Categoria: Cultura

  • Ubu a La Ruina: la Calabria che trionfa a teatro ma se ne frega

    Ubu a La Ruina: la Calabria che trionfa a teatro ma se ne frega

    Il 18 dicembre si è conclusa la 45° edizione dei Premi Ubu. Come ogni anno, in diretta streaming in staffetta con quella di Radio Tre, è arrivato l’annuncio con i nomi dei vincitori per la stagione 2022/2023 del Premio che Franco Quadri ideò nel 1977. Nell’elenco, anche l’attore, drammaturgo e regista calabrese Saverio La Ruina.
    Ancora una volta La Ruina porta a casa il più prestigioso e importante riconoscimento del teatro in Italia. Lo aveva già fatto nel 2007 con Dissonorata (Miglior attore italiano e Miglior testo italiano), nel 2009 (Premio speciale per Primavera dei Teatri), nel 2010 con La Borto (Miglior testo italiano), nel 2012 con Italianesi (Miglior Attore italiano). In quest’ultima edizione vince con Via del Popolo come Miglior testo italiano o scrittura drammaturgica messa in scena da compagnie e artisti italiani.

    La Ruina, l’Ubu e “l’Oscar dei poveri”…

    Saverio La Ruina è un vincitore seriale di premi Ubu, un irriducibile artigiano del teatro che non si lascia inglobare, assorbire e omologare nella cultura liquida della contemporaneità. Rimane fedele al teatro, arte lontana dalle logiche dell’evento che la società dei consumi impone trasformando la cultura in una merce destinata esclusivamente all’industria del divertimento.
    Con Via del Popolo, un testo drammaturgico di straordinaria semplicità, dimostra che la cultura è qualcosa di profondamente radicato nella memoria individuale come valore della storia collettiva, capace di definire percorsi di crescita, o di decrescita, spingendoci ad inevitabili riflessioni di natura sociale, culturale e anche politica.

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    L’ultima edizione degli Ubu

    Ma partiamo con ordine: quando parliamo di Premio Ubu c’è sempre la necessità, quasi a giustificarlo nel tentativo di attribuirgli autorevolezza e prestigio, di spiegarne il valore. E l’unico modo per farlo è l’inevitabile comparazione con gli Oscar o i David di Donatello. Già solo questo basta a raccontare il valore che nella nostra cultura assume il teatro, qualcosa che resiste ed esiste solo per una fetta di pubblico che spesso finisce per identificarsi con gli stessi addetti del settore. Un’isola sperduta, raggiungibile per strade poco percorribili e scomode. Allora il teatro diventa anche un fatto politico perché ci dice che le istituzioni, in barba ai dettami costituzionali, poco si occupano di valorizzare, diffondere e sostenere un’arte antichissima e strettamente connessa con le manifestazioni dello stesso spirito umano.

    Nemo propheta in patria

    Via del Popolo è un racconto autobiografico. Parla della realtà di una strada nel centro di Castrovillari, di quando era piena di negozi, di gente, ricca di relazioni umane in uno spirito del luogo ormai passato. Quanto tempo occorre per percorrere duecento metri di strada? La risposta è negli anni di chi la percorre, perché il tempo non ha lo stesso valore per tutti: c’è chi lo vive assaporandolo e chi lo consuma fagocitandolo, perché le catene della grande distribuzione hanno cancellato i rapporti tra le persone.

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    Saverio La Ruina in scena con il suo Via del popolo (foto Angelo Maggio)

    Via del Popolo parla la lingua del posto, uno tra i tanti dialetti calabresi che come tutti gli altri difficilmente è riuscito a varcare i confini regionali per diventare lingua di scena, relegato al ruolo di vernacolo per un teatro amatoriale, quasi una lingua da nascondere o da sbeffeggiare.
    La Ruina, che riesce a rendere comprensibile e universale anche quei modi di dire decifrabili solo per chi vive lo spirito dei luoghi, porta il suo dialetto e i tipi fissi della nostra realtà del Sud nei più importanti teatri della penisola. Non importa che sia a Messina, a Roma, a Trento o a Milano perché La Ruina trova consenso, applausi e successo ovunque, ma non in Calabria. Qui non c’è spazio.

    Meglio Muccino per la Calabria?

    A questo punto dovremmo chiederci perché l’immagine della nostra regione passa attraverso la promozione di quelle piste di ghiaccio davanti la stazione di Milano, negli spot con gli asini, le tovaglie a scacchi, i verbi coniugati male, i capodanni da milioni di euro. Tutto intriso da terribili luoghi comuni, come se i calabresi fossero solo mare, sole, nduja e soppressata. Invece non si valorizza mai il patrimonio culturale contemporaneo, costruito faticosamente da uomini e da donne lasciati soli da una politica troppo impegnata nella lotta quotidiana per i consensi elettorali.

    La Calabria trascura il passato e del presente culturale preferisce non occuparsi. Non si investe in progettazione culturale, in distribuzione. Se non fosse per le iniziative dei privati, a livello istituzionale, non potremmo che assistere a traslochi di spettacoli televisivi di dubbio gusto negli spazi pubblici delle nostre città.
    Abbiamo comunque una speranza perché esiste un movimento che potremmo definire di resistenza. Si tratta di tante piccole compagnie teatrali di elevato spessore professionale che ogni giorno combattono per preservare la cultura del teatro in un luogo politicamente ostile.

    L’Ubu a La Ruina e il teatro in Calabria

    Di questo si occupa anche Scena Verticale, la compagnia teatrale fondata nel 1992 da Saverio La Ruina e Dario De Luca, ai quali si unirà successivamente anche Settimio Pisano. Grazie a Primavera dei Teatri, il festival sui nuovi linguaggi della scena teatrale, riescono a trasformare ogni anno Castrovillari nel più importante avamposto del teatro in Calabria e in un punto di riferimento internazionale della scena contemporanea.
    Riescono in un’impresa grandiosa, una realtà che non riesce a costruire neanche il mondo accademico nonostante un corso di laurea in Discipline della Musica e dello Spettacolo, troppo chiuso in se stesso, autoreferenziale e incapace di creare sinergie con le compagnie teatrali del territorio calabrese.

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    Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano

    Il Premio Ubu a Saverio La Ruina è un premio che torna in una Calabria che ignora questo settore culturale. E allora è come se il brutto, panciuto e grottesco Ubu percorresse, in lungo e largo, le strade vuote di una via del popolo che attraversa tutta una regione abitata da istituzioni che, alla cultura, preferiscono l’educazione all’allineamento di quel pensiero unico che esclude ogni forma di partecipazione culturale e sociale.

  • Magia a sette note: si torna a comporre a Villa Rendano

    Magia a sette note: si torna a comporre a Villa Rendano

    Il nome sembra altisonante: Mf Songwriting Camp. In realtà la sigla iniziale sta per Mario Fanizzi, l’ideatore dell’iniziativa: un corso full immersion di tecniche compositive (songwriting, appunto).
    La manifestazione – una masterclass, per la precisione – si è svolta in tre densissimi giorni, dal 15 al 18 dicembre, a Villa Rendano, trasformatasi per l’occasione in un incrocio tra uno stage e uno studio di produzione.
    Vi hanno partecipato quarantadue musicisti di tutte le estrazioni artistiche e di tutte le parti d’Italia. «Ma per il futuro voglio internazionalizzare l’evento», spiega Fanizzi.
    Il Songwriting Camp ha già una presenza internazionale prestigiosa: Tommy Parker, il produttore di Britney Spears, Drake, Ariana Grande, Justin Bieber e tanto altro pop che conta (o sta per contare).
    Con questo popò di professori, la situazione è più che interessante. Cerchiamo di saperne di più.

