Il concerto Saint Patrick Harp – Concerto per Arpa Celtica e Armonica del celebre musicistaStefano Corsi, tenutosi presso il Teatro comunale di Mendicino, ha trasportato gli spettatori in un viaggio attraverso le terre leggendarie d’Irlanda durante le celebrazioni di San Patrizio.
Promosso dalla compagnia Porta Cenerecon la direzione artistica di Mario Massaro, lo spettacolo rientrava nel ricco calendario della sesta edizione di Sguardi a Sud come evento fuori programma, confermando ancora una volta la volontà di abbracciare una visione artistica multidisciplinare.
Mendicino come l’Irlanda
Nel settore del teatro di prosa, il pubblico di Sguardi a Sud ha già avuto l’opportunità di immergersi in spettacoli coinvolgenti, presentati da compagnie provenienti da tutta Italia. Un viaggio attraverso il talento e la sperimentazione teatrale che ha catturato l’attenzione di spettatori di ogni età. Tuttavia, la vera novità di questa sesta stagione è stata la sezione dedicata alla musica, che ha ulteriormente arricchito l’offerta culturale della kermesse ospitando artisti di fama internazionale.
Saint Patrick Harp – Concerto per Arpa Celtica e Armonica ha avvolto il pubblico in un’atmosfera carica di emozioni. Non solo grazie alla fusione di questi due strumenti dalle sonorità avvolgenti, ma anche grazie ad una narrazione appassionata e ad un’intensa interpretazione di poesie di autori irlandesi e non solo. Lo spirito festoso e la magia dell’Irlanda hanno pervaso l’aria in un concerto senza precedenti, dove l’arpa celtica e l’armonica hanno intrecciato le loro melodie incantando i presenti.
Stefano Corsi e l’unione tra arpa e armonica
Il musicista Stefano Corsi spiega cosa l’abbia ispirato per questo concerto: «Il suono primordiale della corda che si muove e dell’ancia che vibra nell’aria è una melodia ancestrale che risuona attraverso le epoche. Quando ho scoperto chein inglese l’armonica è chiamata mouth harp (arpa da bocca), ho pensato fosse inevitabile unire i due strumenti. Questa affascinante coincidenza linguistica rispecchia la complementarità dei loro suoni. Tengo molto che la gente ricominci ad ascoltare la musica con un buon impianto.Dostoevskij diceva: “La bellezza salverà il mondo”. Io ritengo che salvi chi la cerca».
Il direttore artistico di Sguardi a Sud, Mario Massaro, svela la magia che avvolge questa kermesse: «Il nostro obiettivo è regalare al nostro affezionato pubblico un’esperienza culturale completa. Sguardi a Sud è un’immersione in mondi sconosciuti e un abbraccio alla bellezza dell’arte che prende vita attraverso prosa, musica e teatro. Il concerto di Stefano Corsi ha trasformato il palcoscenico in un mare di emozioni, lasciando un’impronta indelebile nei cuori di tutti gli spettatori e rendendo ancora più indimenticabile questa stagione».
Come il grande occhio di Sauron monte Cocuzzo mi osserva mentre butto giù due righe sul libro che gli ha cucito addosso Mauro Francesco Minervino. Non posso sfuggirgli mentre leggo o scrivo seduto nel solito posto a casa dei miei genitori. Lo vediamo dall’entroterra, noialtri. Ci godiamo quei tramonti o quelle nuvole dense sulla cima nei giorni di pioggia. Dietro spunta il mare e noi possiamo solo immaginarlo.
Lo scrittore e antropologo Mauro Francesco Minervino (foto Alfonso Bombini)
Viaggio al monte analogo (Oligo editore 2023) è il libro di un antropologo diventato per 135 pagine cantore di un Appennino minore, costiero, a pochi metri dal Tirreno; a suo modo, senza troppe concessioni alle derive sentimentali ma molto attento alla geografia umana e personale di una arrampicata che sa di Nirvana. Cocuzzo per lui è una specie di ossessione come la Montagna Saint-Victoire per Cezanne.
Domani – venerdì 1 marzo – ne parliamo con lo stesso Mauro, Tonino Chiappetta e FrancescoNaccarato davanti agli appassionati lettori di Camminando Amantea. Appuntamento nella cittadina tirrenica alle ore 19:00 ospiti della Cantina Amarcord.
Di Fellini, però, non c’è nulla nell’immaginario di questo Minervino. C’è tanto René Daumal, autore de Il Monte Analogo, romanzo incompiuto eppure così illuminante. Un gruppo di alpinisti raggiunge la vetta e scopre che il confine tra le cose in quota è solo qualcosa di superfluo, vuoto, inutile. Servono fiuto da segugio e passo da rabdomante per trovare quella sorgente in questo pezzo di Calabria. Mauro ci riesce, portandosi dietro quella specie di aura profetica. Come il Santo di Calabria, Lumen Calabriae, di casa tra queste alture. Un giornalista come Emiliano Morrone vede proprio in Mauro alcuni tratti laici di San Francesco di Paola, suo compaesano più illustre. A pensarci bene, non ha mica torto. Mancano i miracoli, però c’è ancora tempo.
Il tempo di quella cima ventosa cambia in fretta. Ti allontana e ti attrae. Sai che puoi trovarci uno stargate di Calabria. «La porta dell’invisibile deve essere visibile» ci ricorda Minervino citando proprio Daumal. Un gioco di rimpalli e capitomboli, di analogie.
È un posto magnetico dove sono passati mistici, monaci orientali, banditi. Ha affascinato scrittori e intellettuali. Gente come Gissing, altro nume tutelare del pantheon letterario di Mauro, ha annotato la bellezza tempestosa di quella cima. Punto di passaggio tra l’antica Pandosia, capitale degli Enotri, e il porto di Temesa, la polis immortalata nell’Odissea. Dalla cima il sole scompare morendo in mare come se non dovesse più rinascere. Un ultimo spettacolo d’Occidente, terra del tramonto prima dell’apocalisse. Al mattino, invece, nella forza accecante della controra i demoni si danno appuntamento. Per poi tornare a notte fonda nelle voglie animali degli antichi pastori dediti alla farchinoria. Monte Cocuzzo è un po’ così, contiene eccessi indicibili e improvvise oasi di pace.
Un luogo che genera storie. Mauro ricorda i suoi vecchi zii, analfabeti e grandi affabulatori, dediti al racconto di avventure terribili e affascinanti. Le gesta di Giufà. Il finto sciocco visionario e arguto che popola l’immaginario collettivo della cultura umana senza confini, ha accompagnato la sua infanzia. Si chiedeva da dove venisse questo strano Giufà. I vecchi rispondevano: dalla montagna. Indicando la cima di Cocuzzo.
Monte Cocuzzo è il Monte analogo di Mauro Francesco Minervino
Una vetta da raggiungere da più fronti. Mauro arriva dal basso, da Mendicino e da Carolei. Raggiunge i sentieri battuti da piccole carovane in un passato remoto. Si inerpicano per poi scendere in picchiata, passando tra villaggi abbandonati come Pantanolungo. Qualcuno ne collega la presenza alla morte. E il fiume Acheronte in basso è più di un semplice indizio. È un casale di poche anime. Mauro tira fuori una storia dalla polvere di quelle case abbandonate.
Dalla morte alla vita. Al pane come simbolo e materia che riannoda i pensieri: la pitta di Mendicino, il panificio di Fiumefreddo, quella vecchia signora con gli occhi di una zingara che impasta e inforna. Sono immagini potenti di un piccolo mondo antico e andato via per sempre. Ma in cima a quella montagna il mondo alla rovescia di Giufà può regalare ancora un altro colpo di spugna e giro di giostra.
Una bandiera rossa garriva a Caulonia, seppur per un attimo. Quella che raccontiamo è una pagina poco nitida e menzionata della storia della Calabria, una vicenda maturata al termine della Guerra di Liberazione italiana, che, nella sua brevissima parabola, non rimase relegata ai circoscritti confini territoriali in cui ebbe luogo, ma si riverberò sul panorama nazionale.
