Categoria: Cultura

  • Il fascino disadorno del Brutalismo

    Il fascino disadorno del Brutalismo

    E infine, l’Oscar: ad Adrien Brody, come Miglior attore protagonista, che insieme al talento dell’uomo sancisce l’apoteosi definitiva del brutalismo. In realtà di Oscar il film ne ha presi altri due, per la miglior fotografia di Lol Crawley, e per la miglior colonna sonora originale di Daniel Blumberg, ma a noi basta il concetto. Che per chi diffida delle coincidenze, suggerisce un parallelo fra il riconoscimento cinematografico, e l’affermazione come corrente estetica di quello che era “semplicemente” uno stile architettonico. Al culmine di un’ascesa lunga una decina d’anni, e in un crescendo di like a milionate, distribuite fra le varianti hashtag più fantasiose, dal palco scintillante di Hollywood il brutalismo fa il suo ingresso ufficiale nell’empireo del mainstream.

    E come per la turistificazione di quei posticini che per eccesso di passaparola diventano impraticabili, con la notorietà inizierà a svanire da oggi quell’aura di esclusività di massa che lo aveva reso un termine identitario. Anche per chi non ne sapeva molto di pensiero architettonico che riformula il lessico del costruire, ma bastava la pronuncia per sentirsi un passo avanti.

    In realtà, esclusivo in senso proprio questo stile da futuribile distopico lo era, proprio per il fatto di essere nato con lo stigma della scostanza, certamente non facile da apprezzare. Il che obbliga ad interrogarsi su cosa ci sia di attraente in questo stile fattosi moda. Ed ecco che qui entra in gioco la solita fotografia, con il suo potere di mostrarti le cose per il loro lato migliore. Grazie ad una certa sapienza ruffiana, quella stessa artefice dell’instagrammizzazione dell’esistenza, la traduzione della realtà in pura forma-immagine ‘rende tollerabile persino la gastrite’, cantava Sergio Caputo.

    Brutalismo, un crescendo editoriale

    E così quel fascino dell’orrido, che da sempre ha fatto la fortuna di scrittori e registi, è giunto fino all’editoria, con la pubblicazione negli ultimi anni, e su scala planetaria, di alcuni volumi dedicati. Qui da noi, ad esempio, è di un paio d’anni fa “Brutalist Italy – Concrete Architecture from the Alps to the Mediterranean Sea”, ricerca di Roberto Conte e Stefano Perego che attraverso 12.000km e 150 foto tratteggia la mappa e al tempo stesso l’iconografia di questa architettura proveniente dagli anni ’50 del Novecento. Decisamente più ludica, con i suoi modelli in cartone pressato da assemblare che ricordano l’enciclopedia boomer ‘Il mio amico’ di Garzanti, è “Brutalia”, volume della polacca Zupagrafika dedicato anch’esso agli edifici patri.

    L’effetto su carta patinata è certamente lontano dalla desiderabilità del reale quale luogo in cui vivere, come racconta la cronaca delle vele di Scampia, o del Corviale romano, e forse neanche dove riposare in eterno, sebbene un Guido Guidi rapito dal tratto di Carlo Scarpa abbia dedicato un intero libro alla tomba Brion, e Denis Villeneuve una citazione nel secondo capitolo di Dune.
    Ma verrà l’obblio, anche se ancora non sappiamo che occhi avrà; di certo, dopo tanto celebrare, dovrà essere all’altezza di cotanto Oscar. E forse c’è già qualcuno che con l’AI sta immaginando queste strutture come novelle Angkor Vat inghiottite dalla natura…

    Attilio Lauria

  • San Leone a Saracena: un rito di identità e coesione sociale

    San Leone a Saracena: un rito di identità e coesione sociale

    Era il febbraio del 2018, quando con Giovanni Sole decidemmo di osservare e filmare, per l’ennesima volta la festa di San Leone a Saracena, un rito che dopo qualche settimana di montaggio delle immagini decidemmo di affidare ad un film corto dal titolo “Il santo e i maccheroni”, da sottoporre agli studenti di Antropologia religiosa e Storia delle tradizioni popolari all’università della Calabria. Le conclusioni furono affidate, invece, ad una voce off che recitava sulle immagini di un campo di papaveri, perché il risveglio della natura, nel ciclo delle stagioni, era ormai vicina. “Saracena è avvolta da un lento pallore e da un sonno profondo. Lontano i campi brulli, gli orti spogli e gli alberi scheletrici sono immobili, muti e desolati. Nel pomeriggio i fuochi rischiarano il buio e, scintillando, creano un’atmosfera calda e vivace. I paesani attraversano le vie suonando, cantando e invocando il nome del Protettore. Durante la notte si mangia e si fa festa: evviva san Leone con un piatto di maccheroni! Non è più tempo di privazioni e sacrifici: presto la terra si sveglierà e le spighe di grano cresceranno”.

    San Leone a Saracena: luce e prosperità

    La festa di San Leone a Saracena, celebrata ogni 19 febbraio a Saracena, è un evento ricco di significato antropologico e culturale. In questa occasione, la comunità si riunisce per onorare il proprio santo patrono, San Leone, arcivescovo di Catania nel periodo bizantino. Attraverso una serie di rituali e tradizioni, la festa riflette la profonda connessione tra i paesani e la loro storia religiosa e culturale. La festa è caratterizzata da una serie di elementi chiave come, ad esempio, la processione, che si snoda dalla chiesa principale e vede i partecipanti portare torce realizzate con una pianta locale intrisa di olio, chiamata “varvasca”. Questo rito, carico di simbolismo, rappresenta la luce che guida la comunità e la protegge dalle tenebre. In ogni rione del paese vengono accesi falò, che arderanno fino al mattino seguente. Il fuoco, elemento di purificazione e simbolo di rinascita, rappresenta la speranza e la forza della comunità. Intorno gruppi di giovani suonano organetti, tamburelli e “cupi cupi”, intonando canti in onore del santo.