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    A lezione con Tommy Parker e Mario Fanizzi

    Mario Fanizzi: artista internazionale e calabrese adottivo

    Pugliese d’origine, Mario Fanizzi è approdato in Calabria (per la precisione, a Rende, dove vive) dopo un percorso formativo bello tosto, culminato in un corso di studi al prestigiosissimo Berkleee college of music di Boston e in una intensa attività professionale a Los Angeles come compositore e produttore.
    Anche la vocazione di Fanizzi è internazionale: nel suo carnet di collaborazioni figurano Renato Zero, Tom Jones e Carlos Santana, per citarne alcuni… e scusate se è poco.
    L’idea alla base del corso è piuttosto semplice: «Ho circa seicento allievi in tutto il mondo, a cui insegno le mie tecniche di composizione», che si basano su un metodo intuitivo (e olistico, preciserebbero quelli davvero bravi).
    In parole più povere: «Tutti noi apprezziamo alcuni brani perché ci colpisce la loro struttura musicale. Io parto proprio da questo approccio estetico per insegnare le strutture compositive». Quasi l’esatto contrario dell’insegnamento tradizionale, che parte dagli schemi armonici per arrivare ai brani.

    Un primo piano di Mario Fanizzi

    Quarantadue virtuosi alla carica

    Tre giorni tutto incluso, quindi sale per esercitarsi e fare lezione, catering per pranzo e cena e albergo.
    C’è il batterista pugliese che cerca di addentrarsi nella composizione. E c’è il cantante marchigiano che prova a diventare cantautore. E ci sono le vocalist che cercano il salto di qualità culturale.
    In un modo o nell’altro, sotto la guida di Fanizzi e Parker, le sale antiche della sede della Fondazione Giuliani si riempiono di note e arte.
    Da una generazione di musicisti, di cui Alfonso Rendano fu capofila, a un’altra, nel medesimo segno della qualità e dell’internazionalità.
    Ciò che cambia davvero sono la comunicazione e l’interconnessione: quelle magie del web che diamo per scontante ma che consentono “miracoli” di questo tipo.
    «Normalmente svolgo i miei corsi online, ma stavolta ho reputato importante un contatto diretto e, a giudicare dai risultati, sono soddisfatto».
    Fanizzi ipotizza il bis dell’iniziativa, anche in tempi brevi. Come dire: l’appetito vien mangiando. O meglio: la musica vien suonando.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Un po’ greco, un po’ beat: l’Ulisse on the road sulle strade della Calabria

    Un po’ greco, un po’ beat: l’Ulisse on the road sulle strade della Calabria

    Il tema del viaggio richiama da sempre alle avventure di Ulisse lungo il ritorno verso Itaca. Poi, grazie a James Joyce, abbiamo spostato l’attenzione dal poema di Omero al viaggio interiore dell’uomo moderno: non più eroe, ma antieroe raccontato nelle sue inquietudini e debolezze. Su tutto rimane il valore del mito, di storie che, pur in una nuova narrazione attualizzata, suscitano profonde riflessioni alla stregua dei testi classici.
    Con i poeti della Beat Generation, poi, abbiamo imparato che il viaggio è una ricerca sfrenata di libertà nel più completo rifiuto delle convenzioni sociali. Jack Kerouac, nel romanzo On the Road del 1951, restituisce con la sua narrazione autobiografica l’immagine della gioventù ribelle americana. Lo stesso Lawrence Ferlinghetti – l’ultimo poeta beat, morto nel 2021 a 101 anni – è ricordato come l’Ulisse on the road, lui che trasformò il viaggio in una ricerca interiore di ciò che è umanamente eterno, in una poetica fatta di parole, incontri e paesaggi.

    Da un Ulisse on the road all’altro

    Ulisse on the road è anche il titolo della drammaturgia con cui Katia Colica porta in scena, oltre all’eroe omerico e il suo viaggio, anche Penelope, Circe e Poseidone. Impossibile non coglierne le influenze beat, così come le suggestioni di libertà nelle interpretazioni della compagnia Officine Joniche Arti, attualmente in tour nei teatri calabresi. I protagonisti sono Americo Melchionda, Kristina Mravcova, Maria Milasi – che oltre al ruolo di Circe ha curato la regia – e Andrea Puglisi.

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    Katia Colica

    La scena si apre durante una tempesta che coinvolge i protagonisti, tutti indistintamente. Ma le onde che si agitano mentre si sentono i rumori dei tuoni e si vedono i bagliori dei lampi, non colgono tutti in mezzo al mare. Ognuno è esattamente nel luogo in cui dovrebbe stare: il palazzo, la nave, l’isola, il trono. Una tempesta che più che investire i corpi, insomma, travolge stati d’animo. Le emozioni, così, diventano parole, monologhi o dialoghi illusori tra i personaggi.
    Circe parla con Penelope, quest’ultima con Ulisse che, a sua volta, non può fare a meno di rivolgersi alla sua seduttrice. Tutto mentre il terribile Poseidone si rivolge a Circe, ma in realtà dialoga effettivamente solo con Penelope.
    Tutti (o quasi) dialoghi che sono solo fenomeni della coscienza, flussi di pensieri che si alternano in un botta e risposta metafisico, parole spinte oltre la realtà in grado di raggiungere le dimensioni oniriche e surrealistiche tipiche della poetica di Katia Colica.

    Tutta colpa di Poseidone

    Il viaggio vede i personaggi fermi in ruoli definiti: un eroe valoroso che vuole tornare a casa dopo dieci anni in guerra a Troia; una moglie paziente che attende il ritorno del padre di suo figlio; una maga capace di rendere schiavi gli uomini, colpevoli di essere preda dei loro stessi istinti; un dio potente ostinato a smuovere le acque e la terra.
    A determinare le vicende in Ulisse on the road è proprio il temperamento di questo dio vendicativo, violento e irascibile. Poseidone rappresenta l’Olimpo, il mare e l’oltretomba, ma anche il passato, il presente e il futuro.
    È il bravo attore catanese Andrea Puglisi a prestare il volto al figlio di Crono. Lo fa attraverso un’interpretazione istrionica, in cui i comportamenti manipolatori e seduttivi che esercita (soprattutto verso Penelope) si mescolano a una certa ironia così da rendere il personaggio ancora più cinico agli occhi del pubblico.

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    Un momento dello spettacolo della conpagnia Officine Joniche Arti

    Ulisse on the road: un viaggio alla ricerca di se stessi

    Il Poseidone di Puglisi è un dio che parla, presenta il suo punto di vista, riportando alla contemporaneità tutti i personaggi nel loro rapporto con il mito.
    In realtà si potrebbe vedere Poseidone come il vero protagonista della storia. È lui a scatenare la potenza del mare mentre è seduto sul suo trono o detta il ritmo semplicemente battendo il tempo su una tanica militare di metallo.
    Il tridente in Ulisse on the road, con un chiaro rimando alla simbologia del pomo della discordia, ha ceduto il suo posto ad una mela che viene lentamente consumata, così come si consumano le vicende degli altri personaggi sulla scena.

    Poseidone, figura mitologica di assoluta attualità, rappresenta i potenti, i dispotici, i prepotenti, tutti quelli che creano scintille pronte a scoppiare con le conseguenze inevitabili che conosciamo. L’atteggiamento di questo dio sopraffattore è determinante per lo sviluppo di una vicenda che si appropria dei destini altrui, spingendoli verso un viaggio fatto di insidie, ma capace di riportarli alla scoperta della loro stessa profondità.

