Categoria: Cultura

  • Il marinaio e la scrittrice che non avevano mai visto il presepe

    Il marinaio e la scrittrice che non avevano mai visto il presepe

    Philip James Elmhirst, marinaio scelto della marina inglese, fatto prigioniero nel 1809 in seguito a un naufragio, nel suo diario annotava che non riusciva a comprendere perché i calabresi in prossimità del Natale allestivano ciò che chiamavano «presepe»: «All’avvicinarsi del Natale, in ogni chiesa si usa costruire una rappresentazione della nascita di Cristo chiamata presepe, con una piattaforma di tavole larga dai dodici ai sedici piedi quadrati, poggiata su cavalletti, sulla quale si mette una certa quantità di argilla per modellare montagne e altri elementi che ricordino Betlemme e la regione circostante. Il tutto viene coperto di erba, muschio e piante sempreverdi. Dappertutto si mettono casette di quelle che i bambini usano per i loro giochi. Attorno alla stalla e alla mangiatoia vengono disposte statuine di santi, pastori, buoi e pecore di terracotta».

    A stupirlo era soprattutto quanto accadeva il 24 e il 25 dicembre. «Alla vigilia di Natale si depositano nella stalla le statuine della Vergine Maria e del bambino fatte di cera bianca e riccamente vestite di mussola e oro. Il giorno di Natale, durante la cerimonia religiosa, un sacerdote prende l’immagine del bambino e la porta in giro per la chiesa. I fedeli cantano inni di giubilo, con l’accompagnamento della musica sacra. La cerimonia si svolge nella massima devozione, anche se appare più ridicola che solenne, e più frivola che suggestiva».

    I presepi di Cosenza

    Qualche anno dopo Emily Lowe scriveva sui presepi di Cosenza: «Le altre chiese erano piene di gente in adorazione dei Magi, né c’è da meravigliarsi perché quei sovrani orientali erano magnificamente vestiti e sistemati. Nella zona più in vista dell’edificio sacro erano state innalzate colline che imitavano quelle naturali, coperte di alberi e attraversate da strade, e sulle quali si arrampicavano piccole figure di uomini, donne e bambini, tutti diretti in un punto dove c’erano vacche al pascolo. Lì, un bambino stava fra le braccia di una giovane donna piegata su una mangiatoia e incoronata da un diadema in miniatura, mentre riceveva gli omaggi di tre ricchi sovrani seguiti da servitori carichi di doni».

    L’inglese ne era entusiasta, tanto quanto i cosentini. «L’effetto era tanto curioso quanto bello; i presepi, come sono chiamati questi dolci fatti dai preti per la vigilia dell’Epifania, erano uno più gustoso dell’altro. Uno era interamente composto di argille cristallizzate di vari colori e sormontato da un castello di fronte al quale zampillava una fontana circondata di fiori. Sullo sfondo si vedeva un’aia popolata da capre, galline e piccole anatre, mentre lungo la strada che scendeva verso la grotta della natività c’era una trattoria dove potevano rifocillarsi i pellegrini, fra cui compariva il re di Spagna in speroni e gorgiera assieme a graziose signore in vesti dorate. Questo complesso scenario, illuminato di notte da lampade di vari colori, mandava in visibilio il popolo».

    Notti magiche

    La tradizione del presepe è rimasta viva nella popolazione, ma altre ritualità e credenze non ci sono più. In passato la notte di Natale era considerata magica: gli animali parlavano, gli alberi davano frutti e dalle fonti scorreva miele. In alcuni paesi si credeva che l’acqua attinta a mezzanotte era efficace per arrecare ricchezza, felicità e salute. Le donne che andavano a prendere l’acqua muta in quell’ora misteriosa non dovevano riconoscersi e si coprivano con un panno nero camminando sole e in silenzio.

    La tradizione voleva che dopo la mezzanotte la Madonna entrava nelle case per asciugare al fuoco i pannolini di Gesù e assaggiare il cibo rimasto. Per questo motivo, si lasciava la tavola apparecchiata e il camino acceso sino al mattino. Per la sera di Natale si preparava il pane nataliziu, su cui erano raffigurate croci e attrezzi agricoli. Si poneva al centro della tavola, il contadino lo benediceva, lo spezzava e lo distribuiva alla famigliola. In paese si sentiva il suono e il canto degli zampognari. E alcuni di loro con sandali, calzettoni di lana, calzoni corti, giubbotto di pelle e cappelli acuminati adornati di nastri, muniti di zampogne e clarini, andavano a Napoli per suonare in case, chiese e botteghe.

    La festa del consumismo

    Molti lamentano che le tradizioni del Natale si sono perse e insieme a loro l’incanto che caratterizzava la festività. Affermano che ormai è diventata un evento consumistico e lanciano anatemi contro regali, sprechi e abbondanza dei pranzi natalizi. Hanno nostalgia del tempo andato, ma le feste cambiavano anche in passato. Il presepe, ad esempio, è una tradizione legata a san Francesco d’Assisi che nel 1223 realizzò a Greccio la prima rappresentazione della Natività dopo aver ottenuto l’autorizzazione da papa Onorio III.

    È sbagliato confinare le tradizioni del mondo popolare nel campo di una storia immobile, considerarle come un semplice terreno di persistenze arcaiche. È ingenuo pensare che la cultura tradizionale si riproduca di generazione in generazione senza un disegno, che si acquisti senza sforzo sin dalla nascita. Spesso si pensa alla memoria di una comunità come un organismo dotato di uno spirito unico, un crogiolo che contiene i ricordi di tutti. In realtà accade spesso che gruppi d’individui non trasmettono le loro esperienze alle generazioni successive, che nel processo di ricostruzione del passato alcuni fatti sopravvivano e di altri si perda ogni traccia.

    presepe-i calabresi
    La Natività di Giotto proiettata sulla facciata della basilica di Assisi
    Memoria e oblio

    Gli uomini non sono in grado di ricordare tutto, ma neanche di dimenticare tutto: memoria e oblio vanno insieme, l’una non può fare a meno dell’altro. Ricordare e dimenticare è frutto dell’incessante lavoro d’invenzione e reinvenzione della memoria, risultato di continui scontri e patteggiamenti, tanto a livello individuale che collettivo, tra ciò che bisogna ricordare e ciò che bisogna dimenticare.

    È opinione diffusa che nelle società tradizionali il ricordo fosse legato al mito e nella società moderna, invece, alla storia; che la memoria del passato fosse statica e quella dei giorni nostri sia dinamica. Si dà per scontato che nelle società premoderne la cultura fosse condivisa e immutabile e che nelle società moderne, invece, gli individui siano costretti a misurarsi con una realtà caratterizzata dall’avvicendarsi frenetico di eventi.

    Le società tradizionali, al contrario, erano tutt’altro che semplici e unite. Fra gli individui esistevano diversità e ricchezza culturale. Nei paesi esisteva una pluralità di memorie pari alla pluralità dei ceti sociali che le avevano generate: ogni gruppo elaborava una propria immagine, aveva necessità di trovare continue conferme alla propria identità, operava una selezione di elementi per enfatizzare la propria diversità rispetto agli altri.

    Tradizioni e miti cambiano

    Le tradizioni popolari si modificano: a volte possono sembrare salde e incontaminate, altre mutano bruscamente per rispondere a nuove sensibilità. In alcuni periodi storici credenze e valori prima dominanti cessano di esserlo, in altri si avvicendano tra sentimenti opposti, in altri ancora si sovrappongono o s’incastrano tra loro. La memoria subisce una continua metamorfosi e una reinvenzione. Gli individui e i gruppi sociali selezionano, reinterpretano e rifondano il passato alla luce di quello che sono diventati, ricordando il passato lo ricreano e gli attribuiscono un senso in relazione alla loro idea del presente.

    Le credenze si tramandano di generazione. Non sono una ripetizione statica del passato, ma un’interpretazione in cui è prevista la variazione. Adeguandosi alle diverse strutture economiche e sociali, assumono forme e contenuti in relazione alle ansie e ai bisogni ai quali gli uomini devono far fronte. Il carattere di un popolo è plasmato dalla tradizione che si è formata attraverso le passate generazioni e trasmessa alle nuove, ma le antiche stratificazioni tendono ad essere modificate o sostituite.

    Le società sono sottoposte a nuovi condizionamenti culturali e materiali. Gli uomini creano un’immagine di sé e in essa si riflettono, ma lo fanno anche e soprattutto in relazione ai bisogni concreti. Quando i miti non rappresentano più un elemento vitale per la comunità cessano di esistere; alcuni si modificano, perdono di senso e riaffiorano in altri miti.

  • La pasta e patate “ara tijeddra” di Napoleone

    La pasta e patate “ara tijeddra” di Napoleone

    I calabresi sono orgogliosi che in questi giorni le patate della Sila vengano pubblicizzate nelle grandi reti televisive. Alcuni esperti di cucina ritengono che gli abitanti della regione siano talmente attaccati alle proprie abitudini da aver mantenuto intatte per secoli le tradizioni culinarie. In un recente manuale sulla gastronomia regionale si legge che le pietanze, composte da pochi prodotti semplici, nonostante il trascorrere del tempo sono rimaste sempre le stesse: in Calabria tutto quel che è antico è attuale. In realtà molti alimenti alla base della cucina calabrese fanno parte di una storia recente, frutto di un lento e difficile rapporto di assimilazione.

    Le patate della Sila durante il tempo della raccolta

    Un pericolo per corpo e anima

    Resistenze e cautele vi furono nei confronti dei prodotti portati dagli spagnoli dopo la scoperta delle Americhe. Chierici come José de Acosta sostenevano che le piante introdotte dalle Indie in Spagna fossero poche e riuscissero male, mentre quelle che dalla Spagna erano state esportate in India fossero numerose e riuscissero bene. Consumati da popolazioni selvagge che non conoscevano la parola di Dio, quei cibi erano pericolosi per corpo e anima: soprattutto il peperoncino a cornetto, per la natura «calda, fumosa e penetrativa», stimolava la sensualidad, pregiudicando la moralità dei giovani.

    Cibo? No, piante ornamentali

    I botanici erano ostili alle piante straniere perché pensavano che un alimento, salubre in alcuni climi e insalubre in altri, potesse provocare gravi malattie come la lebbra. Patate, mais, topinambur, pomodori e peperoncini erano buoni solo come piante ornamentali e, nei trattati sull’arte dell’ortolano, non erano presi neanche in considerazione. Gli studiosi, in realtà, conoscevano poco le nuove piante, di alcune ignoravano la provenienza e facevano una gran confusione persino sui nomi. Nel 1792, Gilli e Xuarez notavano che la descrizione del peperoncino era così scarsa e imprecisa che probabilmente molti, tra cui lo stesso Linneo, non avessero mai visto la pianta e «per mera notizia data da altrui l’avevano descritta».

    La mela insana

    Alcuni osservavano che i «pomi d’oro», una volta maturi, erano di un rosso intenso e che con tale nome erano conosciuti arance, cedri, limoni e altri agrumi che per il colore giallo somigliavano all’oro. Il pomodoro era chiamato anche «mela insana» e «mela aurea» e, in alcune zone, come ci informa un cuoco maceratese, «melanzana». Tozzetti, autore di un libro sulla storia delle piante forestiere introdotte nell’agricoltura, confermava che gli storici avevano pareri diversi sulla loro provenienza. Taluni, ad esempio, sostenevano che i peperoni fossero presenti già nell’Impero romano mentre altri affermavano che erano stati portati dalle Indie orientali in America e da qui introdotti in Europa.

    Patata, il nemico numero uno

    Tra i prodotti “americani” fu la patata a incontrare maggiore ostilità, probabilmente perché tra le molte specie esistenti se ne annoveravano alcune velenose. Nel 1767, Zanon lamentava che, quantunque da decenni in molte nazioni europee se ne facesse largo uso, in Italia i «pomi di terra» erano noti solo ai botanici. Fra gli agricoltori era diffusa la convinzione che le patate avvelenassero i terreni, facessero deperire le piante, contribuissero a far crollare il prezzo dei cereali e provocassero seri danni alla salute di uomini e animali.

