Categoria: Cultura

  • Politici cosentini sulle orme dei padri

    Politici cosentini sulle orme dei padri

    Sono in molti oggi a denunciare che gran parte della classe politica locale è poco colta ed egoista. Afflitta da quei mali indicati da Banfield, persegue solo gli interessi particolari e non quelli della comunità, con conseguenti effetti disastrosi nella gestione del bene pubblico e della vita politica. La difesa dell’interesse comune è attuata prevalentemente in caso di vantaggio personale e la trasgressione delle regole è prassi comune e garantita dall’immunità. Molti “politicanti” tendono alla migrazione nei partiti più forti del momento, determinando così l’instabilità delle forze politiche e delle amministrazioni; una volta eletti, cercano di assicurarsi vantaggi materiali a breve termine e sono portati a ricambiare con favori coloro che li hanno votati e a penalizzare gli avversari.

    La 285 e un popolo di bibliotecari

    Si dice che gli amministratori odierni sono incapaci e per questo motivo Cosenza ha perso l’importanza che aveva negli anni trascorsi, centralità determinata da parlamentari che le davano lustro e prestigio. Mancini e Misasi, i più noti politici cosentini, avevano svolto importanti incarichi di governo e coperto ruoli di dirigenza nazionale nei rispettivi partiti. I giudizi di alcuni storici locali su questi due leader sono stati lusinghieri dimenticando che anch’essi non erano estranei a una politica clientelare e familista, che le loro segreterie erano affollate da gente che chiedeva favori.

    L’ex ministro e segretario del PSI, Giacomo Mancini

    Erano tempi di «vacche grasse». Grazie alla legge 285, ad esempio, negli uffici della città si moltiplicarono impiegati e funzionari. La Soprintendenza per i Beni Culturali e l’Archivio di Stato furono arricchiti da un tale numero di dipendenti che non si riusciva a collocare negli uffici per mancanza di stanze, sedie e scrivanie. Presso la Biblioteca Nazionale oltre cento impiegati dovevano occuparsi di un patrimonio di appena seimila libri e su alcuni quotidiani come Repubblica si scriveva che i cosentini erano diventati un popolo di bibliotecari!

    L’ex ministro democristiano Riccardo Misasi
    Le responsabilità dimenticate

    Molti rimpiangono i politici del passato dimenticando la loro responsabilità riguardo allo scempio edilizio. Le riflessioni degli addetti ai lavori sulle vicende urbanistiche della città sono state superficiali e addomesticate. In un volume curato dal Dipartimento di Pianificazione Territoriale dell’Università della Calabria, si leggono generiche considerazioni sui piani regolatori e solo in pochissimi scritti emergono critiche alla classe politica. Sabina Barresi ricordava che Cosenza viveva una profonda crisi di identità e che la crescita, senza alcun disegno urbanistico, aveva causato la perdita dei confini urbani e la creazione di «spazi muti contenitori del disagio».

    L’inizio del ponte Pietro Bucci all’Università della Calabria

    Tali trasformazioni, succedutesi nel tempo, non erano state indotte da pressioni economiche, ma da atti di volontà politica. Faeta aggiungeva che la città era stata abbandonata alla prepotenza della logica di mercato e che solo amministratori responsabili, dotati di idee chiare e capacità di progettazione, avrebbero potuto evitare una espansione edilizia tanto devastante.

    Cemento e cattedrali nel deserto

    La città nuova è caratterizzata da edifici anonimi, scialbi, privi di valore architettonico. I rioni popolari, come quelli di via Popilia, Torre Alta e via degli Stadi, presentano strutture urbane degradate, simili a quelle delle periferie delle grandi metropoli. Ad osservarla dall’alto del colle Pancrazio, Cosenza nuova si presenta come una distesa di cemento che continua a svilupparsi in modo caotico in tutte le direzioni, un ammasso di palazzi dove è impossibile distinguere un quartiere dall’altro.

    Degrado nel popoloso quartiere di Via Popilia a Cosenza

    Nel corso del tempo, l’incontrollato aumento delle costruzioni, ha annullato i confini e così il capoluogo si confonde con i paesi limitrofi e si assiste alla fuga dei cittadini dal centro. Al saccheggio della città hanno partecipato tutti. Quando si decise di smantellare la vecchia stazione ferroviaria e costruirne una nuova nella decentrata contrada Vaglio Lise nessuno ha protestato. Col senno di poi, si critica quella scelta sciagurata riconoscendo il danno irrimediabile arrecato a Cosenza. La vecchia stazione si trovava in pieno centro mentre la nuova non è che un ecomostro semi-abbandonato, dalle pareti scrostate e cadenti, da cui partono e arrivano solo pochi treni per Paola e Sibari.

    Si tratta di una struttura in calcestruzzo armato, con ben sette binari per i viaggiatori e tre per il servizio merci, dotata di palazzine e di un enorme atrio adatti per una metropoli. Al viaggiatore appare come una spettrale cattedrale nel deserto, lontana dalla città e mal collegata, con parcheggi sotterranei bui e sporchi. Oggi si discute se abbattere questo inutile quanto orribile mausoleo.

    La città degli avvocati

    I politici di oggi non posseggono carisma, non ricoprono incarichi di rilievo nel governo centrale, non sono conosciuti sul panorama nazionale, ma il loro modo di intendere la politica non è molto diverso da quello dei loro predecessori. Del resto molti di loro sono figli o parenti di quei politici, altri sono cresciuti nelle segreterie o «correnti» di partito. Tutti appartengono a quella piccola e media borghesia impiegatizia e del lavoro autonomo che teneva saldamente il potere in città e che, come scriveva Gramsci, si rivelava incapace di svolgere un qualsiasi compito storico.

    Tra le categorie professionali che hanno condizionato maggiormente la vita cittadina, emerge quella degli avvocati. Piovene, alla metà del Novecento, si meravigliava dello «spettacoloso» numero di legali di Cosenza che condizionava perfino i ritmi della vita sociale: in città si faceva colazione tardi perché i legali comparivano in tribunale fra le undici e mezzogiorno. Oggi il numero degli avvocati è addirittura aumentato. Quasi ogni portone mostra la targa di uno studio legale, a volte si tratta di studi associati dove lavorano sino a dieci professionisti.

    Presso l’Ordine degli Avvocati di Cosenza, qualche anno fa risultavano iscritti 1067 avvocati al settore civile ed affari giudiziari, 538 a quello penale e 188 a quello tributario-contabile-amministrativo, per un totale di 1793 professionisti. A questa cifra bisognava sommare le centinaia di dottori praticanti e i giovani laureati in giurisprudenza che, di fronte alla concorrenza spietata e all’impossibilità di avviare un proprio studio, sceglievano altre carriere.

    L’ingresso del tribunale di Cosenza
    Lo stupore degli stranieri

    I viaggiatori stranieri che nel corso dei secoli visitarono Cosenza erano colpiti dall’ambiguità e dalla doppiezza dei loro «anfitrioni altolocati». Tavel agli inizi dell’Ottocento scriveva che quando avevano interesse a persuadere qualcuno, usavano astuzia e maniere striscianti e, se non si aveva esperienza della perfidia di cui erano capaci, si rimaneva puntualmente beffati; dotati di grande talento nel giudicare il carattere delle persone, estremamente furbi e adulatori, non risparmiavano alcun mezzo per raggiungere i propri fini.

    De Custine affermava che erano allo stesso tempo gli uomini più falsi e più sinceri che aveva conosciuto: quando l’interesse lo esigeva mentivano con tanta finezza e abilità da far apparire vero il falso; mostravano un’ingenuità disarmante, che faceva paura quando si scopriva che era menzognera e lontana dall’innocenza. Ogni volta che conversava con i calabresi il francese era confuso non riuscendo ad afferrare il loro reale pensiero. Capitava che essi accusavano un uomo per infamarlo e contemporaneamente lo giustificavano, che ne criticavano le azioni aggiungendo che in fondo il suo scopo era lodevole: in sostanza, dopo aver dimostrato la meschinità del malcapitato, ne diventavano avvocati difensori. Per qualsiasi estraneo era praticamente impossibile riconoscere la verità in contraddizioni così artificiosamente combinate.

    Chiacchiere e ricerca di visibilità

    Padula definiva eruditi e politici cosentini «eloquenti chiaccheroni». Vantavano una formazione classica, dirigevano le Società Economiche preposte a promuovere lo sviluppo di agricoltura e industria, ma non distinguevano un’erba da un’altra, sprecavano tempo e parole perdendosi in astratte generalità senza che arti ed industrie se ne avvantaggiassero. Sempre Padula, il 9 marzo 1864 scriveva: «Far visite e ricevere visite dall’autorità, accompagnarle al teatro e al passeggio, correre ogni mattino ad informarsi della salute del loro signore e delle loro gatte è la massima delle sue felicità… Signor Intendente, signor Generale, signor Giudice, mi permetta che prenda un sigaro; e dice questo a voce alta, perché la gente che si trovasse sulla via sapesse ch’egli era amico del Giudice, del Generale e dell’Intendente».

    I partiti si dividono perfino la toponomastica

    I rappresentanti della piccola e media borghesia cittadina, militando in diversi partiti, si sono fronteggiati per governare la città e, tuttavia, sono stati sempre coesi come ceto sociale. Ciò è evidente anche nella scelta dei nomi con cui intitolare strade e piazze. A parte alcuni nomi «ad effetto», come quelli di Andy Warhol, Keith Haring o Jean-Michel Basquiat, sconosciuti alla maggior parte della popolazione e forse agli stessi amministratori, le altre scelte sono il frutto della spartizione tra i vari partiti politici.

    Chi ha proposto la nuova toponomastica, ha sottolineato di avere selezionato nomi noti e meno noti di persone che hanno lasciato un segno nella vita della comunità a prescindere dall’appartenenza politica. Entrando nel merito, si trovano politici e professionisti responsabili del caotico sviluppo edilizio e della gestione clientelare e familistica della cosa pubblica.

