A Orsomarso, meno di 1.200 anime nel nord della Calabria, il mare non c’è. Chi vuole goderselo va nelle vicinissime Santa Domenica Talao, Santa Maria del Cedro o Scalea. Ma, al riparo del turismo di massa, c’è un attrattore potenziale per un pubblico più specializzato ed esigente: la parte meridionale dell’Appennino Lucano, nota come Monti di Orsomarso, meno alti del Pollino, ma altrettanto massicci.
E poi ci sono i loro tesori nascosti, accessibili solo agli appassionati più spericolati e qualificati: gli speleologi. Parliamo di grotte che si aprono sulle pareti dell’Appennino e si inabissano a grande profondità. Una in particolare, che si affaccia sul Pianoro di Scarpuri, è una cosiddetta “risorgenza”, cioè una sorgiva montana da cui emerge un fiumicattolo sotterraneo. È profondissima, circa 70 metri. L’altezza di un edificio. E non è un caso che si chiami Risorgenza Palazzo.
Esploratori in azione tra le viscere dei monti dell’Orsomarso
Un mistero a metà
L’esistenza di questa grotta, spettacolare non solo per le dimensioni, non era un segreto: non a caso è regolarmente censita da anni nei registri del catasto.
Quel che non si conosceva e che è emerso solo di recente è la dimensione enorme e, soprattutto, la disposizione particolare e articolata di questa cavità, che è un’opera sofisticata di architettura naturale, lavorata per millenni dai corsi d’acqua e tuttora di difficile accessibilità e in parte inesplorata.
La prima esplorazione seria risale al 2017 ed è opera di due gruppi di speleologi: Le forre del Tirreno, già protagonista di altre scoperte importanti, e Mercurion,
Ma com’è fatta questa grotta? E, soprattutto, quali sono i suoi misteri?
L’ingresso del sifone sotterraneo
I segreti della montagna
L’ingresso è un triangolo piuttosto ampio nella parete della montagna, da cui sgorga un fiumiciattolo che finisce nella valle.
La cavità iniziale è piuttosto ampia, circa 100 metri, e si sviluppa in orizzontale. Alla fine di questo antro c’è una biforcazione particolare che obbliga gli esploratori aimprovvisarsi, rispettivamente, alpinisti o sub.
Il primo percorso, sconsigliato a chi è sovrappeso o non ha capacità atletiche decorose, porta a una stanza superiore, raggiungibile con un’arrampicata su corda di 12 metri. La fatica vale la pena, perché il paesaggio è davvero spettacolare ed evoca immagini a metà tra il film horror e il Paradiso Perduto.
Speleologi si calano nel corridoio sotterraneo della grotta
I padroni di casa sono i pipistrelli, disturbati a malapena dai ragni delle grotte e da piccoli invertebrati, che si dividono un ecosistema costituito da un laghetto che genera piccole cascate. Il tutto in un tripudio di “concrezioni”, cioè di stalattiti, stalagmiti e vele, scolpite dal lavorio incessante dell’acqua sul calcare delle rocce. Proprio la presenza di pipistrelli, spiega Paolo Cunsolo, il presidente de Le forre del Tirreno, fa pensare all’esistenza di un secondo passaggio sulla parete della montagna, che gli speleologi stanno tuttora cercando. La vera sorpresa, tuttavia, è al piano più basso.
Un mondo a parte
«Qui c’è un mondo intero», ha esclamato Piero Greco, sub convertitosi alla speleologia e autore della scoperta, avvenuta a settembre 2017 nell’Appennino lucano che parla calabrese. Torniamo alla biforcazione del piano terra per capire meglio. Oltre che scalare con le corde, si può proseguire dritti, ma in questo caso la situazione si complica, perché la grotta termina in un sifone pieno d’acqua. Per esplorarlo, Greco ha dovuto indossare muta e bombole. Per fortuna, il condotto non è lunghissimo (circa 5 metri), tant’è che il resto del gruppo lo ha percorso in apnea.
Piero Greco, sub convertitosi alla speleologia, si muove all’interno del sifone
La grotta nel cuore dell’Appennino lucano a cui si accede è l’elemento più spettacolare della struttura: 400 metri di superficie e di ampiezza ancora non calcolata, perché, spiega Cunsolo, «le torce riescono a malapena a illuminare parte della cavità».
In parte, ricorda la cavità superiore, solo che è tutto più ampio e non ci sono pipistrelli. E tutto lascia pensare che gli esploratori del 2017 siano i primi esseri umani che ci hanno messo piede. Ma c’è un’altra sorpresa, ancora tutta da scoprire.
Fango, acqua e freddo nelle grotte dell’Orsomarso
La terza grotta
Anche questa seconda grotta termina con un sifone. Il che indica che le acque sotterranee hanno un percorso piuttosto lungo, caratterizzato da altre importanti cavità. Alla fine di questo sifone, racconta ancora Cunsolo, potrebbe esserci una terza grotta, forse grande come quella scoperta di recente nel Pollino. Ma raggiungerla può essere davvero difficile e più rischioso. E non è improbabile che l’impresa richieda l’impegno di speleologi subacquei. Una sfida importante per specialisti che non temono i pericoli ma li conoscono benissimo. Chi la raccoglierà?
