Categoria: Cultura

  • IN FONDO A SUD | Calabria: l’audace colpo dei soliti voti

    IN FONDO A SUD | Calabria: l’audace colpo dei soliti voti

    C’è quel brano di Alvaro, divenuto col tempo un comodo luogo comune, che dice che la Calabria e i calabresi hanno bisogno di essere parlati: «il calabrese “vuole essere parlato”. Bisogna parlargli come a un uomo che ha sentimenti, doveri, bisogni, affetti: insomma, come a un uomo». Poi ce ne sarebbe un altro, in cui lo stesso Alvaro immagina che: «Di qui a cinquant’anni, se ai moti esteriori della civiltà risponderanno quelli interiori, la regione sarà una regione totalmente cambiata».

    A elezioni regionali 2021 chiuse si può dire che a distanza di quasi un secolo da queste osservazioni che identificavano l’idealtypus dell’escluso calabrese da romanzo verista, rovesciando lo stereotipo alvariano, oggi i calabresi per parlare parlano (e non poco). Ma di sicuro non hanno ancora imparato a cambiare, o non vogliono proprio che nulla cambi nella loro regione.

    Nulla è cambiato

    All’indomani del fatidico voto, presentato da più parti come una sorta di ultima spiaggia, un redde rationem per la politica della Calabria e dei calabresi per i prossimi cinque anni, rispetto a prima del voto, infatti nulla, ma proprio nulla, è cambiato. La Calabria ha scelto il proprio futuro. E ha scelto Occhiuto, con gli stessi consensi che andarono alla Santelli. Forza Italia, caso unico in Italia guida di nuovo la Calabria come trent’anni fa. La Bruni e il centro-sinistra a guida Pd è di nuovo l’alternativa principale, come da quando è nata la Regione.

    L’astensionismo cresce

    Il numero percentuale dei votanti in una Calabria che perde costantemente elettori interessati al voto con lo stesso ritmo con cui la gente emigra e abbandona paesi e città, è sceso persino più in basso di quello di gennaio 2020. Siamo al 43%. Molti dei calabresi residenti altrove e all’estero, ma anche in Calabria, sono rimasti a casa. Il non voto continua a crescere.

    Azzoppato Lucano dopo l’abnorme sentenza di condanna, bandiera delle opposizioni antisistema, neanche la consolazione di vederlo eletto. Lo straniero Luigi de Magistris, capo della coalizione civica, avversato dal centrosinistra ufficiale, pur respinto dal voto popolare, fa con le sue liste un 16% di voti. Che equivale a circa 127mila calabresi che hanno immaginato e creduto in uno strappo risolutivo alla continuità del sistema. Pochi, troppo pochi. Ma non una frazione insignificante.

    Segnali di resistenza

    A Cosenza, città che votava anche per il Comune, De Magistris ha superato il 30%, battendo la Bruni e limitando il distacco da Occhiuto a circa il 13%. Risultato, due consiglieri regionali eletti in Consiglio, e con l’introduzione della preferenza di genere, nello schieramento DeMa Anna Falcone tra le donne ottiene diversi consensi. A Rende, il comune dell’Università della Calabria, de Magistris sta al 33% dei voti. Segno che le aree urbane, con quel poco di opinione pubblica che la Calabria libera riesce ancora a mettere in campo, rappresentano forse le ultime sacche di resistenza alla politica del malgoverno e del malaffare, un argine residuo allo strapotere della corruzione e delle mafie. Non sono, credo, segnali da sottovalutare.

    La rivoluzione eternamente rimandata

    Ma il cambio di rotta, la discontinuità, la rinascita civica, i diritti di cittadinanza, la rottura del sistema, la “rivoluzione”? Sarà per la prossima volta. Per i calabresi il cambiamento vero non è cosa necessaria. Anzi, è un trauma, un salto nel vuoto da scongiurare. Accade nonostante il buco nero della sanità, l’occupazione azzerata, l’emorragia continua dei giovani, i paesi che si spopolano, lo strapotere dei gruppi criminali e l’inanità di una classe dirigente da terzo mondo e incapace di farne una buona. Tranquilli tutti. Per i calabresi va benissimo continuare così.

    Il sistema è salvo

    Il malcostume politico, l’impianto inveterato delle clientele, l’assistenzialismo, la dipendenza parassitaria, il consociativismo e lo scambio orizzontale “cazzi mei/cazzi tuoi”: il sistema è salvo ed è anzi più saldo che mai. Altro che opinione pubblica libera e fluida, altro che cittadini attivi e consapevoli come vorrebbe la moderna politica post-ideologica.
    Le vecchie clientele in Calabria sono ancora oggi il nucleo pesante del sistema di potere. Sono fortezze inespugnabili, formano una sorta di enclave etnica, in cui i bisogni fondamentali e la vita quotidiana dei gruppi sociali sono scanditi con metodo orwelliano, ottenendo per chi ci sa fare consensi duraturi e serene carriere da politico di lungo corso.

    Chiedere favori invece che reclamare diritti, inginocchiarsi per ottenere privilegi e grazie, è ancora oggi una cosa normale in una terra in cui la libertà è ritenuta un lusso per pochi. E la gente continua a sottomettersi a scelte, comportamenti e simboli che dilatano lo spazio del silenzio complice dell’obbedienza, con le prassi e i riti di un potere vetusto e prepolitico.

    Lontani anni luce

    Un recente sondaggio pre-elettorale aveva dimostrato che su un significativo campione di elettori, solo pochi cittadini calabresi avevano manifestato liberamente le loro intenzioni di voto. Insomma neanche davanti ai test impersonali di internet e dei social i calabresi si sbottonano, non si dichiarano, temono. Restiamo lontani anni luce dalla fluidità ideologica del mondo post-industriale e delle libertà del post moderno. Eterogenei al laicismo e alla mobilità che contraddistinguono altri campioni di popolazione italiana nei confronti delle risorse civili della politica e della partecipazione democratica.

    Ma nonostante l’abbarbicamento al passato, anche in questo perdurante panorama di conservazione, alcuni profili cambiano. Non solo nell’elettorato. Anche la politica politicante si mostra capace di stare al passo con le tendenze, e a modo suo in sintonia coi tempi. Si profila anche in Calabria una figura ibrida di politico (aspirante o in carriera, il modello è il medesimo): una sorta di populista iper-presenzialista, ruzzante e rampante. Personaggi che si pongono tra l’olocrate arruffapopolo e l’influencer della porta accanto. Sempre presenti sui social e nelle piazze virtuali, come “uno di noi”.

    Lamentele e azioni

    È l’olocrazia della governance alla plebea, la fenomenologia del politico pop che si fa vedere allo stadio con la sciarpa della squadra di casa, che addenta un panino nella calca di una sagra di paese, quello che incontri per strada e a cui si dà populisticamente del tu. È l’olocrazia dei Cicc’ dei Nanà, dei Pinuzz’, dei Maruzz’, dei Carlett’, dei Totonn’. Mestieranti, ingegni modesti, macchiette da strapaese. Che però una volta sbalzati oltre il proscenio social mettono le mani sul potere vero, quello della politica che decide, e che poi pesa per anni sul groppone di una Calabria che soffre e si lamenta. Si lamenta sì, ma non agisce.

    Un casting sui generis

    In Calabria il casting senza fine che approvvigiona il ceto della politica dice che oltre ai soliti inossidabili mestieranti che hanno fatto il giro delle sette chiese (e sono sempre lì incollati alle poltrone e agli ambiti scranni con annesse prebende garantite da un posto nel parlamentino regionale), a fare la fortuna di un carneade debuttante non può bastare un profilo da influencer politico di mediocrissimo calibro strapaesano. L’empireo degli ottimati tra i politici regionali non può essere raggiunto senza certe requisiti di qualità che fanno potere e consenso. Come aver amministrato un comune, diretto un’ASP, o avere alle spalle una professione di quelle che la politica trasforma in fonti di clientele e di varie utilità.

    La politica come risorsa

    Vale però tanto per debuttanti che per i politici di lungo corso, prima che per i loro elettori, un principio di ferro: che la politica è e resta per loro una risorsa. Un ascensore sociale. Per arricchimenti, carriere, vite comode. Un’occasione quindi da non perdere. Perciò si battano i territori con i vecchi strumenti del galoppinaggio di buona tradizione calabra: il clientelismo, le promesse di lavoro, i voti contati casa per casa, con la spesa fatta nel supermarket di riferimento. Perché in Calabria c’è chi, tra gli elettori, il voto lo esce solo all’ultimo momento. C’è chi lo mette all’asta, chi lo promette a tutti. Mentre, invece, molti altri elettori neanche ci vanno più a votare. Come dimostra la massa crescente di indecisi e di restii del voto. Sono coloro che vivono in una condizione assicurata, che nulla o quasi hanno da chiedere alla politica.

    Crisi d’identità

    Il voto fotografa quindi in Calabria un panorama di fenomeni assai complessi. Conseguenze della regnante confusione sociale (c’entra qualcosa anche l’impoverimento e l’ulteriore fragilità inflitta dal Covid), con la crescente opacità che avvolge la realtà di questa regione-laboratorio. Da un lato la democrazia rappresentativa, sempre più esposta a forze demagogiche che si consolidano e riorganizzano, sfruttando anche la potenza digitale dei nuovi mezzi di comunicazione. Dall’altro, le emergenze e il caos di una regione in profonda crisi di identità collettiva, dove vecchi gruppi di potere e nuova poliarchia politica cozzano senza sintesi, ma volentieri si associano e stressano i limiti da valicare per giungere a conquiste democratiche moderne, a soluzioni laiche, rapide e incisive.

    Dicevamo anche degli indifferenti: quel 57% che resta a casa, che da anni si disinteressa e non vota. È la maggioranza silente. Il nocciolo di un’opinione pubblica potenzialmente libera, più consapevole, mobile e laica. Che invece finora accondiscende e legittima i piani di coloro che, a turno, comandano. Questi ceti, dalla fisonomia sociale e dai confini ancora incerti e indecifrati, che fanno a meno della risorsa politica, sono forse gli unici in Calabria in grado di cambiare il gioco, di aprire ad un altro futuro. Ma per ora restano fuori e privi di rappresentanza.

    Aspettando il cambiamento

    Stando così le cose, la Calabria cambierà mai? C’è ancora qualche speranza? Esiste la possibilità reale che accada? Per chi proponeva il cambiamento, dopo l’ennesima delusione, dopo la cocente sconfitta, è d’obbligo chiedersi come andare avanti, che fare in questa regione. Di strade ne restano solo due. Andare via: molti continueranno a farlo. L’altra è continuare a resistere e a combattere, con ostinazione, civilmente e per il bene di tutti. E in parecchi continueranno a farlo ancora.

    Sarà però impossibile se non spazziamo via, una volta per tutte, la retorica e la prassi vittimistica della resa al peggio, della lamentazione rituale, della subalternità autoinflitta dal nostro cattivo agire, individuale e collettivo. Se ai nostri comportamenti e al nostro orizzonte sociale asfittico, in cui il privato vale sempre più del pubblico, non ridiamo lungimiranza e dignità di cittadini. Per davvero, o così o non avremo speranze.

    Sessant’anni dopo

    La Calabria è il cuore malato della Questione Meridionale. È una condizione cronica, che va affrontata con coraggio, assumendosi nuove responsabilità culturali, civili, umane, respingendo le solite scorciatoie dell’assoluzione collettiva per giustificare tutti i nostri mali. Si smetta di fuggire. Si resti davvero, per il bene di tutti. E «senza dramma, senza rancore», con tutte le sue forze migliori, finalmente la Calabria trovi il coraggio di reagire «ad una condizione inferiore o servile» che dura da troppo tempo. Cerchi di meritare finalmente «una condizione in cui l’uomo sia padrone di sé e del suo destino». Anche questo lo diceva Alvaro. Più di sessanta anni fa.