La Rivoluzione d’ottobre fa il bis
6 marzo 1945. Mentre l’Armata Rossa prepara l’ingresso decisivo nella Germania nazista ed Evgenij Chaldej non sa ancora che fra poche settimane sul tetto del palazzo del Reichstag scatterà una delle fotografie più iconiche del secolo, in tutta Italia sono alle ultime battute le operazioni militari degli Alleati. L’intenzione è di formare un nuovo ordine nella Penisola precipitata nel marasma dopo la caduta del Fascismo, l’Armistizio di Cassibile, l’occupazione tedesca, la nascita dello stato fantoccio di Salò e la sanguinosa guerra civile.
La bandiera sovietica issata sul Reichstag nella più famosa foto di Evgenij Chaldej
In questo scenario a dir poco caotico, a Caulonia, centro della Calabria sudorientale, scoppia una rivolta destinata ad aggiungere un capitolo nella cronistoria del centro che prende il nome dalla antica città magnogreca (fondazione achea dell’VIII secolo a.C.) di Kaulon (o Kaulonìa) che un tempo si credeva sorgesse entro i confini comunali dell’attuale Caulonia, prima delle scoperte archeologiche del primo Novecento che hanno attestato la corretta collocazione a Punta Stilo, nel territorio di Monasterace, circa quindici chilometri più a Nord.
Falce e martello in un angolo di Calabria
Il più esteso dei paesi della comunità montana Stilaro-Allaro-Limina, conosciuto come Castelvetere fino al 1863, all’epoca dei fatti contava una popolazione relativamente significativa, circa dodicimila abitanti, il doppio rispetto a quelli del XXI secolo, determinato dal progressivo abbandono del vasto centro storico partito negli anni ’50 del secolo scorso.
In quei giorni di marzo del 1945 quello sconosciuto angolo della misterica Calabria – ulteriormente impoverita dalla guerra – balza agli “onori” della cronaca nazionale grazie al compimento di una sommossa sullo schema delle azioni criminali della Rivoluzione d’ottobre e successiva guerra civile nella Russia di circa un quarto di secolo prima.
I moti, maturati negli ultimi giorni della stagione di sangue che culminò con la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, profittando quindi di una situazione sociopolitica oltremodo instabile, portano alla nascita della Repubblica Rossa di Caulonia.
La Repubblica Rossa di Caulonia e gli scontri fra contadini e latifondisti
Vessati dai latifondisti intenzionati a mantenere i propri privilegi anche in vista della nuova epoca oramai alle porte, i contadini di Caulonia decidono di unirsi e di insorgere contro i potenti padroni. La scintilla che fa scattare la rivolta è l’arresto del figlio del sindaco del paese, reo di avere rubato presso una proprietà di un notabile della zona. È vero, però, che l’arresto del giovane è soltanto il più classico casus belli, ché il clima nel paesino dell’odierna provincia di Reggio Calabria ribolliva da tempo. Già nel 1750 i braccianti di Castelvetere erano stati protagonisti di una insurrezione contro i Carafa, famiglia dominante dell’area. Negli anni susseguenti alla Grande Guerra, poi, si era registrato qualche nuovo acceso scontro.
Contadini al lavoro nei campi (Archivio Istituto Luce)
Soprattutto, però, è dopo l’8 settembre che gli attriti fra contadini e possidenti, ovverosia fra braccianti rossi e agrari neri, si inaspriscono: ribelli comunisti si macchiano di aggressioni, convinti di potere usare violenza in quanto aderenti alla “giusta” lotta contro i fascisti. Emblematico è l’agguato che vede vittima il curato don Giuseppe Rotella, assalito e bastonato a sangue perché si permette di biasimare la brutalità dei rivoltosi.
Pasquale Cavallaro issa la bandiera sul campanile
Capopopolo della sollevazione di Caulonia è Pasquale Cavallaro, classe 1891, sindaco comunista del centro del Reggino, uomo di discreta cultura e grandi capacità oratorie, già oppositore del regime di Mussolini e pertanto confinato per circa quattro anni sulle isole carcere di Ustica e Favignana.
Descritto come uomo ardito e inquieto, dai personali principi saldissimi, incentrati sulla “defascistizzazione pacifica” del suo paese, quel 6 marzo 1945 Cavallaro occupa l’ufficio delle poste e le caserme dei Carabinieri reali e delle guardie forestali, per poi proclamare la nascita della repubblica filocomunista issando sul campanile della chiesa la bandiera rossa con falce e martello.
Eugenio Musolino
Già le primissime fasi della “conquista del potere” sono oggetto di discussioni. Uno dei protagonisti politici di quella stagione, Eugenio Musolino (segretario comunista e poi parlamentare del Pci dal ’48 al ’58, nonché membro dell’Assemblea Costituente), inviato sul posto perché chiarisse cosa stesse accadendo nel centro jonico e mediasse una rapida risoluzione della faccenda, riporta nel libro La Repubblica Rossa di Caulonia. Una rivoluzione tradita? che il sindaco rivoluzionario si era in parte ritrovato nel turbine dei tumulti a causa dell’incontenibile desiderio insurrezionale dei due figli.
La Repubblica Rossa di Caulonia: caccia ai fascisti
Quel giorno un gruppo di migliaia di contadini e operai sfruttati dell’are si unisce. I numeri non sono precisi: alcuni parlano di tremila, altri, fra i quali lo stesso Pasquale Cavallaro, addirittura di diecimila unità fra caulonesi e altri braccianti (fra cui anche centinaia di donne) provenienti dai vicini comuni di Camini, Stignano, Placanica, Monasterace, Riace e Nardodipace.
Accade, però, che la necessità di ribellarsi alle soperchierie storiche dei proprietari terrieri, sul modello di un sistema feudale difficile da intaccare e rimasto praticamente immutato a Caulonia, come in altri angoli isolati del Mezzogiorno, si trasforma immediatamente in una sommossa segnata dalle violenze e dalle vendette personali, regolamenti di conti non soltanto contro i “nemici” fascisti.
Contando sulla protezione delle montagne sovrastanti, nella Repubblica di Caulonia si alzano barricate, i compagni armati di fucili e mitraglie presidiano le porte del paese e le colline intorno, minano alcuni ponti verso la marina.
L’umiliazione dei “nemici del popolo”
I tumulti vengono soffocati già il 9 marzo, ma durante le quattro giornate di Caulonia si assiste a scene mostruose in cui numerosi notabili del paese vengono oltraggiati e torturati dagli insorti e alcune donne sono stuprate con la inammissibile scusante della libertà dei popoli oppressi. I nemici del popolo vengono processati sommariamente da un tribunale del popolo e le umiliazioni pubbliche ai danni di sostenitori dei fascisti, reali o presunti, si succedono. A pagare il prezzo più alto è soprattutto il parroco Gennaro Amato, amico d’infanzia del Cavallaro e simbolo di un mondo che i cosiddetti “mangiapreti” intendono distruggere. Ucciso dall’esercito popolare all’alba della sommossa, il prelato è la sola vittima sulla coscienza della Repubblica Rossa di Caulonia.
Per quattro giorni l’euforia e il terrore corrono per le stradine del centro agricolo. Infine è l’arrivo della polizia di Reggio Calabria a sedare la ribellione, già affievolitasi con il manifestarsi delle violenze più belluine, chiaramente disapprovate da gran parte della comunità. Il dissociarsi della brava gente di Caulonia non è la sola ragione che porta alla conclusione della parentesi anarchica. Ce ne sono almeno altre due che portano al fallimento, pratico e ideologico, la rivolta della Repubblica caulonese: i ribelli non trovano né il sostegno dei dirigenti provinciali del Pci, né tantomeno l’approvazione della malavita locale, entità che, nel bene o nel male, avrebbero potuto dare consistenza al golpe abortito di Cavallaro e compagni.
