L’undici aprile del 2018 nelle università cilene sono stati consegnati 126 titoli di laurea postumi a 84 detenuti/e o desaparecidos e 42 studenti uccisi dal regime di Pinochet. Un piccolo atto di giustizia dopo anni di tirannia dei militari di Pinochet, ispirati dai peggiori progetti dei Chicago boys. La voce che racconta tutto questo, di come l’università e l’istruzione pubblica siano state massacrate in Cile negli anni terribili della dittatura e di come ancora oggi quelle ferite siano vive è di Ennio Vivaldi, ambasciatore cileno in Italia e già rettore universitario.
L’ambasciatore cileno racconta la tragedia della dittatura
La sua lectio magistralis si è svolta all’interno dei lavori della sesta edizione di “Scuola di politiche”, iniziativa del dipartimento di Scienze politiche, storicamente organizzata da Francesco Raniolo e Domenico Cersosimo, entrambi docenti dello stesso dipartimento. «Tutto nasce quando Letta iniziò a dare vita a incontri i cui temi erano le politiche pubbliche, quegli incontri si chiamavano Impact e la nostra università fu la prima ad aderire all’iniziativa», spiega Raniolo, ricordando che nemmeno durante il lockdown causato dal Covid gli incontri si interruppero, diventando online. I temi affrontanti nel corso di questi anni sono stati legati alle urgenze politiche del tempo, dall’attualità dalla Questione meridionale alle forme attraverso cui si esprimono le democrazie, passando per le sfide e le crisi che esse attraversano, come in questa fase storica, dando vita a osservazioni interdisciplinari capaci di coinvolgere nel dibattito studiosi di diverse aree.
La qualità delle democrazie
«L’idea da cui si parte è che la qualità delle democrazie si può leggere attraverso le politiche che vengono gestite, sullo sviluppo, il lavoro, la sanità». Lungo una serie di appuntamenti che si svilupperanno nel corso di alcune settimane, nelle aule dell’Unical si affronteranno temi drammaticamente attuali, come il rapporto tra leadership e potere, tra la tecnologia e le democrazie, la valutazione delle scelte politiche introdotte per l’istruzione e il mercato del lavoro. Al centro di questo viaggio c’è l’esperienza cilena, «mostrata al mondo come un esperimento, un modello», spiega Ennio Vivaldi. Un laboratorio politico dove sperimentare, sulla pelle viva di un intero popolo, le formule economiche del neoliberismo più spietato per poi proporle a tutti. In quella brutale esperienza fu teorizzata e tentata l’estinzione dello Stato, l’affermazione di una egemonia dell’individualismo egoista contro l’idea stessa di comunità e questo esperimento coinvolse anche l’istruzione, anzi, specificatamente il mondo della scuola, da sempre luogo dove si costruisce l’idea di società cui si vuole dare forma.
I diritti trasformati in beni di consumo
In quel frangente i diritti dei cittadini furono trasformati in beni di consumo. L’istruzione pubblica subì colpi decisivi in termini di impoverimento e delegittimazione, eppure «senza quella scuola noi non avremmo avuto Lucila Mistral e Neftali Reyes, cioè Gabriela Mistral e Pablo Neruda», prosegue nella sua lezione Vivaldi. Oggi gli epigoni di Friedman non hanno bisogno più di carrarmati che passino con i cingoli su qualche democrazia, hanno imparato la lezione e sanno che basta impoverire le politiche pubbliche per dare spazio al privato. Da questo punto di vista la valutazione delle politiche nazionali su lavoro, sanità e istruzione verranno nel corso dei prossimi dibattiti tra i cubi di Arcavacata.
Potere e società, leggendo “Il signore delle mosche”
Intanto la dialettica tra forme di potere, affermazione delle leadership e democrazie ha trovato il suo spazio in un incontro tra Marco Marzano, sociologo dell’università di Bologna, Francesco Raniolo e Antonio Samà, proprio sul libro di Marzano “Potere e società”, ma partendo dalle suggestioni che giungono dalle pagine del “Il signore delle mosche”, di Goldin. Un libro che nel suo descrivere la deriva disumana in cui precipitano alcuni giovani inglesi naufraghi su una isola, si presta magnificamente all’osservazione di come la tentazione egoista e irrazionale sia sempre in agguato, in modo da prendere il sopravvento sulle buone pratiche di governo.
Il rapporto tra scienza, tecnica e potere
Ma qual è il rapporto tra scienze, tecnologia e democrazie? Per comprenderlo, spiega Ercole Giap Parini, sociologo e direttore del Dispes, si deve individuare la classe sociale che nel cammino che conduce alla sua affermazione sullo scenario della storia, porta alla rivoluzione industriale. La borghesia, interprete della sola rivoluzione che abbia alla fine avuto successo, come raccontava Marx, è la protagonista del passaggio dal sapere teorico e quello tecnico. Questo passaggio tira in ballo il concetto di modernità e con sé «le rivoluzioni scientifiche, culturali, industriali e politiche». E al seguito di tutto questo ecco giungere le idee di cittadinanza, diritto, democrazia.
Un momento del dibattito su tecnologie, scienze e democrazia
Democratizzare la scienza
Ma le promesse vengono rapidamente tradite, perché nella dialettica della storia non vince la Scienza per l’umanità, che voleva Comte, ma quella dei popoli, che è divisiva. Perché la scienza non è neutrale e oggi la sua più audace rappresentazione è l’intelligenza artificiale. Per questo serve democratizzare la scienza, perché una cosa che riguarda la vita dei cittadini non può eludere la loro partecipazione.
Da David Maria Turoldo di “Io non ho mani che mi accarezzino il volto” al packaging delle patatine: basta la circostanza di essere delle stessa Senigallia, Mario Giacomelli e il produttore delle patatine, perché il centenario dalla nascita del primo venga celebrato con una limited edition di patatine del secondo?
«Il concetto di Arte è sinestetico – recita il comunicato del brand delle suddette – e questa collaborazione racconta proprio come i cinque sensi possono godere della creatività in tutte le sue forme: contemplando la bellezza delle immagini di Giacomelli, immaginandosi gli odori delle campagne marchigiane uniti a quello salmastro del mare Adriatico, mentre si degusta una chip Patatas Nana».