  • Grotta della Monaca, una delle miniere più antiche d’Europa è in Calabria

    Grotta della Monaca, una delle miniere più antiche d’Europa è in Calabria

    Una delle miniere più antiche d’Europa si trova in Calabria. Per la precisione, nella Valle dell’Esaro.
    Un’ulna (cioè, un pezzo d’avambraccio) appartenuta a un ventenne preistorico e sepolta sotto un masso nell’ingresso, fa capire che questo posto è frequentato da tantissimo tempo: oltre 20mila anni, stando ai risultati del radiocarbonio.
    Che ci fa un resto umano così antico in una grotta? Probabilmente, indica una “presa di possesso”. «È probabile che nell’alta preistoria queste enormi cavità naturali fossero considerate luoghi sacri», spiega Felice Larocca, archeologo e ricercatore dell’Università di Bari,
    L’umidità, fortissima, ha lavorato le rocce nel corso dei secoli. Una, in particolare, somiglia a un volto umano e dà il nome al sito: Grotta della Monaca.

    Felice Larocca, archeologo e ricercatore dell’Università di Bari
    Tra i più antichi minatori

    Sembra strano immaginare la Calabria “attrattiva” per persone in cerca di lavoro. Ma nella preistoria, a cavallo del neolitico e dell’eneolitico, ovvero all’inizio dell’età del rame, era così.
    La Grotta della Monaca era la meta di tribù che probabilmente vivevano nella vallata, tra l’Esaro e il Tirreno. Con tutta probabilità, questi nostri antenati sono stati tra i più antichi minatori dell’umanità.
    Solo alcuni di loro, probabilmente le donne, si dedicavano all’agricoltura. Gli uomini, i ragazzi e i bambini passavano gran parte delle loro non facili esistenze a estrarre i minerali colorati, prodotti dal miscuglio del ferro e del rame col calcare, che erano molto utilizzati per la concia delle pelli e, più tardi, per tingere i tessuti.
    Oggi, questi minerali hanno dei nomi (scientifici e comuni) piuttosto bizzarri: malachite, azzurrite, goethite, azzurrite, yukonite e aragonite.

    I minerali presenti nella struttura
    Il rame era un medicinale

    Il minerale predominante, tuttavia, è il rame, estratto in gran quantità.
    Ma non per fonderlo: «Secondo i criteri dell’epoca, questi erano giacimenti enormi, tuttavia non sufficienti per ricavarne lingotti», spiega ancora Larocca, che è il responsabile scientifico del sito archeologico.
    «Il rame», prosegue il ricercatore, «era utilizzato soprattutto come medicinale». I minerali estratti «non erano destinati all’autoconsumo, come i prodotti agricoli, ma allo scambio».
    La Calabria preistorica, in cui iniziavano le prime attività lavorative “specializzate” dà lezioni alla Calabria contemporanea, da cui scappano persino i braccianti, non appena possono.

     

    La grotta

    Ma com’è strutturato questo sito suggestivo e arcano? L’aggettivo “spettacolare” calza a pennello alla Grotta della Monaca, che è sotterranea quasi per modo di dire. L’ingresso, dov’è stato trovato l’antico avambraccio e dove c’è il “volto” della suora, è sull’ingresso di una collina a seicento metri di altitudine.

    Particolare del volto della “Monaca” (foto di Felice Larocca).

    È una sala piuttosto grande, piena di massi caduti dalle pareti, che conduce a una seconda cavità dal nome piuttosto inquietante: la Sala dei pipistrelli, una grotta nella grotta, lunga sessanta metri e larga trenta, che si chiama così per via dei suoi “ospiti” abituali.
    I quali vi risiedono tuttora, disturbati solo dal team di archeo-speleologi del Centro regionale speleologico “Enzo dei Medici” diretti dal professor Alfredo Geniola e dal menzionato Larocca per conto dell’Università di Bari, che gestisce gli scavi dall’inizio del millennio.

    La sala dei pipistrelli nel sito Grotta della Monaca

    Dalla Sala dei pipistrelli si dipana una serie di cunicoli, che si spingono per un altro centinaio di metri nelle viscere dell’altura. Qui è davvero difficile inoltrarsi, se non a carponi o, addirittura, strisciando.
    Il sito misura cinquecento metri circa in tutto. Un mezzo chilometro importantissimo nell’economia dell’Europa preistorica.

     

    Il duro lavoro

    Alcuni residui di ossa animali e di pietre lavorate fanno capire come lavoravano questi nostri antenati: afferravano il minerale più morbido, soprattutto la goethite, a mani nude, oppure lo strappavano dalle pareti con picconi ricavati dalle corna delle capre.

    Un piccone preistorico ritrovato nella Grotta della Monaca

    Nei casi più estremi, facevano a pezzi le rocce con mazze di pietra. Ma senza esagerare, perché il rischio di crolli era alto.
    Lo testimoniano delle “colonne”, cioè delle parti di minerale non estratto ma lasciato lì per reggere le volte dell’ingresso e della Sala dei pipistrelli. E dei muretti a secco, alzati per tenere sgombro l’ingresso dei cunicoli.
    Di lavorare si lavorava parecchio, ma le condizioni di vita erano grame: poco ossigeno, alimentazione non all’altezza e ritmi estrattivi enormi.
    D’altronde, non c’erano i sindacati e si faticava per sopravvivere.
    Un altro ritrovamento macabro dimostra oltremisura la pesantezza di questo stile di vita.

    Il cimitero

    Secondo gli archeologi, l’attività estrattiva è durata fino al 3.500 avanti Cristo circa, in pratica fino alle soglie della storia.
    Dopodiché, la Grotta della Monaca è diventata un cimitero. Gli archeologi, infatti, hanno trovato numerosi resti umani e hanno speso un bel po’ di tempo a ricomporli. Ne hanno ricavato un centinaio di scheletri, più o meno completi, che ci dicono tantissimo sugli abitanti della zona.
    Sono uomini, donne e bambini piccoli (alcuni, addirittura, appena nati), morti quasi tutti di infezioni o malattie. L’altezza media (1,60 per le donne e 1,70 per gli uomini) smentisce l’ipotesi che i nostri antenati mediterranei fossero “tappi”.
    Ma le condizioni delle ossa rivelano che comunque erano malnutriti e si ammalavano con una certa facilità di artrite e reumatismi, procurati dall’umidità del fiume Esaro e dal lavoro logorante. I più longevi raggiungevano a malapena i cinquant’anni e la mortalità infantile era quasi una norma.

    Rinvenimento di resti ossei umani durante le ricognizioni speleo-archeologiche del 1997 (foto di Felice Larocca)

    Si curavano alla meno peggio e, nei casi più estremi, si sottoponevano a una chirurgia rudimentale, come dimostrano i segni di trapanazione sul cranio di una donna adulta, probabilmente sopravvissuta all’“intervento” ma morta per l’infezione che ne seguì.

    La riscoperta

    Le estrazioni ripresero a pezzi e bocconi nell’antichità e si intensificarono di nuovo nel medioevo, quando minatori più attrezzati scavarono varie gallerie artificiali.
    L’abbandono definitivo, tuttavia, non fece dimenticare la Grotta, che lasciò tracce significative nell’immaginario degli abitanti della zona.
    La prima testimonianza contemporanea su questo sito è del sacerdote, poeta, scrittore e giornalista Vincenzo Padula, che parla della sua “terra gialla” come di una rarità.
    Il primo ad avventurarvisi, un po’ per spirito di avventura e un po’ per curiosità scientifica, è stato Enzo dei Medici, italiano di origine dalmata  (nacque a Sebenico, oggi Sibenik, in Croazia) che si recò nel Cosentino per censirne le innumerevoli cavità naturali, sotterranee e non.
    Appassionato naturalista e plurilaureato, dei Medici esplorò la Grotta della Monaca nel 1939 e ne diede per primo una descrizione accurata.

     

    L’interesse delle università di Bari, Salento e Ferrara

    L’iniziativa di questo pioniere della speleologia non ebbe seguito fino all’inizio del millennio, quando attorno al Csr dedicato a questo coraggioso esploratore si è coagulato uno staff importante, gestito come si è già detto dall’Università di Bari e a cui partecipano studiosi dell’Università del Salento e dell’Università di Ferrara.
    Tanto interesse potrebbe avere una ricaduta importante sul territorio, in particolare sul piccolo Comune di Sant’Agata d’Esaro, che tenta di trasformare la Grotta della Monaca in un attrattore turistico.

    Scavi all’ingresso della Grotta della Monaca

    La Calabria depressa di oggi tenta di mettere a frutto la Calabria iperattiva della remota antichità.
    Di sicuro, come spiega ancora Larocca, «c’è un fortissimo interesse della comunità internazionale degli studiosi sulla Grotta della Monaca e, più in generale, sull’area settentrionale della Calabria, che è piena di siti importanti, capaci di fornire informazioni dettagliate sull’Europa preistorica».
    Il turismo di massa, forse, predilige altro. Ma, per fortuna, i viaggiatori colti esistono ancora e in numero sufficiente a dare una spinta all’economia di questa parte di Calabria.
    E forse l’eventuale successo della Grotta della Monaca sarebbe il premio più bello alle fatiche dei nostri antenati.

  • BOTTEGHE OSCURE | Piombo e libertà nelle mani dei tipografi

    BOTTEGHE OSCURE | Piombo e libertà nelle mani dei tipografi

    La maggior parte dei lettori non avrà quasi idea di cosa siano i caratteri mobili per comporre un testo da imprimere sul foglio. I tipografi non sono più quelli di una volta, la professione è cambiata moltissimo negli ultimi decenni. Le innovazioni sono state tantissime e hanno mutato radicalmente il modo di lavorare, fino alla rivoluzione introdotta dalle tecnologie digitali. Le piccole tipografie locali hanno subito duri contraccolpi e l’introduzione di diversi macchinari ha reso molte figure non più necessarie.

    Basti pensare al compositore, che si occupava di comporre la pagina da stampare unendo pazientemente i pezzetti di piombo con lettere, spazi e segni di punteggiatura. Nei periodi elettorali, invece, si utilizzavano dei grandi caratteri in legno, utili a stampare inviti di voto su carta colorata di diverse dimensioni. Anche questo sistema è tramontato, e l’innovazione ha semplificato notevolmente i passaggi.

    Stampatori da primato

    Il primo libro stampato a Reggio Calabria risale al 1475 ed è la più antica opera in caratteri ebraici stampata al mondo. A Cosenza già nel 1478 Ottaviano Salomonio, anche lui probabilmente di origine ebraica, imprimeva con i suoi torchi alcuni opuscoli che recano impressi data e luogo di stampa. A dispetto di questo rapido arrivo, le tracce delle tipografie calabresi scomparvero per quasi un secolo, per ricomparire negli ultimi anni del ‘500.

    Agli inizi dell’800 l’istituzione delle Intendenze da parte dei dominatori francesi portò all’impianto di una nuova tipografia a Cosenza. Era quella di Francesco Migliaccio, stampatore appartenente ad una famiglia napoletana già operante nel settore che attraverso i propri torchi darà luce a moltissime opere di autori locali noti. A cominciare da “Il Bruzio” di Vincenzo Padula, pubblicato nel 1865, ma anche opere e operette di autori meno noti che altrimenti avrebbero difficilmente lasciato una traccia nella storiografia.