    Una inconcepibile stravaganza

    Le patate più nocive erano quelle coltivate nei paesi caldi e nei trattati sui veleni si accenna a persone morte dopo averne mangiato un piatto. I pomi di terra erano diabolici perché cagionavano malattie gravi come la «lepra» e i proprietari si opponevano con «indicibile ostinazione» alla loro produzione. Uno studioso scriveva sconsolato che indifferenza, ostinatezza e ignoranza di molti possidenti facevano sì che la coltivazione del tubero fosse vista come una prova di «inconcepibile stravaganza e come un delirio dello spirito umano» e, dovunque, le patate erano «riguardate come un prodotto di giardinaggio».

    Un cibo per ricchi

    In molti, tuttavia, cominciarono ad apprezzare le qualità dei pomi di terra indicandoli come un dono del cielo: erano facili da coltivare, avevano un sapore squisito e si preparavano facilmente lessandoli in acqua o cuocendoli nella brace. A chi sosteneva che provocassero pericolose malattie, gli studiosi facevano notare che in diversi paesi europei le popolazioni che si nutrivano di tale tubero crescevano sane e robuste.

    Sembrava ovvio che mangiarle ogni giorno le rendesse indigeste, ma ciò sarebbe accaduto con l’uso di qualsiasi altro alimento. Era falsa anche la diceria secondo cui le patate, cibo buono per i maiali, fossero utilizzate dai governi per sfamare i poveri. In realtà erano presenti sulle tavole dei ricchi e i cuochi le preparavano in vari modi: cotte sotto la cenere o in tegame con butirro fresco; stufate con formaggio, cipolla, aceto ed erbe odorose; bollite, pelate e condite con olio e aceto; tagliate a fette e fritte con il lardo nell’olio o nello strutto.

    La Calabria scopre la patata

    Alla fine del Settecento le patate in Calabria erano coltivate solo da alcuni curiosi. Galanti scriveva che a Cosenza erano sconosciute, a Castrovillari se ne ignorava persino il nome mentre nel Crotonese alcuni possidenti avevano cominciato a piantarle, ma non fu possibile dar loro «voga» per una certa avversione degli abitanti. Swinburne racconta che un giorno cucinò patate in vari modi per i frati minimi del convento di Monteleone, ma questi, dopo il primo boccone, le rifiutarono ritenendole insipide e disgustose e ne mangiarono un po’ ricoperte con burro misto a una salsa di aglio e pepe della Giamaica. Alcuni studiosi sostenevano che uno dei motivi della resistenza dei campagnoli nei confronti delle patate fosse legato alla convinzione che i governanti, «per difetto di migliore alimento», volessero imporre quei tuberi che si davano ai maiali.

    La tijeddra di Napoleone

    Furono i funzionari del governo napoleonico a incoraggiare la coltivazione delle patate in Sila. I soldati avevano contatti con gli abitanti e finivano per influenzarne i costumi. Gli ufficiali partecipavano alle feste organizzate dalle ricche famiglie cosentine e il valzer rimpiazzò i balli locali; nelle locande cittadine, gli osti preparavano vivande con ricette francesi e probabilmente la pasta e patate ara tijeddra, ancora oggi un piatto amato dai cosentini, fu introdotto dai soldati napoleonici.

    Napoleone nel dipinto di Jacques Louis David

    Un premio ai coltivatori

    Nel 1812 la Società economica della Calabria Citeriore stabilì un premio per chi le seminava e Cosentini, grande proprietario terriero, le coltivò per circa tre anni con eccellenti risultati. Si trattava soprattutto di patate bianche dai bulbi tondeggianti, poiché quelle gialle, rosse e lunghe, anche se più «saporose», non vegetavano dappertutto e rendevano meno. In un opuscolo Silvagni incoraggiava i coloni a seguire l’esempio di Cosentini e consigliava di cuocerle mettendole sotto la brace, al forno o in acqua bollente, toglierle sino a che cedevano alla pressione di un dito e poi raffreddarle, levare la buccia, tagliarle a fette e insaporire con olio, sale e burro.

    Il commercio della patata

    Nel tempo, proprietari terrieri e contadini mutarono il proprio atteggiamento e gli studiosi notarono che le patate erano apprezzate soprattutto dai giovani, che le preferivano a fagioli e mais. Nel 1845, Grimaldi scriveva che in Calabria la coltivazione delle patate si andava «giornalmente estendendo» e che erano ormai nella maggior parte dei paesi si seminavano in maniera costante. Tre anni dopo, Raso annotava che da intingolo erano diventate oggetto di proficuo commercio e, cucinate in vari modi, erano sempre presenti sulle tavole dei contadini.

    Le patate della Sila sfondano

    Qualche anno dopo Pugliese scriveva che le patate, prima aborrite perché ritenute velenose e indigeste, si mangiavano con piacere ed erano particolarmente ricercate dai contadini che le acquistavano dai mulattieri di Bocchigliero e San Giovanni in Fiore dove erano coltivate in maniera intensiva. Nella seconda metà dell’Ottocento, le patate erano seminate non solo nei territori di montagna ma anche in quelli collinari e pianeggianti. Pur se prodotte in grandi quantità, non coprivano comunque il consumo interno e gli stessi agricoltori, spesso erano costretti ad acquistarle poiché facilmente deperibili. Come i cereali, si conservavano in grandi cisterne di muratura costruite in aperta campagna, coperte da strati di paglia e felci contro l’umidità, ma i risultati non erano incoraggianti.

  • Santa Lucia: dalla cuccìa ai Ferragnez senza più doni ai bambini

    Santa Lucia: dalla cuccìa ai Ferragnez senza più doni ai bambini

    Oggi è il giorno di Santa Lucia, il giorno del calendario che precede il trionfo dell’avvento, la luce del Natale cristiano, il giorno del sole che per la fede non conosce tramonto. È la giornata che coincide nella mappa del cielo col giorno del solstizio d’inverno. Dal buio alla luce. Santa Lucia segna infatti il passaggio tra la notte più lunga dell’anno e il giorno che per la prima volta accorcia le tenebre della notte invernale. È la giornata che vede mescolarsi la commemorazione cristiana della santa protettrice della vista e della luce con simboli e liturgie precristiane e ancestrali molto più antiche.

    Demetra e Kore
    Demetra e Kore

    La festa cristiana coincide infatti sincretisticamente con il mito pagano della vittoria della luce sulle tenebre. Demetra ritrova la figlia Kore sequestrata dalle tenebre e riemersa alla luce. Attraverso la notte più lunga e oscura dell’anno, la Dea Madre rigenera e riporta la vita dalla morte verso la Luce del Sole nuovo, in grado di riconfermare benessere, ricchezza e abbondanza per tutto l’anno a venire, nutrendo i semi delle piante primaverili nel suo grembo invernale.

    A livello astrologico, la rappresentazione celeste della Grande Madre, e delle divinità femminili Demetra, Persefone, Artemide e Cerere (e Santa Lucia) si ritrova nella costellazione della Vergine (Virgo), dalla natura astrale femminile e associata alla fertilità e alla purezza. La stella più luminosa della costellazione della Vergine si chiama Spica, ovvero la “spiga”, la cui levata nel cielo era tradizionalmente connessa nel mondo contadino al periodo dei raccolti e della mietitura del frumento e degli altri cereali.

    Il giorno della cuccìa 

    Questo in Calabria, e soprattutto nella provincia di Cosenza, è il giorno della cuccìa (dal greco koukkìa). È una preparazione alimentare tradizionale che ebbe origine nella Grecia antica, dove assumeva in origine i connotati di un cibo rituale per la commemorazione dei defunti. Da qui la cuccìa si diffuse nei paesi dell’Europa orientale e nelle regioni dell’Italia meridionale, dove venne associata alla ritualità della celebrazione della santa della luce, venerata anche dalla chiesa ortodossa. Nella tradizione popolare calabrese la cuccìa diviene quindi l’alimento rituale che assurge a simbolo gastronomico dell’assimilazione cristiana dei miti antichi e del mondo greco-bizantino.

    Paese che vai, cuccìa che trovi

    In alcuni paesi della Sila Greca, la cuccìa è un dolce realizzato con ingredienti di antica tradizione: grano, noci, miele di fichi (o di mosto) e, a piacere, cannella. A Mendicino, piccolo centro di origine medievale a pochi chilometri da Cosenza, la sua preparazione e consumazione sono parte integrante delle celebrazioni in onore di Santa Lucia, a cui la comunità è molto devota.

    Cuccìa in preparazione a Mendicino
    Cuccìa in preparazione a Mendicino

    La cuccìa mendicinese è composta da 13 ingredienti (come il giorno del calendario cristiano in cui si commemora la santa della luce) tra cui molti legumi e cereali: ceci, cicerchie, fave, piselli, lenticchie, fagioli, orzo, grano, poi castagne, olio d’oliva, sale. Il composto si prepara dopo lunga cottura in un calderone che, nel dialetto locale, prende il nome di quadara. La tradizione degli antichi rituali di condivisione vuole che la pietanza sia consumata in piazza, nel pomeriggio del 13 dicembre, accompagnandola con del pane caldo e un bicchiere di vino.

    Con la cioccolata a Paola

    Sempre nel cosentino, a Paola, patria di San Francesco, patrono della Calabria, la cuccìa tradizionale è pure un dolce. La pietanza infatti assume le fattezze di una cioccolata calda arricchita dall’aggiunta di noci, scorza d’arancia, uva passa, grano bollito, cannella e chiodi di garofano. La sera del 12 dicembre, secondo la tradizione, ogni famiglia prepara la cuccìa, affinché durante la notte Santa Lucia possa imprimere il suo segno su di essa e da quella notte favorire la rinascita del sole per riportare luce e calore. Il giorno successivo il dolce viene scambiato tra amici e parenti.

    Cuccìa al cioccolato
    Cuccìa al cioccolato – I Calabresi
    La zuppa presilana 

    Vicino a Cosenza, nei comuni della cortina presilana, la cuccìa, che si mangia soprattutto lontano dal Natale, è invece ancora una volta una zuppa salata che si prepara con grano bollito e carne di capra o maiale, abbondantemente condita da spezie. La tradizione di questi luoghi vuole che il piatto venga preparato in tre lunghe giornate, passando per varie fasi: la pulizia del grano, la sua macerazione in ammollo, e poi la bollitura in un calderone e la cottura finale nel forno a legna, in un recipiente di terracotta che è detto tinìellu.

    La versione presilana della cuccìa
    La versione presilana della cuccìa – I Calabresi

    Il nome popolare della pietanza “cuccìa” deriverebbe dal processo di selezione del grano che veniva fatto a mano chicco per chicco per separarlo dalla veccia. Nell’area dei Casali cosentini il piatto è anche collegato a una tradizione devozionale che viene fatta risalire al XXVI sec. quando fu edificato il convento di San Francesco di Paola a Pedace, costruito sui resti del cenobio della confraternita di Santa Maria della Pietra.

    Santa Lucia portava doni 

    Un tempo non molto lontano, ben prima dell’invenzione di Babbo Natale, Santa Lucia in Calabria era portatrice di doni e di abbondanza e visitava le case proprio nella notte tra il 12 e il 13 dicembre. Era la Santa della luce che viaggiando a dorso di un asino portava i doni ai bambini. Anche l’asino sul piano simbolico è un animale collegato prima che alle tradizioni cristiane dell’avvento, ai miti pagani del mondo saturnino, connesso alle forze della natura, alla terra, alla morte, ma è anche simbolo di regalità, di umiltà e di saggezza.