    La tendenza ad affermare il primato del proprio gruppo sociale nella storia è un processo iniziato molto tempo fa. Vie e piazze della città erano in passato dedicate ai mestieri e al commercio che vi si svolgeva. C’erano vie e piazze dei Cordari, dei Casciari, delle Concerie, degli Orefici, dei Mercanti, dei Sartori, dei Pignatari, dei Sellari, dei Forni, dei Pettini, della Neve, delle Uova e dei Follari. Nel settembre del 1898, la Commissione Municipale di Cosenza composta da legali, insegnanti e ingegneri, comunicava di aver cambiato la denominazione di alcune strade e piazze perché le intitolazioni «consigliate dal popolo» erano «volgari e poco simpatiche».

  • Briganti brava gente? Falsi Robin Hood

    Briganti brava gente? Falsi Robin Hood

    L’immagine della Calabria è legata ai briganti. Alberghi, ostelli, ristoranti, pizzerie, cooperative, aziende agricole, circoli culturali, gruppi musicali, compagnie teatrali, gruppi folkloristici ne prendono con orgoglio il nome. L’artigianato tipico della terracotta ha come prodotto di punta nell’uomo col cappello a cono e lo schioppo in mano e riproduzioni del brigante dall’aspetto fiero e tetro campeggiano sulle etichette di bottiglie di vino, olio, salumi e formaggi.

    Come Robin Hood

    Nell’Ottocento, Vincenzo Dorsa scriveva che le madri calabresi, trastullavano i loro bambini, chiamandoli brigantiellu miu, brigantiellu di mamma, così come altrove si sarebbe sentito mio cavaliere, mio principino: un figlio capo brigante avrebbe dato gloria e ricchezza a famiglia e parentato! Negli stessi anni, il noto romanziere Misasi descriveva i briganti come poveri giovani costretti a darsi alla macchia per sfuggire alle angherie e per vendicare ingiustizie. In vent’anni di latitanza, il celebre capobanda Tallarico aveva rubato ai ricchi per dare ai poveri, difeso i deboli da avidi sfruttatori, aiutato fanciulle a coronare il sogno d’amore.

    Alcuni storici ancora oggi sostengono che il brigantaggio era la reazione delle masse rurali a ingiustizia e miseria: angariati dai padroni interessati e crudeli, si davano alla macchia e attaccavano le proprietà. Dipingono i briganti come patrioti disposti a dare la vita per difendere la loro terra dall’odiato invasore. Combatterono i giacobini per difendere le tradizioni, la famiglia e la religione dei loro avi; i francesi per impedire loro che depredassero la regione; i piemontesi per aver scacciato il legittimo re di Napoli e occupato il Sud.

    Una presenza costante

    In realtà il brigantaggio è stato sempre presente in Calabria e gli stessi Borboni furono costretti più volte a mettere in stato d’assedio alcuni territori della regione. Era un fenomeno endemico e, come avevano ben compreso i viaggiatori stranieri, le bande diventavano più attive e numerose in occasione di rivolgimenti politici. Nel Cinquecento e Seicento le montagne della Calabria pullulavano di banditi dai nomi tristemente famosi in tutta Europa e nel Settecento il governo ammetteva che vasti territori della regione erano sotto il controllo di bande criminali.

    I briganti non erano umili e pacifici contadini che, presa coscienza della condizione di sfruttati, combattevano una lotta di classe. Per il generale borbonico Nunziante il brigantaggio dell’Altopiano Silano non nasceva dalla povertà, ma dall’indole violenta e rapace di uomini abituati all’uso delle armi: la maggior parte degli «scorridori di campagna», infatti, non erano contadini, ma guardiani.

    Nessuna matrice politica

    Vincenzo Maria Greco, storico locale convinto sostenitore di Re Ferdinando, aggiungeva che i briganti non erano patrioti in quanto, cacciati i Francesi, furono più attivi che mai e, soprattutto nel biennio 1844-1845, aumentarono così tanto di numero e di ardire che nel 1847 il re diede ordine ad un Maresciallo di campo di sterminarli. L’anno seguente, lo «stendardo» del brigantaggio riapparve ancora più terrificante: le bande si mostrarono numerose e minacciose come non mai e dovunque si verificavano rapimenti, saccheggi e assassinii. Il brigantaggio secondo l’autore, dunque, non aveva matrice politica o sociale, ma stava nell’indole rapace e sanguinaria di alcune famiglie abituate a delinquere.

    Spiriti, nel Settecento, sosteneva che i calabresi non diventavano briganti per le prepotenze subite o per amor di patria, ma perché allettati dai vantaggi che offriva l’attività delittuosa. Organizzati in piccole bande, giovani senza scrupoli e con precedenti penali si davano alla macchia per aggredire viandanti e mercanti, razziare greggi e mandrie, saccheggiare magazzini, rapire proprietari, taglieggiare chiunque minacciando ritorsioni.

    Economia e briganti

    Fare il brigante era un mestiere e intorno al brigantaggio si sviluppava una proficua attività economica che vedeva coinvolti manutengoli, soldati, medici, giudici e procuratori. Un bandito in prigione confessò a Misasi che, in soli due anni di attività, aveva guadagnato 80.000 ducati d’oro e d’argento, ma la maggior parte del denaro era servito per pagare manutengoli, giudici, squadriglieri e avvocati; la moglie era stata costretta a vendere la casa e andare a servizio e i figli, nudi e scalzi, conducevano una vita misera.
    Spiriti raccontava che il guadagno annuale di un altro celebre capobanda era stato di 12.000 ducati così ripartiti: 6.000 per la paga di legali e impiegati dei tribunali, 3.000 per protettori e sbirri, 3.000 divisi tra lui e i compagni.

    Al servizio dei ricchi

    Il brigantaggio era funzionale alla società tradizionale, le comitive di scorridori erano spesso tollerate, incoraggiate o protette da nobili, presidi e galantuomini per controllare il territorio ed eliminare potenziali nemici. Il Procuratore generale presso la Commissione feudale Winspeare annotava che i baroni coprivano i briganti in ogni modo e spesso li arruolavano nelle loro milizie private.
    Salis Marschlins affermava che i nobili calabresi si comportavano come tiranni senza alcuna legge morale e, per terrorizzare la popolazione, si servivano dei briganti che non esitavano a tirare fuori dai guai usando potere, denaro e intrighi quando questi erano arrestati. Lenormant, Bartels, Galanti, de Rivarol e tanti altri confermavano che nobili e galantuomini usavano i briganti per intimorire la gente di campagna.

    De Tavel annotava che a Cosenza, un gran numero di avvocati e giudici incoraggiava il brigantaggio nei casali intorno alla città, poiché proprio dagli scorridori di campagna proveniva la fonte principale dei loro guadagni. Rilliet, ufficiale medico della colonna mobile di scorta a Ferdinando II durante la visita in Calabria del 1852, annotava che squadriglieri, guardie urbane, gendarmeria e soldati mangiavano insieme ai briganti che avrebbero dovuto catturare.

    Diavolo e acqua santa

    I briganti, dunque, avevano rapporti con grandi proprietari, medici, avvocati, giudici e guardie che pagavano profumatamente. Durante la loro attività criminale, davano grosse somme in denaro persino a preti e monaci i quali, in segno di riconoscenza, offrivano protezione e ospitalità. Gli scorridori di campagna si mostravano profondamente religiosi, nutrivano una grande devozione per la Vergine, santi e arcangeli; parte del ricavato delle estorsioni era sempre destinato alla chiesa o al santuario dove si riunivano ogni anno per ringraziare della protezione ricevuta. Anche il bandito più sanguinario portava appese al collo reliquie e immagini dei santi o della Madonna che invocava prima di commettere ruberie e assassinii.

    Si racconta che in alcune sparatorie con la forza pubblica sollevavano in alto le sante reliquie convinti che queste potessero renderli invulnerabili alle pallottole. Il capobanda Palma di sera riuniva i suoi uomini, si metteva al centro con un crocifisso in mano e tutti recitavano il rosario e pregavano i santi protettori le cui immagini erano appuntate sui loro cappelli.

    Dai briganti ai mafiosi

    Oggi i briganti non ci sono più ma la regione è piena di mafiosi che usano il terrore come forma di controllo e di consenso e si qualificavano per gli atti di inaudita crudeltà nei confronti delle vittime. Molti intellettuali negli ultimi decenni hanno sostenuto che la mafia è figlia del sottosviluppo, conseguenza della povertà e della completa assenza dello Stato; i mafiosi non sono mossi da deliberata cattiveria o da disposizione psicologica a delinquere, ma da ribellione, sia pure sbagliata, contro l’ineguaglianza sociale. La ‘ndrangheta sarebbe dunque il riflesso di una società ingiusta, la reazione alla decadenza economica, alla disoccupazione e alle crescenti disuguaglianze.

    Alcuni sostengono, addirittura, che originariamente fosse composta da uomini che aiutavano i deboli e che la stessa parola deriverebbe da andragathìa, che significa coraggio, valore, virtù e rettitudine. Pur prendendo le distanze dal fenomeno mafioso, sono in molti ad alimentare lo stereotipo dello ‘ndranghetista costretto dalla dura vita a scegliere la via del crimine senza tuttavia abbandonare il senso dell’onore, della famiglia, dell’amicizia e della religione.

    I tempi cambiano, ma non troppo

    Ogni organizzazione criminale va collocata nel contesto storico in cui si sviluppa. La stessa ‘ndrangheta ha subito un’evoluzione: se in passato i suoi capi erano guardiani dei latifondisti, oggi sono persone che hanno accumulato immensi patrimoni; se un tempo l’ambiente privilegiato era quello rurale, oggi è quello delle grandi metropoli; se in passato l’attività era volta ai sequestri di persona, oggi gli affari si fanno con narcotraffico, grandi appalti e riciclaggio di denaro sporco.

