Categoria: Cultura

  • “Perdere il controllo” esercitando l’eresia

    “Perdere il controllo” esercitando l’eresia

    Quando si organizza un festival, di solito, le prime cose cui gli organizzatori pongono mente sono quanta gente attirerà, quali strategie è possibile mettere in campo per aumentare il bacino d’utenza, cosa escogitare per ingolosire? Nel caso di Aghia Sophia Fest, probabilmente, da sempre, avviene il percorso contrario. Si parte da un’onesta analisi dei bisogni, singolari e collettivi, per individuare, di anno in anno, un tema caldo, saliente, un tratto caratteristico dell’umano che ha bisogno di essere sviscerato, analizzato, senza l’ansia e il patema del successo a ogni costo, del trend topic, della moda del momento.

    Il processo creativo e la ricerca delle parole e dei segni

    I colori e i segni del Festival

    Ed è proprio quando tutte queste sterili energie negative vengono marginalizzate, che comincia il processo creativo, la costruzione certosina di una strada lastricata di suoni, gesti e parole che possono lasciare il segno, perturbare, esaltare, entusiasmare, problematizzare. Così, si parte alla ricerca condivisa di linguaggi che si vorrebbero far risuonare tra le casette di legno e gli alberi di una parte decisamente disallineata di città, un pezzo di Cosenza Vecchia che sembra paradossalmente essere staccato anche dal Centro Storico stesso. Eppure si trova lì, a un tiro di schioppo dal museo diffuso di Corso Mazzini, a pochi passi dalla casa comunale. Fermo e silente, un po’ decrepito e zoppicante, sembra voler rimanere nascosto ma, da un po’ di mesi, qualcuno ha deciso che è ritornato il tempo di rianimarlo per esaltarne l’intrinseca bellezza.

    Una delle passate edizioni del Festival

    Il potere dell’immaginazione: spazio al pensiero eretico

    Case d’arte che s’affacciano sul nostro fiume, una poesia a cielo aperto che ha solo bisogno di essere scritta. Aghia Sophia Fest, dalla sua posizione fieramente eretica, prova a scriverla questa poesia, con umiltà e dedizione, con cura e pazienza. D’altronde, con i convalescenti occorre sempre usare le più delicate precauzioni. E se l’anno scorso, Aghia ha deciso di ragionare su possibili futuri immaginari da abitare insieme, quest’anno, invece, ha scelto di “perdere il controllo”. Una perifrasi ambigua che potrebbe prestare il fianco a molteplici interpretazioni. Ne scremiamo due, per scongiurare il tedio. Perdita del controllo come sottrazione al potere istituzionale che, troppo spesso, usa violenza e arroganza per imporsi. Perdita del controllo come riscoperta della profonda libertà che carsicamente attraversa tutte le nostre esistenze, desiderose di emanciparsi da un monitoraggio orwelliano che fatica ad abbandonare i palcoscenici pubblici.

    Da Salvatore “Uccello” a Piperno
    Franco Piperno

    Il percorso immaginario da Salvatore “Uccello” a Piperno

    E, allora, una serie di figure, artisti e temi si sono, quasi per magia, palesati agli occhi sbigottiti di Silvia Cosentino e Giuseppe Bornino, quasi vent’anni di autogestione culturale insieme. Così, hanno visto stagliarsi, quasi come in una sorta di cinematografico piano sequenza, le figure di Salvatore “Uccello” Iaccino e Franco Piperno, vittime e analisti di un controllo sempre troppo dispotico, le riflessioni di Dario Alì su ciò che una società vieta e borghese insiste ancora nel definire “contronatura”, le stilettate comiche di Simonetta Musitano, degna rappresentante della logica “queer”, quella logica non tradizionale e binaria che vuole abbattere tutti i pregiudizi, ruoli, definizioni preconfezionate. E, ancora, hanno visto aggirarsi, per le vie della città, il mai sopito spirito del maestro Franco Battiato, guru della perdita del controllo, intesa come libero accesso ad altri mondi, reali o metaforici che siano, a seconda dei gusti, delle tendenze e delle credenze personali.

    Giuseppe Bornino e Silvia Cosentino, i due organizzatori dell’evento

    Le capriole musicali di Borealo

    E, poi, hanno visto le capriole musicali di Auroro Borealo, un artista profondamente sui generis che mette in discussione una stantia e forzatamente apollinea idea di bellezza, esaltando, di contro, il brutto, l’informe, quello che, di solito, preferiamo occultare, denigrare, marginalizzare. Con lui, verrà celebrata la rivincita dei brutti, dei non allineati, degli esclusi, di chi, molto semplicemente, coltiva la propria diversità senza timore e senza l’ossessione dell’omologazione costi quel che costi. E, di certo, gli organizzatori non potevano non scegliere come numi tutelari di quest’edizione David Lynch e Franco Basaglia, indagatori coraggiosi di ciò che interferisce, sobilla e disturba le nostre menti, di ciò che le rende felicemente non normali.

    Borealo sarà presente all’Aghia Sophia

    Le parole, le immagini e i suoni per “perdere il controllo”

    Perdere il controllo attraverso l’arte, le parole, le immagini, i gesti, i suoni. Tanto del vasto programma festivaliero non siamo riusciti a nominare perché ceci n’est pas un communiqué de presse. La lettura dell’articolo continua venerdì 27 giugno 2025, a partire dalle ore 17, presso l’Area 3 dei Bocs Art, a due passi dal fiume. Avvicinati con fiducia!

                                                                                                            Aghia Sophia fest

     

     

  • Il sole, il fuoco e la potenza della vita

    Il sole, il fuoco e la potenza della vita

    Il solstizio d’estate, che cade attorno al 21 giugno, rappresenta un momento cruciale nella cultura antropologica e in quella del simbolismo delle culture mediterranee, in particolare nel Sud Italia e in Calabria. Questo evento astronomico, in cui il sole raggiunge il suo apice di altezza nel cielo, è stato da sempre associato a riti di rigenerazione, purificazione e celebrazione della vita. Nel contesto calabrese e meridionale, il fuoco emerge come elemento centrale di questi rituali, incarnando significati complessi legati alla cosmologia, alla comunità e alla relazione tra l’umano e il divino. Attraverso un’analisi antropologica, esploreremo il simbolismo del fuoco nel solstizio d’estate, con riferimenti a testi storici e studiosi, prevalentemente meridionali, che hanno documentato queste pratiche.

    Il Solstizio d’estate nel Sud Italia: contesto culturale.

    Nel Sud Italia, il solstizio d’estate si intreccia con tradizioni pagane e cristiane, un sincretismo tipico delle culture mediterranee. La festa di San Giovanni Battista, celebrata il 24 giugno, si sovrappone ai riti solstiziali precristiani, assorbendo elementi di culti solari e agrari. In Calabria, come in altre regioni meridionali, il solstizio è un momento di passaggio, un limen che segna il culmine della luce e l’inizio del declino verso l’oscurità invernale. Questo dualismo luce-tenebre è al centro delle pratiche rituali, in cui il fuoco assume un ruolo di mediatore tra il mondo terreno e quello cosmico.

    Secondo Ernesto de Martino, in un noto saggio dal titolo “Sud e magia” (1959), le feste solstiziali nel Sud Italia sono espressioni di una “crisi cosmica” percepita dalle comunità contadine, in cui il ciclo della natura deve essere sostenuto attraverso il rito per garantire fertilità e prosperità. In Calabria, questa crisi si manifesta nei falò accesi nelle piazze, nei campi o sulle colline, che simboleggiano la forza del sole e la sua capacità di rigenerare la vita.

    Il simbolismo del fuoco

    Il simbolismo del fuoco

    Il fuoco, nel contesto del solstizio d’estate, è un simbolo polivalente. È purificatore, distruttore e rigeneratore al tempo stesso. In Calabria, i falò di San Giovanni, noti come “focare” o “fuochi di San Giovanni”, sono accesi con legna raccolta collettivamente, spesso accompagnati da danze, canti e pratiche divinatorie. Il salto sopra il fuoco, documentato in numerosi paesi calabresi come San Giovanni in Fiore o Tropea, è un rito di passaggio che garantisce protezione contro le malattie e il malocchio. Questo gesto richiama l’idea di purificazione attraverso il contatto con l’elemento sacro, un tema ricorrente nelle tradizioni indo-europee e mediterranee.

    Mircea Eliade, nel suo “Il sacro e il profano” (1957), interpreta il fuoco come un simbolo di trascendenza, un mezzo per connettere l’umano al divino. Nel contesto calabrese, il fuoco solstiziale non è solo un elemento naturale, ma un’entità sacra che media tra la comunità e le forze cosmiche. La sua luce richiama il sole, mentre il suo calore evoca la fertilità della terra. Inoltre, il fumo dei falò è spesso considerato un veicolo per le preghiere o un mezzo per allontanare gli spiriti maligni, come evidenziato negli studi di Giovanni Battista Bronzini (“La civiltà contadina in Calabria”, 1982).

