondazione Giuliani.
Questo obiettivo è semplice: «Valorizzare la crescita culturale e civile dei giovani e della nostra amata città», prosegue Pellegrini.
Altrettanto lineare il meccanismo: «Quest’anno abbiamo scelto due dipartimenti in diversi ambiti disciplinari, a cui abbiamo affidato i premi. Toccherà loro assegnarli agli studenti che saranno selezionati secondo i criteri indicati da noi: merito e necessità», ha concluso il presidente della Fondazione.
La consegna è avvenuta durante un dibattito vivace, moderato dal giornalista Mario Tursi Prato, a cui hanno partecipato, tra gli altri, Maria Luisa Panno, la direttrice del Dipartimento di Farmacia, e la docente di Storia contemporanea Katia Massara, in rappresentanza del Dipartimento studi umanistici.
Katia Massara ritira il premio
Altre iniziative
Alla cerimonia è seguito un approfondimento sulle attività svolte dalla Fondazione in collaborazione col Comune di Cosenza.
Due i testimoni di questi dieci anni di iniziative: l’ex sindaco di Cosenza Mario Occhiuto, sotto la cui amministrazione la Fondazione Giuliani ha acquistato Villa Rendano, e l’attuale primo cittadino Franz Caruso, con cui la Fondazione ha avviato una serie importante di attività pubbliche, tra cui il Festival nazionale della poesia.
Nessuna frecciata politica tra i due, ma solo una riflessione pacata. E poi l’anticipazione sul recupero di una importante istituzione: la Biblioteca civica.
«Collaboreremo volentieri alla rinascita della Civica, che tornerà a disposizione della città», ha spiegato Pellegrini.
«I luoghi storici della città», ha chiosato ancora il presidente della Fondazione Giuliani, «possono rivivere se si legano a funzioni specifiche: ad esempio, Villa Rendano è il luogo delle idee». Quindi anche la Biblioteca civica «dovrà diventare sede di iniziative specifiche rivolte alla città».
Intanto il premio, l’ennesima iniziativa, c’è. Vinca il migliore.
Nel 1952 il giovane Andrea Camilleri, ventisettenne neodiplomato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, dove successivamente insegnerà regia, compra un libro di un autore calabrese a lui ancora sconosciuto. Ad attirare la sua attenzione fu il titolo Antonello capobrigante calabrese, dramma in cinque atti di Vincenzo Padula, scritto nel 1850. L’aneddoto è raccontato dallo stesso Camilleri nel docufilm La penna di Bruzio, una coproduzione dell’associazione Stato delle Persone, Fondazione Vincenzo Padula e dalla CineDue dei fratelli Aragona, distribuito da RAI Storia. Il film, nato nel 2016 da un’idea di Mattia Scaramuzzo, per la regia di Giulia Zanfino, ha visto la partecipazione, oltre che dello scrittore empedoclese, anche di Carlo Verdone e Riccardo Iacona.
Un frame del film di Giulia Zanfino su Vincenzo Padula
Briganti, una mistificazione storica
Camilleri racconta di essere stato catturato dalla suggestione delle parole capobrigante e calabrese, questo a causa di una sua personale e radicata convinzione, relativa a una mistificazione storica, avvenuta subito dopo l’unità d’Italia, in merito al problema del brigantaggio. Un vecchio specchietto riassuntivo del Comando militare per la repressione di Capua, sempre secondo il racconto di Camilleri, riportava un consuntivo dei briganti uccisi e arrestati dal 1861 al 1863; si trattava di circa 3780 morti e oltre 4000 detenuti. Proprio intorno a questi numeri che nasce il dubbio attorno al quale Camilleri si chiede se tutti i meridionali erano diventati briganti o se si tacciava di brigantaggio la rivolta contadina di chi chiedeva nient’altro che pane e lavoro.
Una riflessione che ci spinge a parlare delle cause di fenomeni sociali violenti all’indomani di una unificazione nata su presupposti politici e amministrativi ideologicamente divisivi. Non bisogna dimenticare che il nuovo Regno d’Italia presentava un’enorme disparità tra Nord e Sud e per unificare veramente il Paese c’era bisogno di infrastrutture, di un esercito, di leggi, di alfabetizzazione, di riforme agrarie e industriali. C’era anche la necessità di adottare le stesse unità di misura, la stessa moneta e una lingua capace di parlare a tutti. La complessa questione meridionale, strettamente connessa al fenomeno del brigantaggio, trovò con l’attuazione della Legge Pica del 1863, la legittimazione della violenza repressiva di un fenomeno sociale determinato da povertà, diseguaglianza, ma anche da brutalità di contadini rozzi e ignoranti.