    Le organizzazioni criminali si evolvono, ma alcune costanti rimangono. Sarebbe ingenuo pensare a una filiazione diretta dal brigantaggio alla ‘ndrangheta, ma è innegabile che molti elementi accomunano l’esperienza dei briganti calabresi e quella degli ‘ndranghetisti. Nel corso del processo contro la famigerata banda di Pietro Bianchi celebrato a Catanzaro nel 1867, un procuratore disse che il brigantaggio avrebbe ricevuto un colpo mortale allorquando la locomotiva avesse percorso maestosa la bella costiera calabrese dallo Jonio al Tirreno; ma si affrettò ad aggiungere, che neanche le ferrovie sarebbero bastate a distruggere le bande criminali senza il cambiamento di una mentalità diffusa che giustificava furto, sopraffazione e violenza.

  • Giangurgolo, il grande equivoco di un calabrese napoletano

    Giangurgolo, il grande equivoco di un calabrese napoletano

    Giangurgolo, la discussa maschera teatrale “del” calabrese, non ha origini calabresi ma nasce e racchiude l’arco della sua esistenza in scena nel secondo periodo della Commedia dell’Arte napoletana, dal 1615 al 1770. Fino a quando, nel ricostruito Teatro San Carlino, furono bandite le commedie non scritte.

    Giangurgolo falso Masaniello di quaggiù

    Negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, sulla scorta di errate sovrapposizioni interpretative si riscopre Giangurgolo come emblema della tradizione teatrale della nostra regione. E si continua a creare intorno a questo feticcio tutta una letteratura romanzata con la sola regola del “verosimile”, che vorrebbe regalarci un novello Masaniello che si ergeva contro l’arroganza della società spagnoleggiante del ‘700.

    Colmare una mancanza

    La quasi mancanza di tradizioni teatrali di spessore pare si volesse a tutti i costi colmare con identificazioni incontrollate di maschere e personaggi nati inconfutabilmente in altri ambiti. Un vezzo che mortifica le poche, ma vere, tradizioni nate nelle nostre contrade, spesso reticenti e distratte nell’autoanalisi delle proprie origini.

    Anche l’Accademia Cosentina sbaglia

    Persino la nobilissima Accademia Cosentina registra una relazione dello stimato scrittore e storico Coriolano Martirano, secondo la quale la maschera di Giangurgolo sarebbe nata a Reggio Calabria nel primo Settecento. Martirano, riconoscendo una sua interpretazione verosimilmente logica di una sibillina affermazione del Bragaglia, il noto critico teatrale incaricato nel 1960 dall’allora Ente Provinciale del Turismo di Cosenza a redigere un trattato sul Teatro Dialettale Calabrese, individuava la maschera come nata dall’esigenza di contrastare con l’arma della satira la pseudo nobiltà spagnoleggiante. Una nobiltà che, cacciata dalla Sicilia dopo la firma del trattato di Utrech del 1713, dilagava e spadroneggiava pomposamente nella città dello Stretto facendo spagnare la popolazione.

    L'ingresso della Biblioteca in piazza XV marzo
    L’ingresso della Biblioteca Civica di Cosenza in piazza XV marzo, sede dell’Accademia Cosentina
    Il verosimile di Martirano su Giangurgolo

    Bello, se fosse vero. Ma non è così. Martirano ammetteva lealmente e con colta onestà intellettuale di utilizzare il metodo del verosimile nei suoi romanzi. Al contrario di altri che nei loro scritti individuano persino il domicilio di Giangurgolo, come il catanzarese Vittorio Sorrenti che nel suo “Giangurgolo – Maschera di Calabria” lo fa nascere addirittura a Catanzaro.

    Il senso giusto dell’affermazione del Bragaglia è che il tipo del calabrese ha dato lo spunto agli autori napoletani dei canovacci del Seicento per creare una maschera grottesca, variante di quella del Capitano sbruffone e vanaglorioso, dal nome composito altrettanto sinistro derivante dai maleauguranti uccelli notturni (gurgolo=gufo, civetta) quindi Gianni, lo Zanni nella Commedia dell’Improvviso, Gian-gurgolo.

    Il parere del glottologo John Trumper

    Come ha specificato nella sua dotta dissertazione etimologica il glottologo John Trumper intervenendo, tra gli altri, nel secondo convegno da me organizzato nel 1998 sul tema “Giangurgolo, maschera del Calabrese nella Commedia dell’Arte”, sottolineando l’evidente scostamento del gergo usato nei canovacci dal vero dialetto calabrese, e catanzarese nello specifico.

    John_Trumper
    Il professor John Bassett Trumper

    Registrazioni e documenti inconfutabili del mondo del Teatro nelle più prestigiose biblioteche di Napoli e di Roma datano la nascita di questa maschera molti decenni prima. Si conoscono persino i nomi dei primi attori napoletani, come Natale Consalvo e Ottavio Sacco, che la vestirono a partire dal 1618.

    La goffaggine del calabrese

    Andrea Perrucci asseriva già nel Seicento: «La diversità delle lingue suole dare gran diletto nelle comedie». L’accento calabrese, denominato catanzese, è utilizzato ancor più per irridere la goffaggine del provinciale inurbato, come appariva appunto il calabrese del tempo, abbagliato dal luccichio delle corti reali della “capitale” Napoli. La stessa tipizzazione dialettale dà infatti carattere ad omologhe maschere, quindi a personaggi, come Don Nicola Pacchesicche, un mimo primitivo, cioè chillo malaureio de lo stodente calavrese, piuttosto che il paglietta calavrese, deriso nel suo provincialismo.

    Giangurgolo capitano in commedia

    La maschera di Giangurgolo, variante di capitano in commedia, ha caratteristiche assolutamente negative, ubriacone, traditore, bugiardo, ladro, spione e infido, e ci sorprenderemmo di tanto masochismo se fosse nata nelle nostre contrade che, al contrario, non ne registrano nessuna traccia, nessuna memoria storica.  Questo già nell’800 il Lumini, e dopo anche Benedetto Croce, lo facevano rilevare inconfutabilmente.

    Ancor più evidenze documentali appaiono negli esaurienti due volumi “Giangurgolo e la Commedia dell’Arte” del calabrese Alfredo Barbina, direttore dell’Istituto di Studi Pirandelliani e sul Teatro Italiano Contemporaneo in Roma, editi da Rubbettino.  Non meno esauriente è la “Storia del Teatro calabrese” del cosentino Giulio Palange. Le ricerche di questi intellettuali dovrebbero finalmente spronarci alla riscoperta di autori e maschere autoctone che, seppur minori, possono ambire alla rinascita di un vero teatro regionale.

    Gli autori locali in ombra

    Esistono tanti autori calabresi del Seicento come il Rossi da Cosenza, il Pugliese ed il Quintana da Castrovillari e tanti altri la cui opera è espressa in commedie e satire carnascialesche. Tutti meriterebbero una più ampia diffusione letteraria e rappresentativa. Anziché offuscarli col clamore di una maschera assolutamente minore, e assolutamente non calabrese, come quella del povero Giangurgolo.

    Malgrado questo scritto, si imporrebbe di non portarla più agli onori della cronaca con questa o quella tesi circa la sua provenienza. Da operatore teatrale non potrei comunque negarne l’utilizzo che, in quanto maschera, è facoltà e diritto dell’attore indossarla. Ed è facoltà del regista caratterizzarla, augurandoci che non se ne stravolga eccessivamente la tipizzazione originaria.

    Rino Amato

    scrittore e regista teatrale

  • Cucina tipica calabrese, sapori di un tempo inventato

    Cucina tipica calabrese, sapori di un tempo inventato

    Coadiuvato da un’equipe, Ancel Keys, fisiologo americano e inventore della “razione k”, il rancio dei soldati americani durante la Seconda guerra mondiale, nel 1957 studiò la dieta alimentare degli abitanti di Nicotera, paese calabrese lungo la costa del Tirreno. Su un campione di trentacinque famiglie riscontrò che vi era un basso tasso di malattie cardiovascolari dovuto allo stile di vita e alla nutrizione. La ricerca, estesa ad altre regioni, confermò che le popolazioni del Mediterraneo erano accomunate da un’alimentazione che, per gli effetti benefici sulla salute poteva considerarsi una delle migliori del mondo.

    La dieta mediterranea

    La “dieta mediterranea” ebbe il consenso di medici e consumatori, fino a essere riconosciuta dalla stessa Unesco quale patrimonio dell’umanità. Nelle motivazioni si legge che essa rappresenta un modello alimentare rimasto costante nel tempo e nello spazio, un sistema nutrizionale che favorisce l’interazione sociale, rappresenta i costumi delle comunità, promuove il rispetto per il territorio e garantisce la conservazione di antichi mestieri.

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    Ancel Keys a Nicotera

    Per i popoli del Mediterraneo l’atto del mangiare non è solo una questione di sostentamento. È anche un modo per condividere e socializzare, rafforzare rapporti di parentela e vicinato, incoraggiare incontri e ospitalità, creare convivialità e allegria.
    Oggi molti lamentano che la dieta mediterranea, per via del forsennato processo di globalizzazione, stia scomparendo a vantaggio della diffusione di fast food, luoghi amati soprattutto dai giovani, in cui mangiano frettolosamente pietanze a base di grassi animali.

    Si assumono più calorie e se ne bruciano di meno, sono ridotti i consumi di cereali, legumi, verdure e ortaggi e sono aumentati quelli di carne, uova, salumi, formaggi e dolci. Le tradizioni gastronomiche, strumento fondamentale di protezione identitaria e di coesione sociale delle comunità, sono sempre più trascurate. I cibi semplici e poco elaborati, alla base di un sistema dietetico secolare, sono sostituiti da alimenti di cui s’ignora provenienza e storia.

    Cibo e salute in Calabria

    Non abbiamo una documentazione sufficiente per stabilire quanto in passato l’alimentazione incidesse sulla salute dei calabresi. Alcuni sindaci nelle inchieste governative affermavano che la popolazione, nonostante un regime alimentare povero e monotono, cresceva sana e vigorosa. Le cifre sulla salute dei giovani in occasione della visita di leva, però, erano drammatiche: circa la metà era riformata e rivedibile per bassa statura, deficienza di sviluppo toracico e debole costituzione.