    La rugiada e i falò

    Un altro aspetto significativo è il legame tra il fuoco e l’acqua, due elementi complementari nei riti di San Giovanni. In Calabria, è comune raccogliere la rugiada la notte del 24 giugno, considerata benedetta, mentre i falò ardono. Questa dualità riflette l’equilibrio cosmico tra maschile (fuoco, sole) e femminile (acqua, luna), un tema esplorato da studiosi come James Frazer nel suo “Il ramo d’oro” (1890), che collega i riti solstiziali a miti di fertilità universali.

    Il Ramo d’oro

    Testi storici e studi sul rito in Calabria

    Le prime testimonianze scritte sui riti solstiziali in Calabria risalgono a cronache medievali e a resoconti etnografici del XIX secolo. Ad esempio, il folklorista  Raffaele Lombardi Satriani, nel suo “Il folklore calabrese” (1974), descrive i falò di San Giovanni come momenti di aggregazione comunitaria, in cui le gerarchie sociali si dissolvono temporaneamente. Egli sottolinea come il fuoco non sia solo un simbolo, ma un “atto performativo” che rinsalda i legami sociali e riafferma l’identità collettiva.

    Il simbolismo del sole

     

    Un altro contributo importante viene da Vito Teti, che in “Il senso dei luoghi” (2004) analizza i falò come espressione di una memoria culturale radicata nel paesaggio. Teti evidenzia come i luoghi scelti per i fuochi – crocevia, colline, piazze – siano spazi liminali, carichi di significati simbolici. Questi siti fungono da punti di incontro tra il passato mitico e il presente, tra il sacro e il profano.

    Il rito dei “fuochi pagani”

    I “fuochi pagani” e la resistenza di pratiche precristiane

    Fonti storiche, come gli scritti di missionari gesuiti del XVII secolo, riportano descrizioni di “fuochi pagani” accesi in Calabria durante il solstizio, nonostante gli sforzi della Chiesa di cristianizzarli. Questi documenti, raccolti in parte negli archivi diocesani di Cosenza e Reggio Calabria, testimoniano la resistenza di pratiche precristiane, che si sono adattate al nuovo contesto religioso senza perdere la loro essenza.

     Intreccio di memoria, simbolismo e identità

    In Calabria e nel Sud, dunque, il solstizio d’estate e i suoi fuochi rappresentano un complesso intreccio di simbolismo, memoria e identità culturale. Il fuoco, con la sua capacità di purificare, rigenerare e connettere l’umano al divino, è il cuore di questi riti, che sopravvivono in forme adattate anche nell’epoca contemporanea. Attraverso le lenti di studiosi citati possiamo comprendere come queste pratiche non siano mere superstizioni, ma espressioni profonde di una visione del mondo che vede nella natura e nei suoi cicli una fonte di significato esistenziale. I falò di San Giovanni continuano a bruciare, non solo come gesto rituale, ma come testimonianza di una Calabria che custodisce il suo patrimonio antropologico con orgoglio e resistenza.

     

    Bibliografia di riferimento:

    – De Martino, E. (1959). “Sud e magia”, Milano, Feltrinelli.

    – Eliade, M. (1957). “Il sacro e il profano” Torino, Bollati Boringhieri.

    – Frazer, J. G. (1890). “Il ramo d’oro”, Torino, Einaudi (ed. italiana).

    – Lombardi Satriani, R. (1974). “Il folklore calabrese”, Cosenza, Brenner.

    – Teti, V. (2004). “Il senso dei luoghi”, Roma,Donzelli.

    – Bronzini, G. B. (1982). “La civiltà contadina in Calabria”, Roma, Edizioni dell’Orso.

     

  • I segreti sono finiti

    I segreti sono finiti

    Tra gli strumenti più efficaci per la costruzione di relazioni tra le persone ci sono le parole, quelle che si dicono e quelle che invece si devono tacere, per esempio i segreti. Deve essere stata la potente valenza di collante sociale, di legame tra gli individui che svolge il disvelamento di un segreto e il conseguente vincolo al silenzio che sempre l’accompagna, ad affascinare Massimo Cerulo, docente di Sociologia dell’Università di Napoli, che proprio su queste dinamiche complesse, eppure assai collaudate, ha indagato scrivendo “Segreto”, edito da il Mulino.

    Il libro di Massimo Cerulo editato da il Mulino

    Il segreto è un fatto sociale

    Per una curiosa distorsione cognitiva siamo abituati a pensare al segreto come qualcosa di intimo, un fenomeno circoscritto a un numero molto piccolo di persone, un fenomeno che non riguarda il lavoro del sociologo. In realtà non dobbiamo stupirci se Cerulo ha rivolto l’attenzione verso qualcosa che sembra intimo e non collettivo, perché in effetti sui segreti e sulle dinamiche che essi prevedono, è costruita una parte non piccola della quotidianità. Il segreto, insomma, è un fatto sociale e Cerulo lo svela subito quando dice che «Chiedere o tacere, rispondere o svicolare, sono forme di interazione» attorno alle quali costruiamo relazioni.  Ma non basta, i segreti sono un fatto assolutamente sociale anche perché nessuno di noi può davvero affermare di non averne, come spiega Cerulo, il che implica la necessità umana di confidarli. Insomma se c’è un segreto, c’è pure la tentazione di svelarlo.

    Massimo Cerulo insegna nell’Università di Napoli Federico II ed è chercheur associè al Cerlis della Sorbona di Parigi

    Il vincolo dell’amicizia

    E qui entra in gioco il vincolo dell’amicizia, che nel mantenimento dei segreti ha il compito della complicità e quindi dell’alleggerirci del peso di portare noi soli il fardello dell’indicibile. Su questo, con grande puntualità, l’autore ama citare Simmel, «uno dei più poetici sociologi», quando svela che le relazioni si fondano anche sulla discrezione, sul «tenersi lontani da tutto ciò che l’altro non manifesta in modo positivo», sulla sensibilità capace di cogliere ciò di cui si può parlare oppure no, quelli che Cerulo chiama “confini flessibili”, dettati dal mutare delle circostanze e dai gradi di intimità. Quel che accade quando sveliamo un segreto, oppure quando una persona ce ne affida uno, è molto interessante e tuttavia facendo parte della quotidianità più esercitata, non vi facciamo troppa attenzione. Invece è molto importante, non a caso abbiamo usato il verbo “affidare”, perché svelando un segreto noi ci affidiamo a chi riceve la rivelazione, oppure qualcuno si affida a noi. Si tratta a ben guardare di un vincolo prepotente e molto pesante.

    Si chiede la massima lealtà, l’obbligo del silenzio, la condivisione di un fardello e qui viene in mente la simpatica scenetta in The Big Bang Theory tra Sheldon e Penny, quando quest’ultima svela un segreto a Sheldon che inorridisce davanti alla prospettiva di un impegno così gravoso. Ci sono poi altri segreti indagati da Cerulo e sono quelli che legano più persone, che generano comunità, come le sette o alcune associazioni. Qui i segreti sono il fondamento dell’adesioni stessa al gruppo.

    Per Dio non abbiamo segreti

    La fede cattolica è chiara: Dio sa tutto. Malgrado ciò ogni tanto occorre alleggerire il peso che grava sull’anima tramite la confessione. Questo rapporto tra i segreti il loro disvelamento si consuma nella pratica della confessione, oggi diventata sbiadita, come rivela un sacerdote la cui esperienza viene citata nel libro. Forse sta venendo meno il senso del peccato e con esso il segreto dell’atto sbagliato che si è compiuto, ma se Dio c’è non abbiamo scampo: a Lui non possiamo nascondere nulla.

    La confessione in crisi

    Custodi e ostaggi

    I preti non sono i soli destinatari dei segreti altrui. Condividono il difficile compito di sapere e dover tacere assieme ad altre figure professionali, come i medici, gli avvocati e i giornalisti.  Ma cosa succede quando si rivelano cose indicibili? Per spiegare la dinamica di reciproca e perpetua appartenenza Cerulo si affida ai protagonisti del racconto di Starnone “Confidenza”. E’ la storia di due amanti che quasi a voler eternare il loro legame decidono di svelarsi reciprocamente il «segreto più orribile». Il loro amore, come spesso succede, si spegnerà, ma i due a causa del patto sancito resteranno custodi e ostaggi l’uno dell’altro, in una costante condizione di angoscia. Ma c’è un tempo passato il quale siamo liberati da vincolo del segreto? Questo non è dato sapere, anche perché lo stesso Cerulo ci spiega che «ogni segreto ha un suo peso specifico» e quindi è differente da qualunque altro.