Vicenzo Padula: un intellettuale profondo
Proprio sulla causa dei problemi e sulle azioni repressive di un fenomeno di portata storica come il brigantaggio si concentra il pensiero dell’abate Vincenzo Padula di Acri che, attraverso le pagine del giornale Il Bruzio, richiama l’attenzione sulle complesse situazioni della Calabria e di tutto il meridione post unitario. Padula, lungimirante intellettuale, ma anche scrittore ironico, attento giornalista, è stato definito più volte un antropologo, ma lui non è stato solo un attento osservatore della cultura del suo tempo, quanto un sociologo, o meglio ancora possiamo definirlo un etnologo che ha saputo considerare fatti e circostanze nei loro processi di trasformazione.
Padula, nonostante l’isolamento culturale della Calabria, pur vivendo la realtà dell’entroterra, affronta i temi del suo tempo in una produzione letteraria in grado di concretizzarsi anche nella scrittura teatrale, cosa non usuale in una realtà senza nessuna tradizione drammaturgica. Antonello capobrigante calabrese è ambientato tra i monti della Sila, precisamente a Macchia Sacra. È lo stesso Padula a scrivere che i briganti agiscono nella foresta e, siccome in ogni paese d’Italia, dopo che i Borboni se ne sono andati, c’è gente che ruba e che uccide, nelle altre città, come in quelle del Piemonte, della Lombardia e della Toscana, azioni ancora più gravi di quelle che accadono in Calabria si concretizzano nelle case.
Una rara edizione del racconto di Vincenzo Padula
Una questione privata? Non proprio
Le vicende narrate nell’Antonello sono quelle di un gruppo di briganti nascosti nei boschi della Sila, impegnati nel preparare il rapimento del ricco galantuomo Brunetti e di suo figlio Luigino. La storia è quella della giovane Maria, moglie di Giuseppe, che dopo aver subito violenza da parte di Brunetti si ritrova ad assistere all’omicidio del figlio neonato, soffocato dallo stesso Brunetti. In preda alla disperazione Maria convince Giuseppe a farsi uccidere e a quel punto il giovane, decidendo di farsi brigante, è accolto dal capobrigante Antonello tra i boschi della Sila.
La narrazione di una storia in apparenza privata, si trasforma in una rivendicazione collettiva contro i soprusi di un potere destinato, davanti alla legge, a rimanere impunito. Il dramma non si limita a raccontare di una storia d’amore finita in tragedia, ma parla della condizione sociale in cui versava la Calabria, oppressa dal potere legato alle logiche del latifondo e che, inevitabilmente, si riflette nella tracotanza del ricco Brunetti. Emerge chiara la sfiducia verso la giustizia, quasi come se Padula volesse giustificare la rabbia di un gruppo di persone che, per la loro stessa natura di briganti, sono destinati a rimanere poveri. I giorni durante i quali si svolge l’azione sono quelli che passano tra la cattura dei fratelli Bandiera, avvenuta sul Colle della Stragola, nel territorio di San Giovanni in Fiore, la loro detenzione nel carcere di Cosenza e la fucilazione, insieme ad altri sette compagni, per volere di re Ferdinando II di Borbone, nel Vallone di Rovito il 25 luglio 1844. È lo stesso Antonello a far recapitare una lettera ad Attilio ed Emilio Bandiera, offrendo, senza successo, l’aiuto dei briganti per farli scappare dalla prigione.
La locandina della pièce teatrale tratta dal racconto di Padula
Vincenzo Padula e Lord Byron
La figura di Antonello capobrigante riveste il ruolo di un eroe moderno, tormentato davanti alle ingiustizie del suo tempo, in questo non è difficile cogliere gli aspetti romantici di un byronismo presente nella letteratura di quegli anni. George Byron, tra il 1818 e il 1823 è in Italia per il suo personale Grand tour, è la sua poetica penetra anche nella letteratura calabrese. I punti di convergenza tra Padula e Byron sono proprio quelli che si riflettono nel personaggio del capobrigante Antonello: il sentimento di ribellione verso un contesto sociale guardato con disprezzo a causa di quei privilegi riservati a pochi, l’imperfezione stessa dell’eroe agitato da una passione distruttiva e non ultimo l’incapacità di portare avanti lotte collettive, quanto piuttosto animato da un individualismo tipico di ogni disperato che lotta solo per se stesso.