    Gutenberg calabresi

    Nell’ultimo quarto dell’800 il boom. Il monopolio di Migliaccio venne pian piano eroso da altre piccole tipografie, spesso legate alla diffusione di giornali e periodici espressione di particolari categorie o correnti culturali. Nel 1884 a Cosenza si contavano Giovanni Alessio, della tipografia dell’Indipendenza, Domenico Bianchi, Davide Migliaccio e Francesco Principe, della tipografia Municipale. Questi, con tutta probabilità titolari degli stabilimenti, avevano a loro volta diversi operai. Anche in provincia erano presenti attività tipografiche, tra cui quelle di Leonardo Condari e di Francesco Patetucci a Castrovillari, di Giuseppe Giuliani a Cerchiara, la tipografia del Ginnasio a Corigliano, a Lungro quella di Gaetano Guzzi e a Paola la tipografia della Concordia di Salvatore Stancati Vasquez.

    Nel Catanzarese la situazione era altrettanto vivace. Nel capoluogo c’erano le tipografie degli editori Vitaliano Asturi e Luigi Mazzocca, la tipografia della Prefettura di Giuseppe Dastoli, la tipografia Municipale e quella di Francesco Veltri e C. A Nicastro la tipografia Colavita, a Filadelfia la tipografia della Società operaia. Monteleone contava le tipografie di Fedele Gentili, Francesco Rubo, Giovanni Troise e la Tipografia Cordopatri, mentre a Crotone operava Tomaso Pirozzi. A Reggio Calabria operavano Luigi Ceruso della tipografia “all’insegna del Petrarca”, Domenico Corigliano, Adamo D’Andrea, Marianna Pananti Lipari e l’editore Paolo Siclari. A Palmi stampavano Giuseppe Lo Presti e Domenico Lipari.

    Stampa e politica

    Era il periodo della diffusione dei periodici locali, soprattutto cittadini, spesso semplici fogli in concorrenza tra loro e schierati su fronti diversi. Molti di questi si erano dotati di una propria tipografia per ridurre i costi dalla stampa del giornale. Queste piccole officine della parola scritta passavano non di rado dalla stampa del giornale alla pubblicazione di opere a tiratura più o meno elevata. Pasquale Rossi, antesignano della psicologia sociale, si serviva spesso per le sue opere dalla tipografia del giornale cosentino “La Lotta”. E allo stesso modo facevano oscuri intellettuali locali con scritti di cui non resta quasi memoria.

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    La tipografia Riccio durante l’alluvione del 1959 (Foto dal gruppo fb “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza.”)

    Tra fine ‘800 e inizi ‘900 nasce così anche in Calabria, e nel Cosentino in particolare, una piccola classe di operai-tipografi. Il lavoro dei tipografi iniziava ad essere “politico” e si svolgeva in modo sparso nella città. Nella prima metà del ‘900 il quartiere cosentino di Rivocati ne accoglieva più di una, mentre la tipografia Riccio occupava uno stabile sul Lungo Crati soggetto a inondazioni. Una foto dell’alluvione del 1959 mostra l’edificio con ancora l’insegna della tipografia dipinta a grandi lettere sull’intonaco sopra l’ingresso principale.

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    L’onorevole Aldo Moro visita i locali dove veniva stampato Parola di Vita (Foto in Salvatore Fumo, Il giornalismo cattolico e lo sviluppo della Calabria Editoriale, Progetto 2000-2004)

    La parte alta di corso Telesio ospitava nei locali del palazzo vescovile, poco lontano da quelli dove ancora campeggia l’insegna del giornale “Cronaca di Calabria”, la tipografia che sarebbe diventata “La Provvidenza”, i cui torchi diedero alle stampe molto materiale di ambito cattolico. In tal senso è da segnalare la presenza in città negli anni ’40 di una tipografia della Pia Società S. Paolo, le note Edizioni Paoline, che tra l’altro diede alle stampe nel 1948 un’edizione dell’opera del sacerdote antifascista don Luigi Nicoletti, Meditazioni Manzoniane, che sarebbe finita sui banchi di molte scuole d’Italia.

    Un leghismo d’altri tempi

    All’alba del Novecento il termine “leghismo” aveva un senso e un colore politico opposti a quello odierni. Muratori, sarti, falegnami, panettieri, calzolai, facchini e tipografi cosentini diedero vita nel 1906 ad altrettante “leghe di resistenza”. Si trattava di movimenti di fratellanza operaia, veri e propri cordoni solidaristici capaci di proteggere e orientare menti non eccelse e braccia toste come il legno silano, che unendosi avrebbero potuto porre un freno alla forza padronale e un argine ai rischi connessi a lavori duri e pericolosi.

    La lega dei tipografi cosentini era presieduta da Federigo Adami, uno dei fondatori del circolo repubblicano intitolato ai Fratelli Bandiera, destinato a diventare nel 1913 il primo segretario della Camera del Lavoro di Cosenza.
    «Dovete fidare soprattutto in voi stessi, se volete davvero incamminarvi per la luminosa via de la rivendicazione» ripeteva Adami ai giovani apprendisti tipografi. Negli annali della Camera del Lavoro e del socialismo cosentino, Adami è descritto come organizzatore degno di stima, sempre pronto alla battaglia. Esercitava un certo influsso sui giovani apprendisti, che vi si affidavano per ogni cosa.

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    Il tipografo d’idee repubblicane Federigo Adami, primo segretario della Camera del Lavoro di Cosenza

    All’epoca i tipografi come i muratori, i falegnami o i fornai si dividevano in due macro-categorie: i “mastri” – custodi dell’arte e proprietari di un’attività – che speravano nel buon andamento e magari in un ampliamento della stessa, e i “garzoni” che stavano a bottega dal mastro artigiano con la prospettiva di diventare anch’essi capi d’arte e chiedevano semplicemente condizioni di trattamento migliori. La Cosenza d’inizio Novecento andava estendendosi verso le campagne ca minanu a Renne: si aprivano ovunque cantieri, e nei piccoli opifici di contrada Castagna il lavoro abbondava.

    Primo maggio 1906

    Insieme ai muratori del rione Massa, i giovani tipografi che facevano capo ad Adami furono i protagonisti della prima celebrazione del 1° maggio, datato 1906, che si svolse a Pianette di Rovito perché la pubblica sicurezza vietò il comizio in una piazza cosentina. Nei giorni precedenti tipografi e muratori avevano cercato di convincere sarti e calzolai delle migliori boutique di corso Telesio ad astenersi dal lavoro. Il favore di questi “artigiani privilegiati” sarebbe servito a far udire le lagnanze salariali ai ceti agiati della città che vi si servivano. Così fu.

    Durante la celebrazione del 1° Maggio 1906 fece la propria comparsa tra gli applausi l’anziano tipografo Rosalbino Serpa, dalle mani solcate da decenni di fatica. Era il “proto”, coordinava cioè il reparto di composizione e controllava l’esecuzione tecnica della stampa del giornale “La Lotta”, che al tempo fomentava la battaglia politica cittadina. Come ricorda Pietro Mancini: «Egli [Serpa] ci comunicò subito che era rimasto solo nella tipografia e quindi era stato mandato via a festeggiare il primo maggio dal direttore del giornale».

    La tipografia degli orfanelli

    A Cosenza l’infanzia abbandonata, i cosiddetti “trovatelli”, e insieme a loro ladruncoli e perdigiorno trovavano posto nell’orfanotrofio “Vittorio Emanuele II”. L’ospizio nacque nel periodo preunitario con l’obiettivo di garantire un futuro e avviare al lavoro i figli della miseria provenienti dai quartieri e rioni popolari di Massa, Spirito Santo e Santa Lucia. Nella seconda metà dell’Ottocento fu installata nell’orfanotrofio un’officina tipografica, destinata a diventare nei decenni una vera e propria scuola.

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    Il reparto di composizione della scuola poligrafica dell’Orfanotrofio Vittorio Emanuele II di Cosenza

    Con entusiasmo il deputato provinciale Francesco Vetere nel 1882 la presentò come una gloria nell’insegnamento delle «arti meccaniche, di cui l’Ospizio può attingere un incremento di forza, e gl’infelici orfani e trovatelli, raccolti dalla pubblica carità, potere apprendere un’arte colla quale possano campar la vita, acquistare un posto nella società». Fino ai 18 anni i giovani aspiranti tipografi venivano suddivisi in squadre di sette elementi alle dipendenze di un capo d’arte. Il frutto del loro lavoro – libri, opuscoli ecc. – sarebbe stato venduto e 1/5 dell’utile (al netto delle spese) sarebbe stato diviso in parti uguali tra i giovani lavoranti.

    Sfruttamento e futurismo

    Ma le cose non andarono sempre per il verso giusto. Già sei anni dopo, il commissario governativo Tancredi ravvisò che i capi d’arte sfruttavano il lavoro degli apprendisti per proprio tornaconto, che nessuno degli alunni aveva appreso le prime nozioni e tutti lavoravano senza compenso. La tipografia dell’orfanotrofio conoscerà una stagione ben più florida negli anni ’50 del Novecento. L’ospizio era presieduto da Ruggero Dionesalvi e nel consiglio d’amministrazione figurava l’avvocato e giornalista sampietrese Giuseppe Carrieri (1886-1968) definito dal suo compaesano Alfredo Sprovieri «primafila dell’ultima avanguardia futurista italiana in grado di sedurre il mondo».pIO

    La “poesia silenziosa” di Carrieri venne scandagliata attraverso le opere di Pietro De Seta e Gaetano Gallo pubblicate proprio nel “Baraccone”, com’era chiamata l’officina annessa all’orfanotrofio e trasformata il 10 giugno 1950 in una vera e propria scuola poligrafica allo scopo «di tenere il piccolo drappello di fanciulli lontano dai rumori e vizi della città […] educare alla scuola del lavoro le tenere e frequenti vittime dei pregiudizi e dei disordini sociali».

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    La vecchia tipografia dell’orfanotrofio, oggi cadente e in preda al degrado, fu tagliata fuori dal progetto di ristrutturazione, adeguamento antisismico e riconversione dell’ex convento dei Carmelitani, e che fu sede dell’orfanotrofio, nel moderno Istituto Alberghiero “Mancini”, una delle opere di edilizia scolastica del primo mandato di Mario Oliverio quale presidente della Provincia.

  • Libere, brillanti, moderne: il cambiamento della Calabria passa dalle sue donne

    Libere, brillanti, moderne: il cambiamento della Calabria passa dalle sue donne

    In questa regione gli uomini, quelli che comandano da sempre, in politica, nelle istituzioni, nella cultura, nelle imprese, si giudicano da quanto hanno saputo fare, dalle loro opere. Piuttosto pessime, a soppesare senza troppe illusioni la realtà che hanno costruito intorno a noi. Le donne invece dalla speranza che hanno saputo destare e che tengono viva in questa società che opprime e che ancora oggi non riesce ad amare la libertà, e spesso neanche a farsela amica.

    Vecchi copioni

    Come antropologo e narratore giro la Calabria in lungo e in largo da anni. Spesso per strada, arrivato in un posto, città o paese che sia, mi fermo solo per guardare le donne, le ragazze che senza saperlo sono lo spirito dei luoghi. Sono comunque la cosa più viva da queste parti. Questo è il tempo in cui le donne danzano. Gli uomini, invece, trascinano i passi, ovunque. Recitano vecchi copioni, arrancano, talvolta distruggono e si autodistruggono. Li sostiene una tradizione misogina, quel patriarcato secolare eredità di un lungo medioevo sessista: A fimmana ndavi i capiji longhi e ra menti curta; A fimmana è cumu a crapa, mangia a centu erbi e non è mai cuntenta; Petri i punta, tavuli i cozzu, e fimmani curcate; Arberu ca stridi e fimmana c’arridi, pigghjia a gaccetta e tagghjia; Fimmana chi s’alliscia è gran puttana.