    La condivisione di un segreto genera vincoli sociali

    “L’altro” ci è sconosciuto

    Ci è segreto tutto quanto non conosciamo e da questo punto di vista Cerulo fa parlare Derrida per spiegarci che «l’altro è segreto proprio perché è altro», insomma diverso e dunque per certi versi sconosciuto e finché non si svela, attraverso la pratica della frequentazione, resta un mistero. Ma quando cominciano i segreti? Cerulo suggerisce che questo accade forse quando diventiamo adulti, quando si assume «la costruzione della propria identità»

    Nell’era digitale nessuno ha più segreti

    Non è più tempo di segreti

    Ma possiamo avere segreti nell’era digitale? Nella società della sorveglianza, resta spazio per cose riservate? Cerulo per rispondere prende in prestito la trama di un romanzo distopico scritto da Evgenij Ivanovic Zamjatin, dal titolo “Noi”. Si tratta di un mondo non diverso da quello immaginato da Orwell, o dal Panopticon  di Benthan applicato alla società di cui parla il coreano Byun Chun Han, con la differenza che per quest’ultimo non c’è un regime autoritario a scrutarci nella parte più intima della nostra esistenza, ma siamo noi a rinunciare consapevolmente e volontariamente a ogni nostro segreto mettendoci in mostra sui social. Questa tentazione costante per Cerulo «è un nuovo imperativo contemporaneo» cui nessuno sfugge, per questo la frase «non dirlo a nessuno» potrebbe aver perduto ogni significato.

     

  • Incandidabilità ed elezioni amministrative

    Incandidabilità ed elezioni amministrative

    È peculiare trovarsi di fronte, nel corso di ogni campagna elettorale, ad una annosa questione, che dovrebbe ricevere l’attenzione del legislatore statale, il quale, invece, appare “preferire” affidare il controverso tema della incandidabilità ad ogni momento storico o, preferibilmente, alle autorevoli voci delle Corti. Il caso calabrese appare, probabilmente, il più emblematico, poiché è in questa terra che si concentra il maggior numero di comuni sciolti per infiltrazione mafiosa e, di conseguenza, è teatro di dibattiti circa l’incandidabilità. In particolare, ci si riferisce alle consultazioni elettorali che riguardano il Comune di Rende.

    La decisione della Commissione antimafia e le polemiche

    La Commissione Antimafia ha stilato una lista di incandidabili, che, come prevedibile, ha suscitato polemiche e prese di posizione. Nel Comune Rende gli impresentabili sono, tra gli altri, Elisa Sorrentino, Domenico Ziccarelli, e Fabrizio Totera, i cui nomi compaiono nella lista della Commissione Antimafia, poiché, nei comuni sciolti per infiltrazioni mafiose, in cui ora si svolgeranno le elezioni, rivestivano delle cariche o erano componenti della Giunta, al momento del decreto di scioglimento. Dunque, colpevoli per definizione. Cerchiamo, dunque di capirne le ragioni. È da qui che emerge un dibattito, se vogliamo, giuridico- legislativo, ma con opprimenti ricadute sulla vita politica. Tuttavia e per ragioni di brevità, la problematica da esaminare riguarderà soltanto un aspetto dell’art. 143 del Testo unico sugli enti locali (Decreto Legislativo 18 agosto 2000,  n. 267) e, in particolare, il suo comma undicesimo, secondo il quale, “Fatta salva ogni altra misura interdittiva ed accessoria eventualmente prevista, gli amministratori responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento di cui al presente articolo non possono essere candidati alle elezioni per la Camera dei deputati, per il Senato della Repubblica e per il Parlamento europeo nonché alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali, in relazione ai due turni elettorali successivi allo scioglimento stesso, qualora la loro incandidabilità sia dichiarata con provvedimento definitivo. Ai fini della dichiarazione di incandidabilità il Ministro dell’Interno invia senza ritardo la proposta di scioglimento di cui al comma 4 al tribunale competente per territorio, che valuta la sussistenza degli elementi di cui al comma 1 con riferimento agli amministratori indicati nella proposta stessa. Si applicano, in quanto compatibili, le procedure di cui al libro IV, titolo II, capo VI, del Codice di procedura civile”. Una norma di forte impatto, quanto problematica, poiché la locuzione lapidaria “gli amministratori responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento (…) non possono essere candidati alle elezioni (…) in relazione ai due turni elettorali successivi (…) qualora la loro incandidabilità sia dichiarata con provvedimento definitivo” pare eccessiva nonché porsi in contrasto con i principi generali dell’ordinamento.

    In primo luogo, sembra confliggere con il principio di innocenza, pilastro fondamentale del diritto penale, sancito dall’articolo 27, comma 2, della Costituzione, secondo cui l’imputato non è considerato colpevole finché la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata e non sia stata emessa una sentenza di condanna definitiva. Nella norma in questione, se il reo è individuabile, è il reato a non esserlo, ovvero potrebbe individuarsi nel mero esser stato componente di una giunta sciolta? Il comma 11 dell’art. 143 del TUEL, così come modificato dai decreti-legge 41/2022 e 44/2023, pare prendere le mosse da una “presunzione di colpevolezza”, poiché colpisce coloro i quali sono stati membri di una Giunta comunale colpita dallo scioglimento a prescindere dalle singole condotte.

    La Commissione antimafia ha escluso dalle elezioni di Rende alcuni candidati

    La legge e il rischio di vittime innocenti

    Tuttavia, appare paradossale supporre che un intero organo, soprattutto nei Comuni più popolosi, ogni singolo soggetto sia stato parte attiva del pactum sceleris, intrattenuto con la criminalità organizzata; non si dovrebbe, pertanto, lasciare che tale normativa continui a vigere indisturbata, mietendo vittime, quando nell’ordinamento italiano, come è noto, è già in vigore la c.d. “Legge Severino”, n. 90/2012, circa le incandidabilità. Per giungere al cuore della questione, pare che il legislatore abbia supinamente applicato il criterio
    della successione delle leggi nel tempo, lex posterior derogat priori, non preoccupandosi minimamente di princìpi incontrovertibili. Se anche volessimo lasciare da parte il principio del favor rei, verrebbe in rilievo che l’utilizzo del criterio cronologico, atto a dirimere antinomie normative, appare piuttosto debole quanto ad argomentazione. Anche per i non addetti ai lavori, pare maggiormente plausibile che a prevalere sia la legge speciale, la legge Severino, rispetto alla norma del TUEL.

    La legge Severino

    La Legge Severino, il cui art. 10 circoscrive l’incandidabilità alle elezioni comunali all’esistenza di una sentenza definitiva di condanna per reati quali quello di associazione a delinquere di stampo mafioso, non si limita a punire “condotte” generiche (quali?) che hanno causato lo scioglimento dell’organo elettivo, indicando invece lo specifico reato che deve sussistere affinché il soggetto non sia candidabile. Quello delineato appare, dunque, un quadro caratterizzato da forte incertezza, poiché esistono, al contempo, norme che dispongono diversamente circa la medesima fattispecie, determinando il rischio
    di trattare in maniera uguale situazioni dissimili. La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha, tuttavia, cercato di giungere a conclusioni maggiormente garantiste per il singolo, parlando di una sorta di “alterazione ambientale” della funzione amministrativa a cui il singolo amministratore partecipa a prescindere dalla propria volontà, e cioè per il solo fatto di essere inserito in una trama sociale non avente di per sé alcun carattere di illiceità. La riforma del 2009, pur specificando che gli elementi sui quali si basa il potere di scioglimento devono essere “concreti, univoci e rilevanti”, ha seguito la medesima strada, ma, in assenza di ulteriori (e necessari) interventi del legislatore, permane l’incertezza normativa.

    Tiziana Salvino
    Borsista di Ricerca, Dispes Unical

  • Cecilia Faragò, l’ultima strega del Regno di Napoli

    Cecilia Faragò, l’ultima strega del Regno di Napoli

    Quella di Cecilia Faragò è una storia in cui si intrecciano pregiudizi, credenze popolari, timore del soprannaturale, manipolazione della verità e ignoranza. È la storia di una di quelle donne che, ieri come oggi, fanno paura per la volontà di affrancarsi dal ruolo imposto loro dalla società e di uscire dalle gabbie in cui sono state confinate.
    Calabria, seconda metà del Settecento. Nell’entità amministrativa borbonica della Calabria Ultra, precisamente nel piccolo centro di Soveria Simeri – in un territorio che doveva rientrare in quello dell’antica (e storicamente dai contorni leggendari) Trischene – si svolse un processo destinato a imprimere un cambiamento nelle sorti del Regno di Napoli, e con esso dell’Europa intera.