La fortuna di Antonello capobrigante è stata quella di aver varcato i confini regionali e di essere stato rappresentato in diverse riduzioni teatrali, televisive e in un adattamento radiofonico del 1960 di Ottavio Spadaro, nel quale Aroldo Tieri interpretava la parte del possidente Brunetti.
Vincenzo Talarico, “chi era costui”? Nato ad Acri(Cs) nel 1909 e morto a Roma nel 1972, Vincenzo Talarico, in un’epoca di grandi passioni e di scarsi mezzi, ha rappresentato l’icona del giovane provinciale calabrese che tenta la fortuna e “il successo delle arti” nella grande città capitale, rivestendo in concreto i panni di una sorta di eterno idealtipus del calabrese in commedia. E certo, ai suoi tempi, che furono quelli che per la storia della nazione intercorrono tra il fascismo, il neorealismo, la ricostruzione e gli anni del boom economico non fu esattamente un Carneade.
Calabresi della diaspora
Talarico è stato infatti molte cose assieme: giornalista, critico teatrale, scrittore, sceneggiatore e attore. Un acrobata della parola scritta e dell’eloquio letterario, un uomo colto, divertente, dalla vita eccentrica e fantasiosa. Un personaggio che merita un posto tra gli indimenticabili, anche se oggi se lo ricordano in pochi. Talarico è infatti un altro di quei folli, geniali ed eccentrici calabresi della diaspora che assieme a grandi artisti, scrittori e comprimari come Mimmo Rotella, Leonida Repaci, Corrado Alvaro, Giuseppe Selvaggi e Raul Maria de Angelis, tutti vissuti Roma a cavallo tra le due guerre fino agli anni del boom, poterono diventare qualcosa e qualcuno solo fuori dall’asfissia provinciale dei paesi d’origine e dalle piccola società delle città provinciali della vecchia Calabria.
Con Leopoldo Trieste, Talarico fu uno di quei “calabresi in commedia” del cinema italiano del dopoguerra; entrambi picari ingegnosissimi e stralunati, che hanno attraversato il secolo passato lasciando tracce di sé talvolta luminose e degne di ricordo non solo nel cinema popolare ma anche nella vita culturale del Paese, restando spesso ignoti tra le strade di casa, proprio laddove la loro avventura aveva preso l’avvio.
Leopoldo Trieste
A dispetto della biografia ricca di incostanti lampi di genialità e di smaglianti espedienti letterari, Talarico non era affatto un personaggio culturalmente effimero e valetudinario. Prima di tentare l’avventura rocambolesca del cinema, la sua penna di notista accreditato nei palazzi del potere era temuta per l’umore sarcastico e l’acuminata ferocia con cui sceglieva i suoi bersagli. Ai tempi del pieno consenso al fascismo i suoi strali non risparmiarono il Duce, che lo apostrofò come “ignobile libellista”.
Il giornalista che amava la dolce vita
A lungo giornalista e critico cinematografico per La Stampa, L’Europeo e L’Espresso, Talarico faceva parte di quel memorabile gruppo di intellettuali liberali che ruotavano attorno a Leo Longanesi, come Ercole Patti, Sandro De Feo e Mario Pannunzio, di cui Talarico divenne stretto divenne collaboratore per le pagine de Il Mondo.
Talarico, come Leopoldo Trieste, amava il cinema e le belle donne; due buoni motivi per stare a Roma e attraversarla in lungo e in largo in quegli anni formidabili. Talarico visse la sua stagione di notorietà mentre a Roma la fabbrica dei sogni esplodeva nella pienezza cinica e gaudente degli anni della “dolce vita” e di via Veneto. Lo si ritrova assiduo frequentatore di tutti i santuari di strada della cultura del tempo. Trascorreva le sue giornate di “flanellista” tra il Caffè Aragno o in mezzo ai crocchi riuniti ai tavolini di Rosati o Canova.