E ancora: «Le immagini di “Presa di coscienza sulla natura” (1976-’80) e “Metamorfosi della terra” (fine anni ’80) con i loro solchi e le atmosfere lunari che ricordano le pennellate della pittura informale, ma che al tempo stesso comunicano le radici profonde del proprio essere, le ritroviamo sui pack di Patatas Nana da 50g e 140g; i pretini che giocano nel cortile del seminario di Senigallia dalla serie “Io non ho mani che mi accarezzino il volto” (1961-63) si rincorrono invece sul barattolo dei Fiammiferi, mentre la spensieratezza attonita dei ragazzi al luna park in uno scatto tratto dalla serie “Per Poesie” (1958) scelto per la scatola».
E poi, come perdere l’occasione di una stampa di Giacomelli da collezione su polipropilene! In vendita dal 6 aprile.
Sono passati tre anni dalla sua scomparsa, eppure il ricordo di Umberto Casaula è ancora vivo, come un’eco che non si spegne, un’immagine che si staglia nitida nella memoria di chi lo ha conosciuto. Per molti, Umberto Casaula è stato un nome scolpito nella storia del biliardo italiano, un calabrese fiero che ha portato la sua terra sotto i riflettori nazionali e internazionali. Per me, però, è stato molto di più: è stato il mio professore di matematica e scienze, una figura che ha attraversato la mia adolescenza con la grazia di un gentiluomo d’altri tempi e la profondità di un pensatore solitario.
Casaula, il mio prof di matematica
Lo rivedo ancora, elegante come sempre, con il suo portamento raffinato e quella disponibilità che lo rendeva unico. Erano gli anni ‘80, nell’edificio della scuola media di Trenta, una contrada dell’attuale Casali del Manco in provincia di Cosenza, entrava in aula con un sorriso appena accennato, il passo lento e misurato, e in pochi minuti trasformava la lavagna in un campo di battaglia di numeri e formule. Ma non era uno di quei professori che si perdeva in spiegazioni interminabili: dopo aver tracciato l’essenziale, si voltava verso di noi, sceglieva uno studente e gli affidava la lettura ad alta voce di un capitolo di scienze. Poi, quasi come un rituale, si allontanava dalla cattedra.
Con una mano infilata in tasca e l’altra che reggeva una sigaretta accesa – una delle tante che lo accompagnavano come fedeli compagne – iniziava a passeggiare. Dall’aula al corridoio, avanti e indietro, il fumo gli sfuggiva dalle labbra in volute leggere, mentre i suoi occhi azzurri, profondi e magnetici, si perdevano nel vuoto. Sembrava disegnare traiettorie immaginarie nell’aria, come se la sua mente fosse altrove, forse già sul panno verde di un tavolo da biliardo.
Casaula, il campione conosciuto in tutto il mondo
Non era solo un insegnante, Umberto Casaula. Col tempo ho scoperto che dietro quel professore, dagli occhi celesti, di uno sguardo assorto si nascondeva una leggenda. Campione italiano di biliardo nel 1985 nella specialità dei 5 birilli, aveva calcato i palcoscenici più prestigiosi, come i campionati mondiali del 1987 a Milano. Negli anni ’90, il suo nome risuonava tra i 24 migliori giocatori al mondo, un riconoscimento che lo aveva portato nel circuito professionistico internazionale sotto gli occhi attenti dell’ormai spenta Tele+. La sua tecnica era impeccabile, la sua grinta contagiosa, la sua eleganza innata. Non era solo un giocatore: era un artista, un maestro che trasformava ogni colpo in una danza, ogni partita in un racconto. E quella passione, quel fuoco che lo animava, lo aveva trasmesso al figlio Aldo, che ne ha raccolto l’eredità diventando a sua volta un campione.
Ripenso a lui e mi colpisce il contrasto tra l’uomo che conoscevo e l’icona che è stato. In aula, con noi, era silenzioso, quasi introspettivo, ma sul tavolo da biliardo si accendeva di una vitalità che pochi potevano eguagliare. Quei momenti in cui lo vedevo perso nei suoi pensieri, con la sigaretta tra le dita e lo sguardo lontano, oggi li immagino come attimi in cui riviveva le sue vittorie, o forse progettava nuove strategie per il prossimo incontro. Era un uomo di poche parole, ma ogni gesto, ogni sguardo, parlava per lui.
Tre anni senza il prof Casaula
Tre anni senza Umberto Casaula pesano come un’assenza che non si colma, soprattutto per i suoi avversari compagni di gioco . Non è stato solo un campione, non è stato solo un professore. È stato un simbolo di dedizione, un esempio di come la passione possa intrecciarsi alla vita quotidiana, trasformando anche i momenti più semplici – una lezione, una passeggiata in corridoio – in qualcosa di straordinario. Oggi, mentre il fumo delle sue sigarette si è dissolto e il suono della stecca sul panno verde si è spento, resta il ricordo di un uomo che ha vissuto con intensità, lasciando un segno indelebile in chi ha avuto la fortuna di incrociare il suo cammino. E nei miei occhi, quegli occhi azzurri continuano a brillare, persi in un orizzonte che solo lui poteva vedere.
Centotrenta, anniversario tondo, celebrato ufficialmente il 19 marzo. Per l’occasione, il 3 aprile uscirà nelle sale italiane Lumiére. L’avventura del cinema, che è appunto di questo che si parla, della nascita dello stupore.
Il film, diretto da Thierry Frémaux, megadirettore del Festival di Cannes e dell’Institut Lumiére di Lione, raccoglie 120 “vedute” dei fratelli Auguste e Louis, fra cui il l’arcinoto arrivo del treno in stazione e l’uscita degli operai dalla fabbrica. Roba da 50 secondi l’una – tanto durava un caricatore di pellicola – restaurate dal laboratorio della Cineteca di Bologna “L’Immagine Ritrovata” senza aiuto dell’intelligenza artificiale. Un film, per chi ha voglia di saperne di più, del quale sono disponibili sul web tutti i dettagli, dal pianoforte di Gabriel Fauré che fa da colonna sonora, alla voce narrante di Valerio Mastandrea, con corollario di recensioni varie, qualcuna alla Bertoncelli.
Café Lumiére
Ma c’è una cosa, che dura ancora meno di quei 50 secondi, altrettanto ipnotica quanto la meraviglia del cinema dei Lumiére. Che fu tale che ancora oggi, a distanza di 130 anni, si racconta del pubblico del Salon Indien du Grand Café, lungo il Boulevard des Capucines di Parigi, che alla vista dell’arrivo della locomotiva scappò dalla sala per paura di essere travolto.