    Mentre altrove si viveva il Secolo dei Lumi – per dirne una, nel 1763 usciva il Trattato sulla tolleranza di Voltaire, scritto fondamentale sulla libertà di credo e di opinione in cui una buona volta veniva definito “barbaro” il diritto all’intolleranza –, a Soveria Simeri una donna, esperta di erbe officinali, veniva accusata di essere una magara, una strega, una di quelle figure che da sempre suggestionano l’immaginario collettivo dei popoli preda della superstizione.

    Le bramosie del clero locale

    Nata fra il 1710 e il 1712 a Soveria Simeri o nella vicina Zagarise, entrambi comuni della Sila Catanzarese, Cecilia Faragò intorno ai vent’anni era andata in sposa a Lorenzo Gareri, piccolo proprietario terriero di Soveria. I due ebbero due figli: Sebastiano, indirizzato presto alla vita conventuale, e Andrea, cagionevole di salute e morto prematuramente per una malattia che i mezzi e, ancor di più, i saperi del tempo non riuscirono a curare. Proprio dalla scomparsa del secondogenito principiarono le vicissitudini della Faragò, già vedova, e la strada che la portò a ricorrere prima alla Regia udienza provinciale di Catanzaro e poi alla Gran Corte della Vicaria di Napoli per reclamare i suoi diritti.

    Questo è quanto accadde. Nelle penose ore del lutto, Cecilia Faragò fu indotta con l’inganno a siglare un contratto col quale il figliolo appena estinto disponeva che tutte le sue proprietà – un cospicuo patrimonio di terreni lasciatogli in precedenza dal padre – andassero a un prete del posto.
    Non intenzionata a soccombere alla truffa che la avrebbe condannata a una vita di stenti, la Faragò si recò al Palazzo di Giustizia, riuscendo in un primo momento ad avere la meglio. Ma i due prelati, bramosi di non mollare gli averi della vedova, non si diedero per vinti. Facendo leva sul loro ruolo e potere sociale, presero a far circolare delle voci per macchiare la reputazione della donna e mettere in dubbio la sua credibilità, colpendola sul lato morale quanto su quello economico.

    «È alleata del diavolo dagli oscuri poteri. […] È stata iddha, è andata alla stregheria e ha fatto la magarìa, quella della polvere della morte: Purbara ’e mortu ti veni a pigghiara, ti vegnu a jettara e fin’a ra morta ti vogghiu levara».

    Le accuse a Cecilia Faragò e il suo storico processo

    In buona sostanza, i preti diffusero la voce che Cecilia Faragò non fosse una banale erborista, ma una magara, una lucifera, una pericolosa fattucchiera. Insinuarono che, a causa dei suoi dissapori con l’avido clero locale, avesse già cagionato il malore e poi il decesso di un sacerdote, Antonio Ferrajolo – morto per cause non accertate –, ricorrendo ai suoi misteriosi intrugli e incantesimi. Un castello di accuse costruito sulle fondamenta del pregiudizio e della superstizione, ma tutt’altro che fragili in certi contesti sociali, lontani dai luccichii della ragione. E così nessuno più si recò dalla Faragò, tacciata di essere capace di produrre filtri d’amore e magarìe d’ogni sorta. Nessuno acquistò più i suoi oli profumati, i suoi infusi e unguenti di erbe, per paura di fare la fine del Ferrajolo.

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    Una statua in memoria di Cecilia Faragò

    Presto incarcerata, la presunta strega dimostrò un coraggio e una tenacia invidiabili. Conscia dell’ingiustizia riservatale e dei propri diritti nonostante la totale assenza di studi, affidò la sua difesa a un giovanissimo avvocato, il ventenne Giuseppe Raffaelli, che con una brillante arringa dimostrò l’inesistenza della stregoneria (la perorazione è raccolta da Mario Casaburi nel libro La fattucchiera Cecilia Faragò. L’ultimo processo di stregoneria e l’appassionata difensiva di Giuseppe Raffaelli). Il legale convinse la corte della innocenza della sua assistita e, allo stesso tempo, della cupidigia dei due reverendi artefici di quelle ignobili calunnie.

    La stregoneria non è reato

    L’affaire Faragò valicò presto i confini del paesello del Catanzarese e conquistò una notevole eco. Diede così occasione al re di Napoli Ferdinando di Borbone di abolire per sempre il reato di stregoneria e fattucchieria, una scelta sapiente che presto adottarono altri Paesi del Vecchio Continente.
    Il finale della vicenda di Cecilia Faragò ha un sapore agrodolce. Prosciolta pienamente dall’accusa di maleficium, la donna non riuscì comunque a rimettere le mani su tutto il suo legittimo patrimonio e si spense in povertà. Innalzò però se stessa a icona di resistenza contro le violenze e le sopraffazioni, emblema di indipendenza e di emancipazione femminile, paladina di ogni donna costretta a nascondersi dietro una posizione non scelta ma assegnatole forzatamente dalla società.

    Cecilia Faragò: quando l’arte vince l’oblio

    La sua storia di coraggio e di difesa della propria libertà ha ispirato libri e monologhi teatrali, riscoperta dalle arti dopo secoli di oblio. Per lunghissimo tempo, infatti, la faccenda Faragò è stata un tabù, «una ferita irrisolta per la comunità» scrive Emanuela Bianchi, attrice, fondatrice nel 2004 della compagnia teatrale Confine incerto e autrice dello spettacolo teatrale LaMagara e del libro L’ultima strega (Oligo, da cui sono tratte le citazioni del presente testo), anche nel luogo in cui si svolsero gli avvenimenti, Soveria Simeri.

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    Uno scatto dallo spettacolo “LaMagara”

    Finalmente riemersa, la storia di Cecilia Faragò è stata anche oggetto di tesi di laurea, in specie di studenti delle facoltà di Giurisprudenza e di Scienze della comunicazione.
    Di Cecilia Faragò, infine, dal 2001 porta il nome un parco pubblico a Soveria Simeri, comune in cui da qualche anno si svolge una rievocazione storica che coinvolge molti giovani volontari del paese, artigiani, musicisti e ballerini folk e un po’ l’intera popolazione. La storia di una comunità illuminata che si riappropria di un pezzo della propria memoria, che restituisce la voce a una sua figura storica: «la voce di un passato che bussa alle nostre mura, fino a sgretolarle».

  • L’albero, gli uomini e il sacro: la Pita e il simbolo della rinascita

    L’albero, gli uomini e il sacro: la Pita e il simbolo della rinascita

    Nel cuore del Pollino, dove il vento trasporta echi di un passato remoto, sorge Alessandria del Carretto, un paese sospeso a mille metri d’altezza, al confine tra Calabria e Basilicata. Qui, ogni primavera, si rinnova un rito che trascende la celebrazione: la Festa della Pitë, un’antica tradizione arborea che intreccia la comunità al suo patrono, Sant’Alessandro, e alla natura circostante. Per oltre tre decenni, ho documentato questo evento come documentarista, con la macchina da presa come strumento di osservazione e dialogo. Il risultato è stato L’Albero, il Santo e i Dimenticati, un film realizzato insieme ad Agostino Conforti che rende omaggio a Vittorio De Seta e alla resistenza di un paese che, nonostante lo spopolamento, si riunisce attorno a un albero per riaffermare la propria identità. Questo scritto esplora il significato della Pitë, il suo contesto storico e sociale, e il processo creativo dietro il film, offrendo uno sguardo sulla memoria di una comunità al confine tra tradizione e oblio.

    Uno scorcio dei Alessandria del Carretto

    Un paese al confine dell’oblio

    La mia prima visita ad Alessandria del Carretto risale ai primi anni ‘90, quando, giovane studente di Storia tradizioni popolari, fui attratto dai riti arborei del Mediterraneo. Il nome del paese, isolato sulle pendici del Pollino, evocava un’eco di pratiche arcaiche. All’epoca, Alessandria era già segnata dall’emigrazione, con i vicoli deserti e le case abbandonate, un’immagine che richiamava I Dimenticati (1959) di Vittorio De Seta. Quel cortometraggio, scoperto in una sala polverosa, non era solo un documento etnografico, ma una denuncia poetica dell’isolamento del Sud rurale, dove la Festa dell’Abete rappresentava un raro momento di coesione. Ispirato da De Seta, scelsi Alessandria del Carretto come mio laboratorio etnografico, deciso a comprendere cosa spingesse una comunità demograficamente impoverita a perpetuare un rito tanto complesso. Negli anni, ho assistito a un paese in trasformazione. Se nel 1959 l’isolamento era fisico, privo di una strada, oggi è demografico e culturale. La popolazione si è ridotta a poche centinaia di anime, ma ogni ultima domenica di aprile si rianima. La Pitë, un abete bianco scelto nei boschi di Terranova del Pollino, diventa il fulcro di un rito che riunisce residenti, emigrati e, sempre più, visitatori esterni. Questo evento non è solo una festa, ma un atto di resistenza culturale contro l’omologazione e l’oblio.