    Una marcia in più

    Sono anni che insegno a classi intere di studenti universitari, Antropologia Culturale ed Etnologia. Propongo loro il confronto col mondo, con le diversità culturali, con le differenze, con il nostro tempo pieno di contraddizioni ma anche ricco di vantaggi di conoscenza, di tante occasioni di autocoscienza e di libertà che la realtà ci mette davanti ogni giorno. Ne conosco a Catanzaro e Cosenza da tutta la regione, e ne ho laureati tanti di questi ragazzi e ragazze. Hanno alle spalle storie di periferie urbane abbandonate e di realtà sociali difficili, di comunità minuscole e in crisi spesso abbarbicate a tradizioni, a diffidenze difficili da infrangere.

    Prevalentemente sono però figli di gente di paese e di paesini. L’istruzione è un salto, un balzo in avanti per tutti loro. Le differenze tra questi giovani però sono flagranti, soprattutto nel genere più che nella provenienza sociale. La femminilizzazione degli studi è un fatto per me ormai chiarissimo, inconfutabile. Sono loro, le ragazze, le studentesse le più brillanti. Largamente fuori media, rispetto ai più pigri e convenzionali colleghi dell’altro sesso. Studiano di più le ragazze, sono più intelligenti, sensibili, colte, curiose, positive, innamorate di conoscenza e affamate di futuro. E quelle che arrivano in coppia, ho notato, finiscono gli studi che il più delle volte lei guida lui.

    Un nuovo spazio

    Anche nei borghi trasecolati dalla povertà e dall’abbandono, dove ancora siedono le donne vecchie con i fazzoletti in testa, crescono così giovani donne istruite, colte, affamate di vita, di libertà, di desideri. Per loro adesso c’è uno spazio nuovo da conquistare in queste comunità, e c’è anche un altro tempo e un altro modo di vivere da reclamare. Accade ovunque, a Catanzaro come a Campana Calabra. Gli uomini, sì gli uomini, che se ne sentono minacciati, dovrebbero farne tesoro. La libertà più vera e una nuova coscienza delle comunità e delle relazioni passa anche da queste donne più libere delle loro nonne e madri.

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    Sono più consapevoli, più aperte, più libere. Meglio delle borghesucce del bovarismo che faceva mormorare il moralismo bacchettone della provincia e dei paesi di una volta. Meglio di quelle madonnette che crescevano educate alla musciarìa dei maschi fidanzati-in-casa, lasciate a languire nella noia del paese in attesa di essere offerte per sposare i bancari, i figli dei farmacisti “per bene”. Queste ragazze e donne calabresi di adesso, sono finalmente donne nuove (nuove, non senza difetti, ogni tempo, ogni società, genere e individuo, se ne trascina dietro tanti). Ma scegliere la libertà, saperla vivere e metterla in opera è, e sarà, la scelta radicale. Un bene individuale e sociale, sempre e per tutti.

    Parola alle donne

    Se ti metti in ascolto, comprendi che lo stato di salute di una società come quella calabrese, specie oggi in mezzo al caos della crisi pandemica che la rende più che mai fragile, pericolante e in regresso, non può che ripartire proprio dal femminile, dalle risorse del femminile. È così perché ogni comunità e ogni luogo della società se vuole davvero restare vivo e progettare futuro deve diventare un luogo che oggi parla di sé attraverso la vita e l’esperienza di rinnovamento delle donne. Solo se lascia parlare le donne e le rende protagoniste del cambiamento di tutta la società, la Calabria produrrà finalmente la sua trasformazione.

    Le donne che ho incontrato e che racconto in tutti questi miei viaggi di scoperta in giro per la Calabria di adesso, io le porto con me. Sono amiche, alleate, compagne di vita, e hanno cambiato un po’ anche me. Certo, si sposano. Hanno figli che allevano, lavorano quando possono. Vivono e amano più liberamente. E quando decidono di liberarsi di amori sbagliati, da abusi o relazioni malate, lo fanno con maggiore risolutezza, con la dignità e il riguardo che si deve alla propria vita, a quella dei propri figli. Questo oggi per fortuna accade di più rispetto al passato.

    I residui tossici del patriarcato

    Molte di queste donne non possono ancora vivere da sole (mancano lavoro e sostegni, servizi essenziali), ma quando soffrono le compagnie oppressive di mariti e compagni, adesso se ne liberano.
    Come dimostrano la recente vicenda del femminicidio di Fagnano Castello, le invettive sessiste rivolte alle colleghe da un consigliere comunale di Cirò, la medievale e avvilente “lista delle zoccole” diffusa a Cinquefrondi, 6500 abitanti nella Piana di Gioia Tauro, spesso accade che queste donne siano ospiti disprezzate a casa loro, stigmatizzate dal conformismo e dalla violenza paternalista che cova nelle famiglie, e che quasi sempre le mette ai margini delle comunità locali.

    C’è una specie di bolo velenoso che risale a tratti dal ventre astioso della vecchia società dei paesi in crisi di identità, dove spesso resiste il residuo tossico del patriarcato più oscuro. Un resto di autoritarismo maschile accanto al quale crescono però nuove (e forse persino più pericolose) forme di violenza, di diffamazione e di odio sessista ai danni delle donne e dei fragili.

    La retorica della restanza

    Fenomeni che si muovono sulla rete e si diffondono in formato digitale via social, su Facebook o Whatsapp, nelle chat regno del machismo che animano i gruppi di balordi che avvelenano la scena sociale e incattiviscono la gracile vita di sponda dei paesi. I paesi, altro totem della retorica di ripiego sudista, con l’enfasi della restanza, l’elucubro virtuosistico e sin troppo presunto sulla buona società idealizzata delle piccole comunità, dei vicinati, delle tradizioni del pane e della sussistenza slow, sotto il quale spesso si nascondono invece comunità allo sbando, piccoli inferni che mescolano anomia sociale, prepotenze e controllo oppressivo. Laboratori di un degrado talvolta persino più feroce di quello urbano.

    Certo, oggi anche nell’angustia dei paesini più tradizionalisti e retrogradi ci sono donne giovani e meno giovani che vanno in giro a cercare qualcuno, qualcosa di vivo, che hanno bisogno di sesso e di legami nuovi o di relazioni, anche se capita poi di sentirsene prigioniere, e per non rassegnarsi all’abitudine decidono di volerli rompere sfuggendo alle pretese di assoggettamento e controllo di un uomo. E poco importa se questo accade un anno o un attimo dopo il primo incontro, il primo giro in auto, il primo bacio di nascosto. La riprovazione pubblica, la maldicenza, l’insulto, cala come condanna nei confronti di donne considerate troppo disinvolte nei comportamenti sessuali o nel modo di vestire.

    Stop ai pregiudizi

    E allora? Sono donne che hanno bisogno di “paesaggi” sociali nuovi queste donne, di un nuovo appaesamento libero da ipoteche tradizionali e pregiudizi. Ma la rete dei consultori familiari, dei presìdi socio sanitari e dei centri antiviolenza è stata via via indebolita. E con questi le iniziative che potrebbero prevenire i delitti e contrastare, anche culturalmente, le violenze e le discriminazioni nei confronti delle donne. Oggi mancano spazi civili e comunità aperte in cui per le donne sia finalmente possibile scegliere, potersi raccogliere e ripartire, liberamente.

    Eppure ogni loro scelta di libertà è un progresso, un diritto umano sacrosanto, non negoziabile, individuale e indisponibile ad altri che non siano le stesse donne. Per questo c’è anche bisogno di un po’ di racconto, di narrazioni minime rispettose, che ricreino solidarietà, pace, possibilità, allegria, proprio intorno alla difficile liberazione di queste donne, trasformando il silenzio ostile e la violenza dello stigma sessista e tradizionale, in uno spazio nuovo da abitare e condividere, in un dono di parole. La cronaca queste storie le scopre invece solo quando le protagoniste vengono offese e diventano vittime, uccise da uomini, familiari o compagni, che credono ancora che di una donna si possa essere padrone.

    Il tema del femminile

    Molto più di quanto so vedere e ascoltare, mi piacerebbe avere la capacità di saper far parlare le vite qualunque di queste ragazze, di queste giovani donne, ma anche di quelle che hanno perso il loro momento, che già si sentono fuori dal gioco della vita, perché in realtà ogni esistenza incontrata per questa via è particolare, e merita di essere illuminata prima di essere riassorbita dal vuoto. Le donne sono per me, sempre più spesso, l’ospite da interrogare tra un passaggio e l’altro, tra una rilettura e l’altra delle mie giornate per capire i luoghi e la società concreta e attuale di questa regione di confine.

    I paesi e le città passano dai finestrini dell’auto, mentre il tema del femminile permane, continua a interrogarmi. La scrittura e il paesaggio della storia delle donne sono insieme un problema reale e un ecosistema simbolico, personale e collettivo. Le donne parlano sempre di ciò che condividiamo col mondo, e aprono a ciò che del mondo, e per ciascuno di noi, resta pur sempre diverso e qualche volta irreprensibile, estraneo.

    Un enigma da decifrare

    Le donne oggi portano lo stesso abito, si truccano e si muovono allo stesso modo, tutte, ovunque: città di provincia o quartiere periferico, paesino o sobborgo. Ma è ancora solo apparenza. Il vero sembiante deve ancora disegnarsi, e le mode c’entrano poco. Sono un geroglifico tutto da decifrare le donne della Calabria di oggi. Lo stesso enigma mi capita ancora di sfiorarlo nella Calabria più recondita, nei dintorni di Savelli, Cerenzia, Cicala, Paludi, oppure di Longobucco, Cropalati, Zagarise, Petronà, Carfizzi, in certi minuscoli paesini conficcati come un chiodo dentro la polpa verde e nei recessi più angusti e siderali del marchesato, del Pollino e della Sila Grande, Greca o Piccola. Le donne sono là, sono loro quelle che restano, e sono sempre la cosa più viva di tutto.

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    In posti così ci vado di tanto in tanto solo per verificare se le donne calabresi, le giovanissime o le vecchie, sanno come si fronteggia il tempo incerto di adesso. E se, oltrepassata la soglia di una certa indefinibile età, si somigliano tutte, o se piuttosto ricordano le donnine involgarite dal lusso delle griffe alla moda che escono nei sabato sera della città provinciale (che si autodefinisce “europea”) in cui abito ora. O se invece le donne sono quelle che masticano a denti stretti l’amaro fiele delle giornate vuote di senso che si consumano nei paesoni dai confini slabbrati, in mezzo ai casermoni che si spandono a macchia nella Calabria di questi anni di caos. Tante cose insieme, credo.

    Tutti al funerale, ma prima?

    Ieri ho preso l’auto e sono andato a vedere con i miei occhi a Fagnano cos’è il piccolo, sparuto, paese di 2000 abitanti sotto le pendici interne della catena costiera tirrenica. Il paesino dove è stato consumato nei giorni scorsi l’ultimo dei femminicidi calabresi di quest’anno. L’aspetto è la solita mescola disordinata di vecchio e di nuovo che si accavallano sottosopra, come nella fisionomia spaesata di quasi tutta la geografia antropica di questa Calabria del secolo XXI.

    Era tutto molto triste a Fagnano. Tutto il paese chiuso, sbarrato per il lutto cittadino proclamato dalle autorità locali. Poca gente per strada, un’aria attonita e stranita. Soprattutto poche donne, poche giovani a far da corteo a questa tragedia. La chiesa era piena. Il manifesto con l’immagine colorata di Sonia Lattari, 43 anni, era dappertutto. Aveva subito percosse. Ma non aveva denunciato il marito che l’ha poi ammazzata a coltellate.

    Sembrava davvero il funerale di tutto un paese. Ma quanto il paese di cui quella giovane donna è stata cittadina, lo stesso paese che la piangeva ora nella chiesa dell’Immacolata, era stato con lei solidale, attivo? Quali sostegni ha ricevuto Sonia da ambiente, famiglia, parrocchia, autorità? E chissà quali paure ha avuto Sonia prima che tutto accadesse. Sono andato via. La strada per uscire dal paese si dilegua per chilometri tra l’ombra brunastra e la luce cruda che svela i boschi di castagni che stanno per portare frutto ad un autunno fiacco e svogliato. Non mi è sembrato giusto fare neanche una foto.