La Repubblica rossa di Caulonia a processo
Il sindaco/presidente della Repubblica si dimette il mese successivo, le bandiere rosse vengono strappate dai tetti delle abitazioni e circa trecentocinquanta fra i più feroci rivoluzionari di Caulonia sono arrestati con l’accusa di costituzione di bande armate, estorsione, usurpazione di pubblico impiego, violenza a privati e, in ultimo, di omicidio, per l’assassinio del parroco Amato.
Al processo partito nel marzo 1947 alla Corte di Assise di Locri, per la quasi totalità degli imputati non si procede perché i reati sono dichiarati estinti a causa della controversa amnistia (decreto presidenziale numero 4 del 22 giugno 1946) proposta dal Ministro di grazia e giustizia Palmiro Togliatti, storico segretario generale del Pci. Solamente Pasquale Cavallaro e i due assassini materiali dell’omicidio Amato sono condannati a otto anni di reclusione.
Il tribunale di Locri oggi
Un esempio di liberazione dal servilismo
«Io volevo, questo in modo assoluto, farla finita con le disparità, con le angherie, il servilismo verso questo o quel signorotto, verso questo o quel prevalente messere; io volevo che tutti si avesse una dignità umana degna di essere ammirata e degna di rispetto da parte di tutti. Questi erano i miei intendimenti precisi, chiari, inequivocabili. […] Fatto sta che a Caulonia si è dato un grande esempio, l’esempio della liberazione del servilismo».
È un estratto dell’intervista di Pasquale Cavallaro con Sharo Gambino, scrittore, giornalista e intellettuale meridionalista, contenuta nel volume succitato La Repubblica Rossa di Caulonia. Una rivoluzione tradita?, che raccoglie scritti di Pasquino Crupi, Sharo Gambino, Vincenzo Misefari e Eugenio Musolino relativi alla Repubblica Rossa di Caulonia.
Episodio campale della sequenza di ribellioni delle classi oppresse del Sud Italia che negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso lottarono contro le vessazioni dei latifondisti e per la distribuzione delle terre incolte e una legittima riforma agraria, il caso della Repubblica Rossa di Caulonia del ’45 è di fatto scivolato nell’oblio, trovando appena qualche eco nei racconti popolari tramandati per via orale.
Una piazza per ricordare la Repubblica Rossa di Caulonia
Recentemente è stata avanzata la proposta di dedicare una piazza a quella rivolta popolare, pare, al tempo, encomiata anche dallo stesso Iosif Stalin, leader del più potente partito comunista del globo, e, negli anni, da taluni riconsiderata, in maniera a dir poco acrobatica, come antipasto della Repubblica italiana. Comunque sia, i propositi celebrativi si sono scontrati con chi invece considera quella breve parentesi, forse troppo mitizzata, certamente contraddistinta da punti tutt’oggi oscuri e di una ricostruzione lacunosa, una pagina da dimenticare considerate le azioni violente esercitate nel corso delle quattro giornate e pure il numero dei contadini puniti successivamente al ripristino dell’ordine.
Stalin, segretario del PCUS negli anni dell’insurrezione calabrese
Per approfondire meglio la complicata storia del governo rosso di Caulonia esiste una ampia e sfaccettata letteratura. Segnaliamo alcuni altri testi: In fitte schiere. La repubblica di Caulonia di Sharo Gambino (Frama Sud), La Repubblica di Caulonia di Simone Misiani (Rubbettino), Cavallaro e la Repubblica di Caulonia di Giuseppe Mercuri (Vincenzo Ursini Editore), Operazione “Armi ai partigiani”. I segreti del Pci e la Repubblica di Caulonia di Alessandro Cavallaro (Rubbettino) e La Repubblica di Caulonia tra omissioni, menzogne e contraddizioni di Armando Scuteri (Rubbettino).
«Tornai a Cleto da Salerno, dove avevo studiato, con il titolo di maestro elementare e una Olivetti Lettera 22 nella valigia»: così Luigi Pellegrini ricordava, in una delle sue ultime interviste, l’inizio della sua avventura umana ed editoriale in Calabria.
Pellegrini all’epoca era più che ventenne e Cleto non era il borgo medievale per turisti alternativi che conosciamo oggi.
Il paesino del basso Tirreno cosentino era la classica zona disastrata del Sud con situazioni di altissima drammaticità. «Mancava l’acqua e le persone per approvvigionarsi avevano solo una fontanella da cui correva un filo esile. Ricordo ancora le file», raccontava ancora Pellegrini alle soglie dei novant’anni, dopo una carriera lunghissima. Il 21 febbraio ne avrebbe fatto cento, si presume con la stessa lucidità di allora.
Luigi Pellegrini giornalista d’assalto
«Insegnavo alle scuole serali quasi gratis e, per arrotondare, facevo l’inviato per Il Tempo e Momento Sera, da cui guadagnavo circa 3-4 centesimi a riga».
Poi il primo scoop: «Arrivai in corriera a Cosenza per raggiungere Albidona e Alessandria del Carretto, dove documentai situazioni drammatiche in un’inchiesta per Il Tempo, a cui si ispirò Salvatore Foderaro, un deputato Dc di Sambiase, per un’interrogazione parlamentare, forse una delle prime sulle terribili condizioni della Calabria dell’epoca».
Ma le corrispondenze erano poca cosa. Da qui alla decisione di mettersi in proprio, il passo fu breve.
Luigi Pellegrini
Nasce la Luigi Pellegrini Editore
Editori si diventa. Il primo passo di Luigi Pellegrini fu “artigianale”: «Dopo aver pubblicato Scintille, una raccolta di poesie, con l’editore Gastaldi di Milano, fondai la rivista mensile Il Letterato. La stampavo presso il tipografo Nicotera di Nicastro e la distribuivo da solo. Noleggiavo un’auto su cui caricavo le tremila copie della tiratura e raggiungevo le Poste di Cosenza per spedirle». Nella Calabria in cui era quasi impossibile sopravvivere, il giovane direttore-editore aveva inventato una realtà editoriale promettente: «Oltre alla rivista, pubblicavo dei libri, che uscivano come allegati con un marchio curioso e dal suono un po’ esoterico: Ocril (Organizzazione culturale rivista Il Letterato). Dopo i primi venti volumi e visto il successo dell’iniziativa, decisi di metterci il mio nome».
Il primo best seller
Tra i meriti di Pellegrini c’è la riscoperta della Questione Meridionale, grazie a due collane di tutto rispetto: Fonti storiche della Calabria e del Mezzogiorno, diretta da Saverio Di Bella, ed Emigrazione, di Carmine Abate.
Il suo primo colpo da maestro fu la Storia della letteratura calabrese, scritta dal napoletano Antonio Piromalli e pubblicata in prima edizione nel 1969.
Fu il primo best seller: «Spaccai lo stock più volte e dovetti ristamparlo in continuazione per far fronte alle richieste».
Un’istituzione culturale
La Luigi Pellegrini Editore ha segnato il territorio di Cosenza con la sua presenza. Dapprima a via Roma (l’odierna via Misasi), poi a via Sambiase, infine a via De Rada.
Fu lucido fino alla fine e c’è chi lo ricorda ancora alla guida della sua Volkswagen.
Segno che la cultura fa invecchiare bene.
Si può avere il coraggio di cancellare un intero paese, sradicare centinaia di migliaia di alberi per costruire un’acciaieria consci della crisi dell’industria siderurgica e, per giunta, che il progetto non sarà mai realizzato?
Si può, purtroppo si può. Ed è il sunto della storia amara di Eranova, della truffa ordita negli anni Settanta del secolo scorso ai danni della Calabria, una terra fra le più povere del Continente, da sempre subordinata a forze superiori e spolpata dai massicci flussi emigratori; una storia che, se non fosse realmente accaduta, potrebbe apparire un romanzo a metà fra l’umorismo – tendente alla satira – e la distopia. Una storiaccia che, in effetti, proprio un romanzo ha riportato recentemente a galla, in un momento storico in cui tanto ci si interroga sull’opportunità di certi nuovi mirabolanti progetti pensati per la Calabria, per strappare i calabresi dalle secche dell’“insostenibile” sottosviluppo economico e infrastrutturale e schiudere loro inaspettati orizzonti di benessere.