Qui lo si ritrovava a chiacchierare e far notte con gente come Emilio Cecchi, Roberto Rossellini e in confidenza con scrittori e artisti di primo piano della scena culturale romana di quegli anni come Palazzeschi, Cardarelli, Moravia, Ungaretti, Guttuso, Flaiano, Repaci, Brancati o Alvaro. Già giornalista satirico e critico teatrale, prima di diventare anche sceneggiatore di successo (vinse un Nastro d’argento per il soggetto e la sceneggiatura di Anni facili), Talarico, giovane avvocato mancato, fuggito presto dal tedio e dalle ristrettezze del suo paese calabro, aveva – soprattutto – una autentica fissazione per il cinema, e così fece di tutto anche per indossare al cinema anche i panni dell’attore. Ne vennero o fuori parti da caratterista formidabili e iconiche.
Vincenzo Talarico. avvocato in “Un giorno in pretura”
Nel cast di Un giorno in pretura
È lui, infatti, avvocato davvero ma senza aver mai esercitato per un giorno neanche alla pretura del paese, che spesso indossa toga e tocco in camei indimenticabili ed esilaranti. Lo ritroviamo così nelle vesti di avvocato in numerosi film e commedie di grande successo popolare, come in Un giorno in pretura. In quella commedia del 1953, diretta da Steno, è lui l’avvocato magniloquente e sgarrupato che difende la causa davanti alla corte e ai giurati, ricorrendo ad effetti da leguleio di paese e a stralunate formule da azzeccagarbugli.
Il suo assistito è il grande Alberto Sordi, che nel film è Nando Moriconi, il giovane tontolone di borgata detto l’americano, arrestato perché sorpreso nudo per strada. Talarico sul set cingeva la toga con così tanta maestria che a lui toccò quasi per antonomasia la parte dell’avvocato difensore che portava inevitabilmente alla condanna del povero imputato, come di seguito in altre commedie memorabili, Il bigamo o Il vigile.
Totò gli stacca un orecchio a morsi
Dotato di una notevole presenza scenica e di un aspetto da notabile borbonico, oltre che di una maschera teatrale naturale, caratterizzata da un difetto di vista che ne rendeva il volto e la mimica involontariamente comiche – aveva l’occhio sinistro fortemente strabico, negli anni cinquanta Talarico apparve come caratterista di lusso in numerose commedie per il cinema, alcune delle quali da lui scritte portavano la sua firma anche tra gli sceneggiatori. Per il pubblico popolare divenne subito un personaggio noto e perfettamente riconoscibile. E in carriera partecipò a decine di film.
Con il suo eloquio prolisso, rotondo e polveroso “Don Vincenzino” fu anche l’emblema dei funzionari ministeriali vacui e ipocriti e dei notabili democristiani in ascesa, a cui diede numerose volte voce e volto. Lo si ricorda come comprimario di rilevo e caratterista enfatico anche in Dov’è la libertà?, un film commedia dal sapore malinconico e amarognolo, diretto nel 1954 da Roberto Rossellini da una sceneggiatura teatrale di Leopoldo Trieste (di cui Talarico fu al lungo amico), quando Totò, al culmine di una scenetta memorabile, gli stacca un orecchio a morsi.
Fu poi l’onorevole Borgiani di un film culto di quella stagione come Un americano a Roma, in una scena dove Sordi fa polpette della sua rispettabilità; e ancora, il nuovo tipo del “funzionario Rai” che formula un giudizio avverso stigmatizzando il difetto del candidato Sordi che si presenta ai commissari sfoderando la sua sorridente dentatura equina in Dentone, episodio gustosissimo del film I mostri.
VIncenzo Talarico in una scena di “Un americano a Roma!
Una faccia da cinema
Questi suoi piccoli ruoli da caratterista e i brillanti numerosi cameo impersonati col tempo fecero di Talarico un attore niente affatto improvvisato. Prova ne è che la sua voce stentorea e il suo volto stralunato compaiono in una lunga sequela di film e di commedie famosissime. I ruoli in cui Talarico eccelleva sono quelli del burocrate tronfio e intrigante o del retore che sfoggia la sua dotta scilinguagnola da notabile di paese, o quando impersona con le sue sghembe espressioni facciali da teatro greco, il vecchio satiro che punta la sua preda femminile con lo sguardo liquido di un rettile. Queste personalità multiple indossate con disinvoltura e divertimento per il cinema popolare in veste di caratterista, sono anche altrettante prove di una consapevolezza autoironica e di un sarcasmo intellettuale che non si dimenticano, e che in Talarico furono anche caratteristiche spiccate dell’uomo e dell’artista.