    La vera rivoluzione? Senza uomini

    Non basta sapere che le imminenti elezioni regionali accompagneranno al voto i calabresi con la doppia preferenza di genere. È tempo anche in Calabria di nuove libertà e di reali equivalenze di genere. È tempo di una nuova autorità femminile al potere per il governo delle comunità. Che non è certo quella che ancora oggi imita e puntella il potere esausto e autocratico del patriarcato che domina la politica politicante. Gli uomini si mettano invece da parte per un po’, è meglio. Trovino un modo nuovo di vivere i sentimenti, gli affetti, la famiglia, il lavoro, la politica. Sarà un bene, per la vita di tutti, prima ancora che per la politica, l’economia, la cultura. Sarà questa la vera rivoluzione in Calabria.

  • Il Buco di Frammartino e la farsa della calabresità

    Il Buco di Frammartino e la farsa della calabresità

    E così il baratro della cosiddetta “calabresità” da esportazione, ormai una specie di pozzo senza fondo di luoghi comuni, dichiarazioni strampalate di identitarismi metastorici e regressioni passatiste e rivendicative, si arricchisce di nuove immaginette e inghiotte anche le immagini dell’abisso del Bifurto. Il pretesto, allettante e di ovvio impatto mediatico, è stato offerto stavolta dal meritato successo del cineasta di origine calabrese Michelangelo Frammartino, che a Venezia 78 ha ricevuto il premio speciale della Giuria per Il buco, un bellissimo film che racconta l’impresa di un gruppo di speleologi piemontesi in Calabria al principio degli anni’60 del secolo scorso.

    Il regista Michelangelo Frammartino al Festival del cinema di Venezia
    Tutti sul carro del vincitore

    Il film, prodotto da Rai Cinema (e con un contributo dalla passata gestione della Film Commission della Calabria), è un autentico capolavoro. La corsa per intestarselo come al solito è partita due minuti dopo. Ed ecco che spunta, come sempre, puntuale come i comunicati dell’Isis dopo gli attentati, la rivendicazione della “calabresità” (per giunta stavolta “più autentica” dell’autentico, sic!) di autore e pellicola. Ci provano tutti, in testa politici in fregola elettorale, accompagnati da un corteo di figuranti e “dirigenti” di qualcosa che parlano sempre a nome della cultura di questa regione.

     

    Banalità identitaria

    Certune di queste affermazioni, more solito, si segnalano per la goffaggine, oltre che per banalità situazionistica: «Uno straordinario riconoscimento ad un talento purosangue calabrese, alla sua passione nel dare un nuovo volto a luoghi e persone del nostro territorio». Poi, «il prestigioso premio a Frammartino è la dimostrazione di quanto la forza delle nostre radici e il bagaglio storico e culturale calabrese rappresentino un patrimonio capace di rilanciare l’immagine e la reputazione della regione». Poi, il logoro e onnipresente richiamo alla «promozione del territorio, a rafforzare la visibilità del patrimonio naturalistico e artistico locale», che, ovviamente, integra «la giusta strategia da seguire per ribaltare, in termini positivi, la narrazione del nostro territorio al di fuori dei confini regionali». Insomma ammuina, pura retorica identitaria a palate.

    Una sequenza de “Il Buco”, una pellicola di Michelangelo Frammartino

     

    Le solite etichette

    Possibile che il giusto (e forse persino tardivo) riconoscimento al valore di un artista e a un’opera d’arte così originale non riesca qui da noi a evitare il dazio di etichette e rivendicazioni identitarie così spropositate e arbitrarie, così vistose e marchiane? Può un film diventare «una straordinaria storia in grado di esaltare la vera “calabresità”, con il suo cuore autentico»? E cos’è mai, se qualcuno può dirlo con cognizione di causa, la “vera calabresità” dei calabresi e della Calabria oggi, nel 2021? E perché mai il prestigioso premio a Frammartino, che è il riconoscimento a un artista e alla sua opera, sarebbe «la dimostrazione di quanto la forza delle nostre radici e il bagaglio storico e culturale calabrese rappresentino un patrimonio capace di rilanciare l’immagine e la reputazione della regione a livello nazionale ed internazionale»? Lo stesso Frammartino si è subito affrettato a smarcarsi da simili inciampi da strapaese dichiarando, ben oltre il suo amore per la Calabria («La Calabria, la regione più bella del mondo», certo, why not?), che il suo film è una personalissima esplorazione dell’umano e della natura, «è la storia di un abisso, e noi siamo speleologi del cinema underground».

    In fondo al “Buco” raccontato dal film di Frammartino
    La Calabria di oggi

    È anche il caso di ricordare a tutte le anime belle che hanno a cuore questa regione a colpi di spot e proclami, che solo un paio di settimane fa piangevamo i roghi boschivi e gli incendi devastanti appiccati con dolo criminale che hanno annichilito le foreste calabresi in Aspromonte, in Sila, sul Pollino (il Monte Sellaro, la stessa montagna percorsa dal fuoco, non distante dal set del film di Frammartino). Che questa è la regione dove comandano ’ndrangheta e massomafie. Che la politica è quella che ne ha fatto la regione peggio amministrata d’Europa. Che i treni viaggiano ancora senza elettricità, che gli ospedali sono lazzaretti. Che qui si muore di malasanità, ma anche di noia e di conformismo.

    È ancora il caso di ricordare che molti di quei luoghi bellissimi che vorremmo buoni per viverci e prosperare sono oberati dal cemento, inquinati da discariche, da cumuli di monnezze abbandonate in ogni angolo e violati da abusi di ogni genere. Che il mare è sporco e che turismo tanto strombazzato è il trionfo dell’economia dipendente e di una monocultura consumista e massificata, pericolosissima. Che le nostre magnifiche montagne, buone per i film e per le cartoline per escursionisti della domenica, si spopolano ogni giorno di più e franano puntualmente dopo gli incendi dell’estate. Che i paesi chiudono perché non c’è più vita, che i giovani calabresi emigrano ogni giorno anche se adesso vanno via con laurea, ma sono tanti, troppi. Che le “eccellenze” calabresi diventano tali solo quando trovano opportunità fuori da questa regione, che espelle i migliori e mortifica chi resta.

    E che in fondo quel film di cui oggi molti fanno ruffianamente gli elogi, che racconta di una voragine senza fondo in cima a una montagna, è un po’ come noi, come la Calabria di adesso. Un enigma. È un film fatto di silenzio e di buio. Di pietra, di vento, e di abissi di pietra. E che l’unico calabrese che vi compare con una parte nella storia – gli speleologi che esplorano il buco sono ragazzi piemontesi dell’Italia del Boom – è un vecchio, un taciturno e certo ben poco arcadico pastore del Pollino (Frammartino predilige i vecchi pastori nei suoi film). E il vecchio è una figura scabra, antiretorica, solitaria, arcana, vuota e piena allo stesso tempo; uno che sembra muto, di pietra anche lui, come la voragine che sprofonda ogni cosa dentro l’ombelico del mondo che si spalanca nella fessura lì vicino.

     

    L’originale bellezza di Frammartino

    Come antropologo e scrittore seguo, e non credo di essere tra i molti, il cinema di Frammartino dagli esordi. Ritengo che i suoi film siano una delle poche cose davvero interessanti spuntate negli ultimi vent’anni nell’asfittico panorama della cinematografia italiana. Quello che fa vedere e racconta non assomiglia a nessun altro. Il suo è un cinema che prescinde dai condizionamenti di genere e dai retaggi ai quali la maggior parte dei suoi colleghi sembra oramai assoggettata (con l’eccezione, secondo me, di autori che recentemente hanno messo modernamente a tema un riflesso ambiguo e scivoloso come quello identitario, quali Pietro Marcello, La bocca del lupo e il recente Martin Eden, e Alice Rohrwacher, in Corpo celeste).

     

    Quando stupì Cannes con Le quattro volte

    Frammartino, 53 anni, nato a Milano da genitori calabresi originari di Caulonia, è regista non nuovo a importanti prove d’autore che mettono a tema con originalità e straordinaria potenza narrativa il rapporto con la terra delle origini. Prima che con Il buco lo ha già fatto con pellicole dal budget limitato ma intensamente poetiche e di grande impatto artistico, come Il dono (2003), la sua opera prima, un piccolo film ambientato nel paese natale dei genitori, che ristampato in una copia in 35mm fu poi proiettato al Festival di Locarno. Nel 2010 scrive e dirige Le quattro volte, un documentario etnografico, un film mimetico, magico e misterioso, sulle tradizioni dimenticate dell’Appennino calabrese. Un film che è anche una sorta di apologo, un moderno conte philosophique sul persistere delle credenze animistiche nelle civiltà rurali non ancora travolte e cancellate dalla modernizzazione omologante. Le quattro volte, presentato con successo alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes, fu anch’esso girato in Calabria da Frammartino, che portò allora il suo set in tre luoghi differenti: Alessandria del Carretto, Caulonia e Serra San Bruno.

     

    Raccontare l’indicibile à la Werner Herzog

    Il buco è un film che ancora una volta sullo sfondo di magnifici e inquietanti scenari naturali e antropici calabresi affronta l’indicibile, con il mistero del mondo delle grotte e degli abissi della natura più indomita e inospitale e l’esplorazione del regno minerale, in cui la pellicola si immerge poeticamente quasi solo con l’ausilio delle immagini. Come in un suo film Werner Herzog, Cave of Forgotten Dreams (realizzato dal cineasta tedesco nel 2010) trattava dei misteri dei dipinti paleolitici sepolti nella Grotta Chauvet nell’Ardèche francese, qui Frammartino sprofondando il suo racconto per immagini nell’abissale inghiottitoio, mai prima esplorato, che si apre in una fenditura della roccia in cima al monte Sellaro sul massiccio del Pollino (una dolina che sprofonda nel vuoto vertiginosamente per quasi 700 metri, creduta a quel tempo una delle grotte più profonde del mondo), sonda nello stile del suo cinema l’esperienza dell’insondabile, il buio profondo, l’angoscia di conoscere, la paura e l’ansia di perdersi in questa stessa avventura.

     

    Non è un film sulla vera identità calabrese

    Nella storia, non a caso, il regista adotta il punto di vista alieno e spaesante dei giovani e ignari speleologi piemontesi che furono attratti in questo recesso della Calabria più isolata e impervia nel lontano 1961, per poterlo esplorare sino in fondo, con rispetto e ammirazione, non privi in partenza di pregiudizi e luoghi comuni. Vince su tutto la misteriosa e affascinante bellezza di luoghi che sembravano fuori dalla storia. Un salto nel buio che è anche un salto nel tempo, negli interrogativi del presente. Infine, alla stregua di un filosofo e antropologo dei giorni nostri, il regista ha manipolato il materiale così faticosamente raccolto per trarne una riflessione di straordinaria intensità e rigore sull’enigma dell’esistenza. Non quindi un film sulla presunta “vera identità calabrese”.

     

    L’insegnamento che risale a Pitagora

    La lezione di Frammartino ancora una volta sembra invece scandita da un insegnamento che risale a Pitagora, secondo il quale in ciascun essere ci sarebbero quattro vite distinte, ma unite nel passaggio dell’una nell’altra: minerale, vegetale, animale e razionale. Il film che ci getta tutti nell’esplorazione folle e meravigliosa che avviene dentro – ma anche intorno – a quel buco oscuro del Pollino ci lascia attoniti e senza fiato come in un viaggio nella maestà arcana di un luogo di natura essenziale. Un’immersione abissale attraverso questi stadi fisici e metafisici in cui tutto è avvolto dall’incertezza, dal pericolo, dal buio. E anche il vecchio pastore calabrese, che con i suoi silenzi, i suoi gesti arcani e misteriosi e i pochi verbi smozzicati fa da contrappunto ai giovani e temerari speleologi del nord, pare così antico e mitologico da sembrare una divinità primordiale, tanto da far dubitare che possa essere davvero sopravvissuto sino ai giorni nostri.