    I medici sostenevano che la gente di campagna era consapevole che mangiare sobriamente fosse un bene per la salute ma la loro dieta vegetariana non era una libera scelta, né una conseguenza di considerazioni mediche o religiose. La predominanza di pietanze a base vegetale non era frutto di un comportamento virtuoso dettato dall’esperienza ma conseguenza del bisogno, della costrizione e della miseria. «O ti mangi sa minestra o te jietti da finestra», o ti mangi questa minestra o ti butti dalla finestra, «è miegliu nivuru pane ca nivura fame», è meglio pane nero che nera fame, sottolineavano due proverbi calabresi.

    Abitudini e desideri

    Non sempre le abitudini alimentari corrispondono al gusto degli individui: diverso è mangiare un cibo abitualmente, altro è apprezzarlo. I contadini consumavano verdura, legumi, ortaggi e cereali ma desideravano carne, pesce, formaggi e dolci. In alcune zone si diceva «carne de puorcu e cavuli all’uortu, chini nun si mangia si trova muortu, pa salute ci vò puru ‘u salatu e cu mangia erba, pecora diventa», per sottolineare quanto fosse necessaria la carne per una buona alimentazione.

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    La carne era cibo destinato ai più abbienti, i contadini calabresi la mangiavano di rado

    Occupati nei duri lavori campestri, i campagnoli preferivano la carne poiché meglio soddisfaceva il bisogno di proteine e, non a caso, dicevano carne fa carne. La gran parte della popolazione non era soddisfatta di quello che mangiava e immaginava l’esistenza di paesi della cuccagna, luoghi in cui consumare carne e pesce in abbondanza, mondi difficili da raggiungere, al pari di quegli alberi della cuccagna a cui, durante le feste, erano appesi polli, capretti, salumi e formaggi.

    Altro che triade

    Molti studiosi affermano che la dieta dei calabresi, come quella di altri popoli del Mediterraneo, si basava sulla “triade” grano, vino e olio. In realtà, gran parte della popolazione non consumava mai pane di grano, per condire usava soprattutto la sugna e beveva il vino solo durante le feste. I contadini seguivano una dieta poco variegata: a colazione, pranzo e cena utilizzavano sempre gli stessi alimenti, con piccole variazioni durante le solennità.

    Per amor di patria, alcuni autori hanno inventato una gastronomia calabrese che con le sue pietanze originali avrebbe rappresentato un fattore centrale per la costruzione di una solida appartenenza culturale. Genuina, semplice ed essenziale, a parte alcune contaminazioni, la cucina regionale sarebbe rimasta sostanzialmente fedele a degli ingredienti e a un’arte culinaria risalente ai tempi della Magna Grecia.

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    Il peperoncino, oggi simbolo della cucina locale, per millenni non ha fatto parte del menu dei calabresi

    In realtà, gran parte degli alimenti considerati tipici della cucina calabrese non esistevano. Sono stati introdotti lentamente nel corso dei secoli dopo resistenze, scontri e patteggiamenti. Il processo di globalizzazione che oggi sconvolge le diete alimentari si è verificato più volte in passato: non si può pensare ad una gastronomia regionale senza i prodotti giunti da Africa, Medio Oriente, India e Asia. Patate, pomodori, mais, fagioli, zucche, peperoncini e altri cibi introdotti dalle Americhe hanno letteralmente sconvolto l’alimentazione dei calabresi, come era successo secoli prima, con la dominazione araba.

    Nostalgia, l’altra faccia della medaglia

    Nei libri di cucina regionale si coglie spesso una nostalgia per i cibi semplici, sani e genuini del passato. I sapienti contadini sapevano come utilizzare ciò che la terra offriva e pianificavano le produzioni in modo da avere ciò che era necessario durante l’anno. Molti rimpiangono quel mondo in cui si rispettava la stagionalità delle coltivazioni, i prodotti si acquistavano nei campi vicini, i cibi non erano viziati da conservanti o coloranti, le verdure non trattate con pesticidi, il grano non geneticamente modificato, gli animali non imbottiti di antibiotici, l’acqua, la terra e l’aria non inquinati.

    In realtà nelle terre situate lungo le fertili pianure in estate si respirava un’aria putrida e malsana che costringeva la popolazione a vivere sulle aspre e inospitali montagne. Lì i contadini avevano la necessità di far durare le riserve di cibo il più a lungo possibile per affrontare gli inverni. E se legumi e cereali duravano nel tempo, a febbraio molti altri prodotti germogliavano, ammuffivano, diventavano rancidi e infracidivano. Gli alimenti da conservare erano essiccati, affumicati, salati o posti in luoghi elevati o sotterranei, con risultati spesso deludenti, mentre quelli immersi in olio, aceto, grasso o miele producevano muffe e perdevano le qualità nutritive.

    Molti pensano ingenuamente che i contadini, poco avvezzi alle novità e utilizzando sempre gli alimenti prodotti nei campi, abbiano creato quella che noi chiamiamo cucina tradizionale. In realtà, gran parte dei piatti proposti nei recenti trattati di gastronomia regionale non esisteva e le fonti storiche che dovrebbero dimostrarne la presenza affermano esattamente il contrario. La “cucina calabrese” è un concetto recente. Affermatesi soprattutto a partire dagli anni Sessanta, le cucine regionali, figlie della crescita e del benessere, si sono sviluppate per contrastare l’egemonia dell’industria agro alimentare.

    Resistenza, ma non solo

    La scoperta e la difesa dei cibi perduti, accompagnate spesso da ricordi nostalgici e ricerche storiche discutibili, non sono tuttavia solo un atto di resistenza contro il dispotismo del mercato globale. Ricettari di cucina, guide gastronomiche e sagre paesane sono aumentati anche e soprattutto per conquistare uno spazio nel mercato locale e, allo stesso tempo, attrarre turisti con la promessa di una cucina sana e dimenticata.

    I pochi piatti della povera dieta dei contadini col passare del tempo si sono moltiplicati come il miracolo dei pesci e la Calabria è celebrata come terra dalle grandi tradizioni culinarie. I piatti del passato vengono abilmente confusi con quelli inventati dai nuovi ristoratori. E così nella regione sono considerati piatti tipici codine di aragosta alla crema di cedro, cernia con funghi e patate, filetti di pesce castagna al vino, orate al cartoccio con olive, pesce spada all’acqua pazza, razza in tegame e, come si legge in un recente libro a cura di Slow Food, frittelle di lattuga di mare e lagane con i murici.

    Aragosta o stoccafisso?

    Leggendo alcuni libri sulla gastronomia calabrese si rimane stupiti dalla ricchezza e dalla varietà delle ricette. In un volume dedicato alla cucina di mare, tra antipasti, focacce, zuppe, fritture e grigliate si presentano ben 226 piatti, tra cui aragosta alla griglia, cernia al forno con olive e capperi, murena alla brace, ricciola con pomodoro e capperi, orata al cartoccio con patate e olive, sarago in crosta di sale e gamberoni.

    Nei ricettari di cucina si legge che si preparavano sarde, alici, sardelle, anguille, lampughe, palamiti, pettini, dentici, mormore, saraghi, orate, sauri, occhiate, spatole, spigole, triglie, cernie, seppie, calamari, polpi, totani, tonni, pescatrici, razze e altre specie di pesci pregiati che i contadini calabresi non avevano mai visto e di cui non conoscevano il nome.
    Il pesce fresco era una rarità e, persino nei pochi villaggi delle coste, gli abitanti mangiavano “baccalame”, pesci secchi, affumicati e salati provenienti dall’estero. Nella stessa Nicotera, come si evince dall’inchiesta condotta da Keys, si faceva largo uso di stoccafisso e baccalà, cucinati fritti, lessi o cotti in padella con cipolla, peperoncino e olive.

  • I segreti dell’organetto alle pendici della Sila

    I segreti dell’organetto alle pendici della Sila

    Senti odore di mosto a Cozzo Carbonaro, piccola frazione di Lattarico, nel Cosentino. Tra quelle colline non è difficile incrociare la melodia di una fisarmonica o di un organetto. Spesso è il maestro Agostino Giuseppe Scavello a suonare. Classe 1933, ringiovanisce di colpo quando indossa i suoi strumenti musicali, quelli che con orgoglio ha costruito con le sue mani. Figlio d’arte, il padre accordava gli organetti, la tecnica l’aveva appresa da autodidatta.

    A vent’anni volevo imparare a costruire organetti

    «Me ne sono andato da Lattarico a vent’anni proprio perché volevo imparare direttamente dalla prima fabbrica italiana (la Paolo Soprani), ad accordare e riparare questi strumenti».
    Le fisarmoniche e gli organetti esplodono nella loro diffusione nell’Italia appena unificata. Le industrie si innestano nella produzione artigianale degli strumenti musicali. La popolarità di questi strumenti a mantice era anche dovuta alla facilità con cui si poteva imparare a eseguire una melodia. Senza necessariamente saper leggere la musica.
    «A Castelfidardo sono stato accolto dalla famiglia Soprani come un amico, mio padre era loro cliente da sempre e non si sono fatti nessun problema a insegnarmi i trucchi del loro mestiere. Tutte le fabbriche di fisarmoniche erano nate da dipendenti che una volta appreso il mestiere si sono messi in proprio e in parte questo era il mio sogno».

     

    Il maestro Scavello torna a Lattarico 

    Dopo cinque anni di apprendistato Scavello torna nella sua Lattarico, ma la difficoltà a trovare operai lo la fa desistere dal suo sogno. Nel frattempo si lascia prendere dall’insegnamento della musica, raggiunge i suoi discepoli a gruppi nelle frazioni e non per diffondere solo la musica, ma soprattutto la passione per l’arte. Quella di antichi mestieri che resistono nella Calabria di oggi.