    Un disegno che raffigura Santa Lucia e il suo asino mentre portano doni ai bambini – I Calabresi
    Le offerte per la santa

    La sera prima del 13 dicembre, i bimbi in attesa dei doni lasciavano delle piccole oblazioni alla santa e alla sua cavalcatura, vere e proprie offerte rituali. Arance e mandarini, noci, una fetta di pane, mezzo bicchiere di vino rosso per la santa attesa ospite per la notte; e anche l’asino, fedele compagno di lavoro di contadini e braccianti poveri, riceveva a sua volta un premio di doni particolari portati nelle stalle contadine in quella notte di incanti, come fieno, oppure farina gialla, acqua e sale per la sosta della notte. La notte più lunga dell’anno passava così, tra attese e incanti infantili. Poi il giorno tornava a risplendere.

    Il dopo Occhiuto senza arredi e lustrini

    Di passaggio sul corso Mazzini a Cosenza ho visto, mutatis mutandi, come oggi, si ricorda la festa di Santa Lucia da queste parti, il giorno della luce che risorge dall’inverno, la prima festa dell’avvento che precede il Natale. Non sono più gli incanti pasoliniani del vecchio mondo contadino a far luce, le povere cose della vecchia Calabria sono, piaccia o non piaccia, ricordi lontani o occasioni di ritrovo gastronomico. Il dopo-Occhiuto è decisamente più sobrio di arredi e lustrini, e in città c’è risparmio di quelle luminarie coloratissime e bizzarre che contraddistinsero lo scenario urbano delle festività e della Cosenza by night degli anni ruggenti.

    Luminarie su corso Mazzini durante il decennio da sindaco di Mario Occhiuto
    Luminarie su corso Mazzini durante il decennio da sindaco di Mario Occhiuto

    Ovunque, invece, occhieggiano le super offerte di Natale e le lusinghe dei negozi di telefonia. E soprattutto spiccano le proposte di molte storiche rivendite di ottica e occhialeria di Cosenza che propongono per santa Lucia grandi sconti per le griffe firmate di occhiali da sole, montature costose e modelli alla moda. Santa Lucia dei nostri giorni è la patrona degli occhiali da sole in versione fashion design alla Ferragnez. E, invece della palma del martirio degli occhi nel piatto, preferisce il “trattamento antiriflesso e le lenti fotocromatiche che sono in grado di proteggere gli occhi dalle radiazioni UV e dalla luce solare, dannosi per il cristallino e la retina”.

    In tempi di rilancio dei consumi pop, in mezzo al Covid che in Calabria, proprio allo scoccare di Santa Lucia, coincide col giorno che dalla luce bianca declina invece pericolosamente verso l’allarme a luce gialla, la luce che sorge è questa. È pur sempre una tradizione che si rinnova. Forse.

  • Scacchi, quando i Kasparov e i Fischer venivano dalla Calabria

    Scacchi, quando i Kasparov e i Fischer venivano dalla Calabria

    Nel Cinquecento e nel Seicento il gioco degli scacchi era molto diffuso in Calabria e già nel Quattrocento alcuni alti prelati di Cosenza ne erano appassionati. Bartolomeo Florido, arcivescovo della città, accusato di avere falsificato alcuni brevi papali nel 1497, mentre languiva in prigione passava il tempo con gli scacchi.

    L’intensa attività agonistica spiega perché dal Cinquecento al Settecento la Calabria abbia dato i natali a scacchisti ammirati e celebrati in tutte le corti europee. Qualche esempio? Michele di Mauro, Leonardo di Bona, Gioacchino Greco, Ludovico Lupinacci e Luigi Cigliarano.

    Il buen retiro dopo aver spennato il principe

    Salvio nel 1636 scriveva che uno dei più grandi giocatori del Viceregno era Michele di Mauro, detto «il Calabrese». Divenne famoso soprattutto in seguito alla sfida con Tommaso Caputi, scacchista napoletano emigrato in Spagna, dove lo conoscevano con lo pseudonimo di Rosces. Di Mauro giocava soprattutto a Napoli, dove incontrò i più grandi scacchisti italiani, ma soggiornò per diversi anni all’estero, specie a Madrid. Oltre che un maestro imbattibile, era considerato un «buon teorico» del gioco, su cui scrisse alcuni trattati che purtroppo andarono dispersi. Ormai stanco e avanti negli anni, dopo aver vinto al principe di Gesualdo tremila scudi, di Mauro si ritirò a Grotteria, accasandosi con una gentildonna da cui ebbe alcuni figli.

    Il Puttino contro i corsari

    Giovanni Leonardo di Bona, detto il Puttino, era nato a Cutro nel 1542. Salvio, suo biografo, racconta che studiava legge a Roma e, nonostante la giovane età, era uno scacchista capace di vincere «ciascheduno giocatore». Giunto nella capitale Rui López, il Clerico di Zafra, considerato il «primo giocator» di scacchi del tempo, il Puttino disputò con lui alcune partite. Nulla poté contro l’esperienza del grande campione. In seguito alla sconfitta decise di trasferirsi a Napoli, dove restò per due anni ospite del principe don Fabrizio Gesualdo, appassionato del gioco. La sua fama di scacchista talentuoso si sparse tra i maestri italiani.

    Ruy Lopez Segura
    Lo scacchista Ruy López Segura celebrato in un francobollo secoli dopo la sua morte

    Paolo Boi, alias il Siracusano, mosso da «generosa invidia», volle sfidarlo e, al termine di alcune partite, i due «restarono di pari onore». Qualche tempo dopo Leonardo decise di tornare a Cutro e fu allora che i corsari saraceni attaccarono il paese e catturarono anche suo fratello. Si racconta che tornati a bordo delle galee «alzarono la bandiera di riscatto» e sembra che fu proprio il Puttino a negoziare col rais fissando un prezzo di duecento ducati per ogni prigioniero.

    Secondo la leggenda, durante le trattative notò che a poppa del veliero era approntata una scacchiera. L’arabo si accorse che egli la guardava con interesse e lo invitò a giocare. Fu concordata una posta di cinquanta scudi e il Puttino vinse con facilità una partita dopo l’altra. Alla fine non solo riscattò il fratello, ma intascò altri duecento ducati. Il rais, riconoscendo e apprezzando il suo talento, lo invitò a Costantinopoli dove avrebbe potuto accumulare grandi ricchezze, ma egli non accettò.

    Niente tasse per i cutresi

    Consapevole di aver migliorato le tattiche di gioco, di Bona partì insieme con Giulio Cesare Polerio da Lanciano per la Spagna, nella speranza di incontrare il grande Lopez e ottenere la sospirata rivincita. Arrivati a Madrid, ospiti di donna Isabella, si recarono nel cenacolo dove solitamente si esibiva Ruy López. Leonardo, tra lo stupore dei presenti, chiese di giocare con lui proponendo una posta di cinquanta scudi a partita. Quella del primo giorno finì in pareggio, ma in quello seguente il Puttino vinse. La clamorosa notizia si diffuse velocemente nell’ambiente degli scacchisti spagnoli e tutti volevano battersi con lui.

    Partita a scacchi fra Ruy López de Segura e Leonardo da Cutro (di Luigi Mussini)
    Partita a scacchi fra Ruy López de Segura e Leonardo da Cutro (Luigi Mussini, 1883)

    Correva l’anno 1575 e il re Filippo II chiese di assistere nel suo palazzo a una nuova sfida tra Lopez e il Puttino. Fu stabilito che i due avversari giocassero in piedi sopra un «buffetto» e furono messi in palio mille scudi. Leonardo batté l’avversario e il re, ammirato, gli consegnò i mille scudi, una salamandra d’oro ornata di pietre preziose e una pelliccia di zibellino. Gli domandò anche se avesse qualche desiderio particolare. Il giovane chiese e ottenne l’esenzione dalle tasse per gli abitanti di Cutro per vent’anni.

    Omicidio a corte

    Recatosi a Lisbona giocò col Moro, il più grande giocatore del Portogallo. La partita si concluse senza vinti e vincitori e alcuni giorni dopo re Sebastiano volle vedere i due sfidarsi a corte. Leonardo vinse molte partite con gran soddisfazione del sovrano che non provava simpatia per il Moro, la cui «superba natura lo portava a disprezzare tutti i giocatori stimandosi non aver pari». Re Sebastiano ricoprì Leonardo di doni e lo chiamò «cavaliere errante» perché, come gli antichi cavalieri, sconfiggeva i rivali e umiliava i superbi. Al termine della sua attività Leonardo di Bona decise di ritirarsi a Cutro. Ne1 597, all’età di quarantacinque anni, «morì avvelenato per invidia» nella corte del principe di Bisignano.

    Da Celico alle Indie

    Gioacchino Greco, conosciuto anche come «il Calabrese», secondo alcuni era nato nel 1590 a Celico, casale di Cosenza. Di umili condizioni, studiò in un convento dei Gesuiti dove apprese anche l’arte degli scacchi. Nel 1619, grazie alla protezione di alcuni monsignori della corte pontificia, Gioacchino ne fece la sua professione. In quegli anni scrisse anche un trattato sugli scacchi delle cui copie, fatte da esperti amanuensi, faceva dono a personaggi influenti. Nel 1621 Greco si trasferì a Nancy e dedicò al duca di Lorena, Enrico II il Buono, una raffinata copia del suo manoscritto, noto poi come «Codice di Lorena». Nel 1622, a Parigi, grazie al suo gioco vivace e combattivo, il «povero giovane» ebbe la meglio sui più grandi giocatori di Francia riuscendo a guadagnare cinquemila scudi.

    Dopo questi successi, accompagnato da grande fama, Greco si recò a Londra. Anche lì vinse forti somme di denaro ma, derubato di tutto quel che possedeva, decise di tornare a Parigi. Nel 1626 andò a Madrid alla corte di Filippo IV e lì primeggiò su tutti i grandi campioni, che celebrarono pubblicamente il suo genio. Secondo quanto racconta Salvio, nel 1634 lasciò l’Europa per seguire un ricco signore spagnolo nelle Indie Occidentali. Non fece mai ritorno. Lasciò tutti i beni ai Gesuiti, che insegnandogli a giocare a scacchi erano stati artefici inconsapevoli del suo destino.

    Un artista degli scacchi

    Genoino osserva che il Calabrese col suo genio aveva messo in discussione le monotone regole del gioco, anticipando la vivacità che avrebbe avuto nei secoli seguenti. Egli fu un vero artista della scacchiera. Capace di infondere con i suoi attacchi dinamicità a un gioco che mostrava segni di stanchezza e staticità, inventò nuove mosse quale l’arrocco, detto alla «calabrista» o alla «calabrese». A Gioacchino viene riservato un posto tra gli immortali degli scacchi, poiché il suo talento, le sue mosse, i suoi successi e il suo codice hanno contribuito ad accrescere la popolarità del gioco.

    Il prete e il freddo

    Nel Settecento un campione di scacchi fu il prete cosentino Luigi Cigliarano. Secondo alcuni, per le sue memorabili partite che lo resero famoso in Italia e in Europa, addirittura avrebbe superato il «vanto» e la fama di Gioacchino Greco. A Napoli Cigliarano era seguito da decine di appassionati che scommettevano su di lui ogni volta che sfidava qualche noto giocatore giunto in città. Memorabili furono le partite col Casertano, uno dei più grandi scacchisti del secolo, che aveva una personalità e un gioco diverso dal cosentino.

    Ludovico Lupinacci, gentiluomo cosentino, alla sua morte, avvenuta nel 1732, fu compianto anche dai suoi avversari, che riconoscevano in lui uno dei più grandi giocatori del tempo. L’abate Rocco lo descrive come uno freddo, «contro il costume de’ calabresi» parlava poco, si muoveva lentamente, «in somma parea il re dell’ozio». Quell’uomo calmo e schivo davanti alla scacchiera si trasformava in un aggressivo leone. La sua fama aumentò dopo aver battuto un «orgoglioso» campione francese.