     

    La calabresità vera che non esiste

    Anche in questo caso, quindi, Frammartino tratta la “sua” Calabria come un archetipo, e affronta con un linguaggio poetico e congiuntivo la nostalgia di un’identità primordiale cancellata per sempre dal peccato originale della civiltà industriale. Ma formula anche un richiamo implicito alla ricerca di un nuovo equilibrio, semmai capace di ricomporre la frattura fra il genere umano e gli altri esseri viventi: piante, animali, rocce, polvere, luce, buio, acqua, vento. C’è di mezzo un abisso. Come quello del Bifurto sul Pollino. Poi c’è, ci sarebbe, la “calabresità vera”, appunto, che non c’è, che nessuno sa o può sapere davvero cosa sia veramente. E nel caso, francamente, ne facciamo pure volentieri a meno.

  • Il supereroe calabrese da Roghudi con furore

    Il supereroe calabrese da Roghudi con furore

    Italiano è bello, calabrese, a volte, più bello. Ciò vale, almeno, per i fumetti e per i supereroi, che, a dispetto dell’anglofilia del settore, rendono benissimo non solo a stelle e strisce ma possono vestire con efficacia il tricolore e l’azzurro, grazie anche agli stimoli tenebrosi delle tradizioni popolari italiane. Ne è un esempio Traku, un super(anti)eroe calabrese doc. Dannatissimo, giusto e tormentato, ricorda un po’ Ghost Rider e un po’ Spawn. Conditi, però, con un bel po’ di peperoncino e, a seconda dei gusti, ’nduja o sardella.

    Nascita di un supereroe

    È il caso di raccontarne la genesi, anch’essa un concentrato di calabresità piccantissima.
    È notte, a Roghudi Vecchio, l’inquietante ghost town abbandonata dopo le frane dei primi anni ’70. C’è di che aver paura di questo borgo dove, narrano le leggende, è possibile ascoltare ancora i lamenti dei fantasmi dei bambini precipitati nel dirupo. E si può avvertire la presenza delle Naràde, creature mostruose, metà donne e metà asine, che uccidevano le donne del borgo per accoppiarsi coi loro uomini. Poi, c’è ’a Rocca du Traku, la Rocca del Drago. È un macigno dalla forma di rettile a tre occhi in cui, tramanda un’altra leggenda, sarebbe imprigionato un essere mitologico che decide il destino del paese, anche ora che è deserto.

    Achille Romeo, detto Tony, non ha paura delle leggende. Semmai teme di più i vivi: è il rampollo di una famiglia mafiosa e vive da anni sotto protezione. È tornato a Roghudi in incognito, spinto dalla curiosità e dalla nostalgia. Proprio per sottrarsi a eventuali ritorsioni, ha deciso di passare la notte in un casolare fatiscente del borgo fantasma. Precauzione inutile: i picciotti lo raggiungono con l’intenzione di fargli la pelle. Il giovane riesce a sottrarsi, inforca la sua moto e si lancia a tutta velocità. Ma non c’è nulla da fare: gli sgherri lo inseguono e riescono ad acciuffarlo proprio vicino alla Rocca du Traku. Quindi, aprono il fuoco sul giovane, che sente arrivare la sua ora.

    Fin qui, la storia ricorda un mafia movie un po’ pulp. Ma nei fumetti, come in certi film, scene e ambientazioni cambiano a velocità fulminea. Il sangue del ragazzo cola sulla rocca e risveglia lo spirito del Drago, imprigionato lì da millenni. Una folgore illumina le tenebre di bagliori sinistri e, quando il lampo e il fumo si diradano, il ragazzo riemerge illeso e trasformato: indossa un’armatura blu scura screziata di giallo fosforescente. I sicari giacciono ai suoi piedi, dilaniati e semicarbonizzati.
    Traku, risvegliato dal plurisecolare torpore, è tornato in vita grazie al giovane Tony.

    Traku, supereroe di Roghudi, area grecanica della provincia di Reggio Calabria
    Traku, supereroe di Roghudi, area grecanica della provincia di Reggio Calabria
    Gli italiani lo fanno meglio

    «Forse è il nostro personaggio più tosto», spiega Chiara Mognetti, imprenditrice passata dal marketing ai fumetti e titolare della Emmetre Edizioni, una casa editrice del Novarese che gestisce assieme a suo marito Fabritio De Fabritiis, sceneggiatore e disegnatore bonelliano di lungo corso (sue le tavole di Dragonero Adventures e Zagor-I racconti di Darkwood).
    Traku fa parte di un’iniziativa editoriale intelligente, nata quasi per scommessa: «Io e mio marito ci chiedevamo se fosse possibile creare una linea di supereroi completamente italiana», spiega ancora Mognetti.

    Non che il fantastico, l’horror e la fantascienza made in Italy non esistessero prima. Ma, precisa l’editrice, «l’ambientazione e i personaggi restano comunque anglofoni: si pensi a Dylan Dog, che è inglese, o a Nathan Never, che è di ispirazione americana».
    Invece, i Guardiani Italiani, l’esercito soprannaturale con cui la Emmetre aggredisce da anni il mercato dei fumetti, sono italiani al cento per cento.

    La serie si basa su un’intuizione semplice, anche se non originalissima (qualcosa di simile l’aveva fatto Italo Calvino con le sue Fiabe Italiane): lo scavo nell’immaginario fantastico delle varie tradizioni popolari della Penisola e la loro rielaborazione in chiave non più letteraria ma fantascientifica. Ed ecco che, a partire da Capitan Novara (poi Capitan Nova), il firmamento dei supereroi si è tinto gradualmente di azzurro.

     

    I Guardiani Italiani sono quaranta, tutti ispirati alle leggende di altrettante parti d’Italia. Dalla fine dello scorso decennio popolano i graphic novel della piccola e combattiva casa editrice indipendente. Qualcuno è scanzonato, come Comandante Italia. Qualcun altro è tragico, come Sa Bisera, antieroina sarda ispirata alla tradizione delle Femmine Accabadore (donne assoldate dai familiari di malati terminali per dare l’eutanasia ai propri cari). Qualcun altro, ancora, evoca in maniera sfacciata i luoghi comuni delle zone di provenienza: così è per Vesuvius (indovinate un po’?) e Legio X (anche questo è facile…).
    Tutti quanti sono il prodotto dell’immaginazione e delle matite di De Fabritiis. Ma le storie sono disegnate da Eduardo Mello, un giovane fumettista siciliano (classe ’88) che vanta collaborazioni con realtà di livello internazionale, non ultima la Marvel.

    Superpoteri contro le ’ndrine?

    Cambiamo scenario. Siamo nel porto di Gioia Tauro. Appollaiato sopra alcuni container, un uomo che indossa un’armatura rossa aspetta il momento opportuno per entrare in azione. È Pietro Mancini, un poliziotto di Perugia. Grazie all’intervento di una misteriosa confraternita, è diventato Grifo, un altro supereroe tosto, caratterizzato da una terribile tendenza alla depressione.

    Grifo si trova in Calabria per indagare sul traffico della prostituzione, gestito dalla mafia nigeriana con la protezione della Santa (i riferimenti non sono casuali).
    All’improvviso, il supereroe salta addosso a due picciotti malcapitati, che fanno la guardia a un container per metterli fuori combattimento. Ma è con l’arrivo di Traku che lo scontro degenera in carneficina: il supereroe calabrese non ha, evidentemente, le preoccupazioni umanitarie del suo collega umbro. E, a massacro compiuto, commenta: «Rilassati, quei figli di puttana meritavano di crepare». Neppure Grifo è un maestro d’eleganza. Lo rivela la risposta truce che fornisce al collega, anzi compare, che gli chiede come avesse convinto il suo informatore a “cantare”, visto che «la Santa conta pochi pentiti»: «Gli ho infilato la testa nel cesso».

    Quest’episodio, contenuto in L’era di Empire-Volume 1, uno dei primi albi di Guardiani Italiani, segna l’esordio di Traku. Ambientazione e suggestione tricolori, ma stile americano, veloce e nervoso: la Emmetre rovescia così la lezione della Bonelli (che, al contrario, italianizzava personaggi e scenari angloamericani) e proietta il nostro immaginario in una narrazione internazionale. E c’è da dire che la trasformazione di Gioia Tauro e del suo porto in una novella Gotham del Mediterraneo funziona alla grande.

    Resta solo una domanda, che forse non fa onore a molti dei nostri “creativi”: possibile che una piccola casa editrice piemontese, abituata a finanziarsi col crowdfunding e a operare nel mercato si sia dimostrata più efficace nel giocare con gli aspetti più suggestivi del nostro immaginario regionale di tante, spesso inutilmente strapagate, agenzie nostrane?
    La risposta ai lettori.

  • Mendocita, il 10 calabrese che fece tunnel a Pelè

    Mendocita, il 10 calabrese che fece tunnel a Pelè

    Quando in un campo di periferia sboccia un talento per il calcio, oltre quella polvere può stagliarsi il destino di un futuro re, o addirittura un dio. In Sudamerica vale in Brasile e in Argentina, in Uruguay e pure in Cile, in Paraguay e in Perù. Vale dappertutto, ma non in Venezuela.

    Per le strade di Caracas, infatti, si osserva una religione diversa: El beisbòl, una passione popolare che nasce negli scambi commerciali di inizio ‘900 con gli Stati Uniti e che scoppia dopo il 1941, quando la squadra nazionale venezuelana torna dalle Amateur Baseball World Series a Cuba con il titolo, dopo un’epica finale con i padroni di casa. Da allora è esploso un movimento che ha portato la compagine nazionale di baseball a vincere tre volte la coppa del mondo di disciplina. La Nazionale di calcio venezuelana, invece, resta l’unica della Confederación sudamericana de Fútbol (Conmebol) a non averlo mai disputato un Mondiale.

    All’insegna di questo sogno, vedere il Venezuela ai Mondiali di calcio, è vissuta la storia di Luis Alfredo Mendoza Benedetto, da tutti chiamato Mendocita: il miglior calciatore venezuelano di sempre. È una storia d’altri tempi la sua, che comincia dalla Calabria.

     

    Mendocita - Infografica

    Da Scalea a Caracas

    A inizio del secolo Biagio Benedetto parte da Scalea, sul Tirreno cosentino, per approdare a Caracas, dove da sua figlia nasce il 21 giugno del 1945 il piccolo Luis Alfredo “Mendocita”. Cresce pensando solo al pallone, ma quando ha 12 anni i venti di dittatura costringono la sua famiglia a ripercorrere la rotta migratoria.

    Rieccoti Italia, prima a Genova e poi a Parma, dove il padre decide di iscriversi all’Università per laurearsi in Economia. Mendocita gioca ovunque riesce, tutto il giorno, ma in Italia può farlo solo come amatore. Le regole del tempo non danno accesso agli stranieri nelle formazioni giovanili.

    Passano tre anni così, a meravigliare chiunque ha l’opportunità di vederlo giocare, poi si torna in Venezuela, nel frattempo passato a una nuova era democratica. Da mattina a sera ricomincia a correre dietro a un pallone insieme ai suoi amici nell’Avenida San Martin. Poi, un giorno qualunque, l’allenatore del Banco Agrícola y Pecuario, El Indio Clemente Ortega, si accorge di lui.