     

    Cibo, vino e condivisione

    Il canto e i suoni generano un’atmosfera di festa e di condivisione. Le tavole imbandite con cibi locali, accompagnati dal vino e dal moscato, sono un elemento centrale della festa. La condivisione del cibo e bevande rafforza il senso della comunità e dell’appartenenza. C’è un significato antropologico profondo nella festa di San Leone a Saracena che rappresenta un momento di aggregazione sociale e di identità. Attraverso il rito, il popolo celebra la sua storia, la sua fede e il suo legame col taumaturgo. La festa è un esempio di come la religiosità possa fungere da catalizzatori di identità e coesione sociale, mantenendo vive le tradizioni e le credenze di una comunità. La festa di San Leone a Saracena è un evento ricco di significato, che unisce elementi religiosi cristiani a credenze popolari legate a elementi di natura. Attraverso la partecipazione collettiva al rito, la comunità rafforza i legami sociali e tramanda la propria identità alle nuove generazioni. La festa di San Leone rappresenta un patrimonio culturale immateriale prezioso, che merita di essere approfondito.

     

     

  • Ricerche svelate, una web serie tra i cubi dell’Unical

    Ricerche svelate, una web serie tra i cubi dell’Unical

    La web serie “Le ricerche svelate” è un progetto innovativo avviato dal Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali (Dispes) e dall’Area Comunicazione dell’Università della Calabria, con l’obiettivo di rendere accessibili al pubblico le ricerche scientifiche condotte all’interno dell’ateneo. Ideata da Daniele Dottorini, docente di cinema, da Antonio Martino e dal sottoscritto, che da anni si occupano di cinema documentario antropologico e di osservazione, la serie rappresenta una collaborazione tra i Laboratori di ricerca del Dispes e l’Area Comunicazione dell’Unical, con il contributo di Laura De Leo, Fabio Grandinetti, Francesco Montemurro, Aldo Presta e Vittorio Scerbo.

    OBIETTIVI E METODOLOGIA

    Il progetto si basa sulla convinzione che il linguaggio audiovisivo possa superare le barriere linguistiche e concettuali che spesso rendono le ricerche accademiche inaccessibili ai non addetti ai lavori. Attraverso immagini, suoni e narrazioni, molti concetti complessi possono essere presentati in modo più intuitivo e immediato, facilitando la comprensione e stimolando l’interesse del pubblico. L’audiovisivo, infatti, ha la capacità di coinvolgere emotivamente gli spettatori, creando un legame più profondo con il contenuto presentato e incentivando ulteriori approfondimenti.

    WEB SERIE UNICAL: UMANIZZARE LE RICERCHE

    La nostra visione è quella di “umanizzare la scienza”, ossia di presentare le ricerche scientifiche attraverso il racconto delle storie personali dei ricercatori, le loro motivazioni e il loro impegno quotidiano. Questo approccio antropologico permette di avvicinare la scienza alla società, rendendola più comprensibile e rilevante per la vita quotidiana delle persone. Ad esempio, quando un ricercatore di biochimica racconta la sua lotta personale contro il cancro e l’impatto delle sue scoperte sulla cura della malattia, il pubblico può comprendere meglio l’importanza del lavoro scientifico e sentirsi maggiormente coinvolto.

    MONNA LISA SMILE

    Il sorriso enigmatico di Monna Lisa è la prima puntata della serie, dedicata allo studio di Alessandro Soranzo, ricercatore del Dipartimento di Fisica, che ha analizzato l’enigmatico sorriso della Monna Lisa. Utilizzando la teoria psicologica dell’organizzazione percettiva, Soranzo ha svelato come la percezione dell’espressione della Gioconda sia influenzata dalla visibilità dei dettagli nell’area attorno alla bocca, introducendo il concetto di “tocco artistico di ambiguità”. Lotta al cancro, la promessa di Marco è la seconda puntata che si concentra sulla storia del dottor Marco Fiorillo, giovane ricercatore calabrese di biochimica, rientrato all’Unical dopo un decennio di esperienze all’estero. Il suo lavoro ha contribuito alla scoperta di nuovi potenziali farmaci per il trattamento dell’adenocarcinoma polmonare, la forma più letale di cancro ai polmoni. Altre puntate sono in fase di realizzazione.

    WEB SERIE UNICAL: IMPATTO E PROSPETTIVE FUTURE DELLE RICERCHE

    La divulgazione scientifica attraverso l’audiovisivo rafforza il ruolo dell’università nella cosiddetta “terza missione”, ossia l’interazione con la società e la condivisione della conoscenza al di fuori dell’ambito accademico. La web serie “Le ricerche svelate” rappresenta un esempio significativo di come l’audiovisivo possa essere utilizzato efficacemente per la divulgazione delle ricerche universitarie e dei centri di ricerca del nostro paese. Attraverso questo format, l’Università della Calabria riesce a portare le proprie scoperte al di fuori dei confini accademici, rendendole accessibili e interessanti per un pubblico più ampio, e contribuendo così alla diffusione della conoscenza e al progresso culturale della società.

    Gianfranco Donadio
    documentarista

  • Fenomenologia di Brunori Sas: quando le canzoni (e non solo) diventano patrimonio identitario

    Fenomenologia di Brunori Sas: quando le canzoni (e non solo) diventano patrimonio identitario

    «C’è una identità che scalpita per essere rappresentata, che ha bisogno di un portavoce, di un ambasciatore, di un condottiero», dice con convinzione Olimpia Affuso, sociologa dell’Unical e vice coordinatrice del corso di studio di Media e società digitale, fornendo una spiegazione possibile all’impazzimento collettivo verso Dario Brunori.
    È pressoché sicuro che il cantautore cosentino non si senta un condottiero, eppure durante l’ultima edizione del Festival della canzone ha incarnato la rappresentazione di un territorio e di una cultura anticamente relegati alla pena del silenzio o, peggio, incatenata ai ceppi di una narrazione nefasta.