    Sei di fila

    Questi, giunto a Napoli, lanciò una sfida al migliore scacchista del regno proponendo come posta una grossa somma di denaro a chi avesse vinto sei partite senza interruzione. I napoletani indicarono subito come avversario Lupinacci, ma «impallidirono» quando perse le prime cinque. Il solo a non scomporsi tra il numeroso pubblico fu il Casertano, che, conoscendo il valore del cosentino, aveva capito che aveva perso ad «arte». Il francese spaccone, mostrandosi annoiato per l’andamento dell’incontro, suggerì che a quel punto era inutile proseguire. Ma Lupinacci con la sua solita calma lo pregò di continuare. E si aggiudicò sei partite di fila «ordendo de’ tratti bellissimi, indicanti l’acume, e ‘l valore della nazione anche ne’ giuochi e negli scherzi».

  • Intellettuali, in Calabria puoi trovarne uno per tutte le stagioni

    Intellettuali, in Calabria puoi trovarne uno per tutte le stagioni

    Gli intellettuali locali – professori, giornalisti, romanzieri, registi, attori e artisti in genere – sono spesso manager di se stessi, presenzialisti per interesse, volontà di potere mediatico o potere tout court. Presentano libri, rilasciano interviste e fanno conferenze in cui si atteggiano a profeti. L’importante, è trovarsi sempre al centro dell’attenzione, comparire in televisione, essere citati nelle cronache dei giornali e ricevere riconoscimenti. Professionisti della parola, per appagare il loro narcisismo, puntano più alla pancia che alla testa, più agli umori che alla ragione. Consapevoli che per avere successo non è il contenuto del discorso che conta, legittimano sé stessi attraverso retorica, affabulazione e oratoria brillante.

    Narciso
    Narciso in un dipinto attribuito a Caravaggio – I Calabresi
    Intellettuali tormentati

    Si commuovono quando parlano della Calabria e descrivono il personale tormento che li spinge da una parte a voler andar via e dall’altra a rimanere. A volte la descrivono come una terra eccezionale, ricca di valori e di energie positive. Altre volte come una regione senza speranza che si avvia inevitabilmente verso la catastrofe. Molti intellettuali sono schierati politicamente, ma ammiccano opportunisticamente a un pubblico di destra o di sinistra e polemizzano a prescindere dalle idee. Se qualcuno dipinge un quadro pessimista e negativo della realtà regionale, sono pronti a smontarne le tesi per mutare atteggiamento poco tempo dopo.

    Guai se manca il rimborso spese

    Le loro conferenze sono moderate da giornalisti, arricchite da musicisti che allietano l’ambiente e attori o attrici che leggono pagine tratte dai loro libri bene esposti sui banchetti per essere venduti. Si fingono disinteressati a successo e guadagni, ma prima di accettare inviti chiedono il rimborso spese ed esigono ospitalità in alberghi e ristoranti rinomati. Gli intellettuali calabresi sono maestri nelle pubbliche relazioni, sempre attenti ad assicurarsi un ruolo nelle giurie di svariati concorsi così da scambiarsi reciprocamente premi e riconoscimenti.

    Un premio non si nega a nessuno

    In Calabria non c’è città, paese o contrada che non bandisca una rassegna, una selezione, un premio con relativa generosa distribuzione di pergamene, medaglie, coppe, targhe e compensi. Appuntamenti che sono vere e proprie fiere di vanità dove il pubblico si ritrova più per amor di mondanità che per interesse culturale.

    Presentandosi come specialisti in grado di trovare soluzioni ai problemi, gli intellettuali spesso sono chiamati dai politici per amministrare la cosa pubblica e molti diventano assessori e consulenti culturali. Una volta assunto il ruolo, organizzano eventi in cui svago e informazione spicciola si confondono, manifestazioni che risultano inefficaci, inutili e vacue, nelle quali si trovano blande tracce di storia, cultura, arte, musica condite da una buona dose di enogastronomia.

    Intellettuali che fanno intrattenimento

    Alcuni sostengono sia meglio aprire alla modernità piuttosto che restare fedeli alla tradizione, poiché i legami affettivi e identitari condizionano la libertà di scelta. Altri che ci sia bisogno di ritrovare il clima culturale e sentimentale del passato che rappresenta ancora oggi il tratto comune dei cittadini, e insistono nel ripercorrere, realmente o idealmente, gli avvenimenti fondativi della storia locale.

    I nuovi intellettuali favoriscono un sapere in cui il cittadino è utente passivo, una volgare cultura d’intrattenimento che ha colonizzato le strutture più profonde della coscienza. Le ricerche approfondite, le inchieste sul campo, le teorie complesse sono ignorate e respinte come inutili e anacronistiche, buone solo per una ristretta cerchia di specialisti.

    Storici della domenica

    Molti anni fa, Huinziga scriveva che lo storico di professione, rendendosi conto che per comprendere la complessità della realtà c’è bisogno di un faticoso lavoro critico, ha rinunciato a fare l’architetto scegliendo di diventare scalpellino. Interviene, quindi, la figura del dilettante che, illudendosi di avere pensieri ordinati, velocemente intravede tutte le prospettive necessarie per comprendere il reale. Incoraggiata dagli editori, preoccupati di soddisfare una cerchia di lettori sempre più ampia, nasce così quella che può essere chiamata la «storia letteraria». O, meglio, «belletteristica storica», in quanto l’essenza è belletteristica e l’aspetto storico è secondario.

    Attenti alle lusinghe del potere

    Lo studioso deve esprimere le proprie idee e non lasciarsi accecare dalle blandizie del potere, poiché non è possibile vivere in combutta col sistema e allo stesso tempo criticarlo. In quanto dicitore coraggioso di verità, non deve avere paura di mettere a repentaglio la propria condizione e le relazioni. Come un parresiasta, deve esprimersi in maniera chiara, dire quello che pensa senza dissimulazioni ed orpelli retorici, comunicare il suo vero pensiero correndo il rischio di irritare gli interlocutori.

    Il suo compito non è quello di capovolgere il mondo, ma indicare alla sua gente gli atteggiamenti che l’hanno resa vittima di se stessa e, nello stesso tempo, spingerla ad agire per migliorare la sua vita. Deve rivelare agli uomini quanto siano ostaggio di una macroscopica manipolazione volta ad intorpidire le menti e nascondere la vita reale e smascherare i falsi retori che hanno veicolato ideologie finalizzate unicamente a perpetuare il sistema sociale funzionale al potere.

    Sfatare i miti di una Calabria piagnona

    Alcune ideologie, pur fornendo alla realtà un orizzonte di senso, si fondano sulla mistificazione della realtà. Giustificano l’atteggiamento vittimistico che ha plasmato le coscienze dei calabresi a tal punto da far loro ritenere di essere limitati e incapaci di affrontare gli eventi. I mali che affliggono la regione non sono addebitabili ad altri o al destino ma alle scelte compiute dagli uomini.

    La falsa coscienza, o ideologia della sopravvivenza, può forse essere utile per superare difficoltà transitorie, ma sul lungo periodo si rivela dannosa. Il compito dell’intellettuale consiste nel riportare alla luce la falsa coscienza, distruggere le prigioni mentali che condannano gli animi a una cecità sempre più profonda, sfatare i miti che alterano la realtà e oscurano le coscienze, smantellare il castello di sacre opinioni che contribuiscono a dare un’immagine distorta di sé stessi.

    Attenti al pensiero comune

    L’intellettuale non deve fare la rivoluzione ma semplicemente dire la verità. Lo studioso non può essere condizionato dal relativismo secondo il quale tutto può essere affermato e che, pertanto, non esiste una verità. Non può rinunciare al giudizio e giustificare ogni cosa in virtù del principio che i gruppi hanno cultura propria. Non deve essere vincolato da una fedeltà alla sua gente che gli fa pronunciare mezze verità o perpetuare vecchi canoni ideologici. Egli deve sottrarsi alle pressioni del pensiero comune e dire con coraggio quello che pensa.

    In Calabria, purtroppo, sono pochi coloro che si propongono di analizzare criticamente la realtà. E ancora meno quelli che vogliono saperla. Essi sanno che chi dice il vero provoca spesso irritazione e collera, mentre chi si adatta a ciò che la gente vuole sentire è ascoltato e amato. Forse gli uomini non sopportano la verità scomoda avendo vissuto troppo tempo nell’inganno. Preferiscono essere consolati da una menzogna piuttosto che essere feriti da una verità. Evitano di fare i conti con la realtà e si accontentano di ritenere autentiche le verità che hanno ereditato.

    Meglio esuli in patria che servi

    L’appartenenza politica o ideologica degli intellettuali non ha costituito garanzia di verità. Orwell affermava che le ideologie sono un veleno per la letteratura e, se proprio uno scrittore dovesse appassionarsi alla politica, dovrebbe farlo come cittadino. Gli intellettuali devono fare gli intellettuali, ricercare la verità senza subire condizionamenti, esercitare la critica demistificatrice della realtà nella ricerca del vero e contribuire, in quanto cittadino, a vivere in un mondo più giusto e più bello.

    George Orwell
    Lo scrittore George Orwell

    Chi vuole perseguire la verità deve rifiutare qualsiasi interferenza esterna, essere imparziale ed oggettivo. Non farsi condizionare dalle proprie simpatie, non avere preoccupazioni politiche, apologetiche o polemiche. Lo studioso deve correre il rischio di essere isolato e criticato, costretto ad abbandonare la sua terra o restarci a vivere come se fosse in esilio. L’esilio in patria è una condizione di dolorosa solitudine. Ma sempre preferibile a una socialità superficiale e tranquillità servile.

     

  • «Una regione con più scrittori che lettori»

    «Una regione con più scrittori che lettori»

    «Noi crediamo fermamente che la Calabria possa uscire dallo stallo del basso indice di lettura solo se le istituzioni scolastiche si impegneranno una volta per tutte a creare dei percorsi di lettura tra gli studenti. Bisogna coinvolgere autori e editori locali. Ci stiamo muovendo in questa direzione sensibilizzando l’Ufficio scolastico regionale e le istituzioni. Confidiamo nell’attenzione della vicepresidente della Regione, Giuseppina Princi, della quale conosciamo le grandi capacità manageriali e la sensibilità verso il mondo della cultura».

    Così spiega il suo punto di vista l’editore Franco Arcidiaco in relazione al fatto ormai consolidato per cui in Calabria, in media, si legga poco o nulla. Nel 1997 Arcidiaco ha deciso di coltivare la sua passione per la lettura e ha fondato Città del Sole Edizioni con la moglie Antonella Cuzzocrea. La casa editrice è presente, con propri stand, nelle più importanti fiere di settore, dal Salone del Libro di Torino alla Fiera Più Libri Più Liberi di Roma.

    Covid e lettura

    «I dati rilasciati dalle associazioni di editori – aggiunge Arcidiaco – non riguardano certamente la Calabria, che rimane sempre fanalino di coda (a livello mondiale) per indici di lettura. Sono più le persone che scrivono di quelle che leggono e comunque anche quelle che scrivono non comprano i libri degli altri». Poi l’editore continua: «La lettura in tempo di Covid si è sviluppata sui social, non certo sulla carta stampata. Noi da 5 anni abbiamo affiancato all’attività di produzione vera e propria, un’attività “sociale”. Abbiamo aperto in pieno centro a Reggio, lo “Spazio Open” che è un luogo dove ha sede la nostra casa editrice. Lì si possono anche comprare i nostri libri e si possono organizzare eventi culturali con una capienza di 80 posti in osservanza alla normativa vigente per la pandemia. Inutile dire che siamo stati fermi oltre un anno…».

    Come funziona la filiera di vendita? «Il principale canale – dice Arcidiaco – è il nostro distributore che ha sede a Torino, poi vengono i grandi siti di e-commerce. Per fortuna abbiamo la vendita diretta nel negozio e nel nostro sito che ci consente di andare avanti. Le librerie on line comunque hanno il pregio di essere puntuali nei pagamenti e di garantirci una buona visibilità. La distribuzione assorbe il 60% del prezzo di copertina. Se aggiungi che il 10% va agli autori (come diritti) e il 30% non è nemmeno sufficiente per la lavorazione del prodotto, ecco che razza di business è il nostro… ci guida solo la passione».