In seguito Talarico si confermò soprattutto come sceneggiatore per il cinema, versatile tanto sul registro della commedia popolare (Pane, amore e gelosia, Il bigamo), sia per il suo impegno su pellicole che affrontavano temi meno facili, e in alcune prove d’autore dal piglio certo più polemico e aggressivo (Anni facili, Il moralista, Anni ruggenti). Dimostrandosi capace com’era anche con la scrittura di analizzare con asprezza e profondo acume critico lo spirito di qui tempi.
L’ultima notte dei “casini”
Amico di Vitaliano Brancati – scrivono insieme per il teatro La giornata del poeta -, Vincenzo Talarico nel 1953 firmò con proprio con Brancati la sceneggiatura di Anni facili, insieme a Luigi Zampa, a Sergio Amidei. E sempre in compagnia di Luigi Zampa e Sergio Amidei, Talarico, collaborò poi alla sceneggiatura di Anni ruggenti.
Talarico era però essenzialmente un finissimo e colto uomo di lettere e un assiduo frequentare di ambienti letterari. Nella Roma che attraversa le guerre è amico di vecchia data di Cardarelli, di Ennio Flaiano e di Mario Soldati. Indimenticabile è un suo articolo in cui ricorda l’ultimo giorno di apertura dei casini, chiusi nel 1959 dalla legge Merlin, trascorso a fare un nostalgico giro per il passo d’addio alle “signorine” delle migliori case chiuse di Roma in compagnia di un ineffabile Mario Soldati. Ma in altri momenti Talarico partecipa con Maria Bellonci e Guido Alberti alla fondazione del Premio Strega, di cui è tra i primi prestigiosi promotori.
Nomignoli per tutti
E sarà sempre considerato da allora tra i giurati più valorosi e influenti. Figura critica sempre autorevole e presente alle carambole e alle scaramucce che vivacizzavano il mondo degli scrittori e dei giornalisti che contavano in quel rarefatto e stravagante mondo letterario romano. Oltre agli articoli e ai libri della penna di Talarico restano infatti memorabili proprio per certi suoi blasoni impietosamente affibbiati ai suoi sodali letterati.
Faceva a gara in questo con un altro amico buontempone della sua cerchia, lo scultore emiliano Marino Mazzacurati. Nomignoli cinici e spassosi che scivolati dalla sua penna acuminata, restavano poi impressi per sempre sui personaggi che entrambi prendevano di mira. Come “Supercortomaggiore” (Leo Longanesi); “Cecchi dice sì, Cecchi dice no” (Emilio Cecchi); “Il più grande Poeta Morente” (Vincenzo Cardarelli); “L’Amaro Gambarotta” (Alberto Moravia); “Il brutto addormentato nel basco” (Alberto Savinio); L’incantatore di sergenti” (Filippo De Pisis); “La salma” (Ercole Patti); La picassata alla siciliana” (Renato Guttuso); “Il Cavaliere del Lavoro altrui” (Sandro De Feo).
Vincenzo Talarico “il lepre”
Non sfuggiva alla regola del soprannome neanche lui, Vincenzo Talarico. Per la sua cerchia di letterati, artisti e amici del cinema, “don Vincenzino” era “Il lepre”, nomignolo appiccicatogli per la sua stramba fisionomia: occhi fortemente strabici, nasone, faccia un po’ storta e sgrugnata, labbro superiore sporgente, ma il soprannome pare gli fosse stato appioppato anche per la rapidità con cui, alto e ben piantato, attraversava a grandi lunate piazza del Popolo spostandosi dal gruppo che sedeva davanti a Rosati a quello che si trovava da Canova, per puntare la nuova soubrettina che voleva comicamente concupire.
Talarico ha vissuto quegli anni indimenticabili come un altro grande outsider intellettuale con cui condivise a Roma fama e avventure da picari di provincia, il grande Giancarlo Fusco. Come Fusco, Talarico ruppe fragorosamente l’argine di conformismo della società letteraria romana, passando allegramente da un campo all’altro di arti e mestieri con grande divertimento e talento; dal giornalismo alle sceneggiature, dalla narrativa alla critica fino ai soggetti per film, non disdegnando di rappresentare ironicamente se stesso in film comici che lo resero noto al grande pubblico.