  • Europa, quando per la pace si pensò di cedere Calabria e Sicilia alla Grecia

    Europa, quando per la pace si pensò di cedere Calabria e Sicilia alla Grecia

    «C’è qualcuno che crede davvero, seriamente, che le conseguenze dei negoziati di pace finora abbiano assicurato la pace eterna?».
    Appaiono incredibilmente attuali le domande che si poneva un anonimo commentatore subito dopo la fine della Prima guerra mondiale. Domande che probabilmente facevano parte di quel dibattito pubblico che, al tempo, tentava di individuare una sorta di cammino comune per ciò che già si chiamava Europa.

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    La Cornell University

    Oggi sappiamo che c’è voluta un’altra guerra mondiale – oltre ad innumerevoli conflitti interni e minori – prima di arrivare alla moderna concezione di Unione Europea, già immaginata in quel progetto di Paneuropa abbozzato nel 1922 per contrastare i totalitarismi militari e le “vendette” tra popoli vicini.
    Eppure, dopo la fine del primo conflitto mondiale (che provocò tra i 15 ed i 17 milioni di morti civili e militari) dovevano essere in molti ad avere una propria ricetta per la pace.
    Nel 2017 la Cornell Univesity di Ithaca ha digitalizzato e pubblicato un documento conservato per quasi un secolo tra i loro archivi. Si tratta di una mappa del 1920, nella quale si ipotizzava un articolato e bizzarro piano per la “pace duratura” in Europa, in cui l’Italia viene addirittura divisa in quattro parti.

    La mappa di Maas

    Il foglio, 60×80 centimetri, venne realizzato da un anonimo P. A. Maas (ipotizzato come Philippe André Maas, figlio del tipografo Otto Maas operante in Vienna). La mappa fa parte di un opuscolo di 24 pagine, intitolato The Central European Union! A guide to lasting peace nel quale l’autore ipotizza una nazione “divisa ma unita” che ha come fulcro il Duomo di Santo Stefano a Vienna.
    Nel testo del libretto (che purtroppo non è stato digitalizzato, ma solo parzialmente trascritto) viene dunque ipotizzata una primordiale unione (Einheitsstaates, ossia “stati uniti”) nella quale convivono pacificamente 4 popoli – romani, germani, slavi e magiari – suddivisi in 24 cantoni, che prendono il nome dalle rispettive capitali del tempo.

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    La nuova Europa suddivisa in 24 cantoni nella mappa custodita dalla Cornell University

    Un modello “federale” imperniato su una visione decisamente austro-ungarica del continente, che si differenzia da tante altre mappe del tempo per l’inusuale quanto insolita suddivisione conica (potremmo definirla a fette) difficilmente attuabile nella realtà. Ma di fondo, si tratta di un’utopia, che prevedeva – tra le altre cose – l’uso dell’esperanto come lingua principale.

    Europa in pace: l’Italia (e la Calabria)

    Già a vista d’occhio, la mappa presenta dei dettagli anomali. Ad esempio, non fanno parte dell’unione la Spagna ed il Portogallo, né la Bulgaria, la Grecia o la “Serbia-Albania”. Escluse anche Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia, Gran Bretagna ed Irlanda, così come tutta la Russia. Indicato anche l’Hebraisches Reich in corrispondenza dell’odierna Israele, oltre a numerose zone neutrali.
    Anche l’Italia è sostanzialmente esclusa dall’unione: presente solo il cantone di Milano (che comprende grossolanamente l’area dell’odierna Lombardia, del Piemonte e della Valle d’Aosta). Il resto della penisola coinvolta (comprendente Liguria, Emilia-Romagna, Veneto, parte di Toscana) rientra nel cantone di Marsiglia.

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    Le quattro Italie nella mappa di Maas

    Tutto il resto del bel paese, fino ai confini del Pollino in Calabria, è identificato come Kirchenstaat, e dunque lo Stato della Chiesa o dei papi. La Sardegna invece è associata alla Spagna, e dunque al di fuori dell’unione a differenza della Corsica.
    Che succede invece oltre il Pollino? Nella nuova Europa finalmente in pace l’enigmatico autore ha riunito la Calabria e la Sicilia alla Grecia, territorio che comprende anche l’isola di Creta (all’epoca ancora nota con il nome della sua antica capitale, Candia) ma non l’isola di Malta.

    Rivalse cartografiche?

    Una visione audace, in un certo senso, dettata da un accomunamento storico o mossa da differenti ambizioni? L’Italia era unita già da 59 anni, ma nell’idea dell’autore è stata “scomposta” riproponendo una divisione simile, seppur differente, a quella preunitaria. Parte dell’ex regno borbonico dunque non venne neppure inclusa nello stato ecclesiastico, ma addirittura associata alla Grecia.
    Bisogna notare infatti che nella mappa realizzata da Maas vi sono alcuni “stati cuscinetto” che proteggevano il confine a sud dell’ipotizzata unione. Mentre sul fronte spagnolo e sul fronte russo si disegnano delle linee militari, a separare la Grecia (ma anche la Turchia) sono tre stati autonomi, che di fatto rappresentano un’ulteriore barriera: un modo per limitare nuove invasioni da sud?

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    Soldati italiani con la divisa asburgica durante la Grande Guerra: decine di migliaia di altoatesini combatterono per il Kaiser durante la Grande Guerra

    Per quanto riguarda il Sud Italia, invece, si può ipotizzare una sorta di “rivalsa” a seguito del comportamento ambiguo ed ambivalente che i Borbone tennero proprio nei confronti del regno austriaco: sebbene Francesco II trascorse i suoi ultimi anni anche a Vienna, era ancora vivo il ricordo della guerra mossa da Ferdinando II, per volere del primo governo costituzionale del Regno delle Due Sicilie.
    Ciò avvenne nonostante gli storici legami di parentela con la corona austriaca, e dopo secoli di avvicendamenti e conquiste reciproche. Ma parliamo di una mera ipotesi: non è da escludere infatti che l’autore abbia voluto semplicemente accomunare un territorio già noto al tempo come Magna Græcia con quella che riteneva essere la sua vera patria.

    La Mitteleuropas

    Ad ogni modo, non bisogna guardare questa mappa con sospetto, né ipotizzare moderne concezioni di razzismo. L’originale disegno di Maas infatti rientra a pieno titolo nella logica del tempo, quando l’idea di Europa centrale era differente rispetto ad oggi.
    La “mitteleuropas” infatti comprendeva originariamente le regioni tra i fiumi Reno e Vistola, ed oggi si estende tra Germania, Svizzera, Polonia, Austria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Ungheria e Liechtenstein. La Francia ed il Regno Unito fanno parte dell’Europa occidentale, mentre Portogallo, Spagna ed Italia di quella meridionale.
    Il concetto di Mitteleuropa era molto importante anche prima della guerra, in quanto – di fatto – riguardava due regni: quello tedesco e quello austro-ungarico, che volevano porsi entrambi come baricentro dell’unione e dei suoi equilibri. Equilibri non solo umani e sociali, ma anche (se non sopratutto) economici.