La vicenda di Eranova, il fu centro agricolo della Piana di Gioia Tauro, rivive nelle pagine di Un paese felice, l’ultima fatica letteraria dello scrittore Carmine Abate.
La Piana di Gioia Tauro
Eranova, il paese profumato di zagara
Prima che scoccasse l’ora fatale, Eranova era una frazione costiera del comune di Gioia Tauro, distinta dall’inebriante profumo di zagara e dalle distese di vigneti, uliveti e agrumeti che ne tingevano di colori il territorio parallelo alla spiaggia, dirimpetto alle Eolie.
Un luogo paesaggisticamente meraviglioso che era stato fondato nel 1896 da un gruppo di braccianti stanchi di sottostare alla tirannia dei padroni della vicina San Ferdinando. Uomini e donne anelanti libertà, ché “la libertà è tutto nella vita di un uomo, come l’aria che respiriamo”.
Un’aria fresca e pulita che d’un tratto, susseguentemente al famigerato Pacchetto Colombo (dal Presidente del Consiglio dei Ministri Emilio Colombo che lo annunciò) volto ad acquietare gli animi di parte dei calabresi dopo le rivolte di Reggio Calabria del 1970 – causate dalla decisione del governo di conferire a Catanzaro il titolo di capoluogo di regione –, venne inquinata dal limaccio e dai miasmi del denaro, della sopraffazione, del compromesso e degli intrighi politici in nome della parola-bestemmia degli ultimi cinquanta, sessant’anni della storia d’Italia: il progresso.
I Moti di Reggio
Eranova: l’origine del disastro
Moti di Reggio e successivo Pacchetto Colombo, dunque. Originano un po’ tutti da lì i mali della Calabria degli ultimi decenni.
Il progetto del quinto centro siderurgico con annesso porto commerciale, di fatti, fu assegnato a Gioia Tauro nel 1972 come compensazione della rivolta reggina. Una assegnazione avvenuta senza una chiara programmazione ma indirizzata principalmente a placare gli spiriti inferociti e diretta a un settore, quello dell’acciaio, già in aperta crisi per via della stagnazione sia dell’edilizia sia della cantieristica – l’acciaieria di Bagnoli registrava perdite paurose e per quella di Piombino si pensava alla chiusura –; una crisi ampliata dopo l’apertura, nel 1965, dell’impianto di Taranto, che deturpò la città sullo Jonio e la sua piana punteggiata da ulivi secolari, da un giorno all’altro bollati come testimoni di un mondo arcaico, inutile cordone con una civiltà contadina da lasciarsi alle spalle senza troppi dispiaceri.
Quel che resta delle acciaierie di Bagnoli
La bella Taranto, abbracciata dal mare e cantata nei secoli da poeti e viaggiatori – Pasolini nel suo viaggio in Italia del 1959 la definì “una città perfetta” –, sparì, lasciando spazio a un’area industriale che spianò per Taranto la strada verso il titolo di città fra le più insalubri del pianeta. Quel precedente, però, non fece squillare alcun allarme alle orecchie turate di una buona porzione dei calabresi e dei governi nazionali e regionali.
Mille miliardi gettati al vento
Appalesatesi presto i primi segni del prevedibile inganno, gli abitanti della città offesa dalla mancata assegnazione del capoluogo, nella cui provincia sarebbe ricaduta l’opera con tutti i suoi utopistici benefici, furono i primi a non mollare di un centimetro affinché il disegno del centro siderurgico della Piana non fosse rimodulato o accantonato. Già in quegli anni settanta, di fatti, era stata stabilita la antieconomicità del progetto dell’acciaieria e delle infrastrutture collegate, con quell’investimento statale monstre di mille miliardi di lire che sarebbe stato impossibile da recuperare, tanto che anche Finsider e Iri avevano consigliato di spostare l’impresa in zone più propense alla sua realizzazione, vale a dire Lamezia Terme e Crotone.
I lavori per la realizzazione del polo siderurgico, 1976 (foto Michele Marino)
Titolò La Stampa, il 24 agosto 1973: “Reggio vuole a tutti i costi il 5° ‘Centro’ di Gioia Tauro”. Un fermo sostegno da parte della città più popolosa della regione per scongiurare un ripensamento, un cambio di rotta – il quale, chiaramente, sarebbe stato visto come di matrice politica – che, qualora fosse sopraggiunto, avrebbe condotto i reggini di nuovo in piazza per riaprire la tutt’altro che sopita polemica circa il capoluogo.
Una posizione ferrea che assumeva la forma di un ricatto morale a cui lo Stato italiano si piegò ma che di vittime non ne mietette presso i palazzi del potere, bensì soltanto nella disgraziata Calabria.
Soprattutto in quel piccolo centro di Eranova, il paese felice del romanzo di Abate, un libro testimonianza che si fa portavoce di tutte le ingiustizie subite dalla Calabria e dai calabresi, un’opera che, grazie all’incoraggiamento “di un coro di voci veritiere” – come afferma lo stesso autore originario di Carfizzi –, permette di fare emergere una storia drammatica seppellita dalla mala coscienza nazionale e locale.
Il disastroso impatto ambientale
Dietro la promessa da marinaio della creazione di circa 7.500 posti di lavori offerti ai calabresi – molti dei quali, emigrati in Alta Italia, in Germania, nelle Americhe, già pregustavano il sognato ritorno a casa: «Ci sarà il progresso finalmente! Non possiamo vivere solo di zappa e partenze» –, a Eranova si procedette allo sbancamento della spiaggia e all’esproprio di 500 ettari di terreno. Fu un sacrificio che il deputato socialista Giacomo Mancini, fra i maggiori sostenitori dell’impresa fallimentare, definì “minuscolo” considerati i cinquantamila ettari coltivati nell’area.
Si assistette così all’abbattimento impietoso di circa 700.000 alberi – cifra abnorme che pure se non fosse corrispondente al vero dà comunque la misura dello spaventoso abuso perpetrato contro la natura – e della folta pineta marina che riparava dal vento e dalla salsedine i prosperosissimi uliveti, vigneti e agrumeti, quest’ultima coltivazione, ritornata col tempo un fiore all’occhiello della Piana, oggi nuovamente strozzata dalle politiche europee.
Andreotti, Mancini e l’allora sindaco Gentile posano la prima pietra del Quinto polo
Una serie di azioni scellerate che estirparono per sempre il profumo di zagara che contraddistingueva quel tratto della Piana e stravolsero le vite di centinaia di famiglie.
Il polo siderurgico di Gioia Tauro non è stato mai realizzato e il porto commerciale della città – costruito per dare supporto all’acciaieria fantasma inondando l’area interessata con due milioni e mezzo di metri cubi d’acqua – si staglia oggi come unica testimonianza tangibile di quella promessa che cinquant’anni fa illuse per l’ennesima volta i calabresi; un impegno puntualmente non mantenuto dalla Repubblica e che si trasformò in un imponente sperpero di fondi pubblici, nonché in un colossale affare per politici e mafiosi.
Un memento per i calabresi
L’avanzare delle voraci gru, delle ruspe e delle draghe, la lenta e inesorabile cancellazione del paesino di Eranova, le proteste dei pochi eranovesi non lasciatisi incantare dagli unicorni delle favole e corrompere dal dio denaro, il blocco dei cantieri per i ritardi circa l’arrivo degli indennizzi per gli espropri e i trasferimenti verso i nuovi alloggi allestiti presso anonimi quartieri di Gioia Tauro e San Ferdinando.
Lo scrittore Carmine Abate
Sono tutti aspetti e riflessioni che, attraverso la storia romanzata di Un paese felice, Carmine Abate ci racconta, risvegliando il ricordo di una cicatrice mai rimarginata e stimolando il popolo calabrese – cui sovente, nella storia, si è ritorta contro la sua acquiescenza e la sua proverbiale accoglienza – a tenere sempre alta la guardia dinanzi ai canti ammaliatori dei signori del “progresso” e ai nuovi piani di ripresa e “pacchetti” di varia forma e natura che oggi o domani potrebbero essere offerti come manna dal cielo.