Ottocento anni. Una data importante, un compleanno differente, quello che si appresta a festeggiare la Cattedrale di Cosenza, il grande tempio della nostra città, cuore vivo e palpitante dell’intero centro storico e che porta con sé i segni di cambiamenti, di passaggi, di disfatte e di rinascite. Il 30 gennaio 1222, alla presenza dell’imperatore Federico II, veniva solennemente consacrata per opera del cardinale Niccolò dé Chiaromonti, vescovo di Tuscolo e delegato apostolico, la Cattedrale di Santa Maria Assunta a Cosenza.
Il ruolo dell’arcivescovo Luca Campano
Nel 1184, un rovinoso terremoto aveva distrutto molta parte della Calabria, tra cui l’antica costruzione medievale del Duomo di Cosenza. A partire dal XIII secolo, con la nomina ad arcivescovo del monaco cistercense Luca Campano, già abate della Sambucina in Luzzi, oltreché collaboratore e scrivano di Gioacchino da Fiore, iniziò un importante e fondamentale lavoro di ricostruzione della Cattedrale cosentina.
Luca Campano, figura centrale nei rapporti tra impero e papato tra la fine del secolo XII e gli inizi del secolo XIII, contribuì a rendere la città di Cosenza un crocevia culturale e politico di primaria importanza, posizione culminata con la presenza in città dell’imperatore, arrivato con un solenne quanto nutrito corteo imperiale, in occasione della riapertura del nuovo tempio cittadino.
Il tesoro più prezioso della Cattedrale: la Stauroteca
In occasione della consacrazione, inoltre, si fa corrispondere il dono, da parte dello Stupor mundial Capitolo della Cattedrale, della preziosa croce reliquario inoro, pietre e smalti, contenente una reliquia della croce di Gesù Cristo e perciò detta Stauroteca. Il reliquiario, realizzato nei laboratori del Tiraz palermitano a cavallo tra XI e XII secolo rappresenta un raro e concreto esempio della convergenza multiculturale presente nella corte normanna di Palermo. L’opera riformatrice dell’arcivescovo Luca, e la sua capacità di mediazione con le strutture dell’Impero, a partire dallo stesso Federico II, trova il suo momento di massimo splendore e di coronamento ideale nella consacrazione della Cattedrale.
La Stauroteca donata da Federico II
Sepolture illustri
Il rapporto con gli Hohenstaufen fu sancito da un ulteriore quanto drammatico accadimento. Nel 1242 a seguito della morte nei pressi di Martirano di Enrico VII, figlio di Federico II e di Costanza d’Altavilla, fu deciso che fosse sepolto nella Cattedrale di Cosenza, all’interno di un antico e prezioso sarcofago romano, decorato con scene della caccia al cinghiale di Calidone.
A questa sepoltura regale, sempre all’interno della Cattedrale, si aggiunse dopo il 1271 il monumento funebre della regina di Francia, Isabella d’Aragona, moglie di Filippo III l’ardito; la regina, incinta di sei mesi del quinto figlio, quando di ritorno dalla sfortunata crociata di Tunisi, trovò la morte nella Valle del Savuto.
La Madonna del Pilerio
Nella Cattedrale è inoltre conservata l’antica e miracolosa effige della Madonna del Pilerio, patrona della Città di Cosenza e dell’intera diocesi; si tratta di un’icona attribuita dagli studiosi al XII secolo, immagine a cui tutti i cosentini sono intimamente legati.
Questi brevi accenni alla storia europea dimostrano come nel corso degli ultimi otto secoli, le tante testimonianze materiali e documentali, richiamino il passaggio della micro storia e della macro storia nella nostra Cattedrale; ma la Chiesa madre, così è conosciuta nel popolo, ha svolto sempre un ruolo centrale nella vita religiosa, sociale e politica della comunità.
L’icona della Madonna del Pilerio, patrona della città di Cosenza
Dai Telesio alle bombe
Nella Cattedrale, insieme ad altre famiglie nobili della città, aveva il giuspatronato la famiglia Telesio, da cui nel 1565 divenne arcivescovo di Cosenza Tommaso, fratello minore del più noto filosofo Bernardino.
In una cappella laterale hanno trovato iniziale sepoltura i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, unitamente ai loro gli eroici compagni; e poi le vicende che la videro protagonista durante la fine del XIX secolo, con una nuova e importate campagna di restauri, diretti dall’architetto Giuseppe Pisant; e ancora gli eventi bellici e i bombardamenti durante la seconda guerra mondiale.
La storia della città nella sua Cattedrale
Nel corso dei secoli, la città ha sempre vissuto la piazza grande e la Cattedrale come un luogo centrale della propria vita nella fede, ma anche della sua esistenza sociale e culturale, lasciandosi attraversare. Gli 800 anni della cattedrale sono in qualche modo anche gli 800 anni della nostra città, sono la storia di Cosenza e dei cosentini. È nostro dovere celebrarne la memoria.