    «Così già negli anni Sessanta era la fabbrica che mi contattava per fare le riparazioni per loro conto», un’abilità operativa riconosciuta non solo dalla casa madre, ma da tutti i clienti calabresi, che sanno che le piccole riparazioni il maestro le assicura in poche ore, permettendo a molti professionisti di non doversi rivolgere alle aziende produttrici a migliaia di chilometri e rischiare di non potersi esibire.

    Il primo strumento costruito 

    Il primo strumento costruito con le sue mani una volta a Lattarico è l’accordatore, ancora lì nel laboratorio. Operativo dopo sessant’anni, utile quando le ance di metallo non producono più il suono desiderato. Queste complesse lamelle in acciaio e alluminio hanno bisogno di un lavoro certosino a suon di lima e pinza, tutto rigorosamente a mano e a orecchio. Si registra la testiera, si accorda ogni singola parte, di ogni tipo di strumento «quelle più semplici sono quelle italiane, meglio le Soprani, quelle più complesse nella meccanica sono quelle polacche». Nessun problema per il maestro: «Ma io le riparo lo stesso». Nessuno strumento sembra avere segreti.

    L’accordatore del maestro Scavello (foto Tommaso Scicchitano)
    Le innovazioni di Scavello

    «Molti strumenti sono prodotti industriali, comunque hanno bisogno di una cura artigianale», spiega Scavello. E sottolinea: «Ora lo faccio di meno, ma ho realizzato alcuni strumenti quasi interamente a mano».

    Immagini sacre negli organetti costruiti da Scavello (foto Tommaso Scicchitano)

    L’orgoglio è anche di aver inventato qualcosa di innovativo: «Dieci anni fa ho avuto l’idea di inserire nel suono dell’organetto la zampogna, un prodotto molto apprezzato in provincia di Reggio Calabria». Dall’organetto esce anche il suono della piva, si possono sentire due strumenti contemporaneamente. Forse non sarà l’innovazione del secolo in ambito musicale, ma denota l’assoluta padronanza di uno strumento complesso, tale da poterlo ripensare.

    Una questione di famiglia

    Il maestro con orgoglio parla del legame che c’è con la ditta Soprani, una stima reciproca segnata da continui contatti. La musica per Agostino Giuseppe è una questione di famiglia. Tra negozio e laboratorio lavorano un figlio e un nipote. Con orgoglio puntualizza: «Mio nipote è laureato in pianoforte e un altro più piccolo sta imparando». il primo «è arrivato al mio livello, ha l’orecchio, la pazienza, la passione».
    Il know how di un’azienda di famiglia, quello che ti fa riconoscere e stimare per generazioni, non è solo conoscenza e abilità, è soprattutto passione e amore. In questo caso, per la musica.

    Tommaso Schicchitano

  • I cannibali calabresi al servizio del cardinale Ruffo

    I cannibali calabresi al servizio del cardinale Ruffo

    «Alza gli occhi verso il mare, che s’è fatto tenero. Come il cielo, come il Vesuvio Grande e indifferente. Un piccolo sospiro di rimpianto. Non osa chiedere: vorrebbe, però. Ritrovarli tutti nell’abbraccio di Dio sarebbe bello. Così, invece, che rimane? Niente il resto di niente».
    È il passaggio finale di Il resto di niente, romanzo in cui Nicola Striano racconta la vita di Eleonora Fonseca Pimentel e la parabola tragica della Repubblica Napoletana.
    È il 20 agosto 1799: la nobildonna italo-portoghese sta per salire il patibolo a piazza del Mercato assieme ad altri sette condannati. Per lei “il resto di niente” è solo un modo di dire, perché nel giro di un’ora riceverà degna sepoltura.

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    Un murale a Napoli dedicato a Eleonora Fonseca Pimentel

    Per Nicola Fiani, ex ufficiale pugliese dell’esercito borbonico convertitosi alla causa rivoluzionaria, l’espressione è da intendersi alla lettera: di lui non resterà davvero il resto di niente. A differenza della pasionaria della rivoluzione, Fiani non ha la cittadinanza napoletana, quindi non può essere seppellito subito. Occorre aspettare che i suoi parenti reclamino il corpo, dopodiché finirà in una fossa comune, se non si trova chi è disposto a seppellirlo a sue spese.
    Il popolo radunato sotto le forche risolve il problema a modo suo: i più facinorosi tirano giù il corpo, lo spogliano, lo fanno a pezzi e, secondo alcune fonti credibili, ne espiantano il fegato che piastrano e divorano.

    L’orrore e la pietà

    Questa vicenda macabra ha dei testimoni d’eccezione: il medico Diomede Marinelli, che la ricostruisce nei suoi diari, e l’avvocato Carlo De Nicola, tra l’altro un fedelissimo dei Borbone, che hanno riconquistato Napoli da poco più di due mesi, grazie all’Armata Cristiana e Reale del cardinale calabrese Fabrizio Ruffo, poi rinominata (e così passata alla storia) Esercito della Santa Fede.

    La testimonianza definitiva su questa vicenda, è tuttavia contenuta in una relazione della Confraternita dei Bianchi, un gruppo religioso incaricato di confortare i condannati a morte: loro sì, avevano davvero visto e sentito tutto, perché erano lì. E ne scrissero in segno di protesta. Già, una cosa è la giustizia, anche sommaria, un’altra le efferatezze, compiute dai lazzari (cioè i popolani) in combutta coi “calabresi”.

    Un esercito made in Calabria

    Ma chi sono i “calabresi”? Senz’altro gli abitanti della Calabria. Ma nel gergo dell’epoca “calabrese” era anche sinonimo di “provinciale”, cioè di non napoletano, perché il Regno di Napoli funzionava a due velocità: in “serie A” Napoli e i suoi abitanti, in “serie B” (esclusa la Sicilia che era uno Stato a parte sebbene sempre sotto corona borbonica) tutto il resto. Infine, calabresi erano chiamati anche i seguaci del cardinale Fabrizio Ruffo, che iniziò la riconquista del Regno a fine gennaio 1799, circa un mese dopo che Ferdinando IV di Borbone e la regina Carolina d’Asburgo erano fuggiti dalla capitale che stava per essere conquistata dai francesi e per diventare repubblica.

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    Un ritratto del cardinale Fabrizio Ruffo

    Nato a San Lucido, sul Tirreno cosentino, Fabrizio Ruffo era discendente dei Ruffo di Bagnara Calabra, i più potenti feudatari calabresi dell’epoca.
    Trasferitosi a Roma in giovanissima età fece una carriera eccezionale nell’amministrazione papale, grazie al blasone, alle parentele (in particolare, coi Firrao di Luzzi) e all’amicizia con Giovanni Angelo Braschi, che sarebbe diventato papa col nome di Pio VI.
    Politico fine e lungimirante, Ruffo introdusse importanti riforme nello Stato Pontificio, che tuttavia gli attirarono antipatie e rancori. Nominato cardinale e rientrato a Napoli, il nobile calabrese entrò nell’entourage di Ferdinando IV, che seguì nella fuga a Palermo.

    Proprio su incarico del re, il cardinale Ruffo sbarcò in Calabria e iniziò a reclutare miliziani nei feudi di famiglia e attraverso le parrocchie. Era lo zoccolo duro della sua armata, che avrebbe iniziato la sua terribile risalita verso la capitale mettendo a sacco le città finite in mano ai rivoluzionari, seminando disordine e terrore ovunque.
    Ma il peggio doveva ancora arrivare.

    Orrori e “lacreme napuletane”

    Abbandonata dalle truppe francesi, che lasciano solo un debole presidio, Napoli cadde il 13 giugno del 1799, dopo una giornata di combattimenti feroci. Anziché arrendersi, un drappello di patrioti giacobini asserragliato nel fortino di Vigliena, preferì lasciarsi esplodere.
    Tra le rovine del forte giacevano i corpi di tre donne, che indossavano l’uniforme della guardia civica. Inferociti dai combattimenti violenti, gli assedianti “calabresi”, a cui si erano uniti i lazzari, spogliarono le tre poverette e ne violentarono i cadaveri.
    Per la capitale era l’inizio di mesi di orrori e atrocità.

    Le esecuzioni sommarie erano all’ordine del giorno. Così i saccheggi e le violenze più estreme. I testimoni dell’epoca raccontano di strade piene di cadaveri mutilati e fatti a pezzi. In città era esplosa la “caccia al giacobino”. E per passare da rivoluzionari, in quella terribile follia collettiva, bastava essere benvestiti e non popolani. In pratica, erano al riparo solo i nobili fedeli alla dinastia.

    L’escalation

    Tutte queste vicende sono raccontate dallo storico cosentino Luca Addante nel suo I cannibali dei Borbone, uscito da poco per Laterza. Addante, professore di Storia moderna all’Università di Torino, è un profondo conoscitore delle vicende della Repubblica Napoletana.
    Non a caso, circa quindici anni fa fu protagonista di uno scoop storico non indifferente: il ritrovamento, a Parigi, delle ossa del rivoluzionario cosentino Francesco Saverio Salfi.

    Torniamo alla Napoli della seconda, terribile metà del 1799, dove, di violenza in violenza si era arrivati all’indicibile.
    La situazione era sfuggita di mano a Ruffo, che pure aveva tentato di mantenere l’ordine e si era appellato al re e al primo ministro John Acton. Ma invano, perché le efferatezze erano all’ordine del giorno: teste mozzate usate come palloni da calcio, corpi fatti a pezzi e bruciati. In tutto questo i cannibali non potevano mancare.

    Il festino cannibalico

    Le fonti utilizzate da Addante (tra cui i citati Marinelli e De Nicola) concordano nel riportare almeno cinque vittime, massacrate e cannibalizzate. Due di loro erano patrioti, rimasti anonimi, fatti a pezzi, in parte “piastrati” (il “solito” fegato e il cuore) e quindi divorati. Tre, paradossalmente ma non troppo, erano ufficiali borbonici, accusati di essere spie dei “jacubbini”. Ma tutto lascia pensare che gli episodi con cannibali come protagonisti fossero di più.