Hirayama mon amour. No, quello di Alain Resnais era Hiroshima. Qui siamo nel recinto di Wim Wenders tornato a suo modo al vecchio amore per il maestro Ozu.
Il protagonista di Perfect Days potrebbe essere un alienato di una città di alienati come Tokyo, oppure un monaco buddista (forse meglio shintoista) con la casacca “The Tokyo toilet”. Poi cosa cambierebbe? Nulla. Wenders costruisce un personaggio con un mondo dentro e un passato tenuto a distanza. Noi vediamo solo una vita minima, essenziale, senza troppi fronzoli.
Un uomo che si sveglia al mattino, sbriga le sue pratiche igieniche, apre il portone di casa e guarda subito il cielo. Sorride. E noi con lui. Buongiorno Hirayama san. Inizia il giro dei bagni pubblici della capitale nipponica. Progettati da grandi architetti. E si vede. Chi non vorrebbe pisciare in quello trasparente che si oscura mentre sei in “servizio”?
Una vecchia Olympus a pellicola
Hirayama è un homo analogicus in un mondo di zombie pronti ad essere plasmati dall’intelligenza artificiale. Ascolta musicacassette vintage di Lou Reed (Patti Smith e tanti altri). È un grande classico del cinema di Wenders tutta quella musica ignota ai millennial. Poi la nipote del protagonista gli chiede se troverà Van Morrison su Spotify. E allora capisci che non tutto è perduto. Chi può fermare la ruota del rock? Nessuno, dai.
In questa corsa retrotopica Hirayama scatta foto con una vecchia Olympus compatta. Sviluppa le sue pellicole. Ne esce fuori sempre il cielo di quel parco, alberi e foglie. E luce. La storia della fotografia è piena di operazioni del genere. Se penso al cinema mi viene in mente Auggie, il tabaccaio di Paul Auster in Smoke di Wayne Wang.
Wenders si è sempre interessato alla deriva delle immagini. Resta a futura memoria l’esplosione di telecamerine per filmare e firmare (che poi è peggio) tutto il filmabile in Lisbon Story. La story di questo ultimo film è negli occhi di Hirayama. Ci dice qualcosa da conservare con cura. Erano solo Perfect days e non ce ne siamo accorti.
Andrà in scena venerdì 26 gennaio alle ore 17.00, presso la Casa della Musica Luciano Luciani di Piazza Amendola a Cosenza, lo spettacolo di beneficenza Ubuntu, tra musica e parole a sostegno della attività dell’Ambulatorio Auser di Cosenza “Senza confini”.
A promuovere l’iniziativa ci sono anche l’Auser di Rende, le associazioni Confluenze, La Terra di Piero, Methexis, spazio teatrale partecipato e soprattutto il Conservatorio di Musica Stanislao Giacomantonio. Quest’ultimo ha messo a disposizione la struttura e i musicisti per la realizzazione dell’evento.
Ubuntu e Auser
Da anni l’Auser si prende cura delle persone che vivono ai margini di una società in cui ogni progetto di inclusione, soprattutto sanitaria, diventa sempre più difficile. Per fare questo c’èbisogno di sostegno da parte delle istituzioni e dei cittadini.
L’idea di un evento dedicato alla musica e al teatro nasce dal desiderio di creare un rapporto tra le persone e la comunità fondato sulla bellezza che educa ai valori di un’etica che guarda all’equità sociale. Il titolo della serata, invece, arriva dal termine Ubuntu, che nella filosofia sub-Sahariana indica la credenza di un legame che unisce tutta la comunità: «Io sono perché noi siamo». E una comunità che vuole unirsi attorno alla bellezza della musica e delle parole riesce a guarire dal degrado e dalla malattia chi la bellezza non l’ha mai incontrata.
Odontoiatri volontari nell’ambulatorio dell’Auser a Cosenza (foto Alfonso Bombini 2023)
Sul palco
I protagonisti di Ubuntu saranno i musicisti Gottardo e Giuseppe Iaquinta. Al violino e al pianoforte eseguiranno le partiture di Fryderyk Chopin, tra i più importanti compositori del Romanticismo.
Tra le note musicali si inseriranno i contributi teatrali di Lara Chiellino, Dario De Luca ed Ernesto Orrico, portando in scena storie di migranti, briganti, filosofi e di santi dai desideri spassosi.
La Calabria ha un nuovo teatro comunale, “inaugurato” il 30 dicembre, proprio sul finire dell’anno nella città di Vibo Valentia e a dirigerlo sarà Angela Finocchiaro. Questa è la storia di uno spazio pubblico iniziata nel 1999 con un finanziamento da parte del Ministero della Cultura e che, inevitabilmente, è andata avanti in un continuo alternarsi di forze politiche per quasi un quarto di secolo.
Il taglio del nastro è sempre qualcosa che piace molto alla politica, solitamente funziona come una medaglia da attaccare alla giacca per un risultato frutto della semina di altri. Maria Limardo, prima cittadina di Vibo, durante la conferenza stampa insieme alla vicepresidente della Regione Giusy Princi e all’ Assessore allo Sviluppo economico Rosario Varì ha comunque ribadito quanto questo risultato sia frutto del lavoro di tutte le amministrazioni alla guida della città in questi anni.
Giusy Princi intervistata durante la presentazione del teatro
In attesa della prima, prevista per metà gennaio, alcune considerazioni su quella che Giusy Princi ha definito «una bella pagina della Calabria, rappresentazione di quando la cultura diventa espressione di civiltà, di un popolo, di una città, in questo caso di Vibo», bisogna farle, però.
Magari cominciando proprio dalla nomina del direttore artistico e poi in merito ai primi appuntamenti in cartellone a Vibo.
Angela Finocchiaro prima di Vibo
La nomina di una donna alla direzione artistica di un teatro calabrese non si può trattare come una questione di genere, si rischierebbe di scadere nella faziosità riduttiva delle tifoserie maschi contro femmine. Angela Finocchiaro è sicuramente una grande artista che ha alle sue spalle una carriera di alto profilo e il suo volto è noto al grande pubblico. Il cinema e la televisione l’hanno resa famosa molto di più del suo impegno in campo teatrale. Questa non vuole essere una critica, ma una semplice constatazione. Che diventa un po’ più amara quando, a garanzia della sua professionalità, qualcuno ricorda che ha vinto due David di Donatello come attrice non protagonista nei film La bestia nel cuore e Mio fratello è figlio unico.
Bene! Anzi, benissimo! Però…
Teatro, questo sconosciuto…
Però forse sarebbe stato più appropriato se avesse vinto un Premio Ubu. O, più banalmente, forse più che le sue apparizioni sullo schermo – ricordiamo, tra le tante, La Tv delle ragazze e l’esilarante Benvenuti al Sud –a Vibo qualcuno avrebbe fatto meglio a ricordare l’impegno teatrale di Angela Finocchiaro negli anni ’70 con la compagnia sperimentale Quelli di Grock.
Ma ancora una volta la politica calabrese che si vuole occupare di cultura fa confusione sui diversi livelli. Scambia il piano della spettacolarizzazione con quello della cultura, quasi come se stesse sponsorizzando un prodotto televisivo.
Ecco in risalto le caratteristiche più commerciali e quelle conosciute dal pubblico più vasto. Eil teatro? In qualche scantinato della cultura, come un reperto destinato all’oblio ed esposto alla mummificazione.
Finocchiaro sul palco del Teatro Cilea di Reggio Calabria qualche anno fa con lo spettacolo Ho perso il filo (foto Aldo Fiorenza)
Tv o palcoscenico?
A conferma di questo orientamento consumistico troviamo i primi appuntamenti del cartellone della stagione teatrale: niente di più che spettacoli cabarettistici. Nessuno si perderà nulla, chi non riuscirà ad occupare la platea potrà tranquillamente sintonizzarsi sulle reti Mediaset.