L’azione programmatica non trova solo pieno riscontro nello specifico indirizzo religioso e teologico, ma vuole coinvolgere tutta la comunità e la cittadinanza, in quanto la conoscenza della storia, la conservazione del territorio e la sua tutela, oltreché la formazione alla loro consapevolezza, necessitano di una coscienza unitaria attiva e partecipata.
Ottocento anni dopo: tanti eventi e un francobollo celebrativo
Il francobollo emesso per gli 800 anni del Duomo di Cosenza
Il 2022 perciò deve essere anche, e soprattutto, un anno in cui iniziare, in cui partire dalla chiesa madre, e da li unirsi intorno a grandi progetti con uno sguardo di fiducia e speranza solida, un messaggio di vita: procediamo in questo anno giubilare e afferriamo la capacità di cogliere nelle nostre radici i valori che orientano il futuro, spesso meravigliandosi, e a credere con speranza in un progetto più alto cui guardare.
Un anniversario, un anno di eventi, tra musica, arte, storia, esperienze immersive, circolazione di idee e di progetti, ma soprattutto la presenza di persone, nel riappropriarsi del tempo e dello spazio.
L’anno di eventi pensato per celebrare questo ottocentenario si apre con un francobollo celebrativo e rappresenta un importante sforzo in tale direzione: trasversali e inclusive, le diverse iniziative si pongono infatti l’obiettivo concreto di fare della chiesa madre della città la casa di tutti, senza distinzione.
Buon compleanno Cattedrale, e auguri a tutti i cosentini.
Antonella Salatino Presidente Associazione 8centoCosenza APS
Il Giorno della Memoria in Calabria ci ricorda un frammento del secondo conflitto mondiale, fra i meno tristi e pur sempre angoscioso, legato alle leggi razziali e alla storia degli internati ebrei. Tra il 1940 e il 1943, per una serie di circostanze fatali alcune migliaia di ebrei deportati e di prigionieri provenienti dall’Italia e da altre nazioni europee, ebbero la ventura di concludere la loro odissea non nei vagoni sigillati davanti ai cancelli senza ritorno dei campi di sterminio polacchi o tedeschi, ma in un angolo remoto e dimenticato della Calabria interna. Approdando, dopo dolorose vicissitudini e peregrinazioni, nel campo di internamento di Ferramonti di Tarsia, «in provincia di Cosenza, una landa deserta e malarica». Lì ebrei «provenienti da tutte le terre d’Europa, il fior fiore della scienza e dell’intelligenza ebraica», ricorda lo scrittore e fotografo ebreo dalmata Luciano Morpurgo in Caccia all’uomo, un introvabile libro-memoriale pubblicato nel 1946, erano stati concentrati in una dozzina di «grandi baracche di legno costruite per la bonifica» dal fascismo nel 1940.
Ferramonti, il primo campo liberato
Il campo, un recinto di 16 ettari di superficie, fu costruito dallo speculatore Eugenio Parrini. L’impresa di Parrini, sodale di importanti gerarchi fascisti, era già presente a Ferramonti per eseguire i lavori di bonifica delle paludi del Crati. Alcuni dei capannoni predisposti con camerate da 30 letti erano in origine dormitori e alloggi per gli operai della bonifica agricola del Crati. Ferramonti con i suoi 4.000 internati divenne così il più grande dei 15 campi di concentramento per ebrei costruito in Italia da Mussolini dopo le leggi razziali del 1938. Fu il primo in Italia ad essere liberato dopo l’armistizio. Era sorto in una plaga del malarico vallo cosentino nei pressi di Tarsia, su di una grande spianata infestata dagli insetti e frequentemente inondata dal Crati.
Soldati all’esterno del campo
A qualche chilometro lontano dai reticolati del campo, protagonista di alcune fughe senza fortuna, correva il binario della ferrovia Sibari-Cosenza, mentre a circa sette chilometri da Ferramonti restava lo scalo di Mongrassano-Cervicati, sulla diramazione del tronco ferroviario che da Paola, via Castiglione Cosentino, e proseguiva per Cosenza. Percorso attraverso il quale giunsero al campo, con tradotte in littorina e vaporiera in partenza dai binari della stazione di Paola molti degli internati. Mentre dai binari della linea ionica Sibari-Taranto furono raccolti a Tarsia anche gruppi di internati ebrei provenienti dal nord Europa, insieme a quelli rastrellati lungo il versante adriatico della penisola.
Lontani dal genocidio
Insieme agli ebrei furono detenuti nel campo anche prigionieri civili, partigiani jugoslavi, carcerati politici greci, militari francesi e persino un gruppo di prigionieri cinesi a cui venne affidata la lavanderia interna al campo.
In questo luogo isolato del vallo cosentino appena sfiorato dal treno, remoto e inospitale come pochi altri, ma per questi stessi motivi rimasto a lungo intoccato e lontano dai fuochi divampanti della guerra e dal fanatismo antisemita dei regimi nazifascisti, gli internati ebrei, pur privati della libertà poterono sfuggire al genocidio. Furono trattati con umanità anche dal personale militare italiano addetto alla sorveglianza del campo.