Ma la sua specialità era di fare della propria vita materia d’arte. Ancora oggi restano poco note e sottovalutate le sue doti di scrittore, la sua finezza culturale allegramente dissipata in mille imprese e dispendiosi rivoli vitali.
Uno scrittore originale
Qualità di scrittura e di calibro intellettuale che, in una rivista intitolata Confronto, gli viene riconosciuta invece già in quegli anni della dolce vita da una scrittrice criticamente seria ed esigente come Elena Croce, che riferendosi a Talarico ne scriveva così: «La figura di Talarico, così rappresentativa della Calabria come di una certa Roma degli anni Cinquanta e Sessanta, chiede di essere molto approfondita. Come tutti i grandi umoristi, Vincenzo Talarico, aveva una personalità molto riservata, quasi ermetica: non però al punto da non lasciare penetrare l’essenziale. E cioè la sua grande larghezza d’idee e il suo animo generoso, la sua gentilezza profonda, l’eleganza con cui non faceva mai pesare la sua grandissima cultura; e la mancanza di vanità per cui non pretese mai di essere riconosciuto per ciò che egli era: un prosatore squisito».
Di lui oltre a un profluvio di critiche teatrali e cinematografiche e prose giornalistiche, restano anche alcuni notevoli e trascurati romanzi. Raccontò la sua fuga da Roma occupata nel 1943, assieme a Mario Soldati e Leo Longanesi, in un delizioso libro intitolato Otto settembre. Letterati in fuga (con disegni di Mino Maccari). Altri suoi libri sulla Roma degli anni Quaranta e Cinquanta, oggi sono quasi impossibili a trovarsi, come Mussolini in Pantofole, Pasquino insanguinato e I passi perduti. Meriterebbero tutti di essere ripubblicati.
Chi legge questi libri oggi si rende conto di come Talarico fosse molto di più di un cronista e di un brillante perdigiorno mondano. Era uno scrittore originale che sapeva cogliere gli aspetti inquietanti e incongrui della realtà per alleggerirli con grazia e umorismo.
Si va da “la fotocamera non mente mai, a meno che non sia alimentata dall’intelligenza artificiale”, che per la prima volta mette in discussione l’inconscio tecnologico, all’evocazione dell’Apocalisse, passando per la Fauxtography, traduzione del meno cacofonico Fautographie, neologismo d’antan attribuito a Man Ray. Sono i titoli allarmati dei maggiori magazine “allovertheworld” per annunciare lo sbarco dell’AI sullo smartphone, che diventa così un falsificatore alla portata di tutti, come fu per il digitale delle origini, che vanificava la costruzione semiotica della foto come calco, come impronta della realtà.
Pixel 8, l’innovativo smartphone di Google
Tecnicamente si tratta di software basati sulla tecnologia del machine learning, roba che si conosce già da qualche anno, ma il “Pixel 8” rappresenta un punto di svolta, considerato che si tratta del primo smartphone a integrare l’intelligenza artificiale generativa direttamente nel processo di creazione delle foto senza costi aggiuntivi, il che avrà delle conseguenze enormi.
La stampa americana e l’apocalisse delle foto
Un articolo di The Verge sostiene che il programma Best Take – che esamina tutte le foto simili scattate in successione, rendendo possibile la scelta della foto finale in cui si ha l’espressione facciale desiderata -, sarà una funzione utile soprattutto ai genitori, i cui pargoletti sono notoriamente difficili da mettere in posa, ma proprio questa eventualità ispira altre riflessioni. a prescindere dal falso ad uso propaganda, disinformazione eccetera eccetera, è proprio la fotografia vernacolare, quella di tutti noi, l’autoritratto della società a preoccupare: quale valore storico-sociologico potranno avere questi ricordi di famiglia per chi dal futuro intenderà studiare le epoche passate, a cominciare da questa?
Baseranno le proprie analisi e le conseguenti teorizzazioni su falsi; d’accordo che già da prima di Bourdieu gli album di famiglia sono delle docufiction all’insegna della vita felice senza intoppi, molto prima dei lustrini di Instagram, ma almeno da qualche parte c’erano una scatola o una valigetta con scarti di verità. Ma domani, in quale mercatino troveremo foto di famiglia usate come woodoo con i parenti tagliati, cancellati via dalla nostra vita? Siamo ormai a tanto così dai ricordi innestati di Blade Runner.