    La Pitë: un rito di unione e rinascita

    La Festa della Pitë è un rito collettivo che si svolge tra l’ultima domenica di aprile e il 3 maggio, giorno di Sant’Alessandro. Il rito si articola in fasi distinte, ciascuna densa di significato simbolico. Il primo atto è la selezione dell’albero: un abete bianco, alto e diritto, offerto dalla comunità di Terranova del Pollino in un gesto di solidarietà montana. Il taglio, eseguito dai “mastri d’ascia” con gesti rituali, è accompagnato da zampogne e organetti, in un’atmosfera di sacralità. Segue il trasporto, un’impresa epica in cui il tronco, lungo circa venti metri, e la cima dell’abete sono trascinati a braccia attraverso sentieri impervi. Uomini di ogni età, guidati da un “comandante” che impartisce ordini dal tronco, si coordinano con una sincronia quasi coreografica.

    Dalla fatica alla festa: i canti, i balli, i banchetti

    Lungo il percorso, banchetti, canti e balli trasformano la fatica in festa, rafforzando cosi il senso di comunità. Il culmine arriva il 3 maggio in piazza San Vincenzo, dove il tronco e la  cima vengono ricongiunti in un “matrimonio” simbolico. La cima, adornata con prodotti locali, oscilla al ritmo della musica, mentre uno zampognaro suona tra i rami. Con funi di prugno selvatico e uno sforzo collettivo, la Pitë viene innalzata, qualcuno preferisce “eretta”, diventando un albero della cuccagna. I più audaci si arrampicano per conquistare i premi appesi, in un gesto che richiama antichi riti di passaggio. Ricordo tanti giovani degli anni Novanta, che scalavano l’albero tra gli applausi, incarnando l’unione tra uomo e natura.

    La Pitë non è solo un evento “folkloristico”, ma un rito di rinascita con radici in culti forse pagani, come quelli di Attis e Cibele, dove l’albero simboleggia morte e resurrezione. È anche un atto di coesione sociale: in un contesto di spopolamento, il rito riafferma l’appartenenza, richiamando gli emigrati e integrando i visitatori, oggi indispensabili per la sua realizzazione.

    Trent’anni di cambiamenti

    In tre decenni, Alessandria del Carretto si è trasformata. La popolazione è drasticamente diminuita, e il paese appare sempre più un guscio vuoto. Tuttavia, la Pitë si evolve, riflettendo nuove dinamiche sociali. Un tempo prerogativa maschile, il rito vede oggi la partecipazione attiva delle donne, che trasportano, cantano e, in alcuni casi, scalano l’albero. I visitatori, un tempo estranei, sono ora accolti come parte integrante, un segno di apertura dettato anche dalla necessità. Questi cambiamenti non indeboliscono il rito, ma ne testimoniano la vitalità, capace di adattarsi senza perdere la propria essenza.

    Come documentarista, ho cercato di decifrare il significato profondo della Pitë. Credo che il rito incarni un duplice scopo: celebrare il ciclo primaverile della natura e riaffermare l’identità di una comunità minacciata dall’oblio. In un mondo globalizzato, Alessandria del Carretto si aggrappa alla Pitë come a un ancoraggio culturale, un momento in cui il paese si riscopre vivo e unito.

    Il film: un dialogo con De Seta

    Dopo anni di osservazioni e riprese, ho sentito l’esigenza di sintetizzare questa esperienza in un lavoro cinematografico di osservazione che oggi voglio condividere con voi lettori de I calabresi. L’Albero, il Santo e i Dimenticati è un documentario che rende omaggio a Vittorio De Seta, ma con uno sguardo contemporaneo. Come De Seta, ho adottato un approccio di “cinema di osservazione”, privilegiando le immagini e i suoni del rito – il crepitio dell’abete, le zampogne, le grida della folla – senza commenti didascalici. Il film alterna sequenze del rito (taglio, trasporto, innalzamento) ai volti degli anziani, che narrano storie di emigrazione, e ai giovani, che tornano per scalare la Pitë.

    Se De Seta denunciava l’isolamento fisico di questo paese, io ho voluto esplorare un isolamento più sottile, demografico e culturale. Nonostante la strada abbia raggiunto Alessandria del Carretto, il paese rimane “dimenticato” in un Sud che fatica a trattenere i suoi abitanti. Eppure, la Pitë rimane un faro, un momento di riscatto collettivo. Nel film, ho cercato di preservare la memoria del rito, rendendo omaggio alla bellezza e alla durezza di Alessandria.

    Un futuro sospeso

    Oggi, Alessandria del Carretto è più vuota che mai, ma la Pitë continua a essere celebrata, un atto di ostinazione che sfida le previsioni. Mi chiedo quanto potrà durare questo miracolo. La comunità si assottiglia, ma il rito sembra dotato di una forza autonoma, capace di richiamare anche chi vive lontano. Come l’abete, abbattuto e poi “risorto” nella festa successiva, Alessandria potrebbe trovare il modo di rigenerarsi.

    Un documentario che è un testamento etnografico

    L’albero, il santo e i dimenticati, non è solo un film, ma un testamento etnografico. È il mio tentativo di preservare la memoria di un rito e di un paese che, come ammoniva De Seta, rischia di svanire. Spero che questo lavoro possa trasmettere il richiamo del Pollino, il profumo dell’abete e il calore di una comunità che, attorno a un albero, continua a resistere.

  • Il giudice e il condannato: un libro sulla inutilità dell’ergastolo

    Il giudice e il condannato: un libro sulla inutilità dell’ergastolo

    Un “singolare incrocio di traiettorie” quello tra Elvio Fassone, magistrato di Torino e Salvatore (nome di fantasia), giovane capo della mafia catanese. Un incrocio di vite che Fassone stesso racconta nel suo libro “Fine pena: ora”, edito da Sellerio. Una singolarità dettata soprattutto dalla natura del loro incontro e dal risvolto inaspettato sorto dalla loro relazione.

    Un dialogo inaspettato

    Salvatore viene condannato all’ergastolo all’età di 27 anni alla fine degli anni ‘80 e attraverso la narrazione della sua detenzione, Fassone ci offre uno spiraglio da cui guardare il mondo carcerario, con tutti i suoi drammi e regole proprie di un’istituzione totale: racconta la storia di uno, ma descrive la condizione di molti. E il fulcro di questa narrazione è la loro corrispondenza.

    Il libro del magistrato Elvio Fassone,

    Questo è uno degli elementi che rendono unico il punto di vista narrativo, perché sebbene chiunque possa e debba interrogarsi su utilità e moralità dell’ergastolo, quando la critica (o autocritica) viene posta da un giudice che vive in prima persona il sistema penale e infligge quella stessa pena, la prospettiva è necessariamente diversa. Se poi quel giudice ha anche la possibilità, rara e inattesa, di entrare in relazione con l’ergastolano appena condannato, il quadro cambia ulteriormente.

    Una pluralità di caratteristiche  spesso intrecciate con le vicende di cronaca degli anni ’90. Il processo di Falcone e Borsellino, le stragi del 1992, e in seguito la risposta durissima da parte dello stato produrranno un effetto a cascata che si ripercuoterà anche su Salvatore e la sua detenzione, poiché se egli non fosse stato condannato anche per associazione mafiosa, molto della sua vita in carcere, e di conseguenza del racconto di Fassone, sarebbe andato diversamente.

    Dal giorno della condanna uno scambio epistolare durato trent’anni

    Al momento della condanna nessuno dei due può immaginare la piega che prenderanno gli eventi, né la costanza con cui si accompagneranno a vicenda durante gli anni. Spedendogli la prima lettera, Fassone non nutre alcuna aspettativa, anzi si sente inopportuno, inadeguato. Salvatore invece lo sorprende, come accadrà più volte nel corso della loro corrispondenza e non solo lo ringrazia, lui che di libri non ne ha mai letti, ma gli rivolge parole gentili, genuine, potentissime nella loro semplicità.

    Chiude la lettera in questo modo: “Presidente, io lo so che lei mi ha dato l’ergastolo perché così dice la legge, ma lei nel suo cuore non me lo voleva dare.” (pag. 57). Fassone commenta queste parole parlando di assoluzione, come se i ruoli di vittima e carnefice fossero invertiti e qui si scorge un lieve senso di colpa. In questo caso rivolto a Salvatore, ma forse più in generale nei confronti di una pena di cui non riesce a darsi pace.