Prima di quel treno si provò in tanti modi a riprodurre il movimento con aggeggi come il fenachistoscopio o il prassinoscopio (qui www.collectorsweekly.com/articles/dawn-of-the-flick/), roba non facilissima da maneggiare, oltre che da pronunciare. Come lo erano invece i flip book, quei libricini che si tengono in una mano mentre il pollice dell’altra gira le pagine così velocemente che le immagini sembrano prendere vita.
Flip book era il nostro smartphone
Ce n’è uno con la copertina di un certo tono di viola invecchiato dal tempo, sopravvissuto miracolosamente alla mia infanzia, che conservo in una di quelle scatole magiche che ci vai a frugare quando hai bisogno di ripigliarti, come alternativa low cost ad una seduta dall’analista. È un gadget dei primi del ‘900 delle sigarette Turkish, di cui mio nonno è stato estimatore fino all’enfisema, che riproduce una milf in mutande che fa esercizio ginnico. All’epoca di noi boomer non c’erano gli smartphone a fare da strepito-calmante istantaneo quando sei fuori a tentare di mangiare una pizza, con i genitori ad arrangiarsi come potevano.
Ecco, quel flip book aveva su di me lo stesso effetto dello schermo di uno smartphone, e in realtà, sempre dell’ipnotismo delle immagini in movimento si tratta. Poi, nel tempo, quel mazzettino mignon di foto stampate ha cambiato funzione, come oggetto per meravigliare amici e soprattutto amiche in odor di piacenza, fino ai giorni di ricordi quasi-bamba.
Quelli bravi lo chiamerebbero dispositivo ottico, vivisezionandolo in mila pagine dotte, ma la magia del cinema nonostante tutto, nonostante Netflix, pandemia e blablabla, è ancora questa: innescare orditi di ricordi e suggestioni…
Non c’è due senza tre. È di queste ore la notizia del provvedimento di scioglimento del Consiglio Comunale di San Luca per infiltrazioni mafiose. Un atto che si va ad aggiungere al commissariamento preventivo della Fondazione Corrado Alvaro attuato dalla Commissione di Controllo della Prefettura di Reggio Calabria e, ancora prima, a quello assunto dopo che alle scorse elezioni amministrative determinate dalle dimissioni dell’ex sindaco Bartolo, nessuno aveva presentato candidature per guidare il comune aspromontano.
San Luca, il paese condannato a essere ‘ndrangheta
A San Luca pare tutto essere ‘ndrangheta, mala gestione, omertà, terrore. È ‘ndrangheta il Consiglio Comunale intriso di infiltrazioni malavitose. È mala gestione la Fondazione Corrado Alvaro accusata di ipotesi di default da imputarsi a costanti perdite di esercizio, a iniziative culturali episodiche e circoscritte, a limitate garanzie di onorabilità e indipendenza dei suoi consiglieri di amministrazione. È omertà e terrore l’assenza di candidati sindaco alle ultime elezioni. San Luca sarebbe lo specchio di quella peggiore Calabria che Corrado Augias ha definito “terra perduta”.
Corrado Alvaro. La Fondazione che curava il suo patrimonio culturale è stata commissariata.
Oppure si fa di tutto per appioppargli un marchio di infamia per antonomasia che, alla luce delle cronache di oggi, è direttamente proporzionale al fallimento dello Stato. Lo ha detto chiaramente Bartolo ai microfoni dell’Ansa: «Non ha avuto seguito, in sostanza, la promessa fatta dall’allora prefetto di Reggio Calabria, Michele Di Bari, secondo la quale lo Stato ci sarebbe stato vicino, invitando a candidarci. Ma così non é stato».
La Fondazione Alvaro commissariata
Lo indicano diversamente le controdeduzioni presentate alla Prefettura di Reggio Calabria dalla Fondazione Corrado Alvaro che dimostrano un’incessante attività scientifica e di ricerca svolta in anni in cui non un solo euro di fondi pubblici è stato sovvenzionato ad un ente che ha rappresentato un presidio culturale e di legalità universalmente riconosciuto.
La Casa di Corrado Alvaro a San Luca
Germogli di fiducia decapitati
Spesso provvedimenti prefettizi e vie giudiziarie (ben vengano quando c’è di mezzo la lotta vera alle ‘ndrine) producono macerie. E queste macerie sono territori e comunità dove lo Stato decapita germogli di fiducia, presidi di cultura, tentativi di rinascita. Succede in Aspromonte e in tutta la Calabria. Si ha allora la percezione che lo Stato a volte agisca in nome di logiche sommarie: da una parte omettendo le buone prassi di una necessaria mediazione dei conflitti; dall’altra puntando sul legalitarismo: un certo cieco oltranzismo nell’applicazione di procedure di bandiera cui non segue una commisurata prossimità umana, sociale e culturale delle istituzioni.
Una punizione senza margine di redenzione. E l’impressione che l’onta di certe parentele e di una pur remota consanguineità con ambienti malavitosi vada lavata sacrificando quei territori e quelle comunità. La storia continua a ripetersi, in un remake sempre uguale, troppo spesso basato su ipotesi. Come nell’impianto accusatorio del provvedimento di scioglimento preventivo della Fondazione Alvaro. Un passo oltre c’è il crollo di ogni forma di patto sociale.
Il Parco nato come una opportunità
Quando l’Aspromonte uscì dalla stagione dei sequestri camminatori, amministratori e forze dell’ordine, procedendo insieme diedero vita al Parco Nazionale, oggi conosciuto in tutto il mondo per le risorse naturalistiche e culturali che contiene e per l’accoglienza che riserva a un numero sempre maggiore di trekker e biker che vengono a visitarlo.
Il punto di forza delle azioni legate alle attività e all’offerta del Parco e all’acquisizione del riconoscimento Geosito Unesco fu questo: non negare un passato drammatico o condizioni complesse, ma trasformare quei punti di debolezza in punti di forza. Un consiglio e un monito per scongiurare ordalie rigide, cieche e deterministiche.
Spoiler: non è un tirare i capelli al proprio mulino, aka, non è una riflessione che va a parare da una parte politica. Anzi, da sinistrorso penso che il buon Mortadella abbia già dato, in altre epoche. Perciò keep calm, e parliamo di immagini, che l’occasione è buona per ribadire, allo sfinimento, come non siano mai oggettive. C’è sempre un punto di vista, destinato ad influenzare le nostre opinioni anche quando non è intenzionalmente ideologico, ma semplice posizionamento nello spazio, come in questo caso.
Intanto, alla notizia della tirata di capelli per una domanda che ha scatenato il Michele Apicella che è in lui, la prima reazione è stata un maddài di non è possibile, come per lo shopping di Fassino al duty free: chi, Prooodi?!? E il servizio tivvù, con lui ripreso frontalmente e gesticolante sembrava alimentare quell’incredulità, nonostante un linguaggio del corpo comunque un tantino sopra le righe.