    I commenti social

     

    Brunori Sas e la nuova narrazione della Calabria

    Per una manciata di giorni questa narrazione si è spezzata e al suo posto sono emerse dolcezze e poesia e appresso a loro un inatteso orgoglio. Ma le cose sono sempre più complesse di quanto appaiano e per muoversi con disinvoltura dentro l’articolata fenomenologia brunoriana c’era bisogno di uno sguardo in grado di cogliere le sfumature psico-sociali.

    Paola Bisciglia, psicologa e psicoterapeuta, Giap Parini, sociologo e direttore del Dispes e la già citata Olimpia Affuso, sono stati i compagni di un viaggio dentro un fenomeno collettivo fatto di entusiasmo, rivendicazione e senso di appartenenza, tutti sentimenti che hanno trovato in Brunori Sas il riferimento. E considerata la veemenza fideistica che a un certo punto ha invaso i social, c’è il rischio che possa vagamente avverarsi la profezia espressa con la consueta intelligente autoironia dallo stesso Dario: quella di immaginarsi come una Madonna portata a spalla e con i devoti che attaccano banconote al suo mantello, come ancora avviene durante certe processioni nei nostri paesi.

    Cultura alta e cultura pop

    Questo richiamo divertito a una religiosità devozionale ancora viva in Calabria non è stato il solo riferimento a radici culturali profonde, come quando sapientemente, nel corso di una intervista, ha spiegato l’affascino e i riti magico-religiosi per neutralizzarlo, citando, senza citarlo davvero, De Martino. Sud e magia sul palco dell’Ariston, un passaggio tra cultura alta e quella pop, che ha suscitato non solo il sorriso, ma la rivendicazione orgogliosa «di una storia di cui ci vergogniamo», dice Paola Bisciglia, spiegando che la parola necessaria a comprendere alcune cose è proprio questa: la vergogna da cui vogliamo riscattarci.

    «Si ha l’impressione che i calabresi detestino la Calabria e invece la amano, ma se ne vergognano», continua la psicologa. Poi arriva Brunori, che con la sua autenticità parla a una platea nazionale raccontando della scirubetta, «che per noi è come una cosa intima, solo nostra, e lui lo fa sfidando e vincendo quel senso di pudore che noi abbiamo per le cose che consideriamo private e da non esporre, come il dialetto, l’inflessione cosentina che Dario ha disinvoltamente esibita, la perifericità dei luoghi. In sintesi, ha ridefinito in positivo i limiti».

    La psicologa avverte che tutto questo è avvenuto senza strategia, ma con assoluta autenticità e ha fatto scattare la dinamica dell’immedesimazione. Dario «è diventato uno di noi ed è forte la voglia di riconoscersi in lui». Brunori insomma ci dice che non dobbiamo nasconderci, che possiamo parlare di noi, di come siamo davvero, che possiamo rivendicare la nostra indolenza mediterranea, che il nostro ni sicca è espressione del pensiero meridiano fiero e alto. È repulsione infastidita dell’urgenza imposta dalla post modernità, noi che manco abbiamo avuto la modernità.

    Brunori a Sanremo

    Brunori Ipertesto, segno della contemporaneità

    «Lui ha una caratteristica tipica della contemporaneità: è un ipertesto – dice Olimpia Affuso – dove si collegano testi, codici culturali diversi, parole, immagini e anche tecnologie della narrazione differenti ma con un intento unitario. E questo oggi è la chiave del successo».
    Parini invece osserva il fenomeno da un punto di vista diverso. Per lui Brunori è espressione di una storia solida, capace di rappresentare «una cultura un poco blasé, disincantata, che potrebbe essere la cifra di una certa cosentinità colta, ironica, spesso antagonista, ma non certamente pensiero subalterno. Anzi, si tratta di una cultura forte». Da questo punto di vista il cantautore per Parini «rinverdisce un orgoglio che già c’era e che aveva le sue radici in una città che è stata – e, in parte, è ancora rispetto ad altre aree della regione – colta, moderna, intellettuale».

    La Pizzica e la Tarantella

    L’essere blasé però non aiuta a cambiare le cose: altrove la Pizzica è diventata identità culturale, mentre noi consideriamo la tarantella un ballo tamarro.
    È mancato fin qui il salto per capovolgere il paradigma. La politica non sembra interessata a una operazione di rivendicazione orgogliosa, tocca quindi alla cultura cercare di fare il passo.

    Il sociologo Franco cassano

    «In Puglia c’era un gioco di squadra tra Vendola e Franco Cassano, tra la visione  politica e le aule universitarie», aggiunge Olimpia Affuso, ricordando come Sergio Bisciglia, docente di Sociologia urbana, abbia sottolineato che lo sviluppo turistico della Puglia sia passato dalle università. Il confronto tra la Puglia di Vendola e la Calabria di Occhiuto sembra piuttosto audace ed è vero, come avverte Parini, che tra qualche tempo l’eco sanremese si sarà stemperato, «ma intanto abbiamo trovato un ambasciatore che ha nazionalizzato la Calabria».

    Brunori e la potenza della bellezza

    Di tutto questo adesso resta «la potenzialità politica della bellezza», come conclude Affuso e che è stata rappresentata dall’arte di Dario Brunori.
    Dobbiamo trovare l’intelligenza per trasformare questa bellezza in azione. Ma più di tutto ce la dobbiamo meritare.