    L’ergastolo ostativo che uccide come la pena di morte

    Molte sono le parole che l’autore spende riguardo l’ergastolo, compreso quello ostativo, azzardando un efficace paragone con la pena di morte. Forse non sono la stessa cosa dal punto di vista materiale, ma condividono aspetti drammatici: il detenuto sa che una piena reintegrazione nella società non avverrà mai e tutte le vite che egli avrebbe potuto vivere diventano solo immaginabili. In altre parole, muoiono. E forse muore un po’ anche lui, perché il carcere non punisce solo le azioni sbagliate, ma la persona nella sua totalità, e così facendo rischia di uccidere tutto ciò che di buono vive e resiste ancora, nonostante tutto.

    Salvatore è stato condannato all’ergastolo e nel momento in cui ciò è accaduto, ha smesso di essere qualunque altra cosa: condannato per i suoi omicidi, è condannato a essere un omicida per il resto della sua vita. E questo rappresenta il più grande fallimento del sistema penale.

    Una scena della riduzione teatrale del libro di Fassone

    “Fine pena: ora” contribuisce a far accrescere il sentimento di indignazione verso questo sistema. Contraddittorio, a tratti crudele, è un mondo pervaso dall’aridità della burocrazia, che invece di semplificare il lavoro diventa uno strumento per disumanizzare le persone. Persone a cui solitamente non viene concessa alcuna compassione o empatia. Sembra assurdo empatizzare con un assassino, eppure succede ed è necessario, perché al di là delle sue azioni, e andando oltre tutti i discorsi morali sulla pena, quell’assassino resta una persona. E ha il diritto di essere considerato tale, ha il diritto di scontare una pena adeguata.

    Il carcere, la sua brutalità e il cambiamento delle persone

    Non si intende negare la colpa o le azioni del detenuto: è chiaro che le cose non capitano e basta, bisogna anche scegliersele. Ma anche di fronte a un uomo che forse ha sbagliato tutto nella vita, come si può non guardare al suo desiderio di cambiamento? Crescita personale, buona volontà, non sono forse importanti? Nella società attuale probabilmente non hanno la stessa forza della paura e della vendetta. Fassone si oppone alle motivazioni, per quanto condivisibili, che hanno portato all’ergastolo ostativo: la violenza genera altra violenza, così scrive nel libro. E a modo suo lo intuisce anche Salvatore, che del carcere vive tutta la brutalità. Non solo quella materiale, ma anche quella meno tangibile dello scorrere del tempo.

    Questo richiama un altro tema fondamentale del libro. Se il rapporto tra Fassone e Salvatore è il perno dell’opera, c’è tuttavia un filo conduttore che accompagna ogni capitolo, e ne traccia la forma circolare: il libro si apre e si chiude con il tentato suicidio di Salvatore. Con grande sensibilità Fassone riesce a tenere tutta la vicenda assieme, ed evidenziare come il tentativo di togliersi la vita in questo caso non sia semplicemente l’atto disperato di un uomo depresso.

    Sono circa 1250 i detenuti che scontano l’ergastolo ostativo

    Che nel carcere i suicidi siano un fenomeno drammatico e diffuso è un dato oggettivo. Le statistiche sono sconcertanti e tuttavia in parte comprensibili nonostante i limiti: non si conosce la realtà carceraria finché non la si vive, e non ci si può immedesimare sulla base dei racconti, né si pretende di capire le ragioni di un gesto che resta profondamente intimo e personale. Rinunciare alla propria vita è un’azione che sfugge a qualunque interpretazione troppo netta. Ciò che si può provare a fare è invece analizzare il contesto in cui il fenomeno avviene, chiedersi a cosa si riduce l’esistenza di una persona per convincerla che non abbia più valore.

    Le parole di Emily Dickinson per raccontare la resa

    Nel penultimo capitolo Fassone apre con un verso di Emily Dickinson: “E se dicessi che non aspetto più?”. Non sapremo mai se questa frase basti per racchiudere lo stato d’animo di Salvatore, probabilmente no, ma forse ne rispecchia il gesto. Quasi trent’anni di detenzione in condizioni precarie, con l’eterna promessa di benefici e permessi che spesso non gli sono mai giunti. E nel suo atto estremo forse troviamo la volontà di cancellare quel “fine pena: mai”, la terrificante data 31/12/9999, quella data che è un beffa, un tempo che non può esistere.

    Sono molti gli spunti di riflessioni contenuti del libro, e non è un dettaglio che, nonostante il forte contenuto giuridico, “Fine pena: ora” non è un saggio nel vero senso della parola. Fassone non scrive ai suoi colleghi, si rivolge a ognuno di noi e il messaggio è chiaro: l’unica via possibile, l’unica efficace, è ripartire dalle persone. L’umanità della presenza. Esserci, qui e ora, per non dimenticare e non abbandonare chi soffre, possa questa sofferenza appartenere a chi il dolore lo ha subito, o provocato.

    Mariaida Cicirelli

  • Un 25 Aprile con la guerra alle porte

    Un 25 Aprile con la guerra alle porte

     

     

    di Walter Nocito, docente di diritto costituzionale e pubblico Unical (Dispes)

    In una recente iniziativa organizzata dall’Anpi, dalla Cgil e dallo Spi-Cgil Calabria abbiamo avuto modo di ‘ricordare’ (nel senso etimologico della lingua latina, di “richiamare al cuore”) l’importanza che quest’anno assume l’anniversario degli 80 anni dalla Liberazione dal Nazifascismo in Italia e in Europa.

    La Liberazione è donna. Il contributo delle partigiane fu determinante

    “Richiamare al cuore” il 25 Aprile

    Lo abbiamo fatto in uno spazio dell’Università, nel principale Ateno della regione Calabria, volendo dare un senso complessivo della condizione presente alla Festa del 25 Aprile 2025, e volendo incontrare i giovani e gli studenti che nelle Università si formano e si avviano alla vita lavorativa e all’esercizio della cittadinanza sociale e politica. Come è stato scritto dagli organizzatori dell’evento, l’iniziativa è servita a “capire il passato e vivere questo tempo pretendendo l’esigibilità dei diritti sanciti dalla Carta Costituzionale”, ma è servita anche a invitare i giovani, e i meno giovani, a “ribellarsi a quella forma di revisionismo storico e di ritorno della violenza e dell’ideologia fascista che vorrebbe che il Fascismo fosse un’opinione e non un crimine”.

    L’impegno per la difesa dello Stato pluralista e democratico

    Nella iniziativa ho avuto modo di prendere la parola come “giurista democratico” e la cosa oggi non è affatto neutra, o scontata, come poteva esserlo alcuni anni fa, anche nel ventennio berlusconiano che ci siamo lasciati alle spalle (gli anni tra il 1994 e il 2013 in cui i Governi Berlusconi 1, 2 e 3 hanno palesato un rapporto problematico sia con il 25 Aprile sia con la Costituzione nata dalla Liberazione). Essere un “giurista democratico” non può non significare oggi – ancor di più che non nel ventennio berlusconiano – sostenere con il massimo rigore possibile una lotta per il diritto che debba puntare alla difesa dello Stato sociale di diritto inteso come Stato pluralista- democratico (agli effetti degli artt. 1-2-3-4-5 della Costituzione Italiana) e alla difesa della Unione Europea come soggetto sovranazionale che persegue la Pace nel mondo (agli effetti degli artt. 10 e 11 della Costituzione).

    L’educazione all’antifascismo e ai valori della democrazia devono partire dalla scuola e dalle università

    Il ruolo di chi svolge una funzione formativa nella società

    Chi scrive questa nota sugli 80 anni dalla Liberazione dal nazi-fascismo interpreta la funzione formativa (anche nelle Università) in questo preciso senso culturale e scientifico, per come, in sede di iniziativa, ha detto anche la collega intervenuta (la prof.ssa Donatella Loprieno docente anch’essa di diritto costituzionale e pubblico). Ragionando da giuristi democratici ci sono oggi (aprile del 2025), alcuni rilievi che non possono non essere evidenziati per segnalare a chi abbia interesse lo “stato dell’arte” della democrazia costituzionale (italiana ed europea) dopo quasi 80 anni di esperienza repubblicana, avendo presente che tale lunga esperienza è nata – sotto il profilo costituzionale – con il Referendum del 2 giugno 1946 che è avvenuto in forza della Liberazione dell’aprile del 1945 ma anche in forza della fine della Seconda Guerra Mondiale che è fissato – sotto il profilo storico – nel 9 maggio dello stesso anno con la liberazione, ad opera della Armata Rossa, della Capitale del terzo Reich (occupata e poi divisa in due zone di influenza: Berlino est e Berlino ovest).