Alcune foto valgono più di mille parole. Più di mille battute si dice(va) nelle redazioni giornalistiche dell’era cartacea. Una in particolare resta nell’immaginario di una regione e di un Sud dove l’esodo prosegue la sua corsa con numeri drammatici: la stazione dei pullman di Cosenza presa d’assalto da chi accompagnava giovani e meno giovani in cerca di un futuro, di studio o lavoro, altrove. Il rito della spartenza, termine ormai entrato nel vocabolario quotidiano, rappresenta sia la sofferenza di chi lascia un pezzo di vita qui, sia la lacerazione di chi rimane. Spartenza è una delle parole che abitano Spaesati (Il Mulino, 2023), libro scritto da due scienziati sociali come Massimo Cerulo e Paolo Jedlowski. Ma non se ne fa un uso pietistico e meridionalistico. Tutt’altro.
Massimo Cerulo è professore ordinario di Sociologia generale all’Università “Federico II” di Napoli
Se partire è un po’ morire, non farlo rischia di essere peggio. Certo, il concetto di restanza dell’antropologo Vito Teti ha trovato un seguito numeroso nei tanti teorici (spesso accomodati bene) della Calabria felix. Massimo Cerulo – professore ordinario di Sociologia all’Università “Federico II” di Napoli che insegna pure all’Université Sorbonne Paris Cité – smonta questa retorica nata attorno alla restanza: «Una visione troppo romantica» con la tendenza a giustificare l’ingiustificabile di un Sud che «ci ha ostracizzati, cacciati via, asfissiati».
«Forse la spartenza è stata una fortuna» – scrive di se stesso. E cosa ne facciamo della terra dei padri come recita uno slogan prêt-à-porter in voga quaggiù? Al Sud «ci si può tornare. Poi è necessario ripartire, abbandonarlo. Senza voltarsi indietro». Può sembrare impietoso. In parte è così. Qualcuno doveva pur rimodulare l’illusione prodotta dal Pensiero meridiano di Franco Cassano. Non siamo in presenza di un antimeridionalista militante come Giorgio Bocca. Cerulo, al contrario, confessa il suo amore senza limiti in un passaggio del libro, quando «il treno arriva a Paola… In un tardo pomeriggio di maggio, sul mare… Il Sud ti esplode in petto». Non serve aggiungere altro.
Meravigliosi ossimori
Eccoli i meravigliosi ossimori del meridione, i paradossi a cui si aggrappano le eccezioni che confermano la regola. Si pensi al milanese Paolo Jedlowski, coautore del libro, professore ordinario di Sociologia generale all’Università della Calabria fino a poco tempo fa. Sua moglie, la sociologa Renate Siebert, vive a Roma. Il resto della sua famiglia sparsa tra l’Italia e la Francia. La sua vita da prof sempre in movimento. Inevitabile chiedersi dove è casa? Una domanda tipica delle vite mobili analizzate nel libro. Che non sono quelle dei viaggiatori, dei migranti, dei turisti. Ma di chi abita spazi e tempi diversi, fuori dalla stretta esigenza del piacere o della necessità. Orizzonti disintegrati al sapore della spaltung (scissione) freudiana.
L’ultima lezione (sul suo amato Walter Benjamin) del prof Paolo Jedlowski all’Università della Calabria
Un po’ come per i nomadi casa è «l’insieme di memorie condivise», il «racconto». Il Racconto come dimora, guarda un po’, è proprio un libro dello stesso Jedlowski dedicato alla monumentale Heimat del regista tedesco Edgar Reitz. E Nostalgia di terre lontane è il titolo di un episodio di quella saga in celluloide. Ci ricorda che casa non è per forza un concetto stanziale, vicino, prossimo. Almeno per chi vuole vivere molte vita in una sola, come fa notare Cerulo, editorialista dell’Huffingtonpost.it. Gli inglesi dicono larger than life.
Vivere “tra”, spaesati in un perenne stato d’eccezione non è per niente facile. A volte si cerca rifugio, ci si sente a casa in una biblioteca, nel solito bar in aeroporto, in una caffetteria della stazione. Luoghi terzi – ampiamente studiati dal prof della “Federico II” – in cui ritrovare le coordinate, sopravvivere alle apocalissi culturali, alle microfratture del senso. In uno degli ultimi capitoli Massimo Cerulo ricalibra lo spaesamento di Ernesto de Martino, adattandolo alle vite mobili. Crisi della presenza e ricomposizione si alternano anche qui, dove la grammatica dell’andirivieni riconfigura certe esistenze inquiete per natura e per scelta.