Prigionieri cinesi nel campo di Ferramonti
Ferramonti, che ricadeva sotto la responsabilità del ministero degli interni fascista, fu sempre diretto da commissari di pubblica sicurezza. Solo la sorveglianza esterna al campo era affidata alle camicie nere della gendarmeria territoriale. I deportati poterono durante gli anni di prigionia, godere anche di una certa libertà di movimenti, e solidarizzarono con le popolazioni locali con le quali praticamente convissero a lungo, dando vita durante gli anni di guerra ad un insolito rapporto di simbiosi civile e umana, improntato alla solidarietà e costellato da frequenti episodi di fraternità umana, tanto più significativi in quanto scaturiti in tempi e circostanze storiche che vedevano consumarsi altrove nel resto dell’Europa i crimini dello sterminio antisemita.
Ferramonti, il più grande kibbutz prima di Israele
Condizioni di vita insolite, al punto che lo storico ebreo Jonathan Steinberg ha definito il campo di Ferramonti «il più grande kibbutz sorto sul continente europeo, prima di Israele». Per molti degli internati ebrei, affluiti in Calabria dopo le leggi razziali del 1938 e poi più numerosi nel corso della nuova diaspora durante gli anni del genocidio, l’ultimo dei treni che portava a destino l’«ebreo errante arrivato in catene» fu quello della salvezza.
Campo di Ferramonti, incontro tra gli internati e il rabbino Riccardo Pacifici
Numerosi fra gli ex internati ebrei del campo di Ferramonti di Tarsia hanno conservato un ricordo vivo e intenso di quei viaggi compiuti sui treni a vapore che percorrevano il faticoso tracciato a cremagliera della Paola-Cosenza. Come Luciano Morpurgo, che procedeva sulla tratta per far visita ai parenti internati. «Negli otto giorni» trascorsi dal suo arrivo a Ferramonti, si servì ancora dello stesso treno, portandosi dietro a ogni suo ritorno da Paola un «un carico di buona frutta che mancava ai rinchiusi al campo». Nella cittadina tirrenica, «quando si seppe di me – continua Morpurgo – e della causa che mi aveva portato fin là, fu una gara di gentilezza, di bontà, da parte di quella gentile e buona gente che con le cortesie e le premure voleva compensarmi di tanti dolori e amarezze».
L’omnibus dei poveri
Per gli internati di Ferramonti questo piccolo treno divenne così il treno del rifugio e della speranza. Si può dire che solo l’immagine di questo modesto omnibus dei poveri che solcava lento fra sboffi di vapore i recessi boscosi e assolati di questa ignota frontiera calabrese, resta a lottare contro l’immagine terrificante e disumana di quei lunghi treni di morte, neri e sigillati come bare, che ogni giorno nelle albe buie nate sotto i cieli di piombo di Mauthausen, di Dachau, di Treblinka conducevano all’ultimo calvario di atrocità milioni di ebrei.
«A Paola ci fecero trasbordare su di un altro treno che in mezzo alle rotaie aveva una cremagliera come quella del parco Petrìn di Praga. Salimmo molto in su verso le montagne, attraverso bellissimi castagneti». E così, lontano dagli orrori dell’olocausto, per alcuni anni sui banchi di legno di terza classe dei umili convogli a vapore della Paola-Cosenza, accanto ai contadini di Falconara, ai braccianti poveri di S. Fili e del Vallo, agli studenti di Paola sedettero, sorvegliati e in catene ma per concludere fortunosamente le angosce di quei lunghi viaggi incogniti verso il destino di Ferramonti, ebrei italiani, polacchi, slavi, greci, austriaci, ungheresi e tedeschi, e al familiare dialetto calabrese si mischiarono per un momento le voci e le parole sradicate di quegli idiomi lontani.
Il viaggio contrario
I pochi internati ebrei che per sfortunate circostanze ebbero la ventura fatale di compiere un giorno su quello stesso rassicurante trenino il viaggio contrario che li allontanava dalla Calabria – quelli che tra loro fecero richiesta di trasferimento verso altri campi e quelli destinati dopo un periodo di mite internamento dal campo di Ferramonti ai campi del centro e del nord Italia (Trieste – S. Saba, Fossoli, Urbisaglia e altri), quasi tutti conclusero tragicamente le loro peregrinazioni, incontrando il destino nei carri piombati dei lugubri convogli avviati ai campi di Dachau, Auschwitz e altri luoghi di morte.
Paradossalmente a Ferramonti le uniche quattro vittime belliche le fece per errore il mitragliamento di un aereo inglese durante un combattimento contro un caccia tedesco che ne sorvolava la superficie nell’agosto del 1943.
La scritta “Il lavoro rende liberi” sul cancello di Auschwitz
Troppo permissivo per i fascisti
All’interno del campo agli ebrei deportati e agli altri internati fu permesso di organizzarsi e di eleggere propri rappresentanti. I medici ebrei presenti usufruirono di un’infermeria con annessa farmacia, e spesso anche gli abitanti dei dintorni del campo che si rivolgevano loro vi furono curati. Vi fu attiva una scuola, un asilo, una mensa per bambini, una biblioteca, un teatro e luoghi di culto (due sinagoghe, una cappella cattolica e un’altra greco-ortodossa). Non furono rare le unioni e i matrimoni tra gli internati e durante il periodo di detenzione nel campo nacquero 21 bambini.