Prodi, framing e Bateson
E invece, scava che ti riscava, viene fuori un’altra clip, questa volta girata da un punto di vista diverso, con inquadratura di spalle. Ed è a quel punto che mi è tornata in mente un’illustrazione che circola da qualche anno sul web, attribuita a David Suter e usata per spiegare il concetto di “framing”.
C’è un cameraman che filma una scena che si svolge davanti a lui: un uomo scappa inseguito da un altro uomo che brandisce un coltello. Ma l’inquadratura stretta, eliminando il contesto, inverte il senso della realtà: la scarpa dell’uomo in fuga sembra un coltello, e quindi è l’inseguitore a sembrare inseguito.
Allo stesso modo, l’inquadratura stretta su Prodi della prima clip ha alterato la nostra capacità di interpretare correttamente la scena, ristabilita invece dalla seconda clip. Un esempio dunque da manuale, che farebbe felice Gregory Bateson, il primo a introdurre il concetto di framing, dove i frame sono da intendere in senso psicologico, e definiti come una delimitazione spaziale e temporanea di un insieme di messaggi interattivi che operano come una forma di metacomunicazione. A noi basta sapere, in soldoni, che per il solo fatto di inquadrarla, la realtà, la si altera, e che perciò si può anche disinformare accidentalmente con le migliori intenzioni.
È così che un maddài diventa un maveramente…
La fiera di San Giuseppe si è conclusa da qualche giorno e ha lasciato un diffuso senso di delusione. In qualche maniera le aspettative tradite sono sempre legate ai nostri ricordi, alla memoria di una fiera che era molto più che un vasto mercato, era un luogo di incontro e scambio. Da bambino, quando facevano capolino le prime belle giornate di primavera, quando la primavera esisteva, cominciavo a convincere i miei genitori di accompagnarmi alla fiera di San Giuseppe, a Cosenza. Mi entusiasmava concedermi alla folla, all’assiepamento talvolta asfissiante di gente proveniente da ogni paese della provincia, e non soltanto. Ogni anno nei giorni che precedono e seguono il 19 marzo si rinnovava l’appuntamento con l’antichissima fiera.
Una parte della città diventa la Kasbah
«Ara Fera», l’espressione del dialetto cosentino molto utilizzata nei giorni dell’evento; in italiano diventa «in/alla fiera». Un caleidoscopio di razze, suoni, colori che invade la città dei Bruzi che si trasforma a volte in una kasbah nordafricana. Mi è sempre piaciuta tanto la fiera che, da grande, ho voluto girare alcune sequenze per costruire due brevi documentari di osservazione. La fiera rappresenta una delle tradizioni più antiche e sentite. Un evento calendarizzato che intreccia riti, stagioni e dinamiche commerciali ed economiche popolari. Le sue origini arrivano dal passato medievale, quando la celebrazione del santo artigiano, simbolo di lavoro e famiglia, venne associata al mercato locale.
La fiera e l’arrivo della primavera: l’auspicio della rinascita
La fiera si colloca in un tempo cruciale del calendario: l’arrivo della primavera, solitamente carica di simbolismo, che segna il risveglio della natura dopo la quiete invernale, ma anche il senso di rinascita e speranza per le comunità rurali e urbane. In diverse culture, il passaggio stagionale è celebrato con feste, mercati e riti che affermano il ciclo della vita e della fertilità. La fiera non fa eccezione. I colori, i profumi delle primizie esposte e il fervore umano che anima le strade riecheggiano tutto quel “rinnovamento” che la primavera porta con sé. Nel contesto agricolo e pastorale del Sud, la primavera è stata tradizionalmente un momento per riorganizzare il lavoro nei campi e pianificare le semine. La fiera, in quest’ottica, diventava non solo un’occasione per celebrare, ma anche per scambiare beni e idee, stabilendo legami tra i produttori locali e il tessuto urbano.
Oltre al potere simbolico c’era anche l’importanza degli scambi commerciali
Oltre al suo significato simbolico e stagionale, la fiera era anche un evento commerciale di grande rilevanza. Rappresentava un’opportunità per contadini, artigiani e commercianti di vendere i propri prodotti e acquistare beni necessari per l’anno successivo. Gli scambi economici sono stati un riflesso delle tradizioni locali, con la presenza di prodotti come formaggi, vino, attrezzi agricoli e manufatti in legno. Oggi, la fiera si è evoluta, (o involuta, dipende dai punti di vista) mantenendo in qualche modo viva la sua anima storica ma adattandosi ad alcune dinamiche contemporanee. Bancarelle che un tempo esponevano esclusivamente prodotti locali ora offrono una varietà di merci, dalla moda agli accessori, attirando visitatori non solo da Cosenza, ma da tutta la regione e oltre.
Scambi e incontri tra culture
Tutto cambia e anche la fiera di San Giuseppe
La fiera di San Giuseppe è un esempio emblematico di come una tradizione possa adattarsi ai tempi, mantenendo la sua trama identitaria. Il suo fascino risiede nella capacità di coniugare il profondo legame con il ciclo delle stagioni, il risveglio della natura e la convivialità umana con le esigenze moderne di commercio e socializzazione. È una celebrazione della comunità, della vita e dell’energia rinnovatrice che la primavera porta con sé.
L’ultima edizione della fiera
Mostaccioli antropomorfi di Soriano: uno sguardo etnografico sulla tradizione e la resistenza culturale
Ma la fiera di San Giuseppe a Cosenza è, per me, la fiera dei mostaccioli di Soriano che rappresentano un solenne intreccio tra arte, cultura alimentare ed etnologia, incarnando un simbolismo che travalica i confini del piacere per il cibo, per immergersi nelle dinamiche di identità collettiva e memoria storica. Questi dolci dalle figure antropomorfe, unici nel loro genere, si stagliano come pilastri attraversando i secoli come testimoni viventi di una tradizione longeva. La produzione dei mostaccioli di Soriano si radica in antiche pratiche artigiane legate alla panificazione rituale.
Foto di Francesco Catania, per gentile concessione di Maria Rosaria GiofrèFoto di Francesco Catania, per gentile concessione di Maria Rosaria Giofrè
La loro forma antropomorfa non è casuale: richiama figure mitiche e sacre, eroi e personaggi del folklore, con una profonda valenza simbolica. Rappresentano, secondo un’ottica antropologica, un modo attraverso il quale la comunità celebra le sue radici e rinnova il legame di appartenenza e continuità.