Niente contro Paolo Ruffini, Ale & Franz o il truccatore Diego Dalla Palma, ci mancherebbe. Ma lo capiamo immediatamente che non stiamo parlando di teatro, quanto di spettacoli che cambiano location: dagli studi televisivi alle tavole di un palcoscenico.
Non si tratta di dire cosa sia meglio o peggio, è che una stagione di un teatro pubblico appena inaugurato non dovrebbe esordire con degli spettacoli televisivi.
Vibo: Angela Finocchiaro e Parioli sì, Calabria no
Possiamo chiederci perché nessuno abbia pensato di inserire delle produzioni di compagnie calabresi. Oppure perché non si inauguri la stagione con il sei volte Premio Ubu Saverio La Ruina, soprattutto in virtù dell’ultimo riconoscimento ricevuto solo qualche settimana fa. Potremmo anche chiederci perché non si è pensato di coinvolgere il fondatore della Compagnia Krypton, Giancarlo Cauteruccio, tornato a vivere in Calabria dopo molti anni di direzione artistica del Teatro Studio di Scandicci e un’esperienza in campo teatrale tale da farlo annoverare tra i maestri delle avanguardie del ‘900.
Saverio La Ruina in scena con il suo Via del popolo (foto Angelo Maggio)
Forse si potevano invitare Francesco Colella o Marcello Fonte, giusto compromesso tra popolarità ed esperienza in campo teatrale. Infine mi viene in mente Manolo Muoio, la sua collaborazione con Julia Varley e con Eugenio Barba.
Chissà se a Vibo o Germaneto ne hanno mai sentito parlare.
Non è finita: per l’allestimento della prima stagione c’è un accordo con il Teatro Parioli di Roma. Come se in Calabria nessuno sapesse allestire una stagione teatrale. Come se il nome Parioli potesse bastare a garantire un buon successo di pubblico.
Cultura e globalizzazione
Non è una questione di campanilismo, quanto una rivendicazione di un’identità culturale ripetutamente calpestata da parte di una politica proiettata costantemente verso l’erba del vicino, cieca verso un patrimonio culturale che merita di essere valorizzato.
Nell’epoca della globalizzazione a qualcuno potrà sembrare riduttiva una critica verso la scelta di affidare la direzione artistica a una professionista del Nord. Ma c’è un aspetto da non sottovalutare: le diseguaglianze culturali all’interno di una società, proprio a causa della globalizzazione, sono suscettibili a maggiori accentuazioni. La situazione è chiara a livello economico per quanto riguarda i paesi industrializzati e i Sud del mondo. E lo stesso concetto si può applicare a livello culturale tra Nord e Sud. O, meglio, tra Nord e Calabria.
2024, fuga dalla Calabria
Sì, proprio la Calabria, perché le altre regioni del Sud hanno solo da insegnarci in materia di gestione delle politiche culturali. In una terra come la nostra, in cui nessuno investe in cultura, trovarsi nella situazione di essere “colonizzati” da professionisti provenienti da altre regioni, senza nessuna possibilità di fare rete oltre il nostro territorio, significa rimanere schiacciati sul piano culturale, continuare ad assistere inermi alla fuga di cervelli e di maestranze artistiche.
Alla fine sul nostro territorio non rimarrà nulla, perché l’identità culturale di un luogo può essere costruita, recuperata e valorizzata solo da chi in quel territorio c’è nato o da chi ha deciso di viverci.
Il nuovo teatro di Vibo vuoto
Benvenuta a Vibo, Angela Finocchiaro
Di certo non abbiamo bisogno di esperti a tempo determinato e neanche di “missionari evangelizzatori”. Abbiamo un patrimonio e promesse culturali per poterci porre sul piano della sinergia con altre regioni e non di certo su quello dell’occupazione intellettuale.
Leonida Repaci
Il teatro comunale di Vibo Valentia non è stato ancora intitolato a nessuno. Allora vorrei ricordare che il calabrese Leonida Repaci, oltre che scrittore e critico teatrale, è stato anche drammaturgo, i suoi drammi li ha rappresentati tutti a Milano tra il 1925 e il 1930.
Nella speranza di un giusto riconoscimento al nostro teatro, quello di ieri e quello di oggi, ad Angela Finocchiaro auguro buon lavoro a Vibo: benvenuta al Sud.
Il 18 dicembre, nell’Aula Magna dell’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, il regista cosentino Nello Costabile è stato insignito della laurea honoris causa in Cinema, Fotografia e Audiovisivo. Prendendo in prestito il gergo calcistico, potremmo dire che è il secondo derby tra Catanzaro e Cosenza che hanno vinto i giallorossi quest’anno. Certo non parliamo di una partita di pallone quanto, se così possiamo definirla, di una competizione culturale. E l’ABAha prevalsosull’Università della Calabria, che pure può vantarsi di aver istituito in Italia il secondo corso di laurea in DAMS dopo quello di Bologna. Restando alla metafora calcistica potremmo dire che qualcuno,per comodità o poca lungimiranza, gioca a Subbuteo mentre altri guardano a sfide internazionali, dando i giusti riconoscimenti alle nostre eccellenze.
Perché una laurea a Nello Costabile
La laurea honoris causa è arrivato per l’impegno profuso dal Maestro Costabile per l’affermazione del teatro professionale in Calabria e per il lavoro svolto a livello nazionale ed europeo. Il titolo accademico onorifico trova, infatti, riscontro nella seguente motivazione: “Per gli studi e le ricerche sulla regia contemporanea, sul gesto come elemento trasversale tra i generi, sulla maschera di Giangurgolo e sul suo ruolo nella Commedia dell’Arte. Per la sua instancabile attività a favore della ricerca e della formazione teatrale che da oltre 40 anni lo vede impegnato nella creazione di un teatro d’arte per le giovani generazioni e l’area della disabilità non solo nella nostra terra, ma in un più ampio contesto europeo con rapporti di collaborazione con network teatrali di rilevanza transnazionali”.
Eppure questo riconoscimento poco spazio ha trovato sulle pagine dell’informazione regionale, a conferma di quanto il nostro teatro e le sue maestranze vengano marginalizzate, ignorate e sottovalutate.
Il precedente
Nello Costabile ironizza dicendo che questo è un cerchio che si chiude e ricorda che all’inizio della sua carriera, nel 1977, proprio Catanzaro gli aveva conferito il IX Premio Nazionale di Teatro, Musica e Poesia per il miglior testo e la migliore regia per lo spettacolo “Maschere e diavuli- Frammenti di un teatro popolare”. Ma la carriera del Maestro tutto può dirsi meno che conclusa. Nello Costabile continua il suo lavoro di ricerca sulle relazioni trasversali tra le discipline dello spettacolo dal vivo, un lavoro artistico, di regia e di pedagogia che si sviluppa in un continuo confronto tra tradizione e nuove tendenze della scena, guardando al teatro di figura, alla maschera, alle arti visive, al nuovo circo, alla danza, alle nuove tendenze musicali, alla riscoperta della marionetta, tutto inun possibile incontro con le nuove tecnologie.
Uno scorcio dell’ABA di Catanzaro
Possiamo considerare la lunga esperienza professionale di Costabile come parte di un patrimonio immateriale della nostra cultura e in virtù di quanto afferma François Jullien, non dobbiamo pensare che si tratti di valori immobilizzati, quanto di un qualcosa che possa servire da trait d’union tra la tradizione e il futuro culturale da costruire. Il patrimonio culturale deve dialogare con il presente per costruire un futuro, questo è possibile a patto che le istituzioni ne favoriscano il confronto. Allora Costabile può essere quel ponte tra la storia del teatro fatta dai grandi maestri delle avanguardie europee degli anni ’70 del ‘900 con un presente non ancora storicizzato e difficilmente classificabile.
Nello Costabile e la sua carriera
Il direttore dell’Accademia, Virgilio Piccari, insieme ad un’ampia commissione di docenti e rappresentanti degli studenti, ha conferito il diploma al regista calabrese riconoscendo il valore della storia professionale del maestro. Ripercorrere le tappe di una lunga e proficua carriera risulta difficile nel ristretto spazio di un articolo, ma già una sintesi sottolinea la ricchezza di una vita dedicata al teatro.