Paolo Salvatore, uno dei funzionari di polizia che condussero il campo di internamento, venne sollevato dalla direzione agli inizi del 1943 per un atteggiamento che fu giudicato poco fascistae troppo permissivo nei confronti degli internati, ai quali aveva persino permesso di lavorare fuori dal recinto del campo per integrare le scarse razioni alimentari di guerra. Quando gli inglesi liberarono il campo di Ferramonti nell’estate del 1943, la gran parte degli internati ebrei si erano già dispersi nelle campagne intorno a Tarsia. Molti rifugiati e nascosti nelle case dei contadini calabresi con cui avevano solidarizzato durante il periodo di detenzione.
Gli internati più famosi
Tra gli internati a Ferramonti trovarono riparo personalità eccezionali. Numerose le figure singolari e i caratteri geniali che ebbero salva la vita entro quel remoto recinto sorto su una sponda malarica del Crati, lontano dagli orrori dell’Olocausto. Quando poterono ritornare al mondo, il segno che parecchi di loro lasciarono nella vita successiva scampata proprio nel periodo trascorso a Ferramonti, non di rado fu memorabile. Traiettorie di rinascita e di affermazione personale che raccontano imprese e fioriture tra le più varie. Come quelle segnate da
Ernst Bernhard, medico e psichiatra berlinese, che fu un importante allievo di Carl Gustav Jung a Zurigo, analista di grandi personalità della cultura italiana di cui divenne amico e confidente, come Federico Fellini, Natalia Ginzburg, Giorgio Manganelli e Cristina Campo;
l’internato jugoslavo David Mel, che nel periodo di detenzione a Ferramonti fece il cuoco ma che divenne poi uno scienziato più volte candidato al premio Nobel per la medicina, scopritore del vaccino per la dissenteria;
Alfred Wiesner, ingegnere jugoslavo che dopo la liberazione fu partigiano e che alla fine della guerra si mise a produrre gelati, iniziando così l’attività che lo portò nel 1953 a fondare il marchio Algida, nato dal suo innovative sistema di produzione industriale dei gelati di cui inventò sia il nome che il logo, oggi conosciuti e affermati in tutto il mondo;
Oscar Klein, giovane ebreo austriaco imprigionato con la famiglia a Ferramonti, dove pare imparò i primi rudimenti del jazz, e che divenne poi un famoso compositore ed esecutore di musica swing e dixieland;
Menachem Shelah, ebreo dalmata, poi emigrato in Israele dove divenne un importante storico e studioso della Shoa;
Michel Fingesten, ebreo italo-austriaco che studiò a Vienna insieme all’amico Oskar Kokoschka, divenendo a sua volta uno dei più importanti artisti ed incisori del ‘900, famoso per i suoi ex-libris per le sue opere grafiche esposte nei musei di tutto il mondo – deportato a Ferramonti istituì per i detenuti del campo una scuola d’arte. Fingesten morì purtroppo pochi giorni dopo la liberazione a causa di una infezione contratta in prigionia. È ancora oggi sepolto nel piccolo cimitero di Cerisano, vicino Cosenza.
A Cosenza l’eredità culturale dei deportati ebrei di Ferramonti si mantenne viva nella figura di Gustav Brenner, un ebreo austriaco che trasformò la sua detenzione a Ferramonti nella scelta di vita che lo portò a stabilirsi a Cosenza, dove nel dopoguerra fondò una casa editrice di cultura specializzata in opere antiche e rare ripubblicate in edizioni anastatiche, ancora oggi attiva.
Un treno per vivere
Nel giugno 1944, ormai liberi, erano partiti per il loro ultimo viaggio sul treno a vapore per Paola, proseguendo poi sino a Napoli, dove al porto li aspettava per l’esodo finale una nave diretta in Palestina o negli Stati Uniti, alcune centinaia di ex internati ebrei di Ferramonti. Il 6 settembre 1945, «ultimo giorno di vita del campo di Ferramonti di Tarsia», un ultimo convoglio ferroviario partito dai binari di Mongrassano, via Cosenza-Paola, avrebbe riportato gli ultimi profughi ebrei alla stazione di Paola. E da qui cambiando nuovamente treno, verso il centro di raccolta di S. Maria al Bagno, in Toscana, presso Lucca. Con quell’ultimo viaggio verso la libertà anche «il trenino degli internati» di Ferramonti, poteva dire estinto quel debito fortuito contratto – suo malgrado – con la grande Storia. Regolato il suo conto e restituitosi libero tornava ancora una volta alla sua piccola storia di sempre.