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    1916, il generale Toshev e Hilmi Pasha osservano la battaglia nei dintorni di Medgidia (archivio Toshev)

    In tal senso, si tendeva dunque a disegnare un’area di influenza (o di egemonia) proprio in base alle etnie, che al tempo si usava dividere sommariamente per lingua, costumi, religioni ed usanze. Nel corso degli anni l’Europa centrale si è poi ingrandita fino a comprendere altre regioni storiche, arrivando alla massima espansione ipotizzata dallo stesso Maas nella sua mappa.
    Quella che ci troviamo di fronte, dunque, è la raffigurazione di un’idea probabilmente molto diffusa al tempo: l’idea di un’unione necessaria per la pace. Ma è pur sempre un’idea parziale, nata e sviluppata in quello che al tempo era il centro di un’Europa oggi molto più grande.

    La Calabria nella nuova Europa in pace

    Fa comunque riflettere il fatto che, per arrivare alla tanto agognata pace in Europa, fosse necessario addirittura escludere interi paesi e che in questo intricato scacchiere internazionale abbiano trovato un posto addirittura singole regioni, come la Calabria. Come se già al tempo fosse percepita come una realtà distante e addirittura distaccata dalla nascente unione.
    Almeno nelle intenzioni di un anonimo mappatore viennese.

    Francesco Placco

  • Il domani di Paola Cortellesi ci sarà ancora per Sangiuliano e Valditara?

    Il domani di Paola Cortellesi ci sarà ancora per Sangiuliano e Valditara?

    Il grande successo del film con cui Paola Cortellesi firma il suo esordio alla regia fa ancora parlare di sé anche per il record d’incassi. Si stimano oltre 27 milioni di euro e il concetto dietro C’e ancora domani certamente apparirà molto più chiaro anche al Ministero della Cultura. Lo stesso che al film, giudicandolo come “opera di scarso valore artistico e di qualità non straordinaria”, ha negato finanziamenti pubblici collocandolo addirittura come ultimo nella graduatoria del bando. Poco importa che alla data del 12 ottobre 2022, il Ministro che nominò la Commissione colpevole della bocciatura non era Sangiuliano, ma Franceschini. Il danno d’immagine è fatto. E ora Sangiuliano, oltre che elargire consigli di letture come il libro di Alessandro Sallusti, La versione di Giorgia, dovrebbe preoccuparsi, in concerto con il ministro Valditara, di portare questo film in ogni scuola italiana e di promuoverlo anche a livello internazionale.

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    I ministri Valditara e Sangiuliano

    Paola Cortellesi batte Ridley Scott

    C’è ancora domani ha avuto il suo meraviglioso domani, unico film di produzione italiana ad entrare nella Top 10 annuale, vincendo il Biglietto d’oro 2023. Dopo la presentazione in anteprima alla Festa del cinema di Roma, ha già portato a casa il Premio del pubblico, la Menzione Speciale Miglior Opera Prima e il Premio Speciale della Giuria.
    Dal 26 ottobre il lungometraggio riempie le sale cinematografiche, occupa le prime pagine dell’informazione, battendo anche Napoleon di Ridley Scott. Una prova insomma, qualora ce ne fosse bisogno, che il cinema italiano gode di ottima salute, anche quando racconta la storia di una donna di borgata a confronto con il più grande imperatore della storia contemporanea.

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    Joaquin Phoenix interpreta Bonaparte nel film di Scott

    Per questa volta la fascinazione del grande condottiero nulla può contro il femminismo in bianco e nero di Paola Cortellesi. E mentre tutti ne parlano, le interviste ai protagonisti si moltiplicano. Nessuno sembra intenzionato a rimanere fuori dal dibattito su di un film che fa molto ridere e, ancor di più, riflettere. Certo, il rischio è quello di non aggiungere nulla alla discussione su un’opera che, nonostante qualche vano tentativo di critica, semplicemente è bello da vedere e, possibilmente, anche da rivedere.

    Il 1946 di Paola Cortellesi

    La Cortellesi per la realizzazione del film ha seguito un percorso che può definirsi teatrale: tre mesi di prove prima di iniziare le riprese, cosa che nel cinema raramente avviene. Il cinema è fatto di scene tra attori che, molto spesso, si incontrano sul set giusto il tempo di un ciak, nulla a che vedere con il lungo lavoro di condivisione di una compagnia teatrale.
    La scena iniziale, vale a dire lo schiaffo di Ivano (Valerio Mastrandrea) alla moglie Delia (Paola Cortellesi), sembra una sorta di presentazione di ciò che accadrà, un prologo che ironicamente fa pensare «iniziamo bene!».

    Sarà Delia ad aprire il sipario sulla narrazione, spalancando la piccola finestra del seminterrato in cui abita con la famiglia. Delia guarda fuori dal basso della sua casa e dalla sua condizione di donna, non diversa da quella di tante donne degli anni ‘40. Ma aprire le finestre al nuovo sole è necessario per far entrare i nuovi sogni. La primavera del giugno 1946 è arrivata: le donne non saranno più le stesse di prima.

    I protagonisti di C’è ancora domani

    La guerra è finita da poco, l’Italia è stata liberata, la miseria è ancora tanta e la famiglia dei protagonisti vive la condizione del proletariato romano. Delia è moglie, madre di tre figli, vive anche con l’anziano suocero, il Sor Ottorino (Giorgio Colangeli), alla quale la donna è costretta a fare anche da badante. La figlia primogenita Marcella (Romana Maggiora Vergano) spera di sposarsi in fretta con Giulio (Francesco Centorame), un ragazzo del ceto borghese, e liberarsi così da una famiglia per molti versi disagiata.
    Le giornate di Delia si svolgono tra la pulizia della casa, i lavoretti che svolge correndo da una parte all’altra della città per aiutare la famiglia, ma anche le botte e le umiliazioni del marito, quasi fossero uno dei compiti da assolvere quotidianamente.
    C’è Marisa (Emanuela Fanelli), la sua amica del cuore, con cui condivide confidenze e momenti di leggerezza. Ma c’è anche Vinicio Marchioni nella parte di Nino, il primo amore di Delia, capace di suscitare sentimenti di tenerezza che non possono essere ignorati.

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    Ritratto di famiglia

    Ricordi in bianco e nero

    Un giorno a Delia, che non aveva mai scritto nessuno, arriva una misteriosa lettera. E in quel momento comprende di avere una propria identità.
    Una storia semplice, un racconto come tanti. Non è una storia di donne, quanto il racconto di un momento storico in cui le donne sono protagoniste. Paola Cortellesi porta sullo schermo delle storie di quelle che raccontavano le nonne, di quelle che si ascoltavano nei cortili dei palazzi, dove tutti sapevano tutto degli altri e dove anche le botte erano una consuetudine.

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    André Bazin

    Il film è girato in bianco e nero, perché questo è il colore dei ricordi, di storie di cui abbiamo immagini grazie a quel neorealismo che, se da una parte non c’entra niente con la cifra stilistica della Cortellesi, dall’altra portava sullo schermo le storie della gente povera, frustrata, ma anche desiderosa di riscatto all’indomani del secondo conflitto mondiale.
    Il bianco e nero, come affermava André Bazin, trasfigura la realtà stilizzandola e rendendola evidente per sottrazione. E poi, proprio perché è il colore del ricordo, la soglia della coscienza rimane proiettata in quel tempo anche quando la colonna sonora ci riporta in un presente pop-punk-jazz.