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    La rua Calana a Napoli

    Lo testimonia una macabra galleria di dipinti allestiti nella rua Catalana: nature “morte” che ritraevano piatti contenenti membra umane. La misura era colma, anche per Ruffo, che ordinò al capo della polizia di intervenire e sequestrare le “opere”.
    Ma questi orrori non capitarono solo a Napoli. I cronisti riferiscono due episodi.
    Il primo avvenne a Teramo, dove fu squartato e vittima dei cannibali un soldato francese (e parrebbe che i sanfedisti non si fermarono al fegato), il secondo a Montesano sulla Marcellana, nel Salento, dove la folla sbranò Nicola Cesari, il presidente della municipalità.

    Lo spuntino del brigante Spaccapitta

    Secondo Addante queste forme di cannibalismo sono un residuo atavico della cultura popolare, che riemerge nelle grandi crisi, quando la violenza esplode incontrollata.
    A sostegno di questa tesi, lo studioso espone nel suo libro un’enorme casistica, che va dal XIV secolo alle soglie dell’età contemporanea.

    Anche il brigantaggio calabrese ebbe i suoi bravi cannibali. Fu il caso di Spaccapitta, un bandito di Acri che lottava contro i francesi durante il decennio napoleonico. La sua attitudine era meno feroce e più gourmet, à la Hannibal Lecter: bruciava i cadaveri dei nemici e ne faceva colare il grasso su fette di pane, che assaporava annaffiandole con un buon vino locale.
    Ma da questa vicenda Ruffo si era chiamato fuori. Scioccato dagli orrori del ’99, il cardinale aveva rifiutato l’invito del re a ricostituire l’Armata. «Certe follie si fanno una volta sola», disse. Come dargli torto?

  • Vittimisti e “pagliettari”, quella Calabria che piange per autoassolversi

    Vittimisti e “pagliettari”, quella Calabria che piange per autoassolversi

    Nel corso dei secoli politici e letterati calabresi hanno spiegato i mali della regione individuando dei colpevoli esterni. Il meccanismo dei loro ragionamenti è semplice ed efficace: la Calabria è una terra ricca, ma impoverita per colpa degli altri. La sua popolazione è stata sempre descritta dagli stranieri come arretrata, chiusa in secolari abitudini, non disponibile al confronto civile e, quindi, autocondannata a fame, ignoranza, miseria e isolamento. Calunniati e privati di tutto, i calabresi sono stati costretti a vivere in condizioni misere e, nonostante d’animo buono e ospitale, spinti ad assumere comportamenti rudi e aggressivi.

    I vittimisti

    Queste figure si presentano come coloro che svolgono un servizio per la comunità. Prendono la parola in nome degli altri, interpretano e rappresentano i valori della gente a cui appartengono. Non esprimono sentimenti autentici, non appartengono a una scuola di pensiero e spesso polemizzano tra loro. Ma immancabilmente descrivono i calabresi come vittime e, per questo motivo, si potrebbe chiamarli «vittimisti».

    Vittimista è chi si atteggia a vittima senza esserlo, chi si convince di essere in balia delle circostanze, chi finge di aver patito una prepotenza. Se la vittima è il soggetto passivo di un’azione ingiusta, il vittimista è un attore perché lamenta guai che non ha. Interpreta il ruolo del perseguitato: è un artista della simulazione, pretende la scena e le sue rappresentazioni della realtà sono artefatte.

    L’attendibilità non conta

    I calabresi teorici del vittimismo ancora oggi non si propongono di liberare il popolo dalle rappresentazioni mentali che offuscano le cause della condizione in cui vive, né di combattere pregiudizi, superstizioni e ignoranza. Il fattore potente e unificante delle loro argomentazioni retoriche non è contenuto nelle cose che affermano. Sta nella pratica della lamentazione: indicare colpevoli che giustifichino l’essere vittima, elencare i mali della regione addossando le responsabilità ad «altri».

    Consapevoli della genericità di certe affermazioni, sanno bene che la loro efficacia emotiva è più importante dell’attendibilità. E per dare credibilità alle proprie opinioni, utilizzano in maniera disinvolta le fonti, modificano o inventano i fatti, affermano idee che, fatte circolare insistentemente, diventano in qualche modo plausibili ed accettate: il tempo avrebbe dato autorità e credibilità alle loro storie.

    Come i pagliettari

    Essi si comportano come quei loquaci uomini di toga, dottori in legge o procuratori chiamati volgarmente dal popolo paglietti o pagliettari i quali, come scriveva Rampoldi nel 1832, con artifici, sottigliezze, cabale, raggiri, trappolerie, frodi e falsi giuramenti erano capaci di mutare il bianco in nero per proprio tornaconto e il meno infelice dei clienti non era chi alla lunga vinceva la causa ma chi più presto la perdeva.

    Il vittimista calabrese, come il pagliettaro, è abile nell’uso della parola, un chiacchierone ostinato, capace di dire tutto e il contrario di tutto, di sostenere cose che non corrispondono a ciò che pensa. È incapace di legare i suoi discorsi a un principio di verità. Le sue affermazioni si basano su feticismo verbale e su conoscenze superficiali che lo portano a esprimere concetti sommari con cui catalizzano l’attenzione della gente, favoriscono convinzioni e consolidano credenze.

    Consenso e deresponsabilizzazione

    Le sue argomentazioni sono vaghe ma non per questo opache e senza forza di suggestione. Anzi, è proprio la genericità di affermazioni non suscettibili di verifica a funzionare efficacemente come strumento di consenso. Ripetute ossessivamente, alcune idee si rivelano talmente efficaci da contagiare la popolazione fino a diventarne un aspetto fondamentale di identità e imporsi come modo di vivere.

    Il vittimista attacca chi muove critiche alla sua terra non perché si sente ferito, ma per riaffermare le sue lamentele. Non è interessato tanto alla riparazione del danno subito, quanto alla possibilità di impiegarlo utilmente per difendere i suoi privilegi. Smonta ogni accusa che mette al centro le responsabilità dei calabresi e sottolinea in ogni occasione la loro posizione di perseguitati in modo da perpetuarla.
    Egli sa che la litania dei torti sofferti deve essere recitata costantemente, che bisogna tenere sempre alta la tensione in modo che le vittime non dimentichino mai chi sono.

    Una scusa per ogni problema

    Se la miseria economica e sociale è responsabilità degli altri e se le ingiustizie sono state compiute da altri, spetta ad altri eliminarle. Il vittimista difende una realtà verso cui non vuole o non sa porre rimedio: basta dichiararsi vittime per avere ragione, perché le vittime, per definizione, sono innocenti e non possono essere ritenute responsabili di quel che subiscono.

    Quando non vi sono colpevoli o potenziali carnefici utili a rafforzare la posizione degli oppressi, quando le responsabilità dei calabresi sono evidenti, il furbo vittimista giustifica i comportamenti e le azioni come conseguenza dei mali sofferti. Se la Calabria negli ultimi cinquant’anni è stata sommersa dal cemento che ha completamente distrutto il paesaggio, la responsabilità è dei calabresi. Ma tutto è frutto di necessità, voglia di riscattare l’ancestrale miseria e desiderio di vivere una vita più dignitosa.

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    Non finito con vista sul mare a Riace (foto Angelo Maggio)

    Ogni problema che attanagli la regione trova per il vittimista una giustificazione. Riconosce il clientelismo come una pratica disonesta in cui un personaggio influente instaura un sistema di potere. Ma nello stesso tempo lo legittima sostenendo che in fondo funge da argine contro l’ingiustizia dello Stato che da sempre ignora le classi deboli. I potenti che fanno clientele sono considerati uomini particolarmente sensibili ai problemi della gente e, sia pure in cambio di qualche voto, offrono aiuto anche al di fuori della rete parentale.

    Il pessimismo diffuso

    L’atteggiamento dei vittimisti ha favorito un diffuso pessimismo, la convinzione che gli eventi negativi si sarebbero succeduti senza soluzione di continuità, che la regione fosse perseguitata da forze negative, sfuggenti ed ignote, impossibili da combattere. Pasquale Rossi, agli inizi del Novecento, scriveva che l’indole del popolo calabrese era pessimista e il pessimismo favoriva apatia, sfiducia, egoismo, invidia, maldicenza e individualismo.

    Il sentimento d’ineluttabilità e d’impotenza tanto diffuso nella popolazione ha dato linfa all’idea dell’esistenza di un destino sempre avverso. Ha fatto sì che generazioni di uomini si sentissero perseguitate da potenze oscure colpevoli del fallimento di tutte le loro azioni: nessuno può sfuggire al proprio destino, la realtà si subisce e si accetta.

    La convinzione che il corso della vita sia determinato a priori ha incoraggiato un atteggiamento fiacco e rassegnato, a dire e fare le stesse cose pensando che cambia qualcosa. Ha spinto all’autocommiserazione e alla mancata assunzione di responsabilità finendo per scoraggiare chi rivendicava la volontà di autodeterminarsi.

    La falsa coscienza

    Nelle loro asserzioni i vittimisti descrivono i mali che gravano da secoli sugli abitanti della Calabria ma, attribuendone agli altri la responsabilità, hanno finito per essere dei recriminatori, per dare importanza più ai problemi che alla loro soluzione.
    Non volendo o non riuscendo a comprendere il reale, si difendono producendo una falsa coscienza che, nel momento in cui acquista la forma di una coscienza completa trova una sistemazione teorica dei suoi contenuti in vere e proprie ideologie.

    La falsa coscienza elaborata nel corso dei secoli dai calabresi ha rappresentato un solido argine alla confusione della realtà, un mezzo più o meno consapevole per fornire una rappresentazione del mondo, un modo facile ed efficace per rimuovere i mali e proiettarli al di fuori dei propri confini.

    Considerare i calabresi come il bersaglio costante di ingiustizie terrene o ultraterrene è un modo per non ammettere i propri limiti e le proprie colpe e per giustificare tutto quello che di negativo esiste nella regione. Pur se mosso dall’amore verso la propria terra, il giustificazionismo dei vittimisti ha contribuito a radicare nella popolazione la concezione della propria debolezza e a rifuggire dalle responsabilità.