    Le crisi che assediano la Democrazia costituzionale

    Ragionando come giurista democratico, sono tre le situazioni di grave crisi che, al momento, debbo indicare a chi abbia interesse alla Democrazia Costituzionale intesa come parametro per agire con consapevolezza dei tempi e con senso della realtà (della “Costituzione materiale”): una prima crisi agisce al livello interno-costituzionale, una seconda sta agendo a livello sovranazionale-europeo, ed una terza agisce in forme sempre più pericolose ai livelli internazionali-globali. La prima è una crisi di natura propriamente costituzionale che sta producendo uno stress crescente rispetto alla tenuta dei principi fondamentali della costituzione come l’equilibrio dei poteri e la effettività delle garanzie delle libertà: la situazione probabilmente è ben nota a chi tra i lettori ama e difende in Italia – da anni – lo “Stato di diritto” (oggi sotto attacco), con i sui valori di libertà civile, di uguaglianza, di libertà collettive, di libertà politiche e di solidarietà costituzionale.

    Partigiani

    Le spinte disgregative e la fragilità dello stato dei diritti

    Sono epifenomeni della crisi costituzionale interna e del connesso stress: il conflitto tra esecutivo e magistratura, le spinte disgregative sottese alla autonomia regionale differenziata, le politiche per l’istruzione pubblica, i tagli al welfare, i condoni diffusi, le politiche deflattive sui salari, le scelte governative sul “Deep State”, le politiche della sicurezza oggi compendiate nel decreto legge “Piantedosi” per la sicurezza pubblica e la criminalizzazione del dissenso. Alla crisi costituzionale interna che tocca nei sui gangli vitali lo Stato italiano, in verità, da qualche anno si deve aggiungere una crisi di legittimazione e di operatività della UE (Unione europea a 27/28 Stati): una crisi del diritto europeo ma soprattutto della politica europea (e del relativo ceto politico di governo).

    L’inadeguatezza dell’Europa

    La UE e i suoi organi decisionali (Commissione e Consiglio, ma anche Parlamento), infatti, non stanno governando con adeguatezza, e mano ferma, le poli-crisi in corso, ed anzi stanno subendo con reazioni inerziali i cataclismi prodotti – in forme crescenti – dalla Internazionale nera trumpista sia all’interno dei paesi europei sia all’esterno della UE (negli Usa in particolare). Ne sono epifenomeni: il programma della Commissione Europea e la sua composizione (debole e ‘indecisa’), i rapporti UE-Nato irrisolti e certamente da rivedere con urgenza, il Modello sociale europeo e la Carta dei diritti fondamentali dei cittadini UE al momento in larga misura ineffettivi, le misure green new deal 2019-2021 e il loro ‘inceppamento’ tra Stati e Ue.

    Ma anche: la  politica energetica e quella commerciale europea in apnea, le misure di difesa comune e di finanziamento della sicurezza internazionale avanzate da parte della Presidente Von der Layen e sotto il profilo formale bocciate di recente dal Parlamento nelle sede della Commissione degli Affari Giuridici in riferimento alla procedura utilizzata dalla Von der Layen (che ha forzato l’art. 122 del Trattato Europeo del 2009).

    Ricordare la Liberazione in un mondo in guerra

    Alla crisi del diritto europeo e della politica europea, deve in terzo luogo aggiungersi un gravissimo evolversi della crisi del diritto internazionale e soprattutto della politica internazionale e dei rapporti tra gli Stati che sono le grandi e medie potenze tutte in fibrillazione (soprattutto nel versante asiatico, mediorientale e pacifico). I quadranti geopolitici internazionali sono, nel 2025, riguardati da profonde linee di conflitto (latente o manifesto che sia), che in oltre 50 focolai sono diventati veri e propri conflitti bellici (guerre civili, interstatali, di posizionamento.)

    Un gruppo di partigiani in azione

    Dal 1945 al 2025, in pratica, nei giorni della celebrazione degli 80 anni dalla liberazione dal Nazifascismo, la registrazione più urticante e più densa di problematiche concretamente (e prospetticamente) operative che dobbiamo fare, non può non riguardare che il diritto internazionale violato e depotenziato (il diritto bellico, umanitario, penale, commerciale, e ambientale) e soprattutto la politica internazionale e le sue sedi multilaterali di articolazione e di mediazione tra le volontà degli Stati (il sistema ONU in primis).

    Ne sono epifenomeni: la Corte Penale Internazionale (operativa in forza del Trattato di Roma) e la sua delegittimazione, lo scontro bellico tra Hamas e Israele nel quadrante mediorientale (con le reazione sproporzionata del “Israel Defense Forces-IDF”), le tensioni nel Mar della Cina, le vicende alterne dei protocolli di Kyoto in materia ambientale, il regime di conflitto bellico al confine tra Ucraina e Federazione Russa dal 2022 (melius dal 2014), la guerra dei dazi avviata dal governo americano nella primavera del 2025.

    Il colore rosso del fiore simboleggia da sempre il sangue versato e il coraggio dei partigiani che hanno combattuto per la libertà

    La Storia maestra dalla quale è necessario imparare

    Nella congiunzione tra storia, politica e diritto, celebrando il 25 Aprile 1945 e poi il 9 maggio 1945, credo – da giurista democratico – che tutti dobbiamo (in quanto cittadini, operatori delle istituzioni, dirigenti politici, lavoratori, giovani, studenti) aver ben presente i livelli dei problemi con i quali ci dobbiamo confrontare e ci dovremo confrontare, nel presente e nell’avvenire. La speranza che ci rimane è che non sia vera del tutto la citazione di Antonio Gramsci – celeberrima – con la quale si vuole chiedere questa nota: “L’illusione è la gramigna più tenace della coscienza collettiva: la storia insegna, ma non ha scolari”.

  • Vattienti, Calabria di sangue e Fede

    Vattienti, Calabria di sangue e Fede

    Sono le prime ore del Sabato Santo, e l’aria di Nocera Terinese, in questo piccolo paese della Calabria affacciato sul Tirreno, è densa di un silenzio che sembra vibrare. Il tempo pare sospeso, come se i secoli si fossero annodati in un eterno presente. Torno ogni anno, da quando ero uno studente universitario con un quaderno pieno di appunti e curiosità, attratto da una tradizione che non si può spiegare solo con le parole: il rito dei “vattienti”. È un viaggio che mi porta ogni volta a confrontarmi con qualcosa di antico, viscerale, che parla di religiosità e appartenenza.

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    Uno dei vattienti a Nocera Terinese in Calabria (foto Alfonso Bombini 2024)

    Venerdì Santo: l’odore del rosmarino e del sangue

    Il sole è sorto da poco quando, di solito, arrivo nella piazza centrale. Le strade strette, che si arrampicano, sono già animate da un brusio sommesso. Alcune donne, vestite di nero, si muovono come ombre verso la Chiesa dell’Annunziata, dove la statua lignea della Madonna Addolorata – la Pietà, come la chiamano qui – attende di essere portata in processione. È una scultura del Seicento, il volto della Vergine scavato dal dolore, il Cristo morto abbandonato sulle sue ginocchia. Ogni anno, guardarla mi genera un certo effetto.
    Mentre mi incammino verso una delle case ai margini del paese, sento un odore pungente: rosmarino bollito in una grande pentola, la “quadara”. Entro in un piccolo scantinato, accolto da un uomo, col quale diventeremo amici, uno dei “vattienti” di questa giornata. Il suo sguardo è un misto di determinazione e raccoglimento. «Lo faccio per mia madre, che ha ricevuto una grazia», mi dice, mentre si prepara. Indossa una maglia nera e pantaloncini corti, lasciando le gambe scoperte. Sul capo, un panno nero, il “mannile”, fermato da una corona di spine fatte di “sparacogna”, l’asparago selvatico che punge la pelle. Accanto a lui, un ragazzino, il suo “acciomu” – l’Ecce Homo – avvolto in un panno rosso, con una croce di canne sulle spalle. Sono legati da una cordicella, simbolo di un cammino condiviso.

    Vattienti, un rito collettivo di Calabria

    Mi mostra i suoi strumenti: la “rosa”, un disco di sughero liscio, e il “cardo”, un altro disco con tredici frammenti di vetro incastonati, che rappresentano Cristo e i dodici apostoli. «Prima riscaldo la pelle con la rosa» – spiega, «poi colpisco con il cardo. Non è solo dolore, è un’offerta». Lo guardo immergere le mani nell’acqua bollente al rosmarino, massaggiarsi i polpacci per far affluire il sangue. C’è qualcosa di sacro in questo gesto, ma anche di profondamente umano, quasi primitivo.
    Fuori, la processione sta iniziando. La banda di Amantea suona la “Jona”, una marcia funebre che sembra scavare nell’anima. La Madonna Addolorata avanza lenta, portata a spalle da uomini in camice bianco, anche loro con corone di spine. Improvvisamente, il mio amico “vattiente” esce dal suo scantinato. Si batte le gambe con la rosa, poi con il cardo. Il sangue schizza, macchia il selciato, si mescola all’odore del vino che un amico gli versa sulle ferite per disinfettarle e tenerle aperte. Poi alza lo sguardo e incrocia quello dell’anziana madre che lo segue dalla finestra di casa. È un’immagine cruda, che potrebbe turbare, ma qui nessuno si volta dall’altra parte. È un rito collettivo, condiviso e controllato. Mi unisco alla folla, seguendo mio amico che si muove per le vie del paese correndo, fermandosi davanti alle case dei parenti, alle edicole sacre, al passaggio della Madonna. Ogni colpo è un atto di devozione, forse. Ogni goccia di sangue un dialogo con il divino, forse.