    Cattivi che non seducono

    La linea dell’umorismo attraversa il film, soprattutto quella che ritrae i personaggi cattivi. Come ha affermato la stessa regista, solitamente la cattiveria rende i protagonisti affascinanti, quasi seduttivi. Cortellesi, invece, vuole sminuirli facendoli apparire ridicoli, quasi stupidi.
    La violenza tra le mura domestiche è resa come una sorta di rituale, un balletto grottesco che normalizza una situazione cancellandone immediatamente i lividi, incapaci di lasciare segni. Cortellesi voleva proprio evitare l’effetto volgare di un voyeurismo che osserva dal buco della chiave le botte in casa altrui. Trasforma così, con maestria, la brutalità in un effetto kafkiano, rendendo alcune scene ancora più intollerabili anche grazie ad un effetto di straniamento.

    E oggi c’è ancora un domani?

    Forse è proprio la capacità di straniamento che consente a Delia di guardare in faccia la propria vita, liberare la figlia da un destino già segnato, di indossare il rossetto e andare avanti in una rivoluzione che, anche se a bocca chiusa, le ha consentito di autodeterminarsi.
    Alla certezza di Delia di avere ancora un domani per portare avanti la sua rivoluzione aggiungerei un punto interrogativo: oggi c’è o potrà esserci ancora un domani per tante altre donne che, in altri paesi, nel nome dell’estremismo religioso, rischiano di trovare la morte ancor prima di aver realizzato la loro personale rivoluzione?

  • Pietro De Roberto, il massone che sdegnava il potere

    Pietro De Roberto, il massone che sdegnava il potere

    Pietro De Roberto: un nome che a Cosenza dice poco a molti, ma pure qualcosa a tanti. Una via a suo nome, lì dove per anni ha avuto sede una delle principali e più longeve case massoniche in uso alla compagine locale del Grande Oriente d’Italia.
    Una loggia a suo nome, e una delle più prestigiose e datate: più esattamente la “Bruzia – Pietro De Roberto 1874 n. 269”, che tra pochi mesi festeggerà i 150 anni di lavori. Conteggio ovviamente approssimativo, che non conta cioè il ventennio di inattività dovuto alle leggi fasciste. Fu infatti soltanto nel dicembre del 1943 che la loggia si poté risvegliare, grazie alla determinazione del Venerabile Samuele Tocci e di Alessandro Adriano, del pediatra mazziniano Mario Misasi, del medico antifascista Giuseppe Santoro, di Vittorio Tocci nonché di Emilio e Giovanni Loizzo.

    La Loggia Bruzia – Pietro De Roberto

    La Loggia Bruzia–Pietro De Roberto ne aveva passate, insomma, di cotte e di crude, e senza contare i trasferimenti fisici da Casa Tocci ai locali – ormai non più esistenti – di proprietà dei fratelli Loizzo in via Cesare Marini e poi in quelli di via Guglielmo Tocci. Proprio durante la prima convocazione straordinaria, dopo 18 anni di imbavagliamento fascista, il Venerabile Tocci diede lettura dell’ultimo verbale, quello del 18 settembre 1925, e aggiunse una raccomandazione nuova di zecca: «È necessario intanto combattere ogni attività estremistica ed impedire il dilagarsi del Partito democratico cristiano, che vorrebbe ripetere la nefasta attività del Partito popolare». Buona intenzione disattesa, alla luce dell’ormai documentato equilibrio catto-massonico che resse Cosenza nel secondo dopoguerra.

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    Sigillo della prima Loggia Pietro De Roberto n. 269

    Un rivoluzionario al governo

    Ma torniamo a Pietro De Roberto, che alla loggia – e alla via – dà il nome. Non un Carneade qualsiasi: nacque a Cosenza, il 1° giugno 1815, in una casa di Strada Santa Lucia, dal Consigliere d’Intendenza Francesco (poi magistrato) e da Nicoletta Guarasci.
    Trasferitosi a Napoli, dove conseguì la laurea in Medicina, aderì lì alla Giovine Italia, alla Carboneria locale. Lo perseguitò, pertanto, la polizia borbonica. Dopo un tentativo di sommossa a Cosenza, partecipò ai moti del ’48, che gli costarono quattro anni di carcere «per attentati volti a distruggere e cambiare il Governo ed eccitare gli abitanti del Regno ad armarsi contro l’autorità» nonché «per aver senza diritto o motivo legittimo preso il comando delle Guardie Nazionali». Per tutta risposta, quando Garibaldi nominò Governatore della Provincia Donato Morelli, quest’ultimo chiamò proprio De Roberto a prendere parte al Governo Provvisorio.

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    L’atto di nascita di Pietro De Roberto

    Pietro De Roberto «sindaco perenne»

    Fu così consigliere provinciale per il mandamento di Cosenza: in occasione delle elezioni suppletive comunali di Cosenza del 1886 – dovute alle dimissioni del sindaco Clausi – il giornale La Sinistra auspicò la creazione di una lista guidata proprio dal medico, candidandolo contrariamente al suo stesso parere a «sindaco perenne», per «l’onorabilità  della vita e la fermezza del carattere».
    Pietro De Roberto tuttavia rifiutò poiché non concepiva il cumulo delle cariche, così come in passato aveva rifiutato la candidatura al Parlamento dichiarando di non possedere le virtù indispensabili a un legislatore e di non avere i mezzi per vivere nella capitale.

    Il medico e il 33

    Nello stesso 1886 si trovò però assieme ad altri massoni – compreso il futuro senatore Nicola Spada – tra i fondatori della neonata succursale della Banca Agricola in Piazza piccola. Pietro De Roberto era appartenuto infatti alla loggia cosentina Pitagorici Cratensi Risorti e, il 7 ottobre 1874, aveva fondato, assieme ad altri fratelli della stessa, la loggia Bruzia, laddove si sarebbero affrontati con impegno i problemi dell’educazione elementare e di quella domenicale per le donne, dell’educandato femminile, della polizia urbana, dell’annona, delle società  e scuole operaie, di un dispensario gratuito per i poveri e finanche della fondazione di un Gabinetto di lettura come mezzo di lavoro e propaganda.
    Nel biennio 1888-1889 risulta Venerabile, e di grado 33°, della stessa loggia.

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    Brevetto di Maestro rilasciato dalla Loggia Bruzia e firmato dal venerabile De Roberto

    Pietro De Roberto morì il 2 aprile 1890. Lo commemorarono nella sala dell’Istituto Tecnico cittadino mentre le sue esequie si svolsero in forma civile: «Aprivano il corteo le società  operaie, seguivano i Fratelli delle due logge cittadine con i labari, le Scuole, i Consiglieri Comunali e Provinciali, le autorità  militari e civili. La bara fu portata dai Maestri Venerabili della Bruzia e della Telesio, e dal Presidente del Consiglio Provinciale. Il corteo, dopo aver attraversato la città fra la più profonda commozione, si fermò presso il Palazzo dei Tribunali, dove il De Roberto fu commemorato dal Sindaco e dal Presidente della Provincia».

    Il monumento a Pietro De Roberto

    L’inaugurazione del busto in memoria di Pietro De Roberto, opera di Giuseppe Scerbo, scultore massone reggino, dell’ingegnere Marino e del geometra Prato, fu inaugurato nel cimitero di Cosenza il 3 novembre 1890, con un discorso di Giacomo Manocchi, tesoriere della loggia Bruzia  (e, in quel biennio, di grado 18°) nonché pastore valdese impegnato nell’evangelizzazione nelle cittadine di Corigliano, Altomonte, Lungro, S. Sofia d’Epiro, S. Demetrio Corone, e Vaccarizzo Albanese.