I dolci offerti come doni e offerte votive
Mostacciolo devozionale
I mostaccioli sono stati usati nei secoli come offerte votive o doni simbolici durante feste religiose e le cerimonia matrimoniali, fungendo da collante tra sacro e profano. Le mani che hanno plasmato queste figure, prima dei processi più moderni e industriali, imprimevano in questo elemento non solo abilità tecnica, ma anche narrazioni tramandate da generazione in generazione. Nel contesto della fiera i mostaccioli sopravvivono come testimonianza di longevità, sopravvivono all’omologazione dei gusti e del “mangiare veloce”, alle altre pressioni della globalizzazione. In questa resistenza possiamo lo spirito di comunità che, attraverso il cibo, si riflette nella capacità di adattarsi senza perdere autenticità. Ogni figura antropomorfa porta con sé non solo un pezzo di storia, ma anche una sfida: restare importanti e rilevanti in un mondo che cambia. I mostaccioli di Soriano, in fiera, ci raccontano molto di più rispetto al loro essere dolciaria. Ci raccontano che sono artefatti culturali in grado di raccontare storie, rafforzare legami e mantenere viva l’eredità e il patrimonio culturale collettivo.
Mentre in giro per il mondo cresce la voglia di confini e linee che separano, nelle aule dell’Unical certe sere puoi trovare studiosi e studiose impegnati a superarle quelle linee di demarcazione, almeno sul piano delle scienze, sforzo che comunque rappresenta una potente e non facile novità. “E’ l’interdisciplinarità, bellezza e non puoi farci niente”, avrebbe detto Bogart nelle vesti del direttore di giornale nel film L’ultima minacciae in un certo modo avrebbe avuto ragione, visto che la complessità del sapere e delle forme attraverso cui la società si manifesta, esige uno sguardo capace di «attraversare i confini», come spiega Sonia Floriani, sociologa del Dispes.
Superare i confini tra le scienze
Questo attraversamento di linee è un cammino intrapreso da tempo tra i cubi dell’Unical, su spinta proprio dei docenti del Dispes guidato da Giap Parini. In almeno altre due occasioni occasioni il Dipartimento di Scienze politiche ha chiamato scienziati sociali e matematici, fisici e filosofi a guardare assieme le cose del mondo e sembra che sia giunto il momento in cui «non abbiamo solo parlato di interdisciplinarità, ma l’abbiamo praticata – dice Parini senza celare la sua soddisfazione – siamo andati oltre le articolazioni delle nostra discipline e dei metodi di indagine».
Si scopre quel che era sotto gli occhi sin dall’inizio e che tuttavia non appariva con chiarezza perché in tanti erano troppo impegnati nel difendere recinti e ambiti di ricerca e cioè che la conoscenza stessa è interdisciplinare, fatta di molte cose, tra esse intrecciate in modo tale da negarsi allo sguardo del singolo, per svelarsi invece allo sguardo di molti.
Gli Studi di genere naturalmente interdisciplinari
Qualcuno però quei confini li aveva già dati per superati da tempo. Gli Studi di genere, così detestati dai nuovi poteri globali (che poi sono anche i vecchi), nascono esattamente come studi interdisciplinari. A spiegarlo con efficacia è Giovanna Vingelli, sociologa, che ci tiene a sottolineare come quegli studi nascano fuori dalle accademie, spesso troppo ingessate per accogliere eretiche riflessioni su uguaglianza, diritti e opportunità. Non è per nulla casuale che il titolo che Vingelli sceglie per il suo intervento sia “Riflessioni indisciplinate sugli Studi di genere”. A parte l’assonanza fonetica tra interdisciplinare e indisciplinato, il gioco di parole non evoca solo la disobbedienza contenuta nella pratica degli Studi di genere, ma anche il loro essere stati a lungo fuori dai recinti disciplinari classici.
Un momento del confronto organizzato dal Dispes
La ragione è presto spiegata: gli Studi di genere sono letterari, psicologici, sociologici, etici, giuridici, antropologici e ovviamente politici, nascono cioè sin da subito con l’esigenza di esercitare uno sguardo diversificato per cogliere efficacemente le molte sfumature di un aspetto chiave della società e per attrezzarsi meglio possibile per arginare la cultura patriarcale. Ma non basta, perché forse la vera “eresia” degli sudi di genere sta nel rivendicare la natura politica della ricerca, l’assenza di ogni forma di supposta neutralità della scienza, la connotazione politica delle scelte.
Costruiremo la Moon base
Se sulla terra le cose vanno così, cioè se appare sempre maggiormente necessario uno sguardo interdisciplinare, nello spazio andare oltre i confini delle scienze è ancora più importante. Francesco Valentini è un fisico ed impegnato nella realizzazione di un ambizioso progetto, il Programma Artemis, cioè la realizzazione della la Moon base. La base lunare dalla quale si potrà partire per Marte. Un progetto che va oltre la fantascienza, ma implica questioni la cui portata è difficile da misurare.
«La Moon base non è solo una base abitabile da cui lanciarsi per mete più distanti, ma rappresenta il primo passo per lasciare la Terra», spiega Valentini. L’uomo cioè prende seriamente in considerazione l’idea di lasciare il proprio pianeta per andare alla scoperta di luoghi nuovi e ospitali.
La nuova ecologia applicata allo Spazio
I tempi sono lunghissimi, è evidente, ma i lavori sono già in corso e vedono l’Università della Calabria in prima fila nel contribuire al sogno, ma soprattutto il progetto davvero chiama a raccolta una molteplicità di studiosi differenti, perché i problemi che si annunciano sono di carattere interdisciplinare, «non solo, come è ovvio, ingegneri, fisici matematici, informatici, ma anche giuristi, filosofi, psicologi», spiega lo scienziato.
Occorrerà infatti capire quale impatto sulla società porterà l’idea di costruire altrove una colonia, sarà necessario ridefinire le regole giuridico- diplomatiche del gioco, servirà un nuovo concetto di ecologia applicata non più alla Terra, ma alla vastità dello spazio.