Quel che resta del campo
Degli ebrei morti durante il periodo di detenzione nel campo, 16 trovarono sepoltura nel vicino cimitero cattolico di Tarsia (solo 4 sepolture sono tuttora visibili), e 21 nel cimitero di Cosenza, dove è ancora possibile visitare le loro tombe. Del tentativo da parte del Comune di Tarsia di fare dei resti del campo un piccolo museo della memoria, rimane per ora solo una baracca esterna al recinto originario, con dentro poco più di qualche riproduzione fotografica di vecchie immagini di repertorio; niente altro. Del campo, che all’interno del perimetro contava in origine 92 baracche, comprese officine, depositi, laboratori, refettori e cucine, smantellato nel tempo e sopraffatto da abusi e incuria, non restano oggi che sterpaglie e pochi capanni residui, abbandonati e fatiscenti. Uno spazio senza nome tagliato in due da un rettifilo della A2 Salerno – Reggio Calabria. Il traffico scorre immemore e veloce sopra la scarpata dell’autostrada del Mediterraneo. Altre storie asfaltate via.
Si pensa spesso al mare, che in realtà è più bello d’inverno, quando le località costiere sono vuote e le attività inquinanti al minimo.
Ma si trascura il suolo, che forse può diventare molto attrattivo, specie per chi invoca il turismo di nicchia. Al riguardo, il basso Tirreno cosentino è pieno di forre e di grotte, sotterranee e non, alcune delle quali sono anche giacimenti archeologici, che raccontano come, nella preistoria, la Calabria – oggi in vistoso calo demografico – fosse popolosa.
Forra tirrenica
Resti umani risalenti al Paleolitico
Lo rivela ’a grotta da ’ntenza – scoperta da Gianluca Selleri che vi si è calato nel 2017 – a cui si accede dalle pareti rocciose dei monti tra Falconara Albanese e San Lucido.
All’interno di questa cavità vi sono reperti poveri e antichissimi, che spiccano sul biancore della roccia calcarea: strumenti di osso e selce e vasellame in terracotta grezza che risalgono al Paleolitico. Più qualche resto umano.
«È una delle tante sepolture preistoriche che stanno venendo alla luce in quest’area», spiega Paolo Cunsolo, presidente dell’associazione Forre del Tirreno, che raduna un gruppo consistente di speleologi.
La Grotta da ‘ntenza
Varie di queste tombe primitive, in cui i nostri remotissimi antenati si facevano seppellire assieme agli strumenti della loro quotidianità, sono state scoperte un po’ più a Sud, per la precisione a Coreca, la bellissima scogliera tra Amantea e Campora San Giovanni.
Di questi ritrovamenti eccezionali si sta occupando ora Felice Larocca, archeologo e ricercatore dell’Università di Bari, che attualmente gestisce gli scavi e la manutenzione di un altro luogo antichissimo: la Grotta della Monaca, nella Valle dell’Esaro.
Grotta Sant’Angelo
Ma lo spettacolo più forte lo offre la natura. Ci si riferisce, in particolare, al sistema di grotte in località Sant’Angelo, sempre a cavallo tra Falconara Albanese e San Lucido.
La più importante di queste enormi cavità è Grotta Sant’Angelo, nota fin dai primi anni ’70 e tuttora meta degli speleologi calabresi e siciliani.
L’ingresso di questa grotta è un laminatoio, cioè una fessura scavata dalle acque, nella parete della montagna. Lo si attraversa strisciando per circa quattro metri e si arriva in una galleria ampia, di quasi un chilometro nel cuore del monte. Questa galleria termina con alcuni laminatoi, scavati da due sorgenti sotterranee importantissime.
L’acqua ha lavorato le rocce per secoli. E ha creato un vero e proprio mondo parallelo, fatto di tunnel e collegamenti quasi inaccessibili all’uomo.
Per esempio, quello tra Grotta Sant’Angelo e la vicina Grotta “Mario e Andrea”, che ha una storia particolare.
L’ingresso della grotta “Mario e Andrea”
In ricordo della tragedia di Rigopiano
La Grotta di “Mario e Andrea”, infatti, è stata scoperta cinque anni fa, in coincidenza con la tragedia di Rigopiano. E non è un caso che sia stata dedicata a due soccorritori morti nel tentativo di salvare gli ospiti del resort travolto dalla valanga.
Tralasciamo le coincidenze e dedichiamoci alla grotta, più difficile da esplorare e forse più spettacolare della sua vicina.
L’accesso è tutt’altro che facile e, specifica Cunsolo, quasi impossibile per i non speleologi: è una spaccatura sulla parete della montagna che conduce a due pozzi che si inabissano per quindici metri.
La grotta di “Mario e Andrea”
Al termine dei pozzi c’è una pietraia, che gli esploratori hanno dovuto aprire a mani nude. La loro fatica è stata premiata da una visione spettacolare: uno stanzone di circa novanta metri quadri e profondo tra i dieci e i quindici metri, pieno di stalattiti e stalagmiti. Segno di un forte lavorio delle acque, che è confermato dalla presenza di un fiume sotterraneo.
Profondissimo anche il vicino Inghiottitoio Provenzano, un’enorme cavità che si inabissa per quasi cinquanta metri.
La prossima sfida
La natura ha i suoi collegamenti che, tuttavia, non sono adatti all’uomo. Proprio per questo, gli speleologi di Forre del Tirrenotentano di aprire dei varchi tra queste grotte, sotto la guida del paolano Piero Greco, già tra i sub più forti a livello regionale.