    La processione della Madonna a Nocera Terinese durante il Sabato Santo (foto Alfonso Bombini 2024)

    Vattienti Calabria: la processione infinita

    La processione della Madonna, lunga, solenne, si snoda fino al convento dei Cappuccini, in cima a una salita ripida che ti tira i polpacci e ti fa venire l’affanno. Oggi i “vattienti” sono più numerosi, forse ottanta, cento, come mi racconta un giovane studente, aspirante antropologo, che incontro lungo la strada. «Non è solo religione», mi dice, «è identità, (ma che cosa è l’identità? Penso io). Qui il sangue è vita, rinascita, un legame con la terra e con la comunità». Annuisco, pensando a quante volte ho cercato di decifrare questo mistero senza riuscirci del tutto.
    Seguo un altro “vattiente”, che si batte con una forza che sembra trascenderlo. Il suo “acciomu”, questa volta è un bambino di appena dodici anni, lo segue con occhi pieni di rispetto. Quando incrociano la statua della Madonna, il flagellante si inginocchia, colpisce le cosce con più vigore, il sangue scorre copioso. La folla tace, la banda si ferma. È un momento di sospensione, come se il “dolore” del “vattiente” e quello della Madre si fondessero.
    Le ore passano, e la processione sembra non finire mai. Le strade di Nocera sono segnate da strisce rosse, il sangue dei protagonisti di questa giornata, si mescola alla polvere. Eppure, non c’è caos, solo un ordine antico, regolato da una tradizione che resiste nonostante i divieti del passato, le critiche di chi lo considera barbaro, le ordinanze sanitarie recenti, quando il rito rischiò di essere sospeso per questioni igieniche, legato a una pandemia. La comunità si ribellò, raccolse firme, trovò un compromesso. «Non è solo un rito», mi disse allora un anziano del paese: «Questi siamo noi».

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    Vattienti a Nocera Terinese (foto Alfonso Bombini 2024)

    Vattienti Calabria, una tradizione che non si piega

    Quando la processione termina, nel tardo pomeriggio, la Madonna rientra molto lentamente nella Chiesa dell’Annunziata, gremita di gente. I “vattienti” si lavano le ferite con l’infuso di rosmarino, si rivestono, tornano alle loro vite. Io resto lì, seduto su un muretto, a guardare il tramonto che incendia il Tirreno. Ogni anno, da quando ero studente, mi chiedo cosa mi spinga a tornare. Non lo so. Forse è la forza di una tradizione che non si piega, che sfida il tempo e le convenzioni. O forse è il bisogno di toccare qualcosa di autentico, che non si nasconde dietro filtri o ipocrisie. Mi piace filmarlo, questo rito. Cerco sempre di scorgere sequenze nuove, inedite. Forse è per questo che ci ritorno ogni anno.

    I “vattienti” di Nocera Terinese non sono solo un rito pasquale. Sono un grido, un’offerta, una storia scritta col sangue. E io, ogni volta, mi sento un po’ più vicino per capirla, anche se so che non la afferrerò mai del tutto. Mentre lascio il paese, con il suono della “Jona” ancora nelle orecchie, so già che tornerò l’anno prossimo, per perdermi ancora in questo viaggio tra religiosità popolare e mistero.

  • Persefoni a Bova, il rito continua a dirci chi siamo

    Persefoni a Bova, il rito continua a dirci chi siamo

    Vent’anni fa, nei primi anni 2000, ho percorso i sentieri tortuosi dell’Aspromonte con una videocamera in spalla, in compagnia di Ottavio Cavalcanti e Rosario Chimirri. Eravamo lì per un documentario di osservazione, un progetto di ricerca che ci aveva portati a Bova, un paese della Calabria grecanica aggrappato alla roccia, per immergerci in un rito antico e misterioso: la processione delle “Persefoni” della Domenica delle Palme. Non cercavamo solo immagini, ma il significato profondo di una tradizione che intreccia mito, natura e cultura, in un luogo dove il tempo sembra scorrere più lento.

    Persefoni, Bova ci accolse col suo silenzio solenne

    Bova ci accolse con il suo silenzio solenne, rotto solo dal fruscio del vento e dal suono lontano delle campane. Le stradine lastricate, le case di pietra e l’odore di ulivo ci avvolsero mentre preparavamo le nostre attrezzature. La Domenica delle Palme era vicina, e il paese si animava di un’energia collettiva: uomini, donne, bambini, tutti al lavoro per costruire le “Persefoni”, figure antropomorfe fatte di canne selvatiche, foglie di ulivo, fiori di campo e frutti di stagione. Ricordo le mani abili di un’anziana che intrecciava le stiddh, raccontandoci come sua madre le avesse insegnato quel gesto quando era bambina. Ottavio Cavalcanti, con il suo sguardo da antropologo, annotava ogni dettaglio, mentre Rosario, osservava abitazioni, slarghi e stradine, mentre catturava il suono delle risate e dei canti che accompagnavano il lavoro.

    Simboli potenti e carichi di storia

    Ci si soffermava a parlare con i più giovani, curiosi di capire se sentivano ancora loro quel rito. Le “Persefoni” non erano semplici decorazioni. Erano simboli potenti, carichi di storia. Durante le riprese, abbiamo cercato di coglierne ogni sfumatura: le “madri”, più grandi e imponenti, e le “figlie”, delicate e ornate di nastri colorati, sembravano raccontare il ciclo della vita, la fertilità della terra, il passaggio delle stagioni. I bergamotti, le fave, i mandarini e le piccole forme di formaggio chiamate musulupe che le adornavano erano un’esplosione di colori e profumi. Mentre filmavamo la processione, dalla Chiesa dello Spirito Santo al sagrato di San Leo, sentivo che stavamo assistendo a qualcosa di più grande: un dialogo tra passato e presente, tra cristianesimo e culti precristiani, tra l’uomo e la natura.

    Bova, nel cuore della Calabria grecanica

    Una Calabria che già portava i segni dello spopolamento

    Le ipotesi di studiosi che collegavano le “Pupazze” al mito di Persefone e Demetra, prendevano vita davanti ai nostri occhi. Non tutto era idilliaco. La Calabria che stavamo documentando portava i segni dello spopolamento e dell’abbandono. A Bova, molti giovani erano già partiti in cerca di un futuro altrove, e gli anziani parlavano di un tempo in cui il paese era più vivo. Una donna, mentre smembrava una “Persefone” per distribuire le steddhe benedette, ci raccontò di come quelle foglie di ulivo fossero un talismano: le avrebbe messe sugli alberi del suo podere, sperando in un buon raccolto. In quel gesto c’era una fede profonda, non solo religiosa, ma legata alla terra e alla sopravvivenza. La mia macchina da presa si soffermava su questi momenti, cercando di catturare non solo la bellezza, ma anche la fragilità di una comunità che si aggrappava alle sue radici.

    Persefoni, la magia di Bova

    Girare quel documentario era un lavoro lento, quasi rituale. La luce non sempre collaborava, e le vecchie videocamere a volte ci tradivano. Eppure, c’era una magia in quel processo. La sera, riuniti in una piccola stanza del paese, rivedevamo il girato, discutendo di come montare le immagini per rispettare la complessità di ciò che stavamo vedendo. Oggi, ripensando a quei giorni, capisco quanto quel viaggio a Bova abbia segnato il mio modo di guardare il mondo. Le “Persefoni” non erano solo un soggetto da filmare, ma una porta verso un universo di significati: la Dea Madre, la rinascita primaverile, la forza di una comunità che, nonostante le difficoltà, continuava a celebrare la vita.

    Il rischio di trasformare tutto in folklore

    La Calabria grecanica di allora è cambiata – il turismo è cresciuto, i laboratori per insegnare l’arte delle “Pupazze” sono un segno di speranza – ma il rischio di trasformarle in folklore per visitatori è sempre presente. Eppure, so che a Bova, ogni Domenica delle Palme, quel rito continua a parlare di chi siamo stati e di chi potremmo essere. Il nostro documentario, forse mai completato come avremmo voluto, è un frammento di quella storia. Ma le immagini di quelle figure danzanti tra le vie del paese, sotto un cielo di primavera, restano vive nella mia memoria, come un invito a non dimenticare.