    Passa da quelle parti per caso e subito pensa di non aver mai visto nulla di simile. Gli si avvicina e gli offre un ingaggio. Così Mendoza esordisce immediatamente nel campionato professionistico, inizialmente come attaccante esterno. Poi arriva il 1963, l’anno della consacrazione. Il Deportivo Italia, una delle società più forti e ambiziose, riesce a strapparlo alla concorrenza e lo trasforma in un centrocampista di classe sopraffina. Ad appena 16 anni arriva la chiamata nella “Vinotinto”, la Nazionale venezuelana, chiamata così per l’inconfondibile rosso vino che ne colora le divise.

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    Mendocita insieme a suo figlio prima di una partita del Deportivo Italia

    Comincia la passione più intensa della sua vita. Testa alta, palla incollata ai piedi, dribbling e falcata da leader assoluto. Il numero dieci gli appartiene di diritto, anche la fascia da capitano. Dodici gol messi a segno in 55 partite. Lotta come un leone in tre fasi di qualificazione, verso Inghilterra ’66, Messico ’70 e Germania ’74, ma il sogno non si realizza mai. Lo sport non è solo questione di vittorie però; specie quando era fatto di poche partite in tv, quando era animato soprattutto dalla leggenda che correva di bocca in bocca, questo figlio di calabresi è stato un protagonista assoluto.

    El gol del siglo

    In Venezuela gli amanti del calcio di ogni età conoscono il racconto dell’impresa di Mendocita in una calda notte di Caracas del 1969. Era il 2 di agosto, per le qualificazioni mondiali il Venezuela ospita la Colombia di Francisco Zaluaga che all’andata ha vinto 3-0. Al minuto cinquantuno il gioco è fermo sullo 0-0. Il terzino David Mota vede improvvisamente Mendocita smarcarsi e corrergli incontro: con gli occhi infuocati da una scintilla gli chiede urgentemente il pallone.

    Nessuno in campo sta minimamente considerando la possibilità che quest’uomo che ora controlla con i piedi l’oggetto del suo desiderio ha già visto cosa sta per succedere. Ok, la Colombia non si può battere, ma tutta quella gente non può tornare a casa delusa. Un passo in avanti palla al piede, due oltre la lunetta del centrocampo e poi da quel prato verde decolla senza ali una parabola geniale, in grado di solcare l’aria per quasi 40 metri prima di finire in rete.

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    Il grande Pelè con Mendocita

    Un miracolo sportivo che resiste al tempo, il punto più magico della sua carriera da professionista, terminata a 41 anni, passando il testimone al figlio. Mendocita giocando al calcio per il suo paese ha fatto il tunnel a Pelè e dato del tu a Maradona, e oggi di stagioni della vita ne ha collezionate 76, ha sconfitto due volte il cancro e ha messo su una famiglia unita, gira ancora i campi di periferia di tutto il Venezuela in cerca del suo sogno, sempre con la dieci vinotinto addosso, come la divisa di un eroe in missione per conto del calcio.

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    In uno scatto che ha fatto il giro del mondo, Mendocita parla con Chavez, in campo con Maradona e Morales
    A Coverciano col Trap

    Ha lavorato anche per la federazione e per la selezione nazionale, affiancando il commissario tecnico Manuel Plasencia alle Olimpiadi del 1980, quando il Venezuela venne ripescato all’ultimo. Ai due, sorpresi dalla notizia mentre erano al ristorante, toccò scrivere su un tovagliolo i nomi da portare a Mosca.
    È tornato anche in Italia Mendocita, ha studiato a Coverciano insieme a Fabio Capello da professori come Enzo Bearzot e Giovanni Trapattoni. Ma ancora una volta non erano le luci della ribalta che cercava, il suo sogno è rimasto collettivo. Alla panchina in qualche squadra professionistica ha preferito girare in lungo e largo per far crescere il movimento, per stare in mezzo ai giovani e farli innamorare del calcio.

    La Rabona dello Stretto

    La crescita della nazionale maschile venezuelana negli ultimi decenni è avvenuta soprattutto grazie all’apporto di una nuova schiera di calciatori decisamente più talentuosi dei loro predecessori. Anche sui campi del Belpaese un po’ di anni fa iniziarono ad affacciarsi alcuni venezuelani. Per ricostruirlo tocca tornare ai dilemmi amletici dei giovanissimi collezionisti delle figurine, che faticavano a spiegarsi la presenza negli album di giocatori nati in Venezuela, ma con una carriera costellata di esperienze fatte solo in Italia.

    Il primo della lista è Ricardo Paciocco, punta cresciuta nel settore giovanile del Torino con una brevissima esperienza nel Milan post-serie B. Poi Lecce, Pisa e Reggina nella cadetteria.
    Proprio in riva allo Stretto, con la maglia degli amaranto, Paciocco scrive la leggenda. Nei minuti finali del match contro la Triestina, con l’importante match fermo sull’1-1, ha la folle idea di segnare un calcio di rigore con la rabona. Portiere spiazzato e gol partita, un gesto tecnico mai visto prima che in molti fecero fatica persino a comprendere. Allenatore dei calabresi all’epoca era Bruno Bolchi detto “Maciste”, pare che quando si girò verso i componenti della panchina per scoprire perché Paciocco prendeva la rincorsa sul piede sbagliato, dovettero tenerlo in cinque.

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    Reggina-Triestina, la rabona su rigore di Paciocco

    Paciocco nonostante tutto quel coraggio e quell’estro, tuttavia, non giocò mai con la maglia del Venezuela. Lo fece, invece, Massimo Margiotta, puntero classe 1977 nato a Maracaibo, ma che ha giocato soltanto in club italiani, tra cui il Cosenza, nella stagione 1997-1998. Per lui 19 reti nel torneo di serie C e promozione in B nell’anno che lo lancia nel calcio che conta.

    Attaccante forte fisicamente e abile di testa, Margiotta fece la spola tra A e B durante i primi dieci anni del nuovo secolo, togliendosi la soddisfazione di diventare il miglior bomber europeo del Perugia, nonostante una permanenza di soli sei mesi in Umbria. Dopo qualche leggendaria partita internazionale con l’Udinese (doppietta al Bayer Leverkusen di Ballack e Ze Roberto) e una lunga militanza nelle rappresentative giovanili della nazionale italiana, nel febbraio del 2004 capisce che il suo spazio negli anni della generazione di fenomeni (Vieri, Inzaghi, Montella, Gilardino, Di Natale etc) sarà poco e quindi cede alle “lusinghe” del Venezuela.

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    Massimo Margiotta con la maglia del Cosenza di Giuliano Sonzogni

    Ci mette un po’ a decidere perché ha paura di volare, ma la voglia di affrontare il Brasile di Kakà e l’Argentina di Messi fanno miracoli. Così, con la numero dieci vinotinto che fu di Mendocita, colleziona 11 presenze e due reti, una delle quali bellissime, segnata contro il Perù nell’ennesima Coppa America chiusa senza vittorie dal Venezuela.

    L’eredità di Mendocita

    Nell’ultimo lustro la Vinotinto è riuscita a raccogliere risultati sorprendenti nei tornei giovanili. Certo, il cammino è ancora lungo. Ma la sensazione è che i “nipotini terribili” di Mendocita abbiano tutte le carte in regola per realizzare il vecchio sogno: portare la Vinotinto al suo primo mondiale di calcio. Anche perché c’è stata una notte particolare per il calcio vinotinto, una di quelle che ti dice che tutto è possibile.

    È andata in scena il 3 ottobre del 2016, ad Amman, in Giordania. Si sta giocando una partita del mondiale Under 17 tra il Camerun e il Venezuela, siamo al 93’ minuto e la formazione africana ha appena raggiunto il pareggio. Resta il tempo di riprendere il gioco e poi arriverà il fischio finale: un punto a testa e la strada della Vinotinto, che si ferma di nuovo, come sempre. Qualcuno su quel campo però, ha di nuovo la scintilla del genio, come 48 anni prima. È sulla linea del centrocampo, ha la fascia da capitano al braccio e la palla sul destro, proprio come Mendocita. Gol da centrocampo, il miracolo si ripete, ma stavolta davanti agli occhi del mondo. Grazie ai social l’impresa diventa presto virale e arriva in finale al Premio Puskas della Fifa.

    Non solo è la prima volta per il Venezuela, è la prima volta per una donna. A realizzare questo gol è stata la giovanissima Deyna Cristina Castellanos Naujenis. Una ragazza che viene da un polveroso campo di Maracay, dove giocava contro il volere del padre. Perché se già è così difficile imporsi per un venezuelano, figurati per una venezuelana. Invece Deyna ora è l’astro nascente del calcio femminile mondiale, la calciatrice più seguita sui social, dai quali ogni giorno parla a milioni di persone.

    Un fiore mai appassito

    Finalmente c’è un nuovo fiore vinotinto, e il suo sogno sportivo stavolta sarà impossibile da ignorare. Infatti, il calcio in Venezuela prende sempre più piede approdando anche nel mondo della musica. Il rapper Nk Profeta ha scritto una canzone con centinaia di migliaia di streaming. Si chiama La Vinotinto e nelle barre dice: «I tempi in cui indossavi il giallo applaudendo Ronaldinho sono finiti…quando compravi la maglia di Messi e non la nostra. Non siamo più Cenerentola e ci guadagniamo rispetto… non dubitare che il mondo sarà il tuo premio…Venezuela insieme e unito: padroni del nostro destino, senza dimenticare Luis Mendoza».
    Un fiore sbocciato nel campo sbagliato, ma mai appassito.

    Alfredo Sprovieri, Francesco Veltri, Pasqualino Bruno

     

  • Girifalco, la “città dei pazzi” che ci tiene ad esserlo

    Girifalco, la “città dei pazzi” che ci tiene ad esserlo

    Lulù suona le foglie e aspetta, aspetta che sua madre ritorni per farle ascoltare le sinfonie tristi che ha composto nel manicomio di Girifalco. Lo hanno internato perché soffre di crisi epilettiche ma lui è uno di quelli che possono uscire dalla struttura e andarsene in giro. Il paese del Catanzarese è infatti uno dei primi luoghi in cui è stata sperimentata l’apertura delle porte dell’ospedale psichiatrico: i malati meno gravi, quelli sicuramente non pericolosi, hanno la libertà di interagire con i paesani e così diventano parte della comunità. Tutti conoscono Lulù il pazzo e tutti, tranne lui, sanno che sua madre non tornerà. Lui no, è ignaro del suo destino e non sa che un bambino del suo paese, diventato da grande uno scrittore, ha trasformato il ricordo della sua quotidiana, mesta attesa in una storia che resterà per sempre.

    Elogio della follia

    Quel bambino si chiama Domenico Dara e della sua Girifalco scrive che «era delimitata a nord dal manicomio e a sud dal cimitero, così che le sue genti si muovevano tutte tra la follia e la morte». Della morte sappiamo tutto e niente, mentre la follia Dara la paragona a un polline «che quando soffiava il vento si spargeva sulle teste ignare delle genti e le inseminava». È proprio per questo che «anche quando il manicomio non ci sarebbe più stato i pollini avrebbero continuato a volteggiare nell’aria per azziccàrsi di tanto in tanto in qualche padiglione auricolare a modificare gli ingranaggi della meccanica umana e celeste».

    Lulù il pazzo, esistito davvero, è il primo di sette personaggi di cui Dara intreccia i destini nel suo secondo romanzo, Appunti di meccanica celeste, che segue le tracce narrative lasciate dal fortunato esordio con il Breve trattato sulle coincidenze, entrambi editi da Nutrimenti. La malattia mentale in realtà serpeggia anche tra le righe del suo terzo lavoro, Malinverno, arrivato con Feltrinelli alla quarta ristampa, ma Dara tra presentazioni e reading estivi si è ora messo in testa – giusto per restare in tema – un altro pallino: lui e l’assessore comunale alla Cultura Elisa Sestito vogliono che Girifalco sia ufficialmente riconosciuta come “Città dei pazzi”.