La Babele delle lingue delle discipline e l’unità del sapere
Un’opera ambiziosa, che gli Dei dell’Olimpo avrebbero forse visto come una forma di Hybris da punire e che pure il Dio biblico avrebbe castigato come fece con chi voleva costruire una torre così alta da raggiungere il cielo, cioè diversificando le lingue degli uomini. Di quella condanna non ci siamo liberati, ancora parliamo lingue differenti, che non sono gli idiomi degli uomini, ma le “grammatiche” delle discipline scientifiche, linguaggi specialistici che sono la conseguenza di conoscenze settoriali. Eppure Domenico Talia, docente di informatica, ci crede alla possibilità di cogliere quella che Franco Piperno chiamava «l’unità del sapere», l’andare oltre la miriade di linguaggi disciplinari. Dal suo punto di osservazione la soluzione viene dall’informatica, «ontologicamente interdisciplinare», per sua natura trasversale e pervasiva. Ce n’è abbastanza per sentirsi pionieri del superamento dei confini delle scienze, il «nuovo passo adesso – annuncia Parini – è fare il punto e pensare a una pubblicazione».
Il Premio Sila arriva alla sua 13° edizione ed entra nella sua fase più importante, quella che parte dalla presentazione dei dieci libri finalisti. Nella sede della Fondazione Premio Sila, nel cuore della città antica, il presidente Enzo Paolini, assieme alla direttrice Gemma Cestari e ai giurati Valerio Magrelli, Emanuele Trevi e Nicola Lagioia, hanno annunciato i titoli finalisti, sottolineando quanto complessa sia stata l’opera di selezione.
Il presidente del Premio Sila, Enzo Paolini e la direttrice Gemma Cestari
I dieci titoli finalisti
La rosa dei dieci libri scelti include opere di grande spessore narrativo e saggistico che rappresentano un viaggio attraverso storie, idee e riflessioni sull’Italia contemporanea: Nicoletta Verna, “I giorni di vetro” (Einaudi); Sandro Veronesi, “Settembre nero” (La nave di Teseo); Emanuela Anechoum, “Tangerinn” (Ediz. E/O); Diego De Silva, “I titoli di coda di una vita insieme” (Einaudi); Pierpaolo Di Mino, “Lo splendore” (Laurana); Andrea Piva, “La ragazza eterna” (Bompiani); Linda Ferri, “Il nostro regno” (Feltrinelli); Marco Lodoli, “Tanto poco” (Einaudi); Giulia Corsalini, “La condizione della memoria” (Guanda) e Marco Ferrante, “Ritorno in Puglia” (Bompiani).
Un Premio con una lunga storia
Il Premio Sila porta in sé un valore culturale, ma anche potentemente simbolico, ereditando e rivitalizzando una storia nobile, quella di un premio letterario nato nel 1949 come uno dei primi premi dedicati alla narrativa e alla saggistica impegnata sul piano sociale e politico. Il Premio è tornato a nuova vita nel 2010 grazie all’impegno della Fondazione Premio Sila e oggi rappresenta una iniziativa impegnativa e coraggiosa, che come ha ricordato Enzo Paolini, comporta un lavoro complesso, ma da cui scaturiscono «magnifiche occasioni», come quella che ha visto «Valerio Magrelli e Nicola Lagioia presentare al pubblico i dieci libri selezionati per questa edizione».
Una selezione che comprende autori esordienti e nomi già affermati
Anche Gemma Gestari, direttrice del Premio, ha sottolineato le difficoltà del lavoro svolto dalla giuria, ma anche la grande soddisfazione per una selezione che comprende «autori esordienti e autori consolidati: grande letteratura ma con una varietà che quest’anno è proprio evidente».
Per nulla casuali, ma al contrario straordinariamente significative del ruolo che oggi svolge il Premio Sila nel panorama culturale nazionale, sono state le parole di Nicola Lagioia, che ha sottolineato come il premio sia «un’occasione importante per riflettere sulla letteratura italiana in dialogo con i grandi temi sociali ed esistenziali».
Una delle scene più belle del primo film del regista Gianni Amelio, La fine del gioco, girato 55 anni fa a Catanzaro, rimane sorprendentemente impressa dopo averlo visto. È quella che ritrae un gruppo di ragazzini. Prima seguiti dall’alto e poi a livello della strada. L’occhio del regista che li segue, mentre a ritmo lento e dolente, sfilano in corteo.
Una marcia a testa bassa, in silenzio e braccia conserte dietro la schiena, come fossero in ceppi. Il gruppo di adolescenti messi in fila come un plotone sono seguiti lentamente da un’auto, che li tiene d’occhio e li scorta infine dietro un cancello e oltre le mura di un recinto. In quel passaggio sorvegliato tra strade cittadine di una Catanzaro illividita dai toni del bianco e nero, in una controra quasi spettrale, c’è tutta la condizione di privazione di libertà dei giovani che erano detenuti all’interno del carcere minorile di Catanzaro. Il luogo dove il film si ambienta dopo quelle prime scene.
Il regista Gianni Amelio durante un intervento alla Stampa estera
Gianni Amelio a Catanzaro
A lato di quel primo scorcio rivelativo, a quel piccolo gruppo di ragazzi sorvegliati, si contrappone l’allegra e libera frenesia che anima il gioco di un altro gruppetto di figuranti. Un gruppo dei bambini che si svagano sparpagliati e vocianti oltre la transenna di una grande piazza. Loro, uno sciame di liberi, e i separati, gli estranei, già lontani, chiusi da quei confini, in quelle stanze, le camerate del correttorio già così simili a celle. Sembra il distillato del set iperrealista di uno dei film di Amelio più belli, Il ladro di bambini. Catanzaro del dopoguerra, e questi ragazzi che guardano sempre per terra e non si voltano indietro, e in alto non guardano mai.
L’infanzia difficile, il rapporto tra i bambini, i giovani e gli inganni degli adulti, il sentimento del tempo e la nostalgia, gli sfregi alla bellezza e al paesaggio, le rivelazioni che balenano nel movimento che coglie lo spazio e la luce, il senso profondo della storia. In questo piccolo film di 60 minuti, c’è, riassunto in un’epitome tutto il cinema che sarà di Amelio, da quei primi spezzoni di pellicola sperimentale sino ad oggi.
La proiezione organizzata da Fondazione Trame
È merito della Fondazione Trame, guidata da Nuccio Iovene, che da 13 anni organizza il Festival dei libri sulle mafie a Lamezia Terme, e di “Trame a Sud”, lo spin-off affidato al giornalista e scrittore Vinicio Leonetti per promuove iniziative di riflessione artistica e cinematografica legate alla Calabria e al Mezzogiorno, a cui va il merito di aver allestito e organizzato questo primo appuntamento, se a Catanzaro nei giorni scorsi il cinema fuori dalle sale è tornato in luogo della città così significativo, vicinissimo e lontano, il Minorile di Catanzaro, che oggi si chiama Istituto Penale per Minorenni con Sezione per Semilibertà. “Trame a Sud” comincia da questo luogo e da questo autentico, e presto dimenticato, capolavoro riscoperto.