     

  • Ecco perché Brunori mi piace ancora di più dopo Sanremo 2025

    Ecco perché Brunori mi piace ancora di più dopo Sanremo 2025

    Ecco perché, dopo questo Sanremo 2025, Dario Brunori mi piace ancora di più, senza che il mio essere “conterroneo” c’entri nulla.
    Da quando me ne ricordo, senza scomodare storiografie che mi sciorinerebbero come da sempre funzioni così, la musica è identitaria, una bandiera tribale. Noi giovani vs genitori e umarell vari, innanzitutto, che all’epoca non avevano etichette stile zeta o millennial, divisi semmai fra quelli che avevano fatto la prima o la seconda guerra, e tutti aspettavano Canzonissima del sabato sera. E poi sorcini, baglionisti e quelli dei Pooh. Canzoni spesso dedicate con tanto amore sulle radio libere da una qualche stella di periferia ad un Marco, anche lui di periferia.

    Roba da disimpegnati un po’ coatti per quelli che noi solo cantautori, ma non tutti, perché Battisti è di destra, salvo ascoltarlo di nascosto. Canticchiandolo pure, ma a voce bassa, per placare quel senso di colpa che tutto vede e tutto sa. Per non parlare del dissing antesignano fra Venditti e De Gregori, con relative tifoserie, e tanto di “scusa Francesco” per un lieto fine da amici antichi. Poi, come canta proprio quello di Rimmel, “elleppì” anche lui ormai cinquantino, a un certo punto ti volti a guardarli, quei tuoi anni. E non li trovi più.

    Brunori: Sanremo 2025 o Frittole?

    Nel frattempo, senza neanche accorgertene, hai perso il contatto, fino allo smarrimento di chi si ritrova catapultato alla Benigni & Troisi nella Frittole del Sanremo 2025. Un mondo dove gli umani, per noi che i Jalisse erano già un’eversione, ma di quelle innocue da sorriso «per pazzi sprasolati e un poco scemi», hanno nomi da esercizio di fantasia un tempo riservato ai pet: Rkomi, Irama, Shablo, e via a chi la spara più sorprendente, fino al Tormento.

    So bene, in qualità di sessantenne a rischio ‘signora mia dove andremo a finire’ di dovermi stoppare qui, risparmiandomi tutta la manfrina sulla fenomenologia di costume, ma…
    Sarà pur vero che ogni epoca ha le sue liturgie, e che con gli anni capita sempre più spesso che ti frulli per la testa quel ritornello dei Rem che fa «it’s the end of the world as we know it», ma il vizio antico di sentirsi parte di qualcosa non muore mai.

    Uno normale

    È il bisogno di identità, bellezza, direbbe qualcuno. Già, l’identità, quella cosa che ti fa sentire protetto, al sicuro delle tue certezze quando diventa faticoso inseguire il mondo, e decidi che “sì, io mi fermo qui”.
    Ecco perché, dopo questo Sanremo 2025, Dario Brunori mi piace ancora di più, senza che il mio essere “conterroneo” c’entri nulla. «Cazzo, uno “normale”!», ho pensato nel vederlo cantare su quel palco in giacca elegante quanto basta e chitarra! Venghino signori, venghino, non c’è trucco e non c’è inganno!

    Anche qui, so bene che nel dizionario, peraltro molto a rischio, woke il termine normale è fastidiosamente avvertito come sinonimo di una qualche forma di conservatorismo, e che necessita pertanto di una dichiarazione di accezione. Ebbene, nel mio personalissimo, quanto insindacabile dizionario, normale sta per privo di orpelli ed eccessi, in sintonia con la propria natura, che si esprime senza cedimenti al mainstream. Il che non vuol dire che in quanto artista l’uomo non promuova se stesso, ma in maniera percepita come espressione di un autentico sé. Comunque, roba rara, qui a Frittole.

    Tutto ciò confermerà probabilmente da quale parte della storia mi trovi, un vecchio grumpy insensibile all’edonismo griffato a tanto ad apparizione del Sanremo System, con un certo fastidio per gli epigoni a cascata. L’indizio da terzo posto è comunque quello di essere in tanti, non solo televotanti, e certo, mi fa anche molto piacere, come un friccico ner core, l’illusione di essere calabrese come lui.

    Attilio Lauria

  • Unical e I Calabresi: quando giornalismo e università lavorano insieme

    Unical e I Calabresi: quando giornalismo e università lavorano insieme

    «Tutto quel che è solido si dissolve nell’aria», avvisano Berman e, ben prima di lui, Marx. Non è una bella cosa che quelle quattro certezze cui proviamo da attaccarci siano anche esse destinate a svanire, ma questo è quanto succede. E dentro questi accadimenti, spesso tumultuosi, vogliamo stare per comprenderli e interpretare la complessità dei fatti.
    Per riuscirci ci siano attrezzati al meglio: il nostro giornale, I Calabresi, ha avviato una collaborazione con il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Unical. Una idea lungamente coltivata, poi diventata progetto e finalmente giunta a compimento grazie alla sensibilità del direttore del Dipartimento, Ercole Giap Parini e alla disponibilità dei docenti dei vari corsi di laurea.

    L’Unical e il nuovo percorso per I Calabresi

    Per I Calabresi è l’occasione per esplorare un nuovo sentiero, stavolta da percorrere insieme all’Unical, e nel corso di questo cammino comune vogliamo caratterizzarci come un giornale attento alle dinamiche sociali, all’osservazione dei fenomeni economici e politici, ai mutamenti dell’agire collettivo, seguendo la bussola della interdisciplinarità, che oggi appare il solo strumento in grado di offrire l’opportunità di cogliere le molte sfumature della realtà e la complessità dentro cui ci muoviamo.
    Di qui l’ambizione di avviare un dialogo con tutti gli ambiti di ricerca, sempre più necessari a fornire uno sguardo differente, eppure ineludibile al fine di governare gli eventi cogliendone il senso e la radice. Un impegno di ricerca che parte dai cubi del Dispes, ma vuole correre lungo tutto il Ponte Bucci, cercando di coniugare le Scienze sociali e politiche con le Stem, la sensibilità sociologica con la scommessa dell’IA, l’economia con i territori.