Lo scopo, spiega ancora Cunsolo, è «rendere fruibile a un pubblico più vasto quest’impressionante mondo sotterraneo», praticamente ignoto, aggiungiamo noi, ai villeggianti, cosentini e non, che invadono le spiagge ogni estate».
Tuttavia, gli speleologi lavorano soprattutto d’inverno e in primavera, al riparo dai curiosi e, soprattutto, dagli imprudenti che potrebbero farsi davvero male nel tentativo di emularli.
Il momento più importante di quest’attività di esplorazione e ricerca, che confina quasi con l’archeologia, è giugno, quando le associazioni speleologiche calabresi e siciliane svolgono il loro raduno annuale, intitolato “Azzoppa ’u pede”, con un palese riferimento a una storia meno antica ma più suggestiva, cioè ai briganti che infestavano nella seconda metà dell’Ottocento l’antica via del mare che passava per il Monte Cocuzzo.
Il turismo nelle viscere della terra
Il turismo di massa ha poco a che fare con le grotte e le forre, che però attirano comunque una quantità non proprio trascurabile di specialisti, studiosi, speleologi (appunto) o semplici ambientalisti.
E queste scoperte recenti, se opportunamente valorizzate, potrebbero in effetti essere il punto di partenza per una nuova concezione del turismo, senz’altro più sostenibile di quello che ci si ostina a praticare, a dispetto dell’impatto ambientale alto e dei numeri in calo.
«La speleologia non è per tutti, specie nelle fasi di scoperta e nelle prime esplorazioni», spiega ancora Cunsolo, perché in questi casi richiede «addestramento e conoscenza di una serie di tecniche ben precise». In altre parole occorre essere un po’ alpinisti, un po’ minatori e, in qualche caso, anche un po’ sub. A tacere del fatto che queste attività non sono assolutamente adatte a chi soffre di claustrofobia.
Ciò non toglie che, una volta stabiliti dei percorsi sicuri, le grotte non possano essere visitate con guide adeguate, da un pubblico più vasto.
Un pubblico di nicchia? Senz’altro. Ma chi dice che nicchia sia sempre sinonimo di piccolo?
L’intensa e appassionante storia delle donne calabresi è stata ignorata o tenuta ai margini nelle ricerche degli storici tradizionali. Le donne sono state protagoniste della storia quanto gli uomini, ma ancora oggi le comunità scientifiche ignorano il loro ruolo. Bisogna rimediare a tale mancanza anche se il lavoro per le giovani ricercatrici sarà faticoso e complesso. Le fonti d’archivio spesso forniscono scarse notizie sulla vita delle donne calabresi e quelle poche sono spesso pervase da pregiudizi e stereotipi. Ma, come scriveva Lucien Febvre, lo storico non deve rassegnarsi mai. E, in mancanza dei fiori normalmente usati, deve utilizzare tutta la sua ingegnosità per fabbricare il suo miele. Bisogna attingere materiale negli archivi e nelle biblioteche, ma anche nei campi più disparati come le fonti folkloriche, fiabe, miti, leggende e reperti archeologici.
E gli uomini stanno a guardare
Le annotazioni dei viaggiatori stranieri che giunsero in Calabria nel Settecento e nell’Ottocento, anche se a volte viziate da atteggiamenti etnocentrici, sono di grande interesse. De Rivarol scriveva che i mariti lasciavano le mogli a casa e passeggiavano per la piazza del paese con oziosa indolenza. Le famiglie calabresi si rassomigliavano tutte ed erano composte da un marito despota e freddo e una moglie triste e timorosa che faceva i lavori più pesanti. Didier osservava che le contadine salivano e scendevano dai paesi portando grandi pesi sulla testa e i maschi le guardavano passare e ripassare senza aiutarle.
Donne calabresi lavano i panni in un corso d’acqua (foto Gerhald Rohlfs)
Vom Rath annotava che a Siderno le donne andavano e venivano dal villaggio portando acqua nelle grandi brocche a due manici e col collo stretto. Per raggiungere la fontana impiegavano un quarto d’ora, poi tornavano con i recipienti pieni in testa. Gli uomini, intanto, se ne stavano silenziosi avvolti nelle cappe e col capo coperto dal berretto di lana azzurra. Rebuschini, vedendo le donne di Oppido portare i pesanti fardelli sul capo, scriveva che esse sostituivano le bestie da soma. Camminavano per viottoli ripidissimi con cesti di agrumi che pesavano fino a mezzo quintale, tenendo le mani sulle anche e l’occhio fisso al suolo.
Le ginocchia come tavola
Didier raccontava che nella famiglia cosentina presso cui era alloggiato a donne e bambini era vietato sedersi a tavola, così lui pranzava col capo famiglia e il figlio maggiore. Rilliet osservava che anche nei paesi albanesi quando arrivava uno straniero erano padri, mariti e fratelli a fare gli onori di casa. Le donne non stavano mai a tavola con gli uomini. Per Griois le donne calabresi, anche quelle benestanti, avevano poca libertà. Se a pranzo c’erano ospiti, la moglie mangiava quello che restava su una tavola tutta speciale: le ginocchia! Dopo aver abbracciato gli uomini della famiglia Cefalì che lo avevano ospitato, nel congedarsi dalla padrona di casa e dalle figlie, Strutt dovette fare a meno di essere galante. Il bacio non era permesso e anche una stretta di mano sarebbe stata considerata troppo spinta.