Tra i maestri di Costabile è doveroso menzionare la regista teatrale e cinematografica francese Ariane Mnouchkine e la sua conseguente formazione presso il Théâtre du Soleil, il maestro Peter Brook dal quale ha appreso i fondamenti della messa in scena, del lavoro con la maschera e l’importanza dell’uso del corpo per il lavoro dell’attore.
Jerzy Grotowski
Nel 1975 l’incontro con Jerzy Grotowski nel Laboratorio di Wroclaw in Polonia, e per la Biennale di Venezia partecipò al “Progetto speciale Jerzy Grotowski“, lavorando con Ludwik Flaszen, co-fondatore insieme a Grotowski del Teatro Laboratorio.
Fu proprio alla Biennale Teatro di Venezia che avvenne l’incontro con il Living Theatre. Da qui l’amicizia e il lungo rapporto di collaborazione con Julian Beck e Judith Malina, tanto da rivestire il ruolo di delegato della compagnia all’organizzazione della tournée in Italia. Grazie al rapporto con il Living, nel 1976 organizzò a Cosenza il “Progetto di contaminazione urbana” al quale partecipò anche l’importante compagnia argentina la Comuna Baires.
Gli anni di Giangurgolo
Nello Costabile nei panni di Giangurgolo in un’immagine d’epoca
Due anni prima, nel 1974, per la Rai il regista Enrico Vincenti, che stava realizzando una serie di cortometraggi sulle maschere della Commedia dell’Arte, gli chiese di partecipare recitando la maschera del Calabrese, Capitan Giangurgolo, assente dalla scena dal 1650. Nello stesso anno interpretò la maschera nello spettacolo Bertoldo a corte di Massimo Dursi, sempre con la regia di Vincenti. Glistudi e le ricerche deglianni successivi su Giangurgolo e sul suo ruolo nella Commedia dell’Arte fanno oggi di Nello Costabile il più importante studioso di questa maschera, come gli viene riconosciuto da due esperti internazionali di Commedia dell’Arte quali Arianne Mnouchkine e Carlo Boso.
Nello Costabile è stato tra i fondatori della prima compagnia professionistica calabrese, la Cooperativa Centro RAT, che ha anche diretto fino al 1979. in quell’anno, poi, il Comune di Cosenza gli ha offerto la direzione del Teatro Comunale “Alfonso Rendano”, di cui è stato il primo direttore artistico. Con l’entrata in attività del Consorzio Teatrale Calabrese – Teatro Stabile Regionale ha ricoperto il ruolo di primo direttore. Dopo aver diretto compagnie, teatri e vari festival da oltre un ventennio si dedica, esclusivamente, alla regia e ad attività di educazione e pedagogia teatrale per le nuove generazioni e per ragazzi e giovani con disabilità e disagi sociali.
Il Teatro Rendano di Cosenza
Nello Costabile e la Francia
La sua solida conoscenza delle reti professionali, delle istituzioni e delle politiche culturali a livello europeo gli ha permesso di essere coinvolto anche in vari progetti e collaborazioni internazionali. In particolare con la École Supérieure Internationale d’Art Dramatiquedi Versailles, con l’Insitut de Teatre di Barcellona, il Théâtre de la Semeuse di Nizza e la FC-Produções Teatraidi Lisbona. È tra i fondatori e consigliere di amministrazione dell’Union Europèenne du NouveauThéâtre Populaire, network europeo di festival, compagniee scuole teatrali di Francia, Spagna, Italia,Portogallo, Finlandia, con sede presso il Comune di Versailles.Il network si occupa dicooperazione per la formazione, la programmazione e la creazione nelle arti della scena a livellointernazionale.
L’edificio che ospita la Ecole Régionale d’Acteurs de Cannes/Marseille
In Francia Costabile ha ottenuto importanti riconoscimenti accademici. Tra questi, la Laurea in Arti dello Spettacolo–Studi Teatrali dall’Università di Rennes; la Laurea magistrale in Arti della Scena e dello Spettacolo dal Vivo-Progetto culturale e artistico internazionale dall’Università di Parigi 8, Vincennes/Saint Denis; il Diploma di Stato di Professore di Teatro, rilasciato dalla prestigiosa Ecole Régionale d’Acteurs de Cannes/Marseille, sotto la tutela del Ministero dell’Educazione Nazionale Francese. Nel 2013, l’Ambasciata della Repubblica d’Indonesia in Italia gli ha conferito il riconoscimento ufficiale di Ambasciatore Culturale per la Promozione in Europa del teatro-danza balinese.
Passato, presente e futuro
Nella ristretta bibliografia sul teatro calabrese è triste constatare quanto nessuno, neanche a livello accademico, si sia occupato della storia del teatro dagli anni ’70 in poi. E se da una parte è vero che la Calabria risente della mancanza di una tradizione teatrale, dall’altra c’è tutta una storia, quella dell’incontro con le avanguardie degli anni ’70, che è stata completamente trascurata.
Un colloquio con il teatro di quegli anni potrebbe raccontarci molto sui processi storici di un periodo di grandi rivolgimenti sociali e politici. Proprio per questo un dialogo con Nello Costabile potrebbe essere il nostro sguardo diretto su un passato che tanto potrebbe raccontarci su quello che siamo diventati. Gustav Mahler affermava che «la tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri», noi invece semplicemente ignoriamo il passato, non guardiamo al presente. E difficilmente riusciremo a costruire un futuro culturalmente partecipato.
Senigallia. 15 settembre 2022. Mi trovo in città per dare il via a un’iniziativa a cui lavoro da mesi. Il cielo, carico di pioggia, è minaccioso. Mentre va in scena il primo evento, in sala fa breccia un messo comunale trafelato che inizia ad urlare di sgomberare: sta arrivando la piena del fiume. Di lì a poche ore il Misa strariperà rovinosamente. La mattina successiva, dopo una notte di inferno, ricevo una chiamata da un amico reggino che vive in zona e che decide di raggiungermi.
Nonostante la città sia una distesa di fango e detriti, Giandiego arriva e, dopo un caffè stravolto e straniante, mi regala una copia di A Marsiglia con Jean Claude Izzo, invitandomi a contattare il suo autore Vincenzo Gallico, interessato all’iniziativa marchigiana ormai abortita per cause di forza maggiore.
Il mio dialogo con Vincenzo Gallico, per gli amici e i lettori Vins, inizia così. Scambiamo qualche messaggio, gli passo alcuni dei miei scritti da cui parte un confronto virtuale che entro qualche mese approderà alla vita reale.
Scilla, 24 giugno 2023. Ci incontriamo per la prima volta dal vivo in occasione della presentazione de Il Dio dello Stretto. Reggino, trasferitosi a Roma, ammiratore di Paul Preciado, un passato come ricercatore in Germania, Vincenzo “Vins” Gallico è ormai un autore di lungo corso e già finalista al Premio Strega. Concordiamo un’intervista che si concretizzerà solo diversi mesi dopo.
Come sta andando?
«Il libro sta andando bene. Sono contento. Rispetto all’andamento della narrativa italiana non ho di che lamentarmi. Siamo già in fase di ristampa. E, a considerare il numero di inviti che sto ricevendo in giro per l’Italia e l’accoglienza che mi viene riservata, devo considerami fortunato. È successo quanto mi aspettavo».
La copertina de Il Dio dello Stretto, ultimo romanzo di Vincenzo “Vins” Gallico
In che senso?
«Ritornare al romanzo per me non era così scontato. Quando te ne allontani, alcuni posti vengono rioccupati, altre voci vengono dimenticate. Invece vedo che c’è stato parecchio affetto e calore intorno a questo libro».
Mi hai detto «ritorno al romanzo». Perché?
«Dopo Portami Rispetto del 2010 e la commediaFinal Cut, avevo scritto La Barriera, un romanzo a quattro mani uscito nel 2017. Poi era stata la volta di due volumi, due saggi, A Marsiglia con Jean Claude Izzo e La Storia delle librerie italiane. Di fatto non scrivevo un romanzo da solo dal 2015. Sette anni. E non ne scrivevo uno noir da circa tredici. Quindi mi sembra di poter parlare di ritorno».