  • Musei, la Calabria cresce a dispetto delle istituzioni

    Musei, la Calabria cresce a dispetto delle istituzioni

    Qualche giorno fa ho letto un articolo dal titolo “Musei per tutte le tasche ma poco fruibili, il paradosso calabrese” a firma di Pietro Spirito. Tra i dati messi in risalto dalla puntuale presentazione delle statistiche ISTAT spiccavano la numerosità dei musei calabresi, la loro difficoltà di emergere (l’autore dichiarava che i visitatori stranieri «ne stanno alla larga»), la scarsa accessibilità al pubblico portatore di disabilità, il gap tecnologico, la ridotta presenza di attività didattiche e altro. Il che emergeva a prescindere dalla tipologia e gestione museale (statale, civica, diocesana o privata).

    I numeri non mentono. Eppure dietro i numeri risiede una complessa fenomenologia che vorrei brevemente raccontare al solo fine di denotare un cambio di marcia che negli ultimi tempi tenta di consolidarsi.
    L’attenzione ai musei della Calabria è fortemente aumentata – con conseguente avvio di un poderoso processo di allineamento degli stessi agli standard nazionali e internazionali– dopo l’emanazione del DM 113 del 2018 sulla “Adozione dei livelli minimi uniformi di qualità e i luoghi della cultura e attivazione del Sistema Museale Nazionale”.

    Tanto per le inaugurazioni, poco per la gestione

    In Calabria, come in molti altri contesti regionali “minori” o periferici, a determinare il proliferare dei musei dagli anni Ottanta in avanti è stata per un verso la volontà di conservare e (non sempre) di far fruire i numerosi beni presenti in ogni angolo di questa terra. Per un altro verso, evidentemente più pesante, fini di consenso politico.
    È vero infatti che in tante occasioni gli ingenti investimenti profusi per le inaugurazioni non venivano bilanciati, neppure in minima percentuale, da quelli per la gestione dei musei. Questi ultimi, anzi, molto spesso restavano chiusi, affidati a funzionari non adeguatamente formati e assolutamente distanti da qualsivoglia standard di qualità.

    Si contribuiva così non solo alla inibizione della conoscenza di quel patrimonio da parte delle comunità e forse anche alla sua denigrazione, ma anche alla fuga di centinaia di giovani studenti di svariate discipline (umanistiche, scienze della comunicazione, ingegneri ecc.) che continuavano a dire che in Calabria non c’è lavoro senza cogliere il portato economico che tali musei sottendono.

    La Calabria in prima fila

    È altresì vero che la Regione Calabria, istituzione cui è demandata la normativa in materia, fu una delle prime a dotarsi di Legge regionale sui musei (1995) emanando, a distanza di qualche anno dalla pubblicazione dell’Atto di indirizzo Ministeriale del 2001 sui criteri tecnico- scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei, la deliberazione del Consiglio regionale n. 63 del 13 dicembre 2010 recante l’Atto preliminare di indirizzo del Sistema Museale Regionale.

    Del 2016 era la DGR 248 sul “Sistema Museale Regionale. Disciplina delle procedure di riconoscimento dei musei della Calabria”. E, a poco più di un anno dal già citato DM 113/2018, la Regione pubblicava la DGR n. 11/2020 con la quale recepiva i livelli di qualità proposti dal Sistema Museale Nazionale assumendo la piattaforma di valutazione nazionale come sistema di accreditamento regionale.

    Che questa non sembri una mera elencazione di norme quanto piuttosto una disamina del percorso di presa di coscienza del ruolo dei musei che si è fortemente accelerato negli ultimi 3-4 anni.
    Il Sistema Museale Nazionale – episodio chiave a livello mondiale, che ha posizionato tutti i Musei italiani nella condizione di elevare i propri standard ed entrare in un cielo digitale di risonanza planetaria – ha lanciato una piattaforma nella quale tutti i Musei accreditati ai sistemi regionali (o in fase di accreditamento ad essi) confluiranno da qui a qualche mese.

    L’esperimento con la piattaforma

    Sono stati proprio i musei della Calabria (nella fattispecie il Museo del Codex di Rossano, il Museo Diocesano di Reggio Calabria, il Museo dei Brettii e degli Enotri e il Museo multimediale Consentia Itinera) a sperimentare la piattaforma AGID insieme alle regioni Toscana, Umbria e Lombardia. Ciò al fine di evidenziare la funzionalità del sistema, le criticità, l’agevolezza dei processi di compilazione oltre che nella direzione di fornire supporto agli altri musei della Calabria che avrebbero da lì in poi fatto istanza di accreditamento.

    Per ovviare alla sconfortante situazione dei musei calabresi ben fotografata dai dati Istat, il Settore Cultura della Regione Calabria, ha avviato una capillare azione di sensibilizzazione sul territorio. Ha istituito la Giornata Regionale dei Musei nel novembre 2018 (che ricorre ogni ultima domenica di novembre). Ha proposto momenti di aggiornamento grazie anche al Coordinamento regionale ICOM Basilicata-Calabria e per mio tramite, che rivesto il ruolo di consigliere regionale ICOM e componente della Commissione nazionale per il SMN.

    Se nei musei (non solo calabresi) permangono purtroppo ancora numerose difficoltà gestionali e professionali, è pur vero che si va verso il miglioramento dei livelli di qualità e l’allineamento dei musei del nostro territorio con gli standard nazionali. Nel Piano Cultura 2021 della Calabria sono tra l’altro previste già fonti di finanziamento per consentire ai musei riconosciuti dal Sistema museale regionale (attualmente 36) di conseguire alcuni requisiti minimi previsti da quello nazionale e accreditarsi ad esso.

    La solitudine dei direttori

    Se proprio dobbiamo continuare a evidenziare un problema, questo è la avvilente solitudine dei direttori dei musei calabresi, perlomeno quelli non statali rispondenti a norme, riconoscimento professionale e procedure nazionali. Sono le loro stesse istituzioni a lasciarli da soli nel quotidiano impegno per il miglioramento e la promozione dei rispettivi istituti. Quasi fosse solo “cosa loro”!

    Se in Calabria la parola “museo” fa ancora paura (più agli adulti che a bambini e ragazzi) è perché non tutti  conoscono le profonde trasformazioni che i musei hanno vissuto e maturato negli ultimi 20 anni, da quando furono ritenuti “invisibili”. Se ancora la opportuna dotazione organica dei Musei non viene considerata negli organigrammi di Comuni, Diocesi e istituzioni private è perché troppo spesso il museo è considerato “cosa facile”. Ma lasciarlo senza professionalità è un po’ come lasciare l’ospedale senza medici.

    Lo sviluppo delle comunità

    Eppure è noto che i Musei sono organismi complessi e in costante trasformazione. Oggi affrontano temi diversificati quali la difesa dei diritti umani, la sostenibilità, la legalità, l’innovazione tecnologica. E non è un caso se la Convenzione di Faro (2005) le dichiarazioni del Parlamento che li ritiene “servizio pubblico essenziale” e, ultima in termini cronologici, la Dichiarazione dei Ministri della Cultura del G20, hanno veicolato un messaggio forte e chiaro: i musei sono luoghi strategici per lo sviluppo delle comunità – specie quelle più complessa come quella calabrese – e parlano il linguaggio della contemporaneità e dei giovani attraverso il digital humanism e i percorsi di educazione al patrimonio.

    I musei combattono l’isolamento delle persone, sia sociale che quello determinato dalla malattia. Favoriscono l’abbattimento delle barriere fisiche, sensoriali e cognitive (se messi dalle rispettive istituzioni nelle condizioni di farlo con dotazioni organiche e strumentali permanenti e non solo in occasione di sporadici progetti e bandi). Promuovono il dialogo interculturale.

    Pensiamo a cosa sono stati in grado di fare durante i vari lockdown reinventandosi e partecipando attivamente alla crisi delle comunità durante la pandemia al solo fine di intercettare – pur se chiusi, pur senza aiuti – il cittadino in difficoltà. Hanno cercato, con numerose attività, di diffondere un sentimento ed uno sguardo positivo verso il futuro evidenziando il loro impatto e ruolo sociale.

    Più attenzione verso i musei

    Grandi passi in avanti sono stati fatti per adeguare le strutture in termini di accessibilità. Evidente e in costante aumento è l’inserimento delle tecnologie nei percorsi espositivi e nella comunicazione. Costante è l’aggiornamento dei professionisti. E caratterizzanti delle attività dei musei sono la formazione, l’internazionalizzazione e la cooperazione strategica con il comparto produttivo e industriale. I numeri sono importanti, eppure dietro i numeri ci sono persone e soprattutto sforzi che spesso non emergono all’onore della cronaca.

    Parlare di musei significa in prima istanza visitarli, porre loro dei quesiti, mettersi in ascolto delle necessità dei professionisti che se ne prendono cura. In Calabria questo, purtroppo, accade ancora poco. La cultura non è un privilegio bensì un diritto. Pertanto gli amministratori pubblici e i privati in possesso di siti culturali sono chiamati ad anteporre i musei in agenda, poiché essi costituiscono la cabina di regia nei progetti strategici per lo sviluppo del nostro territorio (PNRR docet), per il welfare e la qualità della vita.

    Anna Cipparrone
    Commissione Nazionale per il SMN

  • Da Pertini a Bearzot, Vincenzo Grenci e le sue pipe mundial

    Da Pertini a Bearzot, Vincenzo Grenci e le sue pipe mundial

    Le mani toccano il legno, lo girano tra le dita, il pollice passa piano sulle righe e le linee, quasi a decidere cosa farne. Quelle mani sono del maestro Vincenzo Grenci e conoscono la perduta arte della lentezza. Oggi la moda consegna ai fumatori strumenti tecnologici che al pari a uno smartphone hanno bisogno di ricarica, design avveniristico, materiali che li fanno somigliare di più a un accessorio per il pc portatile che a una sigaretta, un sigaro o una pipa.