    La terza missione

    I fenomeni migratori, il mutamento della costruzione del consenso sociale, la difesa degli spazi di autodeterminazione personale e comunitaria, le forme della comunicazione nell’era digitale e della post verità, le relazioni possibili tra l’umano e il post umano, saranno alcuni degli argomenti cui ci piacerà rivolgere lo sguardo curioso e autorevole, perché basato sul lavoro di ricercatori e accademici di vaglia.
    In questo modo I Calabresi si candida a diventare spazio di confronto, luogo didattico, palestra di scrittura, estensione delle aule, strumento di divulgazione di iniziative, seminari e ricerche, provando a dare un contributo alla realizzazione della Terza missione dell’Unical.
    Perché solo il sapere condiviso è davvero potente e cambia i destini delle persone e dei luoghi.

  • Il mondo della cultura piange la morte di Vittorio Daniele.

    Il mondo della cultura piange la morte di Vittorio Daniele.

    Certi mali non avvisano quasi mai. E forse, nella disgrazia che ha colpito Vittorio Daniele, questo è stato l’aspetto meno sciagurato.

    Ma è un dettaglio che non sminuisce di un milligrammo il peso della perdita né ridimensiona di un millimetro il vuoto che l’economista calabrese lascia con la sua scomparsa improvvisa e prematura, a soli 54 anni.

    Vittorio Daniele: un calabrese di spessore

    Professore ordinario di Politica economica presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro, Daniele è stato, per riprendere un termine abusato sino a non troppo tempo fa, il classico esempio di intellettuale glocal. Uno studioso legato senz’altro al territorio e profondo conoscitore delle sue caratteristiche e problematiche. Ma capace – proprio a partire da queste – di riflessioni, analisi ed elaborazioni teoriche di grande respiro.

    Senz’altro sui grandi problemi dell’economia, ma anche sugli aspetti di questa disciplina che toccano la quotidianità più spicciola. 

    Ma il meglio il prof della Magna Graecia l’ha dato sul Sud e sulla Questione Meridionale, verso i quali ha risvegliato l’interesse e le passioni grazie a un approccio originale, poco politicizzato e molto rigoroso a livello scientifico.

    Per esemplificare: Vittorio Daniele ha ripreso la riflessione sul Mezzogiorno e i suoi ritardi dove il grande storico siciliano Giuseppe Giarrizzo l’aveva lasciata nell’interessante (ma anche criticatissimo) Mezzogiorno senza meridionalismo. La Sicilia, lo sviluppo, il potere (Marsilio Venezia 1992).

    Laddove il grande siciliano smussava angoli e affogava le peculiarità meridionali nei numeri e nelle statistiche, il brillante calabrese riprendeva queste e quelli, per dimostrare la vera cifra dei guasti meridionali: l’infelice posizione geografica.

    Già: la tragedia del Sud è tutta nella sua condizione di penisola affogata in un mare, il Mediterraneo, marginalizzato dal progresso e sempre più lontano dalle aree in cui si sviluppa e, ciò che più importa, si distribuisce la ricchezza.

    Queste zone, che iniziano da Milano e culminano nella City di Londra, hanno un nome: Blue Banana. Niente doppisensi, gastronomici o di altro tipo: il nomignolo deriva dalle foto satellitari notturne, che dimostrano come queste zone siano le più illuminate al mondo. Ma andiamo davvero con ordine.

    La marginalità come destino

    Il core del Daniele-pensiero sta in due notevoli volumi: Il divario Nord-Sud in Italia (2011), scritto assieme a Paolo Malanima, e Il Paese diviso. Nord e Sud nella storia d’Italia (2019), entrambi editi da Rubbettino. Più in una nutrita serie di articoli scientifici, che hanno animato una brillante polemica con un altro brillante economista meridionale: l’abruzzese Emanuele Felice.

    I due libri partono dall’analisi dei divari tra le regioni italiane, minimi a cavallo del Risorgimento, poi cresciuti in maniera esponenziale nei decenni successivi.

    La teoria di Daniele riprende le riflessioni di un grandissimo intellettuale calabrese: il cosentino Antonio Serra, precursore seicentesco dell’Economia politica. Serra nel suo Breve trattato (1613) espone quello che a suo giudizio era il problema del Regno di Napoli: la posizione marginale e la distanza dal cuore dell’Europa, che a sua volta aveva abbandonato il Mediterraneo per scommettere sull’Atlantico dopo la scoperta dell’America.

    Secondo Daniele, questa marginalità geografica è la croce del Sud. 

    Fin qui nulla di speciale, ha sempre sostenuto l’economista calabrese: tutti i Paesi hanno aree depresse. Tale la Cornovaglia in Gran Bretagna o la Sassonia – e la stragrande parte dell’ex Ddr – in Germania.

    Detto altrimenti (e al di fuori dell’economia): chi è basso di statura non sarà mai campione di basket o di pallavolo, chi è troppo robusto non farà mai atletica leggera ecc. 

    Ciò che cambia, per il Sud, è la vita civile: cioè il fatto che i servizi, anche essenziali, per i cittadini meridionali siano di quantità e qualità e quantità inferiore a quelli di cui fruiscono i loro omologhi delle aree depresse dell’Occidente ricco.

    Per restare nella metafora: gli altri potranno giocare a calcio o riciclarsi nel culturismo, i meridionali neanche questo.

    Questa coincidenza, peculiare nel Sud Italia, tra depressione economica e degrado civile ha stimolato alcune riflessioni che hanno evitato a Daniele di scivolare nel determinismo economico più crudo. Per questo, l’economista calabrese ha affrontato con forza (e molto anticonformismo) varie battaglie importanti a difesa del Mezzogiorno, tra cui quella contro l’autonomia differenziata, di cui resta un’importante testimonianza nel brillante L’Italia differenziata (Rubbettino, Soveria Mannelli 2024) scritto a quatto mani con l’economista campano Carmelo Petraglia.