    La regione in cui si legge meno

    Il punto è che non c’è nessuna politica regionale seria, secondo la critica letteraria Maria Franco, per favorire la lettura di qualità. Qui avremmo un numero di librerie tuttora alto rispetto ad altri territori. Lo stand che rappresenta la Calabria e i suoi editori alle giornate del Salone internazionale del libro al Lingotto di Torino, invece, è stato considerato non all’altezza. E importanti eventi storicizzati, che puntano sull’avvicinamento dei giovani calabresi a questo mondo, sono pure rimasti fuori dalla partita dei fondi per la cultura.

    Lo scrittore Mimmo Gangemi
    Lo scrittore Mimmo Gangemi – i Calabresi

    Secondo l’Istat, quattro calabresi su 100 vanno in biblioteca almeno una volta l’anno (la media nazionale si attesta a 14 su 100) e i dati sulla lettura ci confermano anche nel 2020 in fondo alla classifica delle regioni italiane in termini di lettori di libri e quotidiani cartacei e online. «È molto triste che siamo ancora ultimi nonostante il presunto risveglio culturale», afferma sconsolato lo scrittore tra gli altri de La signora di Ellis Island, Mimmo Gangemi.

    I numeri sulle vendite in libreria, infatti, in termini assoluti sembrano buoni e arriverebbero anche incoraggianti segnali di crescita dal mercato nazionale del libro. «Trovo interessante – afferma con sarcasmo il giovane scrittore Daniel Cundari il tema affrontato dal vostro giornale. Dopo tutto la Calabria resta sempre la regione più magica del pianeta, in tutto il suo realismo tragico. Dovremmo farci annettere da qualche Repubblica caraibica».

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    Il poeta Daniel Cundari – I Calabresi
    I libri che cambiano la vita

    È ottimista sullo stato delle cose, invece, il libraio Nunzio Belcaro, quando spiega il suo punto di vista sulla nuova vita del libro, che appare rinato con la pandemia come hanno evidenziato negli ultimi grandi eventi le associazioni di settore. In un quadro regionale, invece, come abbiamo visto, caratterizzato da tendenze negative e mancate politiche di settore per aumentare i lettori. A Catanzaro Lido, da dieci anni, è iniziata la sua nuova avventura in una catena di librerie indipendenti: «Mi ha cambiato davvero la vita», ammette.

    «Ho iniziato a lavorare con i libri nell’autunno del 2006. In verità tutto è cominciato a giugno dello stesso anno, quando decisi di dimettermi dal lavoro precedente e di aprire la mia prima piccola libreria indipendente, che, data la portata della pazzia, decisi di chiamare Don Chisciotte». Le cose sono andate meglio del previsto: «Siamo una sorta di catena ibrida formata da librerie indipendenti. Abbiamo un nostro supporto di vendita online che si chiama IoLettore, è una app in forte crescita. Tuttavia, è in libreria che ci giochiamo la nostra sfida principale ed è lì che sappiamo di poter offrire quel valore aggiunto che nessun canale online esistente e futuro potrà mai offrire».

    La rivincita degli indipendenti

    Secondo Belcaro, 43 anni, le vendite di libri nel 2021 e i comportamenti nati nel lockdown, fanno ben sperare, soprattutto, in una regione come la nostra in cui, in media e in termini assoluti, si legge poco e ancor meno si frequentano biblioteche e musei. Dunque, ai numeri diffusi sulla crescita nazionale, per comprendere meglio si deve affiancare una dimensione umana fatta di fatica e impegno. E originalità.

    «È diventato un casino il mondo del libro, abbiamo una sola certezza per fortuna: il libro non morirà», ci dice Francesca Londino di Ferrari editore. Non è un caso che a crescere oltre all’online, siano state proprio le librerie indipendenti e di proposta. Quello che non funziona più è la libreria in stile supermercato, con commessi al posto di librai.

    Sopravvivere all’e-commerce

    «All’inizio è stata una scelta dettata dall’incoscienza. Unire una grande passione, quella dei libri, alle competenze commerciali che avevo accumulato dai precedenti lavori. Nel 2006 però tutto ciò che ruotava intorno al mondo del libro appariva nefasto. L’avvento degli ebook si pensava potesse far accadere la stessa cosa che era accaduta nel mondo della musica, dove i supporti fisici per ascoltarla venivano sostituiti dal digitale. E poi i grandi sconti della grande distribuzione, l’avvento dei primi e-commerce. Oggi posso dire che è stato giusto seguire quel sentimento, investire in una grande passione. Tutto ciò che appariva un incubo si è rivelato inconsistente. E il libro e le librerie indipendenti e di proposta come la nostra, hanno vinto», sostiene Belcaro.

    Nunzio Belcaro sulla sua Vespa, pronto a consegnare libri – I Calabresi

    Dopo la pandemia, per una serie di concomitanze favorevoli, ha visto la situazione «decisamente migliorare». La grande visibilità avuta dal libraio calabrese grazie all’idea delle consegne a domicilio in vespa durante il lockdown, la nuova legge del libro che ha equiparato gli sconti dell’e-commerce a quelli che possono fare le librerie, l’avvento del fenomeno dei manga che ha riportato fra gli scaffali gli adolescenti e, in generale, il riavvicinamento al libro in un periodo difficile delle esistenze di tutti consegnano una dimensione in continuo rinnovamento.

    Belcaro conclude così: «La nostra è una libreria generalista che prova a soddisfare le esigenze della comunità dei lettori a cui deve rispondere. Pensiamo sia la formula vincente per una piccola città di provincia. Promuovere e proporre libri per chiunque. Il futuro è fra i libri, di questo non ho dubbi».

  • La spy story di Calabria e il primo maxiprocesso

    La spy story di Calabria e il primo maxiprocesso

    C’è un piccolo enigma che riguarda l’Archivio di Stato di Cosenza, dove è conservato l’archivio personale di Maria Pignatelli, moglie del principe Valerio Pignatelli di Cerchiara. Nelle carte della principessa c’è un faldone vuoto, che reca una scritta a dir poco bizzarra: Ok. Storia della resistenza fascista al Sud.
    Questo faldone, stando anche alle memorie del marito di donna Maria, avrebbe dovuto contenere il diario di una missione speciale condotta dalla nobildonna calabrese nel territorio della Repubblica Sociale Italiana durante la primavera del ’44. Ma quel diario non si trova più.

    Un’avventura particolare, quella vissuta dalla principessa, che fu protagonista di intrighi e doppi giochi, tra i fascisti – clandestini al Sud e ancora istituzionali al Nord – i servizi segreti di tutte le parti in causa e ciò che restava della monarchia in quell’ultimo, tragico scorcio della guerra.
    L’epicentro di questa vicenda, emersa solo di recente grazie all’importante scavo dello storico Giuseppe Parlato, è calabrese. Perché calabresi sono i protagonisti principali e perché i fatti più salienti si sono svolti in Calabria.

    Prima della fine

    È calabrese d’origine Carlo Scorza (era nato a Paola, dove aveva vissuto fino a 15 anni, prima di trasferirsi a Lucca) l’ultimo segretario del Partito nazionale fascista. È calabrese di adozione Francesco Maria Barracu, nato in Sardegna ma diventato federale di Catanzaro dopo la guerra d’Etiopia e lì rimasto fino all’armistizio. Poi sarebbe andato a Roma e quindi avrebbe seguito Mussolini a Salò.
    Nella tarda primavera del ’43 le truppe dell’Asse avevano perso l’Africa settentrionale e lo sbarco alleato al Sud era imminente.

    Alfredo Cucco, il ras fascista della Sicilia, lanciò l’allarme, Sforza lo raccolse e formulò una proposta a Mussolini: organizzare una rete di resistenza fascista che ostacolasse l’avanzata delle truppe alleate. Il duce approvò e coniò il nome di quest’organizzazione: Guardia ai labari. E incaricò Barracu, suo uomo di fiducia, di darsi da fare.
    Quest’ultimo, assieme a Scorza, individuò l’uomo adatto per creare e gestire la rete “nera”, che può essere considerata la prima organizzazione neofascista italiana: Valerio Pignatelli.

    Una coppia pericolosa

    Il principe Valerio Pignatelli è un personaggio inquieto, che sembra uscito da un romanzo di Dumas padre. Militare dalla carriera intensa ma irregolare, esordì nella guerra di Libia come tenente di cavalleria. Inoltre, partecipò alla Prima Guerra Mondiale come capitano degli Arditi. Poi, a ostilità finite, divenne addetto militare dell’Ambasciata italiana in Ungheria. Fu una piccola pausa, per il principe, che proprio non poteva fare a meno di menare le mani. Infatti, nel 1920 si arruolò nell’Armata bianca di Vrangel per combattere quella rossa di Trockij.

    Raggiunse il massimo di questa bizzarra carriera in Messico, dove riuscì a farsi incoronare imperatore di una piccola regione del sud del Paese. Ma durò in carica solo dieci giorni: il tempo di scappare negli Usa e di sposare Patricia Hearst, una ricca ereditiera.
    Anche il matrimonio durò poco: rientrato in Italia, il principe si iscrisse al Pnf. Ma l’adesione al fascismo non gli inculcò alcuna disciplina a Pignatelli, che riuscì a sfidare a duello (e a ferirlo) nientemeno che l’ex segretario Roberto Farinacci.

    Prima della Seconda Guerra Mondiale, l’indomito aristocratico partecipò alla guerra d’Etiopia come comandante di un reparto di eritrei e a quella di Spagna. In entrambe, collezionò medaglie e ferite.
    Non era da meno Maria Elia, nobildonna toscana, che prima di conoscere Valerio aveva sposato il marchese Giuseppe de Seta, da cui aveva avuto quattro figli, ed era diventata esponente di primo piano della nobiltà meridionale. Rimasta vedova, convolò in seconde nozze col principe di Cerchiara nel 1942.

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    Renato Guttuso, Ritratto della marchesa Maria De Seta, olio su tavola, 1937
    Bombe in Calabria, la storia degli ottantotto

    Nel dare il via libera alla rete nera, Mussolini raccomandò prudenza estrema. I suoi fedelissimi non avrebbero dovuto scatenare una guerra civile, ma solo dar fastidio agli occupanti, fare propaganda e, ovviamente, fare le spie in accordo coi vertici del Sid, i servizi segreti di Salò e con la Gestapo.
    Il regista dell’operazione era Barracu, nel frattempo diventato sottosegretario della Rsi. Valerio Pignatelli, intanto, si era trasferito a Napoli, in una villa di fronte alla Nunziatella, dove assieme alla moglie, intratteneva rapporti ambigui con gli alti gradi dell’Amgot, l’autorità di occupazione alleata nei territori del Sud, esponenti del fascismo e agenti del Sim, i servizi segreti del Regno d’Italia.

    La rete calabrese è affidata a un altro personaggio importante nella storia del neofascismo: il cosentino Luigi Filosa, un fascista di ultrasinistra (oggi lo si direbbe un “fasciocomunista”), dal passato a dir poco burrascoso, dentro e fuori il regime.
    L’organizzazione iniziò a darsi da fare a partire dall’autunno del ’43 con una serie di attentati dinamitardi (ben 18) nel Lametino, a danno di due tipografie, del Liceo di Nicastro, della casa del preside del Liceo, di una Caserma dei carabinieri e di altri obiettivi, più simbolici che sensibili.

    Poi la Polizia arrestò due studenti di Catanzaro e ricostruì la rete. Filosa, vista la mala parata, andò a Bari per cercare di scappare al Nord. Ma venne arrestato il 14 maggio del ’44 e finì a processo con altri 87 imputati con l’accusa di associazione sovversiva. Fu il primo maxiprocesso del dopoguerra al Sud.
    Poco prima di lui, il 27 aprile, erano finiti in manette i principi Pignatelli. Per loro, tuttavia, l’accusa era un’altra: spionaggio militare.