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    Simboli massonici sul basamento del busto funebre di Pietro De Roberto (foto L.I. Fragale)

    Sul monumento spiccano piccole figure esoteriche sui quattro lati del basamento: le insegne del Rito Scozzese Antico e Accettato, poste frontalmente; una squadra assieme ad un serpente accollato al maglietto e a un piccolo destrocherio di scalpellino; le insegne del 33° grado; infine, squadra e compasso in grado di Compagno (e non, come sarebbe stato più corretto, in grado di Maestro) accompagnate da un teschio accollato a una tibia e trafitto da un pugnale.
    Il basamento riporta la seguente epigrafe di mano del cavaliere Zanci: «Pietro De Roberto 33 / nei moti / pel civile riscatto / uno de’ primi / cariche ed onori / sdegnando / menò vita povera / esempio ai posteri / di antica virtù».

  • Joe Zangara, il calabrese che sparò a Roosevelt

    Joe Zangara, il calabrese che sparò a Roosevelt

    Il cinema, fin dalle sue origini, ha portato sul grande schermo le storie del sogno americano inseguito anche da milioni di italiani. Il teatro, invece, sembra essersi interessato poco a queste vicende, ma trova nell’attore e regista teatrale cosentino Ernesto Orrico un divulgatore di storie di migrazioni.
    Già con la regia di Malamerica, su una drammaturgia di Vincenza Costantino, aveva dato voce alle tribolazioni degli emigrati che non ce l’hanno fatta e i cui nomi si perdono nell’oblio della storia. Tra di loro, anche un anarchico, come i più noti Sacco e Vanzetti, finito sulla sedia elettrica nel 1933 dopo dieci giorni nel braccio della morte della Florida State Prinson di Raiford.
    Joe Zangara, protagonista dello spettacolo La mia idea. Memoria di Joe Zangara, era partito da Ferruzzano, in provincia di Reggio Calabria, nel 1923.
    L’opera trae spunto dal libro del 2020 La mia idea. Memoria di Joe Zangara, pubblicato nell’edizione italiana e inglese da Erranti nella collana La scena di Ildegarda e scritto da Ernesto Orrico, Massimo Garritano, tradotto da Emilia Brandi.

    Joe Zangara e l’attentato

    Giuseppe Zangara nasce nel 1900 in una terra che le logiche del latifondo costringono ad arretratezza e marginalità. Un’infanzia difficile la sua: perde troppo presto l’affetto materno e si ritrova a vivere tra la fame, la violenza di un padre padrone e una malattia cronica che gli procura forti dolori addominali, specchio del suo male di vivere.
    Dopo aver combattuto gli ultimi mesi del primo conflitto mondiale anche lui, come tanti, si lascia sedurre dal sogno americano e lascia per sempre l’Italia.

    È proprio su questa figura di perdente, nel suo aspetto più intimo, che Orrico si concentra. Un uomo condannato per aver attentato alla vita dell’allora Presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, procurando la morte del sindaco di Chicago, Anton J. Cermak.
    Zangara è realmente colpevole di un tentato omicidio e dell’assassinio di un uomo, una condizione che non gli consente riabilitazioni come per Sacco e Vanzetti.

    Due lingue e un flusso di coscienza in musica

    La mia idea Memoria di Joe Zangara prende spunto dal memoriale che lo stesso Zangara scrive pochi giorni prima che lo giustizino. Orrico e Garritano lo presentano come uno spettacolo/concerto.
    Il racconto in prima persona procede attraverso un linguaggio capace di fondere termini dialettali calabresi con un inglese/americano  forzato, ma mai stentato. Ed è proprio questo bilinguismo a sottolineare l’incapacità di adeguarsi completamente ad una nuova realtà sociale.

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    Orrico e Garritano sul palco (foto noteverticali.it)

    La mescolanza di termini evidenzia il voler rimanere ai margini di Joe Zangara, estraneo alla nuova vita che aveva scelto di seguire, così come lo era nella sua terra.
    Il piccolo emigrante calabrese è insoddisfatto della sua vita e lo racconta attraverso un flusso di coscienza che si intreccia con la sonorità degli strumenti a corda. Allora il bouzouki e il dobro non sottolineano pensieri, diventano essi stessi riflessioni, rabbia e dolore.

    Il sogno americano infranto

    In scena vanno i sentimenti di un uomo dal destino segnato. E, attraverso questi, l’umanità e lo sdegno di chi, lasciando la propria terra per scelta o perché costretto, si accorge che il Nuovo Mondo è solo il luogo della perdita del valore umano, minacciato dalla logica dei consumi o barattato con la promessa di una effimera ricchezza.

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    Franklin D. Roosevelt pochi istanti prima che Joe Zangara gli sparasse

    L’attentato di Joe Zangara a Roosevelt, il 15 febbraio 1933, rappresenta l’incapacità di adeguarsi a vivere in un sistema che ha bisogno di sfruttare la gente per far decollare l’economia americana dopo la Grande Depressione del 1929.
    Il New Deal per Joe Zangara si traduce in un sentimento di anticapitalismo, “la sua idea”, cui Orrico e Garritano danno corpo attraverso parole e musica nell’autobiografia più intima di un condannato a morte.

    Joe Zangara dagli States al Rendano

    Dal 27 ottobre al 5 novembre i due hanno riportato Joe Zangara negli States tra la comunità italo-americana in occasione della decima edizione del festival In Scena! Italian Theater Festival NY Fall Edition 2023, promosso da Kairos Italy Theater in collaborazione con Kit Italia e Casa Italiana Zerilli-Marimò at NYU, con il supporto del Ministero per gli Affari Esteri e la Cooperazione Internazionale.

    La kermesse, a cura di Laura Caparrotti e Donatella Codenescu, ha quindi raggiunto San Diego e Santa Rosa in California, poi Calgary e Lethbridge in Canada, con spettacoli teatrali per le comunità di origini italiane e incontri tra artisti italiani e internazionali rendendo concreto il senso più profondo del teatro che vuole essere un incontro, non solo tra pubblico e attori, ma tra comunità, tra culture e identità che si ritrovano oltre quell’oceano attraversato molti anni prima della loro nascita dai loro stessi progenitori.

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    Il Teatro Rendano di Cosenza

    Dopo il tour nordamericano, lo spettacolo torna adesso nei teatri della Calabria per il progetto speciale di Fondazione Armonie d’Arte, L’Altro Teatro e Nastro Mobius, nel cartellone di Un Giorno All’Improvviso .
    La mia idea. Memoria di Joe Zangara di Ernesto Orrico, con le musiche di Massimo Garritano, produzione Zahir/Teatro Rossosimona va in scena infatti nella Sala Quintieri del teatro Rendano di Cosenza venerdì 8 dicembre alle 19. L’ingresso è gratuito.

  • E il re del terrore diventò Diabolik sull’Isola di Dino

    E il re del terrore diventò Diabolik sull’Isola di Dino

    «Ho passato tutto questo tempo a dare la caccia a un fantasma. Però adesso stiamo per morire. Potresti dirmela la verità! Diabolik, chi sei?».
    E così insieme a Ginko-Valerio Mastandrea scopriamo che l’antieroe creato negli anni Sessanta dalle mitiche sorelle Angela e Luciana Giussani è cresciuto sull’Isola di Dino, di fronte a Praia a Mare. È la location scelta, insieme alla Tonnara di Palmi, per raccontare la sua infanzia e la sua adolescenza, nell’ultimo film della trilogia dei fratelli Marco e Antonio Manetti.