    L’anticonformismo di Vittorio Daniele

    Ma anche questa battaglia Vittorio Daniele l’ha condotta a modo suo: senza peli sulla lingua né ruffianerie politiche.

    Di sicuro non si è fatto ingabbiare dai tentativi referendari del Pd. Anzi, al partito di Schlein ha rimproverato, neanche troppo tra le righe, una certa ipocrisia (non era forse Bonaccini uno dei promotori dell’autonomia differenziata?) ma anche un opportunismo incapace di soluzioni davvero serie, tra cui la riforma dell’articolo 116 della Costituzione.

    Come tutti gli studiosi di vaglia, Daniele non ha esitato a sporcarsi le mani con argomenti scomodi. Ad esempio, ha affrontato le tesi neorazziste antimeridionali con grande acume scientifico. Ma non le ha contestate sulla base di pregiudizi morali (legittimi ma pur sempre pregiudizi). Le ha confutate dopo averle passate nel tritacarne della critica scientifica. L’unica che contava per lui. E l’unica, secondo chi scrive, che è lecito chiedere a uno studioso. 

    Intellettuale onnivoro e incline a sfondare le convenzioni accademiche, il prof di Catanzaro non ha mai esitato a schierarsi nelle battaglie che reputava giuste, con un piglio di anticonformismo che nel suo caso non era mai una posa. Così ha fatto, anche nelle sue pagine social, nei confronti di quell’occidentalismo pret-a-portaire diventato quasi obbligatorio nei media in seguito alla guerra in Ucraina. E così ha fatto, soprattutto, per la tragedia (l’ennesima) del popolo palestinese, con un’indignazione di rara sincerità.

    Chi scrive conserva l’orgoglio e il piacere di aver condiviso molte riflessioni con Vittorio Daniele, dal quale ha sempre imparato qualcosa. E coltiva il rimpianto di quel che avrebbe ancora potuto esprimere uno studioso così brillante e acuto se non fosse intervenuto quel malore maledetto.

    Che la terra gli sia davvero lieve: per uno come lui è un augurio minimo. 

    Ma visto che ci siamo, ne rivolgiamo un altro alla sua opera: che possa trovare dei continuatori all’altezza. 

    Saverio Paletta.

  • Dalla Polis alle metropoli, come cambia il destino urbano delle comunità

    Dalla Polis alle metropoli, come cambia il destino urbano delle comunità

    Sullo schermo dell’aula Caldora scorrono le immagini in bianco e nero dei biplani che passano audacemente sotto strade alte e sospese, sulle quali si inseguono veloci treni e automobili, tutto sovrastato da giganteschi grattacieli. E’ la città immaginata da Lang nel suo film Metropolis, del 1927 e per la verità subito viene in mente l’altra megalopoli, pure immaginaria ma non meno algida e disumana, quella del film Blade Runner, di Ridley Scott. Del resto la città, le sue trasformazioni, il suo rapporto potentemente simbolico con la modernità, sono stati i temi scelti per una delle tre giornate che il Dispes ha dedicato  all’inizio del nuovo anno accademico e il cinema è certamente il modo più adeguato per raccontare tutto questo. Tre giorni di discussione, per capire il presente, che è già invecchiato, e il futuro che si annuncia, con le lenti delle Scienze sociali, ma non solo. Ecco quindi la città multiforme, la spinta della modernità sul concetto di luogo abitativo, le radici e la marginalità delle aree calabresi. E se come appare evidente la città nella concezione attuale è il prodotto di una certa idea dominante di modernità, il mezzo migliore per raccontarla sono le immagini. “Il cinema è moderno, veloce e intenso come la città”, racconta Angela Maiello, docente di Critica digitale e Nuovi media. La scelta di sedurre i presenti con le immagini di Lang è sua ed è straordinariamente efficace per spiegare il rapporto emulativo tra cinema e città.

    Il cinema e i media digitali per raccontare le città

    Ma lo sguardo di Lang non è il solo stile narrativo, a questo la Maiello contrappone “L’uomo con la macchina da presa”, di Vertov. Obbligatoriamente pure in bianco e nero, il film ha uno sguardo più documentaristico, quasi antropologico, qui la città è quella reale, vissuta e attraversata dalle persone. I due modi di raccontare la città non potrebbero essere più diversi, con Lang immaginifico e Vertov affascinato dalla vita della gente. C’è un terzo capitolo nella narrazione che si è prodotta della città, ed è la forma più drammatica e attuale. Sullo schermo scorrono le immagini dell’attacco alle Torri gemelle. Questo evento, spiega la docente, introduce una novità: le storie vengono raccontate mentre accadono, il fatto e il suo racconto diventano inscindibili.  E’ la stagione del citizen journalism, in cui tutti sono dotati di dispositivi in grado di riprendere e riprodurre in Rete ciò che accade attorno a loro, e non è detto che sia una buona stagione, anche perché la città raccontata dai new media è anche una città iper controllata, in cui la vigilanza sociale è la cifra più rappresentativa. Qui il cittadino è al tempo stesso osservatore e osservato, sempre, come nel Panopticon digitale evocato da Byung Chun Han.