    Lo strano viaggio della principessa

    Facciamo un passo indietro e torniamo a Napoli. Mentre i fascisti calabresi si “esercitavano” con le bombe e raccoglievano armi con la complicità di non pochi militari, Pignatelli ricevette un ordine da Barracu: raggiungere Gargnano, sul lago di Garda, per conferire con lui e con Mussolini.
    Pignatelli, per ottenere il lasciapassare per attraversare il fronte, “cercò una pastetta” al principe Umberto e allo scopo giocò una carta importante: l’amicizia tra sua moglie e Maria José di Savoia. Nulla da fare: i servizi segreti del Regno d’Italia, che tenevano d’occhio Pignatelli, non concessero il nulla osta.

    La regina d’Italia Maria José di Savoia

    Al principe restò solo una fiche: sua moglie. E la puntò bene. Perché anche la principessa aveva le sue amicizie. Tra queste, c’era il tenente di vascello Paolo Poletti, che faceva un doppio gioco spregiudicato tra la X-Mas di Junio Valerio Borghese e l’Oss, i servizi segreti americani, guidati da James Jesus Angleton, il futuro capo della Cia. Angleton era animato da un anticomunismo estremo, che lo portava a diffidare più degli alleati antifascisti che dei nemici fascisti. Ciò lascia pensare che il doppio gioco di Poletti non fosse ignorato (né disapprovato) né da lui né dai vertici di Salò. Il tenente italiano sarebbe stato quindi quel che oggi si direbbe un agente doppio.

    James Jesus Angleton
    L’incontro col feldmaresciallo

    Poletti accompagnò donna Maria una prima volta a fine marzo ’44, assieme al capitano Nuvolari, agente del Sim anche lui legato all’Oss. Incapparono in un check point gestito dagli inglesi che rispedirono indietro la comitiva.
    Il secondo tentativo, invece, riuscì: la principessa, stavolta, varcò il confine nei pressi di Lanciano a bordo di un’ambulanza della Croce Rossa e fu ricevuta sul monte Soratte dal feldmaresciallo Albert Kesserling per un colloquio, nel corso del quale la nobildonna avrebbe rivelato alcuni dati sensibili sulle strutture militari alleate del Sud.

    Il feldmaresciallo Albert Kesserling

    Poi, la principessa andò a Roma, per incontrare due persone care: la figlia primogenita Bona de Seta e Vittoria Odinzova, una profuga della rivoluzione russa che era stata fidanzata con suo figlio Francesco, tenente di aviazione caduto nel 1941.
    Il ruolo della Odinzova è tutt’altro che secondario in questa vicenda: detestata dai restanti tre figli della principessa, la bella russa era diventata la pupilla della nobildonna. Ma, soprattutto, Poletti aveva perso la testa per lei e, pur di averla, accettò di aiutare la nobildonna.

    Nobili, doppiogiochisti e servizi segreti

    Le stranezze non finiscono qui: i Pignatelli erano senz’altro fascistissimi. Non altrettanto i figli della principessa. Non lo era Vittorio de Seta, prigioniero dei tedeschi a Salisburgo. E non lo era suo fratello Emanuele, che faceva parte di una rete antifascista clandestina ed aveva subito i rigori delle Ss nella famigerata prigione romana di via Tasso.
    Quanto a Bona, c’è da dire che era ospite della residenza capitolina di un’altra famiglia aristocratica calabrese: i baroni Marincola di San Floro.

    Gerarca di Catanzaro e amicissimo del principe Valerio, Filippo Marincola aveva sposato Josephine Pomeroy, cittadina americana, antifascista e legata ai servizi segreti alleati. Non era da meno il cognato di don Filippo, Livingstone Pomeroy, che addirittura faceva parte dell’Oss ed era molto legato a Bona.
    In pratica, la principessa si era cacciata nella tana del lupo: tre figli antifascisti o quasi, più amici non del tutto affidabili.

    Dopo alcuni giorni, la principessa raggiunge Gragnano, dove ebbe il colloquio con Barracu e col duce. Cosa si siano detti non è facile da ricostruire, perché dai verbali degli interrogatori subiti dai Pignatelli emerge di tutto e di più.
    Infine, il ritorno, assieme a Vittoria Odinzova. Al confine le attendevano Poletti assieme a un altro collega dell’Oss, tale Mathieu, di cui resta ignota la reale identità.
    Non appena rientrò a Napoli, la principessa fu arrestata dalla polizia militare dell’Amgot. Assieme a lei finirono in galera la giovane russa, il principe Valerio e il tenente Poletti.

    Gli strani processi

    I quattro subirono interrogatori pesantissimi. La prima a uscire, praticamente scagionata, fu Vittoria Odinzova, considerata un’ingenua pedina nelle mani della principessa.
    Prima di lei, tuttavia, uscì dalla vicenda Poletti. Nella maniera peggiore possibile: torturato dalla polizia militare inglese nella prigione di Santa Maria Capua Vetere, l’agente dell’Oss impazzì e fu rinchiuso in una cella da cui tentò di evadere.
    Durante la fuga, Poletti, ancora ammanettato, aggredì due guardie, che lo uccisero.

    Questa fu la versione ufficiale: in realtà, secondo alcuni storici lo sfortunato tenente fu liquidato dai suoi colleghi dell’Oss, i servizi segreti statunitensi che temevano le sue testimonianze nel processo. Già: britannici e americani giocavano due partite diverse. Antifascisti (e antiitaliani), i sudditi di Sua Maestà britannica avevano intenzioni “punitive” nei confronti dell’Italia. Anticomunisti e filoitaliani, gli statunitensi si preoccupavano di contenere l’avanzata del Pci al Sud nell’imminente dopoguerra.

    Proprio su questa divergenza il principe Pignatelli giocò con grande abilità. Durante la sua deposizione rivelò che Barracu, Mussolini e Borghese stavano lavorando a una rete anticomunista che comprendeva i fascisti, alti gradi dell’Esercito rimasto fedele alla Corona e quella parte della resistenza (gli osovani, i monarchici della “Sogno” e parte di Giustizia e Libertà) che temeva l’egemonia dei partigiani “rossi” della divisione Garibaldi.

    Il “principe nero”, Junio Valerio Borghese

    Tenuta in poca considerazione durante il processo, la rivelazione del principe è stata rivalutata in sede storica dai documenti che provano i continui contatti tra la Marina del Sud e i Servizi della Rsi e gli abboccamenti tra i partigiani osovani e i militi della X-Mas in chiave anticomunista. Ed è confermata dal salvataggio di Borghese operato da Angleton in persona.
    Lo spauracchio “rosso” fu giocato anche dalla difesa degli ottantotto fascisti processati a Catanzaro.

    Fine della storia

    Cosa curiosa, nessuno riuscì a provare il collegamento tra i dinamitardi calabresi e Pignatelli. Quindi l’accusa di associazione sovversiva cadde. Per fortuna degli imputati, che altrimenti sarebbero finiti davanti al plotone di esecuzione.
    Ciò non evitò condanne piuttosto pesanti alla maggior parte degli arrestati. Tuttavia, il processo fu annullato dalla Cassazione per vizi di forma. E rinviato a un’altra Corte. Ma non si celebrò mai, perché nel frattempo Togliatti amnistiò i fascisti.

    Discorso simile per i Pignatelli, condannati entrambi a dodici anni di carcere. Ne scontarono a malapena uno e qualcosa.
    Appena scarcerato, Valerio fondò il Movimento sociale italiano assieme agli ex camerati. Ma il suo carattere irrequieto ebbe il sopravvento per l’ennesima volta: litigò e si ritirò a vita privata. Scrisse romanzi e memorie e gestì i beni di famiglia fino al 1965, quando morì a Sellia Marina.
    Maria lo raggiunse tre anni dopo, in seguito a un incidente stradale nei pressi di Cosenza.

  • Cosenza, la grande truffa del beato con le ossa d’asino

    Cosenza, la grande truffa del beato con le ossa d’asino

    Un beato con le ossa d’asino. A Cosenza erano attivi molti abili falsari pronti a produrre documenti per soddisfare le esigenze di gente senza scrupoli. Grazie ad essi si potevano accampare diritti di possesso di terre, ottenere privilegi fiscali, impossessarsi di eredità e attestare nobili origini. Anche preti e monaci erano specialisti nel fabbricare false prove, cosa che spinse Emily Lowe a scrivere che, avidi di denaro e pronti ad arricchirsi in tutti i modi, manipolavano persino testamenti! Tra il Cinquecento e il Settecento sono numerosi i cosentini sotto accusa per aver esibito documenti falsi che certificassero un’origine nobile o per avere redatto falsi testamenti. Ma la truffa che suscitò scandalo anche fuori dai confini cittadini e del regno fu, senza dubbio, quella attribuita a Ferdinando Stocchi.

    La truffa di Stocchi

    Stocchi, presbitero appartenente a una famiglia patrizia della città, era secondo alcuni un uomo curvo e obeso, con occhi piccoli, capigliatura rada e trasandato nel vestire, ma apprezzato studioso, autore di alcuni componimenti poetici e scientifici, eletto addirittura presidente dell’Accademia dei Negligenti. Secondo Misarti era nato a Scigliano nel 1611 e, dotato di «non ordinario ingegno», aveva studiato a Napoli, Roma e Bologna, per stabilirsi a Cosenza dove si aggregò al Sedile dei nobili e fu acclamato principe dell’Accademia de’ Costanti. Subì un processo per le accuse di un «frate zotico» ma fu prosciolto e riprese la sua attività di studioso pubblicando due opere.

    L'ingresso della Biblioteca in piazza XV marzo
    L’ingresso della Biblioteca in piazza XV marzo, sede dell’Accademia cosentina

    Stocchi divenne amico di Carlo Calà, potentissimo e ricchissimo Presidente della Regia Camera della Sommaria. Approfittando del cruccio di questi, che non poteva ostentare nobili origini, gli confidò di essere a conoscenza di antiche memorie che attestavano la sua discendenza da una famiglia Calà imparentata nel XII secolo con i reali d’Inghilterra e di Svevia. Il Calà, scrive Paoli, entusiasta all’idea di poter vantare una genesi così gloriosa, diede a Stocchi ventiquattromila ducati per recuperare i documenti dei suoi illustri antenati.

    L’abate cosentino, per «ingannare anche gli esperti», assoldò abili falsari. Fece stampare libri e riprodurre in pergamene lettere, memorie, codici, epigrammi, iscrizioni, inni, orazioni e altre carte ingiallite e sforacchiate che in tutto «passavano il centinaio». Secondo queste fonti, i fratelli Giovanni e Arrigo Calà, presunti avi di Carlo, avrebbero seguito Enrico VI di Svevia in Calabria ricoprendosi di gloria e titoli nobiliari «di spada». Giovanni Calà, valoroso capitano, dopo avere incontrato a Corazzo Gioacchino da Fiore si ritirò in eremitaggio vivendo in santità per il resto della vita.

    Il profeta e gli «infiniti miracoli»

    Questi documenti “inediti” in cui si ricostruiva l’avventurosa storia dei fratelli Calà, fatti ritrovare in monasteri, archivi privati e biblioteche come la Vaticana e l’Angelica, suscitarono grande entusiasmo tra gli eruditi del regno. E molti li citarono nelle loro ricerche finendo «per impastare la stessa pessima farina».
    Sulla base della ricca documentazione fornita da Stocchi, il presidente della Sommaria scrisse e pubblicò una storia degli Svevi nel regno di Napoli e in Sicilia. All’interno, ampio spazio per i suoi illustri capostipiti. Diverse pergamene e memorie di «antichissimo carattere», di cui molte parole «non si potiano leggere perché cancellate dall’antichità», attestavano «cose stupende e meravigliose» su Giovanni che già in vita era appellato «santissimo padre, specchio degli anacoreti e profeta del Signore».