Gianni Amelio gira nel carcere minorile di Catanzaro
La fine del gioco è il primo mediometraggio filmato realizzato e prodotto per la Rai dal regista Gianni Amelio nel 1970. Un film in cui un regista della televisione nazionale, decide di intervistare un bambino molto particolare. Leonardo è un piccolo orfano che senza colpe che non siano la sua condizione di orfano e piccolo lazzaro, si trova chiuso in una casa di correzione. Il regista lo sceglie per farne il protagonista di un film-documentario per la televisione.
E’ sta la straordinarietà del cinema, che diventa il cinema girato proprio lì, con il racconto di una storia che si svolgeva nel recinto del Carcere Minorile di via Paglia, diventato set, con un protagonista che, come quei ragazzi, era uno di loro. Amelio girò La fine del gioco in bianco e nero a soli venticinque anni, scrivendolo insieme ad un altro importante catanzarese del cinema italiano, Mimmo Rafele, che di questa pellicola di Amelio fu aiuto regista e sceneggiatore.
Con gli studenti del Galluppi, il liceo di Amelio
La visione del film, a distanza di più di mezzo secolo dalla sua realizzazione, è stata condivisa adesso dagli studenti del Liceo Classico Galluppi (che fu il Liceo di Amelio), insieme ai ragazzi che entro le mura del Minorile di Via Paglia, sono ancora oggi come allora ristretti. Difficile, se non irrealizzabile per la ritrosia sentimentale e umana che contraddistingue il suo autore, far tornare Amelio, che ha da poco compiuto 80 anni ed è al cinema con il suo ultimo film Campo di Battaglia, nella città del suo debutto di regista per celebrare questa bella e simbolica ricorrenza.
Era presente invece Domenico Rafele, felice di ritornare dopo 55 anni nella sua città e sui luoghi che furono set di quel film. Rafele è uno dei più noti e affermati sceneggiatori italiani. Oltre che con Amelio, ha poi collaborato tra gli altri con registi come Bernardo e Giuseppe Bertolucci. Tra i suoi film come regista e sceneggiatore si ricordano Domani (1974) Ammazzare il tempo (1979), La piovra, Il giovane Mussolini, Vite a termine, Codice Aurora. Oggi Rafele vive a Roma, dove continua a dirigere film e a scrivere (anche libri; suo il romanzo La forma della paura, scritto con Giancarlo De Cataldo) come sceneggiature per il cinema e la televisione.
Leonardo, il piccolo protagonista di allora
Alla proiezione de La fine del gioco, tra gli ospiti radunati da Leonetti per la proiezione nel piccolo cinema del Minorile, non c’era il regista, ma c’era invece, il suo protagonista di allora, Leonardo. Gino Valentino, che a 12 anni fu preso dalla strada e scelto proprio da Amelio per interpretare il piccolo protagonista del racconto, che nel film si chiama appunto Leonardo. Gino/Leonardo è oggi un simpatico, sorridente, e affabile signore di una certa età. Una vita ordinaria di lavoro e di affetti.
Un tranquillo pensionato quasi settantenne che vive nel quartiere popolare di Fortuna, tra la città e il lido di Catanzaro. Ma quella del film fu per lui un’esperienza indimenticabile, che ha raccontato ai ragazzi e al pubblico con l’incanto intatto di quando era bambino, con ingenuità e fervore, esattamente come allora. «Gianni e Mimmo mi sono stati molto vicino allora, io non avevo mai visto il cinema; mi hanno guidato loro in tutto, ma se feci bene l’attore per quella parte fu perché mi sentivo davvero com’ero nel film».
Un ragazzino di una periferia del Sud, cresciuto in quegli anni faticosi, ingenuo testardo, diffidente e incantato da tutto. Rivisto, nella parte di Leonardo, lui è davvero un magnifico. Anche il giorno della proiezione i ragazzi ristretti del Minorile lo avevano scambiato per uno di loro. Invece Gino allora era solo il ragazzino di un suburbio di case popolari, l’abitante di un quartiere di provincia, cresciuto per le strade polverose di una Calabria fine anni ‘50 povera e piena di speranze, non ancora smagata dalle illusioni del boom. Il Minorile lui, Gino, lo chiama ancora “riformatorio”.
E confessa che ancora oggi tra i suoi conoscenti c’è chi fatica a credere che lui non fosse uno degli adolescenti reclusi lì dentro. Ci tiene a raccontare di non avere mai avuto problemi con la giustizia, né prima né dopo il film. Ma forse fu, dice, solo per caso, per fortuna, aggiunge, se lui fece “le scuole”, ebbe genitori buoni e con loro un destino che lo portò lontano dalle mura del riformatorio di Via Paglia. Racconta come fu che arrivò a fare quella parte.
La troupe si presenta nella sua scuola di Catanzaro. Alla selezione si affollano in tanti, tutti ragazzini delle medie cittadine. Lui ad un certo punto, irrequieto com’era stava per scappare via per tornarsene a casa, quando Amelio lo fermò, interpellandolo in dialetto catanzarese: “Duva fuji tu!, veni accà!”. Era lui quello che cercava per il suo Lorenzo. Gino aveva la faccia giusta, il gesto, i tratti, la voce, la postura che cercava Amelio. Da quel giorno Gino fu per sempre il Lorenzo del film. Lavorò per alcuni mesi fianco a fianco con Amelio e Rafele, ogni giorno sul set, girando diligentemente e con una bravura stupefacente buona parte delle scene tra gli spazi interni al carcere minorile, che ancora oggi è accanto allo Stadio dove gioca il Catanzaro.
Il set per gli esterni fu poi portato anche tra gli scompartimenti deserti di un treno del Sud. Gino recita le sue scene in compagnia del solo grande Ugo Gregoretti, che nel film interpreta il giornalista della Rai che vuole intervistare Leonardo. Gregoretti è l’adulto che lo scruta e lo indaga, lo straniero viene da una città lontana, l’altro che lo avvicina tentando di offrire con il passaggio dallo schermo uno spiraglio redenzione piccolo borghese al piccolo carcerato ribelle. Devono ad un certo punto fare insieme un viaggio, uno spostamento altrove, trasognato, teso, solitario.
Un vagone di un Treno Espresso fu per questo preso in affitto dalle Ferrovie dello Stato. Si girò, ricorda Mimmo Rafele, su un convoglio in movimento che faceva realmente la spola sulla tratta tra Roma e Lamezia.