“Spaesati”, un libro di Paolo Jedlowski e Massimo Cerulo (Il Mulino, 2023)
La proiezione di un bellissimo documentario, dal titolo Armo, storie di volontari e di migranti, ha impreziosito i festeggiamenti in onore di San Luca, nella parrocchia di Reggio Calabria retta da don Bruno Cipro. Proprio don Bruno, in apertura, ha sottolineato ciò che in tanti pensano: la mancanza di coerenza di chi, pur professandosi cristiano, ha difficoltà (eufemismo, n.d.r.) ad accogliere chi fugge da fame, guerre, siccità.
La parrocchia di San Luca a Reggio Calabria, retta da don Bruno Cipro
In 51 emozionanti e commoventi minuti, il filmato mette insieme una serie di testimonianze e di immagini tratte dagli sbarchi nel porto della città dello Stretto. Prodotto dalla Caritas diocesana di Reggio Calabria, col contributo di quella nazionale, è stato magistralmente realizzato dal regista Antonio Melasi, con la parte musicale curata da Mauro Giamboi.
Melasi ci tiene a precisare che non è stato pubblicato on line per privilegiare gli incontri dal vivo, per dare la possibilità di gustarlo meglio e di commentarlo a chiunque ne abbia voglia. Per promuoverne la visione si deve semplicemente inviare una comunicazione all’indirizzo caritasreggiocalabria@gmail.com, indicando promotore, luogo e data indicativa della proiezione.
Il doc del filmaker Antonio Melasi (in foto) è stato prodotto dalla Caritas di Reggio Calabria
Rendere per iscritto cosa si prova guardando quelle immagini è comunque difficile. Accanto alla sofferenza dei migranti appena sbarcati dopo i viaggi della speranza, che abbiamo imparato a conoscere ancor di più negli ultimi tempi, è ben visibile il patimento dei tantissimi volontari che si sono spesi e si spendono per aiutare, soccorrere, accogliere i migranti. Tuttavia, gli intervistati e gli intervenuti alla proiezione hanno voluto mettere in rilievo che, accanto ai momenti di sconforto, non sono mancati quelli di vera gioia. Tutti hanno rimarcato la bellezza di un’esperienza così totalizzante e coinvolgente da lasciarli certamente migliorati e arricchiti, anche rafforzati nella fede.
Di questo comune sentire si è resa portavoce Bruna Mangiola, coordinatrice della Caritas per gli immigrati e da sempre impegnata nel volontariato cattolico. Ha elogiato il popolo reggino, che è accorso sempre più numeroso per prestare la propria opera, evidenziandone anche il cambiamento nell’atteggiamento nei confronti dei fratelli africani. Ha quindi offerto la sua testimonianza Luciano Gerardis, già presidente della Corte d’Appello di Reggio, che nel 2012 ha dato vita a Civitas, un’associazione la cui missione è quella di sensibilizzare la società civile sui temi del servizio alla collettività, della legalità, dell’affermazione dei diritti.
La rinascita di Mussa
Il documentario ha il pregio di descrivere passo passo il processo di crescita del movimento partecipativo alle vicende dei migranti. Due, a mio avviso, le storie più significative in esso narrate, una legata a un uomo, l’altra a un luogo. Mussa è un ragazzo del Senegal sbarcato a Reggio che è riuscito a costruirsi una nuova vita, grazie al sostegno della comunità ecclesiale di Cannavò. Oggi, oltre a lavorare, studia all’Università e nella nostra città ha trovato anche l’amore, una ragazza con la quale convive.
Armo è la contrada che dà anche il titolo al documentario. Proprio ad Armo è stato realizzato un sito per la sepoltura di coloro, purtroppo tanti, che non ce l’hanno fatta, che hanno lasciato nelle acque del Mediterraneo vita e speranze. Anche in questo caso la collaborazione è stata il tratto distintivo della vicenda. Toccanti le immagini nelle quali si vedono le suore e altri nostri concittadini, adulti e ragazzi, posare fiori e versare lacrime sulle tombe bianche con sotto i corpi di sconosciuti, molti senza nome. Un segno tangibile dell’umanità che l’uomo è capace di tirare fuori dalla propria anima. Forse ciò accade troppo di rado, ma è motivo d’orgoglio che sia successo nella nostra terra di Calabria.
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