    Nel trattato Processus vitae Ioannis Calà, si leggeva che era nato nel 1167, aveva partecipato alla conquista del Regno di Napoli nel 1191 ed era trapassato a godere del cielo nel 1265, dopo sessantaquattro anni di vita santa. L’abate Gioacchino da Fiore, in una lettera all’imperatrice Costanza, scriveva che Calà aveva condotto vita eremitica morendo in santità, era un profeta e aveva fatto «infiniti miracoli». Egli stesso aveva visto, davanti all’uscio del suo romitaggio un gran mucchio di forcole e bastoni che «zoppi e stroppiati» avevano lasciato in segno della loro guarigione. Del beato Giovanni esisteva persino un ritratto dipinto da un pittore di Castrovillari a cui il Calà era comparso in sogno manifestando il proprio desiderio di tramandare ai posteri la sua figura.

    Spuntano anche le reliquie

    Grande meraviglia e commozione nella regione suscitò, nel 1654, il ritrovamento dei resti del «beato». Le reliquie, chiuse in una cassa preziosa con tre chiavi, divennero subito oggetto di culto. E, in quello stesso anno, furono solennemente portate in processione, secondo alcuni a Cosenza, secondo altri a Castrovillari, per dare loro degna sepoltura. Nel 1666, però, tra lo stupore generale, il Tribunale dell’Inquisizione di Roma privò del titolo di beato Giovanni Calà. Il cardinale Crescenzio, vescovo di Bitonto, incaricato dalla Congregazione dell’Indice di analizzare i documenti sulla vita del sant’uomo, al termine di una faticosa ricerca aveva stabilito che si trattava di carte false.

    Galileo Galilei, il più celebre imputato del Tribunale dell'Inquisizione
    Galileo Galilei, il più celebre imputato del Tribunale dell’Inquisizione – I Calabersi

    Negli ambienti napoletani la truffa era di dominio pubblico tanto che Fusidoro, pseudonimo di Vincenzo D’Onofrio, scriveva che il vanaglorioso Calà aveva pubblicato la storia degli Svevi per rivendicare alla sua stirpe origini reali e sante, costruendo l’opera con documenti e pergamene prodotte da esperti falsari, tra cui l’ingegnoso Farinello. Anche per Domenico Confuorto, alias Fortundio Erodoto Montecco, il libro sulla famiglia Calà era più zeppo di «bugie che di parole, più spropositi che righi», ove si leggevano «chimerazzi e favolosi personaggi» descritti nei romanzi e nei libri di cavalleria.

    Il beato con le ossa d’asino

    Erano state lettere anonime e ammissioni della truffa di alcuni falsari a spingere le autorità ecclesiastiche a intervenire sulla storia del beato Calà. Il gesuita Pietro Giustiniani aveva raccolto la confessione di un uomo che si era reso responsabile insieme a Stocchi della «tessuta ribalderia». Costui aveva dato licenza di rendere pubblica la propria confessione, ma chiedeva che non si rivelasse il suo nome per «timore di essere ammazzato». Secondo Paoli era stato invece lo stesso Stocchi, mosso da «crudel rimorso», a rivelare la truffa in punto di morte. Mentre per altri a svelare l’inganno era stato il gentiluomo cosentino Angelo di Matera, suo complice.

    Un asino

    Questi, gravemente ammalato e assalito dal rimorso, confessò l’imbroglio in una scrittura consegnata a un notaio, pregandolo di recapitarla al vescovo di Martorano dopo la sua dipartita finale. Egli rivelava che, insieme al «solennissimo ciurmatore» Stocchi, aveva prodotto pergamene false e che le reliquie del beato erano in realtà ossi d’asino. Venuto a mancare il Di Matera, il presule mandò l’incartamento a Roma, dove la Congregazione Generale Romana istituì un processo condotto da padre Giustiniani. Questi appurò che le carte erano effettivamente false e che la storia del beato era un’invenzione. Il 27 giugno 1680, il culto del beato Giovanni Calà venne proibito. Il destino di libri, pergamene, codici, libretti e immagini che lo riguardavano? Prima il sequestro e poi le fiamme.

    Una truffa che fece il giro d’Europa

    Gli studiosi si interrogarono a lungo sul perché una truffa così audace di cui si parlò in tutta Europa non fosse stata subito smascherata. Paoli scriveva che la storia del beato Calà inventata da Stocchi era indubbiamente ben architettata, ma «conteneva cose più degne di un poema che di storia». Le ricostruzioni storiche erano piene di evidenti errori, contraddizioni e fatti assolutamente inverosimili, quali le virtù attribuite a Giovanni Calà.

    Questi veniva presentato come un uomo dalla forza superiore all’«umana natura», non inferiore a quella di Sansone e pari solo a quella di Ercole. Paoli si stupiva che i contemporanei non avessero esaminato e contraddetto un tale «ammasso di contraddizioni» e fatti «degni di un poema d’Ariosto». Sarebbe stato facile capire che i testi citati dal Calà erano falsi: nessuno aveva mai sentito parlare degli autori e nessuno ne avrebbe trovato copie nelle biblioteche.

    Troppo potente per sbugiardarlo

    Il silenzio e l’omertà degli studiosi contemporanei probabilmente si doveva al fatto che Carlo Calà era un uomo molto temuto. Padre Russo lo descrive come arrogante e vendicativo nei confronti di coloro che osavano criticarlo: Giuseppe Campanile, che nel febbraio del 1674 aveva avanzato dubbi alla sua Istoria degli Svevi, finì subito in prigione! Calà era uno degli uomini più potenti del Viceregno e il processo che aveva dimostrato la non autenticità delle reliquie di Giovanni Calà e la non attendibilità delle fonti documentarie che lo riguardavano, sarebbe rimasto segreto. Se non avvenne, è solo per l’imprudenza del Vicario Generale di Cassano, Giacinto Miceli, che aveva autorizzato il culto del beato Giovanni.

    La Historia de' Svevi, con il racconto della vita del falso beato Calà
    La Historia de’ Svevi, con il racconto della vita del beato Calà

    A quel punto il Tribunale dell’Inquisizione dovette comunicare a papa Innocenzo XI il verdetto del processo istruito da Giustiniani. Calà era così sicuro della sua impunità che, pur essendo a conoscenza delle critiche sul suo libro e dell’inchiesta in corso, nel 1665 dava alle stampe una versione dell’opera in latino. Del resto, come ricorda padre Russo, scattò il divieto per il culto del beato, ma il volume di Calà non finì all’Indice dei libri proibiti.

    A Cosenza si festeggia

    La truffa di Stocchi fu una tra le più ardite e celebri mai realizzate in Italia, capace di produrre il culto di un falso beato e di coinvolgere addirittura il potente Presidente della Sommaria. Se nessuno avesse svelato l’inganno, i fedeli avrebbero continuato a venerare e a ritenere reliquie di un santo dalle ossa d’asino. Il ricordo di questo beffardo episodio rimase vivo nella memoria dei cosentini dal momento che Pilati, giunto a Cosenza nel 1775, scrisse che un tale Stocco, gran letterato e nemico del clero, un giorno decise di far venerare pubblicamente gli ossi di un asino come reliquie di un santo. Aveva organizzato così bene la beffa che l’arcivescovo prima e lo stesso papa poi canonizzarono un fantomatico beato. I cosentini, entusiasti per quella proclamazione, istituirono una festa per la venerazione delle reliquie. E lo stesso Stocco compose l’inno da cantare per l’occasione.

  • Massoni, crucchi e iniziati nella torre del mago

    Massoni, crucchi e iniziati nella torre del mago

    Oggi è un semplice monumento, utilizzato dal Comune di Scalea per mostre, manifestazioni e gli immancabili presepi viventi. Eppure Torre Talao, l’antico bastione costiero costruito in chiave antiturca dal viceré Pedro Afan de Ribera d’Alcalà, su ordine di Carlo V, ha una storia strana, misteriosa e importante, almeno per certi ambienti.
    Una storia ignorata da chi, invece, dovrebbe conoscerla per scelta “militante” (i tantissimi massoni di cui rigurgita la Calabria) o per semplice interesse culturale.

    Questa storia è in parte calabrese, perché è calabrese lo scenario e sono calabresi alcuni dei protagonisti. Ma in parte è glocal, perché le vicende particolari della Torre si incrociano con alcuni passaggi delicati della storia non solo italiana della prima metà del ’900 fino all’avvento del fascismo.
    Edificata su uno scoglio particolare, nel quale sfociano acque termali e in cui sono stati rinvenuti reperti preistorici, la Torre divenne un importante tempio esoterico a partire dal 1910, quando l’acquistò Amedeo Rocco Armentano.

    Il compasso sulla squadra, uno dei più noti simboli massonici
    Il mago calabrese

    Come molti esoteristi dalla vita intensa e in parte avventurosa, Armentano ha scritto poco: di lui restano un corposo epistolario, alcuni articoli su riviste specializzate (ad esempio Ur, in cui firmava con l’acronimo Ara) e le Massime di Scienza Iniziatica, una specie di catechismo pitagorico riedito nel 2004. Roba da supernicchia, insomma.
    Anche la sua biografia è piena di enigmi. Rampollo di una famiglia possidente e agiata originaria di Mormanno e poi trasferitasi a Scalea, Armentano fu un protagonista assoluto del filone più estremo della cultura esoterica italiana: il neopaganesimo, che nel suo caso si rifaceva alla scuola pitagorica.

    Questo indirizzo dottrinario ebbe una certa circolazione sia nella massoneria, che era il principale veicolo di diffusione della cultura esoterica, sia fuori dal mondo dei “grembiuli”, in particolare in alcuni ambienti legati al fascismo delle origini.
    Quelli come Armentano sognavano la restaurazione della romanità imperiale, in contrapposizione al cattolicesimo. Fin qui, nulla di nuovo per gli ambienti massonici italiani, che ereditavano l’anticlericalismo del Risorgimento.

    Ma il vero elemento di rottura di questo esoterismo duro è la polemica, a tratti pesantissima, contro il cristianesimo, che invece la massoneria comunque rispettava (e rispetta): non a caso le logge di tutto il mondo aprono i loro “lavori” con la lettura dei versi iniziali del Vangelo secondo Giovanni e si richiamano comunque ai simboli cristiani. Esperto esoterista, Armentano voleva portare questa sua “rivoluzione” all’interno della massoneria ufficiale. Lo fece attraverso un massone di rango: Arturo Reghini.

    L’esoterista col pallottoliere

    Sul fiorentino Arturo Reghini valgono le parole di Natale Mario Di Luca, uno dei suoi biografi: fu una figura angelica.
    Toscano ma non toscanaccio, Reghini si formò nelle avanguardie d’inizio ’900, particolarmente attive nei caffè e nei salotti della sua città. Giovane e brillante intellettuale, si laureò in matematica a Pisa nel 1912 e cercò da subito di conciliare il mondo dei numeri con quello esoterico. Per lui, l’incontro con il pitagorismo fu quasi obbligato. Ed ebbe un tramite: Amedeo Rocco Armentano, appunto.

    I due si conobbero nel 1907 e la loro amicizia si sviluppò nel segno della complementarietà: Armentano iniziò Reghini ai segreti del pitagorismo e quest’ultimo fece entrare l’amico calabrese in massoneria. Per la precisione, nella loggia fiorentina “Lucifero”, di cui Reghini era uno dei fondatori e dei principali animatori.
    A differenza del “mefistofelico” Armentano (a cui si attribuivano anche poteri paranormali), Reghini scrisse moltissimo e spaziò dall’alchimia alla matematica.
    Al riguardo, resta importante, non solo in ambito esoterico, il grosso lavoro sviluppato dall’intellettuale toscano sulla matematica pitagorica, tutto realizzato solo con l’aiuto di un pallottoliere.

    Ecco come si presenta oggi un tempio massonico

    Il progetto dei due era ambiziosissimo: eliminare ogni riferimento alla tradizione giudaico-cristiana dai riti e dai simboli massonici e trasformare le logge in centri di propulsione del “nuovo” paganesimo. Non a caso, Reghini e Armentano furono in prima fila nel Rito Filosofico Italiano, una “catena” massonica ispirata proprio al paganesimo e al pitagorismo. In tutto questo, Torre Talao aveva un ruolo importantissimo: doveva servire da ritrovo per i pitagorici e da punto di irradiazione del loro pensiero.