    La “geografia intima” dei luoghi abitati: lo sguardo antropologico

    Ma se i luoghi sono abitati dagli uomini, per coglierne la simbiosi servono le lenti dell’antropologo ed ecco le parole di Fulvio Librandi, docente appunto di Antropologia culturale, che suggerisce di cogliere il rapporto tra le persone e i contesti abitativi. Essi sono la “geografia più intima”, quella dalla quale non ci separiamo mai, perché i luoghi diventano come un abito indossato, un fenomeno culturale legato al corpo stesso. Il futuro che si annuncia è urbano, la crescita demografica riguarderà le metropoli, “alcune di esse sono già ora snodi strategici di informazioni, scambi finanziari, controllo politico, disegnando nuovi poteri” non sempre e non subito visibili, spiega Librandi. Le vittime sacrificali di questo futuro diseguale e tumultuoso, saranno le aree marginali e qui emerge prepotente la delusione per aver, forse ingenuamente, creduto che la globalizzazione avrebbe ridato fiato alle periferie, invece è accaduto il contrario, con una concentrazione che è funzionale all’economia, acutizzando le disuguaglianze.

    L’ultima frontiera delle metropoli: l’Intelligenza artificiale.

    Il corpo della città è multiforme e rappresenta un campo di indagine perfetto per uno sguardo che pretenda di essere interdisciplinare. A riproporre questa urgenza è un informatico in mezzo ai sociologi. Non è la prima volta che Gianluigi Greco, direttore del dipartimento di Matematica e informatica ed esperto di Intelligenza artificiale esplora universi complessi accanto a scienziati sociali con i quali condivide la visione per la quale l’interdisciplinarità che caratterizza il Dispes deve diventare uno spirito che attraversi il Ponte Bucci per abitare in ogni Cubo. Il tema della Polis e degli spazi abitati è troppo seducente per chi guarda alle città come frontiera della sperimentazione di servizi digitali. Così Greco racconta di città in cui già adesso alcuni servizi sono governati da forme di intelligenza non umana ma al servizio degli umani, fino ad esperienze avanzate in cui le città sono riprodotte interamente in forma digitale e dove si è in grado di valutare l’impatto dello spostamento demografico sui servizi e sulla loro efficienza. E’ vero che solo nei film di fantascienza le macchine sottometteranno l’uomo, ma intanto dare vita a un nuovo umanesimo non sarebbe male.

     

  • Oltre il culto delle immagini, voce e vita sociale al Dispes dell’Unical

    Oltre il culto delle immagini, voce e vita sociale al Dispes dell’Unical

    Viviamo in un mondo in cui comandano le immagini. E’ dal secolo scorso che le nostre vite sono impregnate di forme di comunicazione legate all’uso delle figure, la fotografia prima, poi il cinema e la televisione e infine i social. E la voce? Che fine ha fatto la voce? Probabilmente è da questa domanda che è partita la spinta che ha mosso Olimpia Affuso, docente di Sociologia presso il Dispes dell’Unical a cercare il ruolo e il senso della voce nella costruzione di relazioni sociali.

    Una ricerca che sin da subito è apparsa alla studiosa come ineludibilmente interdisciplinare, bisognosa cioè di sguardi multipli, di punti di vista diversi, in grado di cogliere le numerose forme della comunicazione parlata, ma anche del suo contrario, della comunicazione non verbale.

    L’iniziativa del Dispes dell’Unical

    Di qui l’organizzazione di un dibattito a più voci, per scandagliare e rivendicare quanto è fondante l’uso della parola nei legami sociali, ma pure quanto è forte la potenza del silenzio, che non è assenza di comunicazione. Del resto per coglierne l’essenzialità della voce basta andare indietro nella memoria, ai giorni della clausura, della pandemia che ci aveva obbligati a incontri di lavoro online, dove la massima preoccupazione era assicurarsi di essere uditi dagli altri partecipanti. Nella parole di Olimpia Affuso, che del dibattito è stata l’artefice, la lingua assume anche il ruolo di confine e di superamento del confine stesso, come confronto tra persone che parlano idiomi diversi, ma è anche strumento per manifestare emozioni, stati d’animo e perfino l’assenza della voce, il silenzio, è destinato a portare significati. E non basta, perché modulando la voce, cambiandone l’intonazione, abbiamo perfino il potere di mutare il significato stesso delle parole, quando l’uso del sarcasmo ne capovolge il senso.

     

    Ortega y Gasset e Marshall McLuahn

    Che il modo di osservare il ruolo sociale della voce fosse obbligatoriamente multiforme l’abbiamo già detto, del resto l’interdisciplinarità è sfida che sta molto a cuore a Giap Parini, che del Dispes è il direttore. Nessuno stupore dunque se è proprio lui a sottolineare come «la voce stia sul confine delle discipline” che assieme ne definiscono le sfumature e i sensi altrimenti destinati a sfuggire. Probabilmente l’intellettuale che maggiormente colleghiamo allo studio della comunicazione e dunque alla voce è McLuhan, che meglio di altri ha colto il passaggio dall’oralità della parola alla scrittura che è una forma di parola silenziosa e singolare. Parini nel suo intervento lo dice con efficacia, rinvenendo nelle pagine del sociologo canadese perfino una anticipazione dell’egemonia attuale dei social che McLuhan non ha potuto vedere. I social, infatti, sono l’estensione della lettura solitaria, della parola senza voce, una forma di esasperazione dell’individualismo appena stemperato dall’illusione della condivisione virtuale. La voce e il suo ruolo però non  sono argomento di studio solo delle scienze sociali, ma anche della Paleontologia, disciplina necessaria per capire come il linguaggio si sia sviluppato dalla necessità di comunicare quando le mani erano impegnate e a sostenere questa interpretazione fornita da Parini giunge Ortega y Gasset, che appunto afferma che “la voce è una forma del gesticolare”. L’intellettuale spagnolo, assai caro ai sociologi del Dispes e particolarmente a Parini stesso, rivela quel che già sappiamo senza averne piena consapevolezza e cioè che non c’è atto verbale che non sia ampiamente accompagnata dal corpo.

    Parlo, dunque gesticolo.