    Brognaturo, piccolo centro delle Serre vibonesi, ha già i tratti dell’inverno, «questa notte abbiamo avuto appena sei gradi». Vincenzo passa le sue giornate nella sua bottega artigiana che odora di legno. Di tanto in tanto Enrico, ara gialloblù, urla richiamando l’attenzione. Non vuole più stare sul suo trespolo e desidera salire sulle spalle del suo proprietario.

    Dalla medicina alla stampa su ceramica

    «Sono sempre stato legato a questo paese, ma me ne sono andato per studiare medicina a Padova. Mio fratello è diventato medico, ma io non ero interessato allo studio. Mi sono dedicato alla fotografia, che negli anni Settanta era molto redditizia. Col tempo mi sono specializzato nella stampa su ceramica, sono tornato in Calabria proprio aprendone un laboratorio: era il primo in tutto il meridione».

    La storia della sua arte comincia lontano, in America. «Prima di me, mio padre, Domenico, aveva iniziato questa attività negli USA negli anni Cinquanta. Aveva fatto la fortuna di una rivendita di pipe perché i passanti erano attratti da lui che faceva questo lavoro, così aveva portato questa attività qui a Brognaturo. E io quando sono tornato mi occupavo in parte delle ceramiche e in parte del laboratorio delle pipe».

    Vent’anni di attesa

    Grenci racconta quanto tempo occorra prima che una sua creazione sia pronta, lo stesso impiegato da suo padre a metà del secolo scorso. «Oggi non è cambiato nulla di quel lavoro. Scelgo ancora personalmente le radiche di erica, le faccio bollire per ventidue ore in modo da estrarre tutto il tannino, infine le lascio stagionare per almeno vent’anni, mentre l’intaglio e le rifiniture finali sono solo una giornata di lavoro. Vedi queste pipe sulla finestra, intagliandole è emerso qualche difetto, ma non le butto, ormai fanno parte di questo laboratorio».

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    Le pipe difettose che Grenci conserva ancora nella sua bottega (foto Tommaso Scicchitano)
    Pertini, Lama, Bearzot

    La passione per la fotografia però è rimasta. Così come i ricordi di tanti clienti illustri passati dalla sua bottega. «Ma non ho mica smesso di scattare foto. Ne ho anche una con Pertini, c’è anche mio padre, io stesso l’ho scattata; il presidente aveva ricevuto in dono da alcuni senatori calabresi le nostre pipe, le aveva molto apprezzate e quando è venuto a Catanzaro ha chiesto di salutarci. Riconosceva un bouquet di aromi che le nostre pipe sprigionavano tanto da farne un vanto davanti a intervistatori inglesi che gli chiesero un confronto con le loro. Non solo lui amava le nostre pipe, tra i nostri clienti abbiamo avuto Luciano Lama ed Enzo Bearzot». Con orgoglio mostra il video messaggio di un cliente su whatsapp: aveva comprato da lui una pipa da trecento euro, ora non poteva più tornare a quelle ben più famose.

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    Sandro Pertini ed Enzo Bearzot confrontano le loro pipe
    Un segno di pace

    «Chi fuma sigarette non può capire, si fuma lentamente per assaporare e per odorare. Fumare la pipa è come prendersi cura di un sentimento. Devi curare la pipa e lo scopo è rilassarsi, nulla a che fare con il fumare nervoso delle sigarette. È così importante che gli indiani d’America ne fanno un segno di pace: se fumiamo insieme la stessa pipa tra noi c’è armonia».

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    Vincenzo Grenci mostra alcune delle sue creazioni (foto Tommaso Scicchitano)
    Di padre in figlia

    Ha qualche suggerimento per un giovane che vuole fare l’artigiano in Calabria?
    «Di lasciar perdere, è il periodo sbagliato. La situazione economica causata dalla pandemia è molto limitante, senza parlare di cosa comporti oggi aprire una partita Iva».
    A chi lascerà la sua bottega se ancora oggi raccoglie le radici che verranno intagliate fra vent’anni?
    «Mia figlia studia economia e commercio, conosce tutte le fasi della lavorazione e saprà coniugare le abilità artigiane con quello che ha studiato».
    Quindi un suggerimento c’è: restare innestati nella tradizione e volare sulle ali dell’innovazione.

    Tommaso Scicchitano

  • Musei per tutte le tasche, ma poco fruibili: il paradosso calabrese

    Musei per tutte le tasche, ma poco fruibili: il paradosso calabrese

    La cultura di un territorio è determinata da molti fattori convergenti: il grado di scolarizzazione, la diffusione della lettura, la conoscenza e le competenze che si esprimono anche nelle attività economiche e sociali.
    I musei costituiscono una cartina al tornasole che racconta il radicamento nelle proprie radici, la capacità di illustrare le origini ed il presente della propria storia, il meccanismo di attrazione culturale verso un turismo della conoscenza che si è molto sviluppato nel corso degli ultimi decenni in tutti i Paesi che dispongono di un patrimonio culturale di adeguato livello.

    L’indagine dell’Istat

    L’Istat, l’Istituto Nazionale di Statistica, conduce da diversi anni una indagine sui musei del nostro Paese, mettendo a disposizione una serie di indicatori che specificano le caratteristiche di offerta, a livello nazionale ed in ciascun territorio regionale.
    Possiamo in questo modo verificare il grado di armonizzazione o di scostamento tra il modello museale nazionale e la singola realtà territoriale.

    Proprio per questa ragione abbiamo messo a confronto per gli indicatori presi in considerazione dall’indagine i risultati che emergono dalla realtà museale nazionale rispetto a quella calabrese, considerando per ogni indicatore il valore totale, oltre che la sua articolazione tra musei privati e pubblici.

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    Ne viene fuori un quadro a tinte abbastanza fosche. Soprattutto per quel che riguarda una serie di indicatori: l’accessibilità per i disabili, l’adeguamento dei musei alle nuove tecnologie, lo svolgimento di attività didattiche integrative e la capacità di attrarre turisti stranieri sui visitatori totali. I musei privati calabresi in qualche caso riescono a stare nei valori nazionali, mentre sono i pubblici a registrare i maggiori divari.

    I punti di forza

    Cominciamo con qualche dato nel quale la Calabria riesce a posizionarsi meglio della media nazionale. In tema di grado di apertura al pubblico dei musei pubblici l’Italia registra il 62,9%, contro il 64,3% della Calabria. Lo stesso indicatore per quelli privati a livello nazionale è pari al 57,9%, contro il 63,3% della Calabria. Nel valore totale di questo indicatore l’Italia raggiunge il 58,5% contro il 60,8% della Calabria.

    Anche quando andiamo a misurare il grado di diffusione di musei con ingresso gratuito verifichiamo che in Italia tale indicatore è pari al 41,7% rispetto al 48,8% della Calabria. Tale forbice si allarga in particolare quando andiamo a misurare i musei privati con ingresso gratuito, che in Italia sono pari al 46,1% mentre in Calabria si arriva al 61,2%. Nel caso di quelli pubblici tale indicatore in Italia è pari al 42,2%, mentre in Calabria raggiunge il 46,8%.

    Disabili penalizzati

    Le dolenti note cominciano ad emergere quando andiamo a confrontare il grado di accessibilità e fruibilità per persone con disabilità. Nel totale dei musei italiani è pari al 7,7%, mentre in Calabria si raggiunge il 6%. Nei musei privati la percentuale in Italia raggiunge il 5,9%, mentre in Calabria si attesta al 4,2%. Nei musei pubblici in Italia l’accessibilità per i musei pubblici è pari all’11,7%, con la Calabria che si attesta al 7,8%.

    Pubblico e digitale, il divario cresce

    Quando mettiamo a confronto il grado di offerta di servizi e supporti digitali, in Italia la percentuale complessiva è pari al 44,7%, mentre in Calabria si attesta al 36,1%. Nel caso dei musei privati il dato nazionale raggiunge il 41,9%, mentre in questo caso la Calabria è maggiormente performante, con il 46,9%. Se prendiamo in considerazione i musei pubblici, il valore di digitalizzazione nazionale è pari al 49,3%, contro il 33,9% della Calabria.

    Se analizziamo il grado di servizi digitali per visite virtuali sul totale dei musei la
    Calabria raggiunge il 18,6%, mentre i musei italiani arrivano al 24,3%. Tra i musei privati c’è maggiore parità sulla digitalizzazione per le visite virtuali, con la Calabria che arriva al 24,5 , mentre i musei italiani privati si collocano al 25,4%. Nei musei pubblici la forbice di digitalizzazione per visite virtuali è particolarmente rilevante, con la Calabria che arriva al 16,5% e l’ Italia che si attesta 25,3%.

    Poche attività didattiche nei musei

    Nella diffusione di attività didattica educativa la forbice dei musei calabresi rispetto al valore italiano è molto rilevante: 39,8% contro il 51,4% nazionale. Non è così per quelli privati, nel cui caso il grado di diffusione di attività didattiche è pari al 51% per la Calabria rispetto al 48,6% dell’Italia. Molto distante risulta invece la condizione calabrese nei musei pubblici per quanto riguarda la diffusione delle attività didattiche: 37,6% contro il 56,4% dell’Italia.

    Scarso appeal sugli stranieri

    Guardiamo infine alla percentuale di visitatori stranieri sul totale: in Italia è pari al 45,6% rispetto al 26,4% della Calabria. Nei musei privati stavolta la forbice non viene colmata (24,9% in Calabria contro il 48,1% dell’Italia). Ed anche nei musei pubblici si conferma una scarsa presenza di turisti stranieri in Calabria sul totale dei visitatori (26,7%) contro un valore nazionale pari al 44,6%.

    C’è insomma molto lavoro da fare per valorizzare il patrimonio museale calabrese, al fine di allinearlo alle performance nazionali. Soprattutto c’è da rendere queste strutture più vitali dal punto di vista della digitalizzazione, dello sviluppo di attività didattiche, della conoscenza e della apertura verso visitatori stranieri. Una storia culturale così ricca come quella della Calabria merita di essere valorizzata in modo adeguato.