Il tuo romanzo non è una semplice storia di fantasia. C’è dietro uno studio sul contesto italiano politico e giudiziario, sulla guerra di mafia che negli anni Ottanta ha insanguinato Reggio Calabria e sui nuovi equilibri raggiunti negli anni Novanta. C’è dentro tutto lo Spirito del Luogo: dai tramonti mozzafiato del lungomare alla decadenza umana e urbana…
«E non sarebbe potuto essere altrimenti. Sono cresciuto al Gebbione (quartiere dell’area Sud di Reggio Calabria, n.d.r.) e mi porto dietro tutto quello che le mie origini comportano. Reggio è un luogo complesso e stratificato dove una bellezza struggente si accompagna a una ferocia senza scrupoli. Camminano insieme in un ossimoro. Non riesco a non parlare di queste mie origini, legate a un territorio che già parte da una evidente condizione di svantaggio in cui anche il contesto della borghesia cittadina non è certo paragonabile a quello del Centro-Nord. In più, porto un cognome che può ingannare: nonostante non abbia parentele di un certo tipo, mi rendo conto che a volte questo cognome abbia una ricezione scomoda. Raccontare certe storie e certi territori è il mio modo di affrontare il trauma di nascita, che è mio e di tutti i calabresi per bene».
Case popolari nel quartiere Gebbione di Reggio Calabria
«Un qualcosa che è assieme prigione, spinta evolutiva, bisogno di affrancamento. È chiaro che certi luoghi, specie se natali, ti segnano: sono la tua sventura, ma anche il tuo trampolino. Essere cresciuto a Reggio mi dà maggiore sicurezza nella mia vita odierna e nella gestione di situazioni critiche. Un punto di forza, non di vanto».
Nel tuo noir racconti una storia di passioni, malaffare, maschilismo in cui l’eroe – il giovane magistrato Mimmo Castelli – si trova a indossare le scarpe dell’antieroe e antagonista, il malavitoso Logoteta…
«Mimmo Castelli è il protagonista della vicenda. E lo è in due direzioni e dimensioni: sia per quanto riguarda il motore esterno della storia – l’eventuale risoluzione dell’indagine – sia per quel che concerne il motore interno – i dubbi etici, i rapporti con la moglie, gli amici, il gruppo, la religione. Di fatto si tratta di una storia che si sviluppa su questi due pilastri. Meglio: due tiranti. Due elastici. Entrambi ispirati agli stilemi del romanzo di detection. Sul versante esterno: riuscirà il nostro eroe a risolvere il caso? E, nel caso, riuscirà a sconfiggere l’antagonista? Su quello interno: riuscirà a sciogliere i suoi crucci interiori?».
Tra le recensioni che ho letto c’è chi ha sottolineato la tua capacità di non perdere il ritmo. Che è un aspetto essenziale per il gradimento dei lettori.
«L’aspetto ritmico è complicatissimo nella scrittura. I miei editor mi hanno più volte contestato che corro troppo, che c’è troppa storia. Per cui ho molto lavorato su questo aspetto: ho provato a evitare troppi colpi di scena e a entrare un po’ più nei personaggi. Anche perché trovare un’intimità con chi ti legge è un’operazione complessa. Non so quanto mi sia riuscita, ma ho provato a farlo: per cui ho corso un po’, mi sono fermato un attimo, ho ripreso fiato e sono ripartito nella corsa».
Vincenzo “Vins” Gallico durante una presentazione del suo ultimo libro
Un ritmo che accompagna dubbi, inquietudini e turbamenti di Castelli con un capovolgimento che rasenta il coup de théâtre: da giudice integerrimo a uomo troppo umano.
«A me la roba delle stanze chiuse interessa parecchio. Mi riferisco all’aspetto non manicheo per il quale “quello è una-bravissima-persona”. Vero! Ma anche la-bravissima-persona combatte i suoi demoni. Che spesso sono tappati, o repressi, ma possono venir fuori da un momento all’altro. Mimmo Castelli è un personaggio che è convinto di essere buono ma deve arrendersi di fronte alla verità che la bontà tout court non esiste. Nemmeno nei santi. Il retro-pensiero fa parte di qualsiasi essere umano».
Che è un po’ il tema principe trattato con cruda lucidità da Rocco Carbone in “L’Assedio”: la dimostrazione plastica di come la pretesa assolutistica dell’etica abdichi di fronte alla relatività di certe circostanze legate all’emergenza o alla sopravvivenza. Un tema che tu enunci chiaramente nelle citazioni che introducono il tuo romanzo.
«Con Rocco ho un legame speciale, che tu conosci, e che inevitabilmente, in maniera conscia o inconscia, mi riporta a lui e alla sua poetica. A margine de Il Dio dello Stretto cito Aristotele: per lui la giustizia – in qualità di virtù prima – rappresenta il Giusto Mezzo per antonomasia. Può essere padroneggiata solo al compimento di un processo di ricerca incessante che oscilla tra sentimenti, esperienze, incontri e riflessioni. Una Giustizia che può anche smarrirsi tra le pieghe di verità giuridiche che non sempre coincidono con le realtà dei fatti. Senza dimenticare – come ti ho detto – che i nostri natali calabresi e il processo di crescita vissuto a certe latitudini ha influenzato molto la nostra visione dell’etica».
Rocco Carbone
Ossia?
«Trattare il tema del bene e del male a volte può voler dire fissare il limite tra l’eroismo e la scelta di vivere. Nel nuovo romanzo che sto preparando, il sequel de Il Dio dello Stretto, viene ucciso il fratello di Patrizia, amica di Miriam (moglie di Mimmo Castelli, n.d.r.). La stessa Miriam viene da una famiglia complicata. Mimmo allora inizia a interrogarsi su quale sia la normalità: quella della sua famiglia che lo ha cresciuto nella bambagia o quella dei contesti di degrado da cui è circondato?».
Che Calabria racconta Vins Gallico?
«Cerco di tenermi lontano sia dallo sciovinismo, quindi dallo stereotipo di una Calabria favolistica dalle magnifiche tradizioni, sia dalla classica narrazione di ‘ndrangheta. In realtà non sono un “esperto” di Calabria, ma mi pongo come narratore dello Stretto. Sono più vicino a Carbone che a Corrado Alvaro: Gente in Aspromonte mi è più lontano rispetto a L’Apparizione. Più semplicemente ho cercato di raccontare i fermenti di un territorio all’alba di quella che si presentava come una stagione di speranza. Il Dio dello Stretto è anche un romanzo legato alla speranza.
Corrado Alvaro
In che senso?
«Con la fine della seconda guerra di ‘ndrangheta, si era aperta una stagione in cui un po’ ci si credeva che qualcosa potesse cambiare».
Questa speranza è finita?
«Diciamo che in questi ultimi 20 anni ha preso un bel po’ di pugni in faccia».
Chi è il Dio dello Stretto che vorrebbe Vins Gallico?
Una nuova comunità di giovani che prova a cambiare Reggio. Recentemente sono stato al “Da Vinci” (uno dei due licei scientifici di Reggio Calabria, n.d.r.) e ho buttato lì una proposta agli studenti: perché non provate a diventare la prima scuola green in Italia? Lasciate auto e motorini e raggiungete la scuola a piedi. Nonostante si trattasse di una boutade, la mia speranza e il mio augurio riguardano la capacità ricettiva di Reggio: spero che prima o poi la città si svegli, recepisca e faccia proprie le istanze di reale cambiamento».
Il liceo Da Vinci di Reggio Calabria
Cos’altro bolle in pentola?
«Lo scorso 17 dicembre si è concluso il primo Festival dell’Ascoltopromosso da Fandango, di cui sono responsabile. Abbiamo iniziato a lavorare in modo più strutturato su un format che coniuga podcast e nuove forme di inchiesta. La risposta è stata molto positiva e presto ci saranno delle novità».
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