    Chi invece conosce bene l’inscindibilità del corpo dalla sua voce è Paolo Jedlowski, che prima iniziare il suo intervento chiede se può fare a meno del microfono, spiegando che “quando parlo gesticolo”. Lo si fa per potenziare il senso, rafforzarne il significato, il corpo segue la voce e le espressioni della faccia più di ogni altra cosa. Ma Jedlowski propone un altro aspetto della voce, quello di suscitare memoria, di sostenere i ricordi delle persone, ovviamente, quelle lontane, o che non ci sono più, ma pure dei tempi e dei luoghi. Il sociologo chiama in causa Joyce, che scrive nelle sue pagine l’opportunità “di mettere un grammofono nelle tombe”, per avere il ricordo della voce di chi manca. La voce dunque quale testimone della memoria, esattamente come lo sono le fotografie. La voce però continua ad esser anche altro, canzoni, per esempio, ed ecco apparire sullo schermo il duetto tra Nora Jones e Keith Richards in Love hurts, oppure film , come Paris Texas  di Wenders, in cui i protagonisti parlano senza vedersi, celati da uno specchio unidirezionale, ma riconoscendosi proprio dalla voce.

    La voce e la sua assenza nel cinema, nei documentari e nei fumetti

    Il cinema resta miniera per chi lavora sull’uso della parola, ed è Daniele Dottorini, sociologo e responsabile del corso di Laurea in Media e società digitale, a proporre nel dibattito un film difficile, eppure essenziale per comprendere la dialettica voce – silenzio.  Il Grande silenzio è il film diretto dal tedesco Groning,   che racconta la quotidianità in un monastero dove i monaci hanno fatto il voto del silenzio e che nelle parole di Dottorini è “potente e disturbante”. Quello di Groning, spiega ancora Dottorini, è più propriamente un documentario, dove l’assenza della parola assorbe interamente l’attenzione.

    Ma c’è anche una produzione documentaristica che fa ampio uso della voce fuori campo e a spiegarcene il ruolo e le dinamiche è stata Alma Mileto, ricercatrice impegnata, tra e altre cose, sul ruolo della voce narrante nel cinema, che ha spiegato come la voce non serva solo a capire le immagini, ma a suscitare pathos. C’è poi il mondo del fumetto e lì la voce manca, esattamente come nella letteratura, eppure proprio come nei romanzi, ha spiegato Sergio Brancato, sociologo dei processi comunicativi, la voce e anche i suoni sono nella mente del lettore, che legge le parole circoscritte nella nuvoletta che sovrasta i personaggi e dà loro tono, senso, in altre parole il suono della vita.

     

     

     

  • Con segni e parole, il racconto di un tempo vissuto… “In Bilico”

    Con segni e parole, il racconto di un tempo vissuto… “In Bilico”

    Il potere dei segni e la potenza delle parole. Se coniugate, queste due cose diventano capaci di raccontare storie, stati d’animo, persone e momenti. Insomma, la vita stessa.
    Si corre il rischio di scoprire che il senso profondo di questi tempi è lo stare in “bilico”, come con spietata precisione dice il titolo del libro di Aldo Presta, designer e progettista della comunicazione, e Silvia Vizzardelli, docente di Estetica presso l’Unical, edito da LetteraVentidue.

    In bilico tra i disegni di Presta e le parole di Vizzardelli

    Restiamo sospesi in attesa di eventi, ma più di tutto in allarme, perché questo presente che viviamo e il futuro che si annuncia non ci piacciono per nulla. Questa è la suggestione che viene dai disegni di Presta, tratti semplici eppure densi di significati, capaci di evocare la sospensione, l’attesa, i desideri incompiuti eppure ancora tenacemente coltivati.
    Le parole che sceglie Vizzardelli invece ci introducono in un viaggio attraverso Barthes, Derrida, Foucault. Disegni che danno forma a pensieri, parole scritte che offrono un modo per impadronirsene.  Entrambi i linguaggi vengono a dirci che se il presente non ci aggrada e il tempo che si annuncia ci spaventa almeno un poco allora ci restano poche opportunità: scappare via oppure affrontare i mostri.

    La copertina del libro di Presta e Vizzardelli

    Il difficile equilibrio degli acrobati

    Il sentirsi in “bilico”, come coraggiosi acrobati, di cui parla il libro è forse anche questo: il sentire forte la tentazione di mollare ogni cosa, ma rimanere lo stesso, per tigna, per tenacia, perché è giusto contrastare il declino di una società di cui per forza siamo parte. I disegni di Presta, accompagnati dalle parole di Vizzardelli, raccontano questo: il sentirsi fuori posto in un mondo in cui pare che l’egemonia culturale, come l’avrebbe chiamata il vecchio sardo, sia rappresentata dal pensiero mancato, dall’arretramento delle idee, dalla solitudine nella folla, dalla povertà nell’abbondanza, ma forse soprattutto da una attesa insoddisfatta.
    Solo a un distratto potrebbe sfuggire il senso politico che si disvela pagina dopo pagina, rivelando “l’inappartenenza” ad un mondo fatto ad ogni costo di identità forzate, di certezze inviolabili, di elusione della complessità, di separazioni tra il “noi” e gli “altri”, di mancanza di senso di solidarietà, di progetti condivisi, di comunità.

    Vivere come isole distanti

    I temi sono la dissoluzione della politica come antica pratica collettiva, l’assenza di senso, la perdita dell’idea di bene comune, le domande mancate, la guerra e il clima, il vivere come isole distanti. Il mondo che si palesa attraverso i segni e le parole degli autori è un universo lontano dai libri che abbiamo amato leggere, diverso dal mondo che consideriamo giusto. Per questo gli autori e non solo loro restano, appunto, in bilico, sospesi tra l’impegno cui sono/siamo chiamati e la rinuncia che ci tenta. Stanchi disertori di questo tempo carico di menzogna, ma anche soldatini coraggiosi ancora nella trincea della costruzione di un mondo diverso.
    È tempo di scegliere, sapendo però che il destino di alcuni è quello di essere sempre fuori posto.