    I fratelli Antonio e Marco Manetti (foto Pietro Luca Cassarino, fonte Wikipedia)

    Diabolik-Chi sei?, prodotto da Mompracem e da Rai Cinema, è stato presentato al Citrigno di Cosenza nelle stesse ore in cui usciva in tutta Italia. In sala con Antonio Manetti, Giampaolo Calabrese, project management della Calabria film commission, che ha contribuito alla realizzazione, il presidente regionale dell’Anec Pino Citrigno e la giornalista Rosa Cardillo.
    «Le maestranze calabresi hanno una marcia in più, è incredibile», dice Antonio Manetti. «Lavoriamo sempre con la stessa troupe, siamo una famiglia, ma ogni tanto abbiamo incluso qualcuno proveniente da questa regione, ragazzi e ragazze non alfabetizzati cinematograficamente e che sono cresciuti in fretta; con il resto della squadra spesso siamo rimasti meravigliati dalle capacità dimostrate».

    Le riprese del film dei Manetti Bros sull’Isola di Dino

    Da neonato a criminale… sull’isola di Dino

    Nell’ultimo capitolo della saga si scava nel passato di Diabolik. Girato in un pezzetto di Calabria, a Bologna, Milano e Roma (tra la primavera e l’estate del 2022), è ispirato al numero 107 del fumetto, una storia che i cultori conosco bene.
    Giacomo Giannotti e Mirian Leone interpretano la coppia del crimine. Il loro è un grande amore come quello tra l’Altea di Monica Bellucci e il commissario di Clerville. Deliziosa Barbara Bouchet che appare nei panni di una contessa, mentre Carolina Crescentini, anche lei in una breve parte, ricorda un personaggio di Omicidio a luci rosse di Brian de Palma.
    Il futuro criminale viene salvato in mare, neonato, da un manipolo di criminali che lo porta sull’isola (di Dino) dove crescendo imparerà, grazie a chimici, medici e ingegneri pazzoidi, a costruire le maschere umane, a fabbricare trucchi meccanici rocamboleschi, a far scorrere fiumi di pentothal. E sono scene in bianco e nero con un sentore di espressionismo tedesco alla “dottor Caligari”. Sull’isola si aggira una pantera nera che semina il terrore e che tutti chiamano Diabolik. Una creatura che lo affascina, tanto da prenderne il nome.

    La giornalista Rosa Cardillo e il regista Antonio Manetti

    Palmi e il «film del cuore»

    I fratelli Manetti sono romani ma originari di Palmi da parte di madre. Amano e frequentano la regione dello Stretto da sempre. In questo momento seguono il montaggio di U.S. palmese, finito di girare la scorsa estate, con Rocco Papaleo, Claudia Gerini, Massimiliano Bruni (stessi produttori del terzo Diabolik, con in più il patrocinio della Lega Nazionale Dilettanti).
    Un’opera ottimista, «un film del cuore», confessa il regista, che segna il ritorno dei Bros all’abitudine di spaziare tra i generi.
    «E’ dall’incontro con Giampaolo Calabrese che è nata l’idea. Durante le location per Diabolik ci chiese “perché non fare un film interamente dedicato alla regione?”. Io e Marco avevamo una storia, un progetto già scritto e messo da parte. Gliel’abbiamo raccontata e lui ha risposto: “Facciamolo!”».

    Erano due ragazzini i Manetti, quando in un’osteria vicino allo stadio di Palmi, mentre mangiavano gelati, ascoltavano i racconti sulle imprese di un calciatore. «La squadra di calcio è una scusa per raccontare tante cose, è un film pieno di emozioni, sia sportive sia umane». Un film sulla Calabria migliore. «Vorremmo fare per questa terrà ciò che abbiamo fatto in Campania con il nostro Song’e Napule».
    Molta musica (nel caso della premiata opera napoletana quella dei neomelodici, con il Lollo Love di Giampaolo Morelli), tenerezza, ironia, affetto. Nel cast anche Max Mazzotta e Paolo Mauro, attori calabresi che hanno lavorato in diversi film, molto impegnati sul territorio.

    La copertina “stracult” del numero 107 di Diabolik

    Maschere, vintage e tanta musica

    Nel cast di Diabolik-chi sei? c’è Max Gazzè, un altro artista che da queste parti torna volentieri, grazie alla sua collaborazione con il musicista Checco Pallone e la sua orchestra. Interpreta il re del terrore che si traveste per una “missione” e indossa una maschera che ha la faccia… proprio di Gazzè.
    L’attore Paolo Calabresi fa il cattivo, è King, il capo supremo della comunità di geniali delinquenti che popolano l’isola. È il primo avversario di Diabolik. Chi la spunterà?
    Non spoileriamo, ma ci piace l’alleanza femminile tra Eva e la duchessa Altea di Vollenberg, per salvare i loro compagni dalle grinfie di una banda di rapinatori, talmente sopra le righe da provocare un effetto comico. Una parte della critica non è stata generosa con questo film. I Manetti pagano scelte coraggiose da apprezzare nel tempo. La loro trilogia è un’eredità importante per il cinema italiano.

    I personaggi sembrano realmente fumetti. La cinepresa gli sta addosso esaltandone centimetri fisiognomici e sguardi. Ironici e fedeli agli effetti meccanici più che a quelli speciali, gli autori sembrano divertirsi a creare un film dall’allure vintage. Una pellicola forse un po’ lunga, come tante altre delle ultime stagioni cinematografiche, ma che offre più punti di osservazione: uno spasso è scovare gli oggetti e gli arredi di scena: dallo show di macchine d’epoca, alle lampade, alla varietà di telefoni della Sip.
    Tutta la saga passerà l’esame dei botteghini degli States. I registi, che puntano sulla vena noir e su quel dna di cinema italiano apprezzato dagli americani.
    E poi c’è l’amata musica. La colonna sonora originale, uscita anche in vinile, è di Aldo e Pivio De Scalzi, con una soundtrack a base il funky. E vengono in mente L’ispettore Coliandro e altri lavori dei Manetti. Canta anche il re del falsetto degli anni Settanta Alan Sorrenti. Ti chiami Diabolik è il brano d’apertura firmato insieme con i Calibro 35.

    Da sinistra: Pino Citrigno, Antonio Manetti, Rosa Cardillo e Giampaolo Calabrese

    Un via vai di registi e attori

    «Abbiamo accolto la troupe e i Manetti con grande piacere e siamo orgogliosi – dice Giampaolo Calabrese della Calabria film commission, – di far conoscere il territorio attraverso una narrazione innovativa e di alta qualità». Inizia ad essere molto lungo l’elenco dei film realizzati nella regione in questi ultimi anni. La Fondazione avvierà corsi di formazione per personale specializzato, per poter rispondere alle richieste di produttori e registi che scelgono la Calabria. Partito da Cosenza Alessandro Gassman, dove ha soggiornato durante le riprese di alcune scene di A mani nude di Mauro Mancini, è arrivato l’attore americano James Franco, protagonista di Hey Joe di Claudio Giovannesi. Un magnifico via vai che si spera diventi una costante per una Calabria sempre più cinematografica.

  • Vedere è credere? Forse

    Vedere è credere? Forse

    Due bambini, 4 anni ciascuno e un nome quasi gemello, Omar e Omer. Uno palestinese, l’altro israeliano, accomunati dallo stesso destino. Muoiono nei primi giorni del conflitto, uno mentre gioca con il fratello più grande, Majd, davanti l’uscio di casa, l’11 ottobre, l’altro all’interno della sua casa, insieme al resto della famiglia, nel kibbutz Nir Oz durante l’attacco del 7 ottobre.