    La Torre dei misteri

    Per un decennio buono, Torre Talao fu al centro di un viavai discreto ma non proprio invisibile di personalità a dir poco particolari, che si ritrovavano lì.
    Tra gli habitué della Torre, c’erano senz’altro Reghini e l’esoterista romano Giulio Parise (famoso anche per essere stato il grande amore della scrittrice Sibilla Aleramo), ma anche alti gradi della massoneria internazionale.

    alister_crowley
    Il discusso Aleister Crowley

    Al riguardo, emergono due nomi significativi, l’anglobritannico Theodor Reuss, fondatore e gran maestro dell’Ordo Templi Orientis (in acronimo Oto, scheggia impazzita e scissionista della Gran Loggia Unita d’Inghilterra) e l’inglese Aleister Crowley, che tra l’altro ebbe rapporti con Reghini, anche lui iniziato nell’Oto. Inevitabile che questo andirivieni di personalità strane desse nell’occhio alle autorità, regie prima e fasciste poi. E difatti i guai arrivarono puntuali per Armentano.

    Massone, mago e spia?

    C’è un aspetto poco valutato della Grande Guerra: il combattimento sottomarino, a cui la Kriegsmarine germanica fece fare un grandissimo salto di qualità.
    Le coste calabresi tirreniche, piene di relitti riscoperti di recente in occasione della vicenda delle navi dei veleni, ne offrono un esempio lampante e micidiale.
    Torniamo alle vicende massoniche. Nel 1914 il Rito Massonico Italiano collassò per un vistoso ammanco di fondi, di cui fu responsabile Guido Bolaffi, avvocato romano e avversario di Armentano e Reghini, che lo misero alla porta senza troppi complimenti.

    Sottomarino U-boot in forza alla Marina tedesca durante la Prima guerra mondiale

    La vendetta di Bolaffi scattò durante la Guerra, a cui il calabrese e il toscano parteciparono come volontari, rispettivamente come sottotenente degli Alpini e tenente dell’Artiglieria.
    Bolaffi accusò Armentano di essere una spia, proprio grazie ai suoi rapporti con gli esponenti tedeschi dell’Oto (che, a dirla tutta, pullulava di agenti segreti di tutte le nazionalità ed estrazioni) e di usare Torre Talao come “faro” e “pompa del carburante” per i sommergibili tedeschi, particolarmente scatenati nel Tirreno.

    Per quanto bizzarra, l’accusa fu efficace, grazie anche al clima di paranoia collettiva esploso nel Paese dopo la disfatta di Caporetto: a febbraio 1918 la Torre fu perquisita da cima a fondo, a marzo Armentano – che si trovava in Calabria perché il suo reparto era stato smobilitato – fu arrestato e finì sotto inchiesta nel Tribunale militare di Monteleone (l’odierna Vibo Valentia). Vi restò fino al 18 luglio successivo, praticamente isolato e col rischio di finire al patibolo.
    L’accusa cadde il 19 luglio, con una sentenza di non luogo a procedere per non aver commesso il fatto.

    Fine della storia

    Armentano e Reghini mollarono il Grande Oriente d’Italia per aderire alla Gran Loggia d’Italia, che offriva più garanzie, anche nei confronti del fascismo.
    Infatti, a differenza del Goi, che pagò carissimo il proprio antifascismo, le logge di Piazza del Gesù erano filofasciste. Giusto per fare alcuni esempi, erano massoni di Piazza del Gesù due big del movimento mussoliniano: Italo Balbo e Michele Bianchi.

    Tuttavia, la caccia al massone iniziata dal fascismo era nel pieno e nessuno poteva dirsi al sicuro. Certo, i “pagani” Reghini e Armentano non erano visti malissimo, dato che i loro richiami a Roma imperiale collimavano con un certo immaginario fascista. E non a caso Mussolini in persona protesse Reghini da alcune accuse mossegli dagli ambienti cattolici vicini al regime, che lavoravano per preparare il Concordato.

    Ma il destino dell’esoterismo italiano era segnato: Armentano mollò l’Italia nel 1924 per trasferirsi a San Paolo del Brasile, dove avrebbe fatto fortuna nel commercio del caffè e dove sarebbe morto nel 1966. Reghini firmò l’autoscioglimento della Gran Loggia d’Italia (che, a differenza del Goi, fu soppressa in maniera soft) e si ritirò a vita privata a Budrio, dove insegnò matematica fino al 1946, quando morì di tumore.

    E la Torre? Letteralmente abbandonata, fu saccheggiata e vandalizzata finché non passò al Comune di Scalea.
    Il tratto di mare che la separava dalla costa non esiste più, perché nel frattempo si è interrato. Come i tanti misteri della Torre, che aspettano ancora di essere ricostruiti e raccontati a dovere.

  • Cultura, lettera a un assessore mai nato

    Cultura, lettera a un assessore mai nato

    La sera del 7 novembre, domenica, il neoeletto sindaco di Cosenza, Franz Caruso, ha parcheggiato la sua Smart tra la biblioteca Civica e il teatro Rendano: è stato come appuntare una delle sue prime uscite pubbliche tra due simboli della decadenza culturale della presunta Atene della Calabria.
    Da un lato la sede della gloriosa Accademia cosentina, dall’altro il teatro di tradizione dove si celebrava Astor Piazzolla a cento anni dalla nascita: due dei tanti contenitori in cerca di contenuti, nel tempo dissestato in cui par di capire che di “contenuto” ci dovrà essere solo il budget dedicato alla cultura.
    Fine del prologo

    Car* assessor*

    O meglio, come sembra dovrà essere, car* consiglier* delegat*, il decennio di Occhiuto ha lasciato le macerie di un eventificio perpetuo di cui non resta alcuna traccia se non nelle lamentazioni social – anche postume – dei cosiddetti “odiatori” in modalità leoni da tastiera.

    Il biennio della pandemia ci ha precipitati in un nuovo riflusso in cui in maniera direttamente proporzionale si sono ristretti gli spazi pubblici di incontro e confronto e dilatati quelli della fruizione domestica – serie tv ma anche musica e persino mostre.
    Eppure Cosenza aveva iniziato a desertificarsi ben prima dell’emergenza Covid: ai lustrini dell’isola pedonale puntellata di opere d’arte e degli stand in centro o lungo il fiume ha fatto da contraltare il depauperamento dei simboli stessi di quella che si beava di essere l’Atene della Calabria, appunto, che per nemesi è stata scavalcata da Vibo capitale del libro, tanto per dirne una.

    Caro assessore o consigliere delegato alla Cultura, fondi permettendo ci sarà da intervenire anzitutto sui teatri cittadini: Rendano, Morelli e Italia giacciono come pachidermi fiaccati da una lunga agonia giunta, per paradosso, proprio dopo la rinascita strutturale, e quasi bisogna ringraziare i privati che con stagioni mainstream quanto si vuole almeno li tengono in vita.
    Al Rendano non si produce prosa dal 1990 – una volta decaduto il Consorzio teatrale –, lo stesso stallo riguarda la lirica ora che si è perfezionata la mutazione degli enti lirici in fondazioni lirico-sinfoniche (solo 2 su 14 hanno sede al Sud).

    A un assessore o consigliere delegato – o consigliera delegata, come pare in queste ore più probabile – si chiede di mettere in campo un progetto fattibile con cui cercare di accedere ai finanziamenti statali (il famoso Fondo unico per lo spettacolo del ministero della Cultura), per cui è richiesto un periodo di attività continuativa che al momento latita.
    Anche in questo caso converrebbe guardarsi attorno con umiltà, ispirarsi magari a esempi virtuosi nella gestione di strutture magari con meno storia ma più visione: dalla Fondazione che gestisce il Politeama di Catanzaro alla grandeur del nascituro (?) Museo del Mediterraneo impreziosito dal waterfront di Zaha Hadid a Reggio Calabria. Per ora un rendering magniloquente quanto il Museo di Alarico alla confluenza Crati-Busento.

    Cosa c’era, cosa c’è

    «A Cosenza (…) non c’è il problema di un assessore nuovo, manca invece il dibattito, la discussione politica e culturale e conseguentemente le scelte: quale cultura, quale arte, vogliamo per la nostra città?»: così Radio Ciroma nella lettera aperta “Per la cultura a Cosenza non serve un assessore ma una discussione”.
    Si sa che, soprattutto a sinistra, il “dibbbattito” (no, il dibattito no!) finisce spesso per trasformarsi in una paludosa riunione di autocoscienza che si inviluppa, si invischia e involve fino alla produzione del Documento Finale; seguirà buffet.
    Eppure per chi ricorda Petrucciani al Rendano, Ferlinghetti o Kusturica alla villa vecchia, i concerti di Lou Reed e Patti Smith o i tamburi del Bronx all’ombra dell’attuale ponte di Calatrava (nell’estate 1998 un totem più futuribile del planetario) fare un confronto con l’offerta culturale di oggi è alquanto desolante.
    Non va meglio se si cercano luoghi di aggregazione.

    Il grande Lou Reed, scomparso nel 2013

    Dal momento che la neo eletta maggioranza non ha fatto mistero di rivendicare una impronta socialista e un legame con la rinascita mancinianaben più della discutibile trovata grafica nel manifesto elettorale di uno dei candidati sindaco Civitelli –, al netto delle ristrettezze di cassa sarebbe allora il caso di ripartire da alcuni dei luoghi (pubblici) in cui il sindaco già ministro e segretario del Psi individuò altrettante opportunità di ripartenza, tanto più in questa fase post-pandemica.

    Senza bisogno di scomodare le Invasioni – davvero un precedente troppo ingombrante benché recentemente brutalizzato come si sfregia un monumento – è il caso di citare almeno la Casa delle culture e la Città dei ragazzi: un non-luogo nel palazzo un tempo sede del municipio e un unicum che, nella zona nord della città, dopo vent’anni non riesce a trovare una identità per imporsi (tra i cubi di via Panebianco, di recente la lodevole iniziativa Bibliohub con le scuole).

    La Città dei ragazzi su via Panebianco

    Ora che si avvicina il primo Natale de-cerchizzato è forse il caso che dal dissesto locale e dalla crisi globale venga nuova linfa: crisi deriva dal greco krino, ovvero decido, ed è nei tempi peggiori che possono nascere le cose migliori.
    Qualcosa in realtà a Cosenza non ha mai smesso di muoversi, e proprio nel centro storico che crollava sono nate nicchie di resistenza come Gaia, Arcired e Coessenza; ma altrettante premesse non sono diventate fatti: il Bocs Museum e la Casa della Musica forse sono gli esempi più lampanti di un torpore che prelude al fallimento pubblico.

    L’interno del Bocs Museum a San Domenico
    Conclusioni

    L’impressione è quella di una città che non fa tesoro delle proprie potenzialità. A cinquant’anni dalla nascita, l’Unical resta un oggetto misterioso per la comunità eppure indicizzato tra le eccellenze accademiche italiane.
    Altri fiori all’occhiello come il Conservatorio musicale “Stanislao Giacomantonio” continuano ad operare con non poche soddisfazioni e ricadute sociali oltre che culturali (con il decreto del Fus 2022 è stato peraltro annunciato dal ministro Franceschini un contributo straordinario per la nascita di orchestre stabili), così come alcuni premi (il “Sila ‘49” e quello per la Cultura mediterranea organizzato dalla Fondazione Carical) contribuiscono almeno ad ampliare lo sguardo oltre la dimensione strapaesana dei consumi culturali.

    C’è una città che in questi anni ha continuato a lavorare nel silenzio e nell’ombra, ma con impatto e seguiti invidiabili, senza pietismi e lamentazioni: forse adesso chiede solo di ricevere, se non riconoscenza, almeno un po’ di ascolto.