Colpiscono anche quelle scene prese dal vero e registrate in diretta da Amelio e Rafele. Con i sobbalzi e lo sporco di fondo, mentre dai finestrini del treno scorre un paesaggio del Sud già rotto e privo di bellurie, con voci e rumori che si sovrappongono, con piani sequenza e lunghi silenzi, poche parole spezzate e gli sguardi persi e poeticamente intensi di Leonardo. Furono girate così le scene del viaggio con cui il film nel racconto del piccolo Lorenzo si conclude.
L’Oliver Twist di Amelio
Il piccolo orfano ribelle prima si nasconde, poi scende dal treno a una delle fermate, da solo, scalzo. Fugge. Va via. La vita e la rinascita prospettata per lui restano incerte, ma la strada che sceglie sarà quella che farà, a modo suo. Allo stesso modo Amelio cominciava in sordina ma in forma luminosa e poetica il suo cinema a Catanzaro con questo piccolo film. Lo fece raccontando in pellicola la parabola malinconica del piccolo Leonardo, un lazzaro fantasioso e ribelle – un orfano povero, che parte senza mezzi verso l’età adulta e per compiere la sua avventura dal profondo della provincia fugge via, come fu del resto per lo stesso Amelio.
Come Dickens circoscrisse in letteratura le scabrosità e le esclusioni brutali della società vittoriana dipingendo di speranze e di fidente genuinità il volto del suo Oliver Twist, Amelio lo fa nel suo film riuscendo a dare un volto e un sembiante poetico al suo piccolo Leonardo, dipingendo speranze e ribellione sul volto innocente e riottoso di Gino, aggiungendo scetticismo e malinconia alle gesta minime del suo piccolo protagonista. Non a caso, quindi, da questo luogo di “correzione” e da questo particolare racconto cinematografico era partita l’originale avventura cinematografica di Amelio.
Dal carcere ai vagoni del treno
Il film implicitamente e per contrasto ci appare oggi anche come un discorso figurato sull’immaginario e sull’iconografia culturale catanzarese degli ultimi decenni. Merito anche questo di Amelio, intellettuale e regista transfuga dalle circonvenzioni cittadine. Allievo, come Alvaro, del famoso Liceo Galluppi, dopo una parentesi universitaria messinese, Amelio evade da Catanzaro per rinascere cinematograficamente a Roma. La fine del gioco è anche per questo un film già precocissimo e completo. Compendia il tema del ritorno, sia nel soggetto del film – la storia del ragazzino che appena dodicenne si trova rinchiuso senza colpe in un riformatorio calabrese, da cui cerca faticosamente di fuggire per trovare fuori la sua strada –, sia nella suggestiva e minimalistica ambientazione dei paesaggi, con gli esterni girati a Catanzaro. Mentre nel carcere minorile della città si girarono tutti gli interni, solo le scene della seconda parte in viaggio, furono spostate dentro i vagoni di un treno.
Nella pellicola tutti i temi di Gianni Amelio
Questo primo film catanzarese contiene in cifra, dicevamo, tutti gli ingredienti della filmografia maggiore sviluppata successivamente da Amelio: i temi del contemporaneo, il cinema sul cinema, il rapporto fra padri e figli, quello difficile e irrisolto del richiamo dei luoghi delle origini, con la lotta fra gli integrati e i fragili, i marginali, i fuoriposto, opposti alla logica conformista e feroce della società contemporanea. Centrale, come in tutto il cinema di Amelio, è anche il tema dello spaesamento e del viaggio, narrati come archetipi culturali e umani di un Sud inaridito, slogato e fuori posto. Forse proprio il conflitto intimo e mai risolto di Amelio con la sua Catanzaro resta intatto e ancora aperto come sottotesto implicito del film.
La città per lui «ferma» e «malferma», il suo ricordo di una piccola società di provincia, burocratica, conservatrice e chiusa nei suoi privilegi, a cui si oppone oggi l’immagine contemporanea di luogo di incroci politici e di potere prepotenti e corrivi, riflessi nello specchio rovesciato di paesaggi urbanistici caotici e sconvolti. Un catalogo di contrasti irrisolti che restano ancora oggi il tratto distintivo e perturbante di questa capitale ideale della Calabria di adesso.
Un luogo che oggi scorre ineffabile, immobile e chiazzato di enormi palazzoni e costruzioni fuori scala, lontano dai finestrini delle auto in corsa sui grandi snodi stradali, nel traffico impazzito delle circovallazioni, oltre i ponti vertiginosi gettati su calanchi e burroni di questa Calabria post-tutto. Un paesaggio che sembra un compimento di quel primo set di Amelio, l’apoteosi di quelle cupe location del non-finito sudista di un tempo. Set ideale, magari, per girarci un nuovo film di Gianni Amelio, un’altra fine del gioco.
Il dibattito e la proizione nel carcere minorile
Alla fine del dibattito e della proiezione, la sala-cinema del Minorile era strapiena: studenti, docenti, ma soprattutto tanti giovani in vinculis, i ragazzi in custodia presso il Minorile che hanno visto il film. Tutti bravi, tutti in parte. I dirigenti della struttura di oggi, l’aiuto regista di allora, il protagonista del film, Vinicio Leonetti e i dirigenti di Trame festival, la giornalista e scrittrice Annarosa Macrì, autrice -con Giosi Mancini- di una bella e dettagliatissima intervista ad Amelio per i suoi ottant’anni uscita nei gironi scorsi su Il Quotidiano del Sud. Con la sorveglianza delle guardie carcerarie, che lì per servizio, hanno apprezzato molto anche loro.
Tutti insieme a vedere e compitare le scene di questo bellissimo film, un apologo sull’adolescenza e il senso della vita che dopo più di mezzo secolo da quando fu girato, non smette di interrogarci e farci riflettere. Applausi per tutti. Quindi. A cominciare da quelli che nel lontano 1970 hanno immaginato, realizzato, interpretato questo piccolo prezioso capolavoro nascosto del cinema italiano – che va riportato all’attenzione del pubblico e restaurato prima che sia troppo tardi. Se ai giovani spettatori radunati a vederlo è rimasto attaccato qualcosa della poesia e della luce di questo primo scarno e potentissimo film di Amelio, di questa storia povera e pensosa, in cui un piccolo orfano ribelle, povero e malvissuto, si stacca dagli adulti e prende la sua vita in mano, anticipando “la fine del gioco”, sarà questo di nuovo e soprattutto il suo vero successo.
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