    Un destino che va anche oltre la morte, negata dai social. Di Omar si arriva a scrivere che si tratta di una bambola, e di Omer che è un attore pagato; sarà la giornalista della BBC, Marianna Spring, ad andare a verificare la notizia, intervistando la famiglia dell’uno, e i parenti rimasti in vita dell’altro.
    Una storia che conferma la brutalità cinica della guerra, rivelando una diffusa consapevolezza rispetto ai meccanismi di comunicazione social, per cui tutto è falso e verosimile al tempo stesso (o falso proprio perché verosimile). Ma ai tempi dell’AI, che rende disponibili su un sito di stock false foto del conflitto, la percezione di questa vicenda ha contorni paradossali, che ci riportano, ancora e sempre, alla natura della fotografia. Perché la negazione della morte di Omar e Omer non mette in dubbio l’autenticità delle foto insieme alla loro funzione testimoniale, ma la veridicità stessa della storia. Come dire che se c’è la consapevolezza di un conflitto parallelo, combattuto sul fronte della disinformazione, per altri versi si fa ancora fatica ad abbandonare l’idea barthesiana della fotografia come un “è stato”.
    In ogni caso, compito della propaganda è oscurare la foto con quell’invisibile oltre i bordi che è il terreno vago dell’interpretazione.

    Attilio Lauria

  • Un paese felice: Carmine Abate riscopre Eranova

    Un paese felice: Carmine Abate riscopre Eranova

    Una tappa importante di un tour particolare: Carmine Abate ha presentato, il 25 novembre a Villa Rendano, Un paese felice, il suo ultimo romanzo uscito per Mondadori a fine ottobre.
    Sala piena nella sede della Fondazione “Attilio e Elena Giuliani” per ascoltare il dialogo dello scrittore di Carfizzi con Antonietta Cozza, consigliera comunale di Cosenza delegata alla cultura. In più, un piccolo tocco di internazionalità che non guasta: la presenza in prima fila di Lendita Haxhitasim, l’ambasciatrice del Kossovo in Italia (tra l’altro formatasi all’Unical).
    Un segno come un altro che la cultura arbëreshë (di cui Abate fa parte a pieno titolo) è un elemento di primo piano nei rapporti tra l’Italia e i Balcani.

    La presentazione di “Un paese felice” a Villa Rendano

    Una storia italiana di Carmine Abate

    È più di un mese che Abate gira l’Italia per raccontare il suo paese felice, ovvero la vicenda di Eranova, un borgo rurale della periferia di Gioia Tauro, distrutto nei primi anni ’70 per consentire l’allargamento del bacino del Porto e la creazione del quinto polo siderurgico.
    In altre parole, l’eterno baratto tra ambiente (e salute) contro sviluppo. È senz’altro una storia meridionale (e calabrese in particolare). Ma è anche la storia di tutto il Paese, pieno di cimiteri industriali e di borghi deserti da Nord a Sud: il lascito di un sogno di benessere non sempre affrontato con la consapevolezza dovuta. Ma forse, ha spiegato lo scrittore durante l’incontro di Villa Rendano, per Eranova non è stato davvero così.

    Amore e altre battaglie 

    «Mi sono imbattuto nella storia di Eranova anni fa, quasi per caso», ha spiegato Carmine Abate durante la sua conversazione con Antonietta Cozza.
    Questa storia consiste in due righe sul sito istituzionale del Comune di Gioia Tauro e in una voce di Wikipedia dedicata alla stazione ferroviaria che serviva il piccolo centro, soppressa nel lontano 2023.
    Tutto il resto, ha specificato lo scrittore deriva da fonti orali (le consuete memorie degli anziani) e da documenti d’epoca, inclusi i ritagli dei giornali.

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    Da sinistra, Carmine Abate e Antonietta Cozza

    Ma, in un romanzo, ciò che fa la differenza è il racconto. E Un paese felice non fa eccezione. Anzi.
    «Ho deciso di raccontare questa vicenda non con gli occhi degli abitanti, ma di un testimone coinvolto emotivamente», ha spiegato ancora Abate. È Lorenzo, universitario calabrese fuori sede a Bari, che s’innamora di Lina, altra universitaria calabrese. Lina si batte per salvare la sua Eranova, pronta a cadere sotto le ruspe attivate dal pacchetto Colombo.

    Eranova: da una ribellione all’altra

    Lina e i suoi compaesani si battono a fondo e le provano tutte per salvare il borgo e le sue piantagioni, che comunque danno un po’ di benessere.
    Non potrebbe essere altrimenti per una comunità nata a fine ’800, in seguito alla ribellione di un gruppo di massari al feudatario del luogo.
    Nata da una ribellione, Eranova muore ribellandosi. Gli eranovesi picchettano il territorio, si frappongono alle ruspe e alle escavatrici e protestano come possono e sanno.
    Lina scrive tantissimo, anche al presidente della repubblica e ad Andreotti, allora presidente del Consiglio e a Pasolini, conosciuto per caso in una libreria di Bari.
    Ma è tutto inutile. Tranne che per l’amore. Lorenzo la segue e capisce il perché di tanto accanimento, quasi terapeutico.

    La copertina di “Un paese felice”

    Tradizione vs Modernità secondo Carmine Abate

    «Non è il solo il consueto binomio tradizione-modernità, che anima le proteste degli abitanti di Eranova e, quindi, la lotta di Lina», racconta ancora Abate.
    La distinzione può essere più sottile e riguarda due modi di concepire lo sviluppo. Da un lato l’industrializzazione pianificata da fuori e calata dall’alto, quindi poco rispettosa delle vocazioni del territorio.
    Dall’altro, invece il desiderio di far crescere la comunità nel rispetto delle sue tradizioni. A nulla di diverso si è riferito Abate nel corso della discussione di Villa Rendano: «L’economia agricola, alla fin fine, ha consentito a Lina e Lorenzo di studiare fuori sede: segno che comunque generava da sola un certo benessere. Una piccola sicurezza a cui gli eranovesi non volevano rinunciare in cambio di iniziative di cui non percepivano bene il senso. Di più: che temevano si sarebbero risolte in un salto nel buio». O nel vuoto, visto che il centro siderurgico non si realizzò.

    Una fine che sa di beffa

    «Altrove, anche in Calabria, siamo pieni di cimiteri industriali, è vero. Ma si trattava dei ruderi di industrie che, almeno avevano funzionato. Ciò non si può dire per Gioia Tauro, che oltre al danno ambientale ha subito la beffa di cattedrali nel deserto mai entrate in funzioni», ha proseguito Abate.

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    Da sinistra, l’ambasciatrice Lendita Haxhitasim e Walter Pellegrini, presidente della Fondazione Giuliani

    Un paese felice racconta gli ultimi sussulti di dignitosa agonia di Eranova sotto le mentite (ma non troppo) spoglie della storia d’amore e del romanzo storico carico di esistenzialismo.
    Il tutto, ha aggiunto Cozza, «impreziosito dal linguaggio particolare dello scrittore di Carfizzi: potente, creativo e – a modo suo – virtuosistico». Le espressioni gergali arricchiscono un racconto robusto e sobrio. Ma soprattutto avvincente.
    «Il finale di questa storia è noto, perché fa parte delle cronache», ha concluso Carmine Abate. Eranova fu demolita e i suoi abitanti “dispersi” nelle zone vicine, con l’aiuto dell’edilizia pubblica.
    Ma la storia è solo una componente di un romanzo storico. Il resto, cioè le vicende dei personaggi che interpretano (e attualizzano) questa storia, fa parte del romanzo.
    Ma, come giustamente ha detto in chiusura Antonietta Cozza, meglio non anticipare altro…