    Un riconoscimento diverso da tutti gli altri

    Sì, mentre orde di sindaci in ogni angolo d’Italia battagliano armati di gonfaloni e delibere per avere questo o quel riconoscimento pomposo, Dara vuole consegnare dignità solenne a una reputazione che di fatto il suo paese si ritrova appicicata addosso fin dagli ultimi anni dell’800. Che sia per esorcizzarne i fantasmi, per ammantarlo di esotismo o anche solo per una disinteressata strategia di marketing, la sua – moccivò – folle missione sta trovando il sostegno non solo di alcuni amministratori ma anche di associazioni locali che sembrano assecondarne gli obiettivi.

    Dal manicomio al palco

    Come? Riempiendo quel luogo di storie perdute con iniziative come il Premio “Città di Girifalco”, in corso in questi giorni e che proprio stasera propone un momento che si preannuncia di grande intensità. A Girifalco, nel paese dei pazzi, nel Complesso monumentale in cui dal 1881 al 1978 sono passati 15.794 pazienti, arriva il Teatro patologico di Dario D’Ambrosi. Se avete visto L’Odissea raccontata da Domenico Iannacone su Rai Tre sapete di cosa si parla. Se non l’avete vista fatelo prima o dopo essere andati a Girifalco a vedere quanta poesia e bellezza sanno portare sul palco le persone con disabilità fisica e psichica cui D’Ambrosi dedica la sua vita e la sua arte.

    Il manicomio di Girifalco è stato raccontato in molti modi. Lo hanno fatto, tra gli altri, Barbara Rosanò e Valentina Pellegrino con il docufilm Uscirai sano e Oscar Greco con il libro I demoni del Mezzogiorno. Il cantante Simone Cristicchi ne è stato ispirato per la sua “Ti regalerò una rosa” e il Fai lo ha inserito nel censimento dei luoghi italiani da non dimenticare.

    Per molti dei ricoverati la diagnosi di una malattia mentale, o di quella che all’epoca veniva a torto a ragione identificata come tale, si è tradotta in tanti anni di solitudine, di povertà, di abbandono. Ci sono anche storie assurde come quella di Giuseppe Astuto (internato a soli 9 anni pur essendo sano – hanno raccontato Le Iene – per un gesto innocente che ha segnato l’infanzia e la sua intera vita. È successo questo e molto altro nella città dei pazzi. Non lasciare che le microstorie di chi ci ha vissuto si disperdano come il polline nel vento può essere un piccolo, appena giusto risarcimento per tanta sofferenza.

  • La Guarimba, al cinema con zio Rocco e l’elettricista

    La Guarimba, al cinema con zio Rocco e l’elettricista

    La Guarimba è anche il cinema di zio Rocco e Clemente l’elettricista. Il primo decide che quel tombino deve essere tappato e con un po’ di cemento risolve il problema. L’altro consente al grande proiettore di funzionare.
    La gente operosa fa rumore in un posto come Amantea, in provincia di Cosenza, dove spesso l’indifferenza si abbina al sorriso appuntito degli scoraggiatori seriali. Oggi, però, è il giorno della Guarimba, il festival internazionale del cortometraggio ideato da Giulio Vita e Sara Fratini.

    Il calendario della Guarimba

    Ieri era l’anteprima con i corti venezuelani e la presentazione di A Sud del Sud, il libro di Giuseppe Smorto, ex vicedirettore di Repubblica. Stasera parte il festival. Ultimo giorno il 12 agosto. Sono 172 le opere in concorso, 94 dirette da donne, provenienti da 56 paesi e da tutti i 5 continenti. Una settimana di cinema all’aperto. Unico corto calabrese in concorso è Accamora di Emanuela Muzzupappa.

    Una Guarimba contro la rassegnazione

    «A Sud, ad Amantea, il cinema diventa una questione civile, non solo un atto sociale. Ogni anno una nuova sfida da dover affrontare non senza fatica. Qui l’ordinario si trasforma in straordinario per la rassegnazione». Giulio Vita spiega così il contesto della cittadina tirrenica. Il Comune è stato sciolto per mafia dal 26 febbraio 2020 e i tentacoli dei clan sulla cosa pubblica sono stati portati alla luce da inchieste come Nepetia, condotte dalla Direzione distrettuale antimafia.

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    Giulio Vita, co-fondatore della Guarimba
    Il cinema al parcheggio

    Una frana non può fermare la Guarimba. È solo un arrivederci quello alla scenografia naturale del parco della grotta.
    Ecco pronto un altro posto dove masticare cinema. Il parcheggio vicino all’ex arena Sicoli era pieno di spine, rifiuti. Puzzava soprattutto di abbandono. Diventa la nuova location del festival. È un luogo dove la comunità partecipa alla costruzione di questa edizione. I Guarimberi hanno vinto una sfida difficile con la forza della normalità, mobilitando un esercito transgenerazionale in missione per conto della settima arte.

    Ti premia Mattarella ma Spirlì ti ignora

    Strano ma vero. Come nella rubrica della settimana enigmistica. Ambasciate, Parlamento Europeo e Consiglio dei ministri danno patrocini alla Guarimba. Eppure in questi due anni Spirlì, il presidente facente funzioni della Regione Calabria, «ha preferito dare molti soldi a pochi, dimenticando tutti gli eventi che attivano il settore turistico e socio-culturale del territorio come nessuno». Lo ha scritto Giulio Vita su Facebook qualche settimana fa. Da lì a poco la Guarimba avrebbe ricevuto la medaglia del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

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    Il parco della grotta ad Amantea, vecchia location della Guarimba
    Desiderio di normalità

    Giulio Vita è un italo-venezualano tornato ad Amantea, luogo di origine della sua famiglia. Ieri sera ha chiuso l’anteprima del festival annunciando un’edizione «sempre più punk». Disordine creativo di uno che pratica «chisciotterie» seguendo il cavaliere di Cervantes. Sulla difficoltà di fare cose buone in questo pezzo di Sud, dice: «Noi aspiriamo alla normalità, invece tutto ciò che c’è di bello in Calabria si trasforma in un atto di resistenza, ogni evento culturale è una piccola rivoluzione». È un po’ come correre o pisciare controvento. Ci si riesce, ma quanta fatica.

  • Laura C: il relitto proibito ai turisti, ma non ai clan

    Laura C: il relitto proibito ai turisti, ma non ai clan

    Ci sono storie di uomini che si sono fatti la guerra sul mare e navi che sono affondate con i loro segreti che continuano a tornare come fantasmi inquieti.
    Il 3 Luglio del 1941 un convoglio composto da tre navi mercantili – la Mameli, la Pugliola e la Laura C – scortate da due cacciatorpediniere aveva appena superato lo Stretto di Messina con destinazione il Nord Africa. Di lì in poi veniva la parte più insidiosa della navigazione, dove maggiormente era probabile un attacco inglese. E infatti alle 10 e 30 del mattino il sottomarino britannico Upholder (che solo qualche giorno prima aveva affondato la motonave Lillois al largo di Scalea) nascosto in agguato tra i flutti del mare di Saline Joniche, lanciava due siluri.

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    Il sommergibile Upholder, che affondò la Laura C, in una foto d’epoca
    Un carico esplosivo

    Possiamo solo immaginare le strisce parallele lasciate dalla corsa degli ordigni, la concitazione a bordo delle navi, gli ordini gridati ed eseguiti per evitare l’impatto e poi le esplosioni a bordo della Laura C quando venne colpita. Il resto è il tentativo di salvarsi manovrando verso la costa, dove a meno di cento metri dalla riva la nave è affondata portando con sé sei membri dell’equipaggio (uno dei quali proveniente da Paola) e il carico.
    Il libro di bordo racconta di stive con beni di conforto come fiaschi di Chianti, birra, bottiglie di Campari, farina, stoffe e macchine da cucire, biciclette per i bersaglieri, anche profumi e boccette di inchiostro di china. Ma, soprattutto, armi, munizioni e tritolo.

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    Il telegramma con cui il prefetto annunciava al Ministero dell’Interno l’affondamento della nave
    Il tritolo stragista

    Oggi la Laura C dorme tra i trenta e i sessanta metri di profondità ed è diventata una ricchissima oasi di vita sottomarina, ma il suo è un sonno inquieto.
    Nel corso degli anni in cui si è registrata una certa corsa al pentitismo, diversi collaboratori di giustizia hanno sostenuto che il tritolo conservato nelle stive della nave affondata poco al largo di Saline era una specie di polveriera a disposizione dei clan. Da quelle stive sommerse sarebbe stato prelevato l’esplosivo per diversi attentati, tra cui quello mancato e poi rivelatosi finto, a Giuseppe Scopelliti.
    Ma nella mitologia ‘ndranghetistica perfino le stragi di Capaci e quella di Via D’Amelio vennero realizzate con il tritolo dei tempi della seconda guerra mondiale.

    In realtà le indagini condotte dalle Forze dell’ordine, dalla magistratura antimafia e perfino dal Sisde, riuscirono a trovare conferme parziali a tali dichiarazioni. Furono condotte delle analisi sulle tracce di esplosivo usato in alcuni degli attentati e in parte fu trovata compatibilità con l’esplosivo conservato nel ventre della nave. Era sufficiente perché le autorità decidessero di chiudere le stive del relitto, per impedire qualunque possibilità di trafugamento.

    La prima bonifica

    Il primo intervento di bonifica fu realizzato dalla ditta di lavori subacquei Cormorano Srl di Napoli e costò quasi quattro miliardi di vecchie lire. Ma i lavori non furono efficaci, a causa del cemento pompato nelle stive, la nave si piegò su un lato, vanificando almeno in parte l’opera. Per un tempo infinito quella nave è stata l’oggetto dei desideri proibiti per numerosissimi appassionati di immersioni e per tutti quanti operano nel settore del turismo subacqueo. La Laura C non è solo un’oasi di vita colorata e ricca, ma è anche spunto per riprese video mozzafiato ed è facilmente raggiungibile dalla costa.

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    La natura si è fusa con quel che resta della Laura C sul fondo del mar Jonio

    Una grande occasione perduta per un settore del turismo calabrese, magari di nicchia, ma molto esigente e ricco. Scendere sulla Laura C resta una esperienza potente. Dopo avere nuotato poche decine di metri in superficie ci si immerge trovando subito l’albero di prua che esce dalla sabbia che copre per intero la parte anteriore del relitto. Si prosegue dunque verso poppa, conquistando quote piuttosto impegnative e scorrendo lungo la fiancata della nave si possono vedere le mille forme di vita che ne hanno colonizzato le lamiere.

    Divieto di turismo

    Ma è una esperienza che resta nei ricordi di chi l’ha potuta vivere, visto che malgrado le operazioni di bonifica siano state dichiarate concluse con successo, il relitto resta un sogno proibito. Già nel 2002 due senatori dell’Ulivo, Boco e Turrroni, rivolgevano al Ministero dell’Ambiente e a quello dell’Interno un’interrogazione per domandare quando la nave potesse tornare fruibile turisticamente, considerata la sua valenza naturalistica, caratterizzata anche da rarità biologiche.

    Nel 2015 le autorità militari e la magistratura annunciarono che «dopo un duro lavoro svolto dai sommozzatori della Marina e dalla Guardia Costiera», la Laura C non era più una polveriera. Sembrava poter venire meno l’interdizione alle immersioni e invece dopo anni di lavori, moltissimo denaro speso, immergersi lì non è ancora possibile. Perché come diceva Conrad, le navi hanno sempre un carico «di desideri e rimpianti».