Le donne oggetto
Lombroso denunciava che la donna calabrese era considerata alla stregua di un oggetto. In diverse comunità chi chiedeva la mano di una fanciulla poneva un tronco d’albero davanti alla sua porta. Se il ceppo era portato in casa, voleva dire che la famiglia era d’accordo. Nei villaggi albanesi il rito del matrimonio rammentava il Ratto delle Sabine. Mentre la giovane camminava insieme ai suoi familiari, il futuro sposo, facendosi teatralmente largo con pugni e schiaffi, la rapiva e la portava in casa. In altri paesi lo sposo, insieme a parenti e amici, sparava in aria colpi di fucile, poi faceva irruzione in casa della fidanzata, la sottraeva alla sua famiglia e la portava via. De Rivarol affermava che il matrimonio liberava la donna dall’oppressione del padre-padrone e la incatenava alla volontà tirannica di un marito-padrone, che vedeva in lei un acquisto utile.
Escluse dalla società e addette ai lavori domestici, le mogli si abbrutivano, diventavano goffe e prive di buone maniere. De Tavel sosteneva che le calabresi non avevano fascino e grazia perché venivano maritate molto giovani e sfiorivano presto. Anche le donne che appartenevano alle classi agiate erano infelici per l’estrema gelosia degli uomini che le tenevano sempre chiuse in casa e le trattavano senza alcun riguardo. Bartels confermava che a Cosenza le donne erano completamente segregate e i maschi non perdevano occasione per sottolinearne l’inferiorità: non pranzavano mai con gli uomini e il loro compito era unicamente quello di attendere alle faccende domestiche.
Una madre a casa con la sua bambina nella Calabria di inizio ‘900 (foto Gerhald Rohlfs)
Quando tornava dai campi, la contadina, carica come un asino e sempre a debita distanza, seguiva il marito che la precedeva trotterellando tutto tronfio in groppa all’animale. Gissing annotava che a Cosenza, tranne le donne povere, era impossibile vederne una benestante per strada, poiché vigeva «un sistema orientale di reclusione». Per vom Rath in città non esistevano occasioni sociali in cui uomini e donne s’incontravano perché i primi erano estremamente gelosi e possessivi.
La Margherita, un giornale per le donne calabresi
Il 10 maggio 1877 alcune cosentine diedero alle stampe La Margherita. Il giornale si proponeva l’istruzione delle donne ma ancora prima di uscire suscitò apprensione e preoccupazione. Al punto che il suo responsabile nell’editoriale del primo numero dal titolo Ai babbi e alle mamme dovette tranquillizzare i genitori precisando che il giornale non voleva offuscare il candore delle loro fanciulle.
«Un giornale per le nostre figliole redatto da giovani! Ma se n’è vista mai una simile a Cosenza?… Piano, babbi e mamme carissime, non vi spaventate, non aggrottate il sopracciglio; e permettete prima che vi accigliate a farci una romanzina, qualche spiegazione. Vero, in Cosenza non era mai surta e nessuno l’idea di pubblicare una efferide educativa e istruttiva, consacrata esclusivammente alle Donne; e in verità è stato un grave torto che s’è fatto loro: quasi che in questo povero angolo di Calabria, non fossero degli ingegni eletti, che comprendono e sentono eminentemente. E se fin’oggi le nostre donne giacquero dimenticate, oscure, neglette, è tempo oramai che si sveglino, che si muovano, e ci aiutino a innaffiare questo, nascente fiore che si chiama Margherita».
La vita in uno sguardo
Vincenzo Padula in un articolo del 1876 annotava che le donne del cosentino avevano fianchi vigorosi, occhi arditi, polsi robusti, gote floride, ricca capigliatura e l’accento minaccioso perché «nate nel paese dei tremuoti e dei vini forti». Maneggiavano la conocchia e il pugnale, la spola e la scure e il loro sguardo era infallibile come il fucile: se fissavano con gli occhi raddoppiavano la vita e se fissavano con l’arma la toglievano.
Donne calabresi impegnate nei campi a Melissa (foto Gerhald Rohlfs)
Nel 1602, lo storico Marafioti aveva sottolineato invece la loro sobrietà, onestà e laboriosità: «Le donne di Calabria sono destrissime & ingegnosissime ne’ loro mastaritij perché non attendono ‘l giorno ad acconciarsi la faccia e farsi biondi i capelli, ma attendono a lavorare tele, tovaglie di varie sorti & altri suppellettili di casa, non sono ubbriache, ma pare che dalla natura habbino questo dono particolare, che niuna beva vino, e si mantenga sana e bella. Sono tutte virtuose, honeste, affabili, piacevoli e cortesi, tanto nelle parole che nell’opre; e sono tanto prudenti, accorte, & industriose, che mai si lasciano trovare in fallo da loro parenti, ò mariti, ma più tosto per sospitione si puubblica l’errore».
Madri operaie
Le donne calabresi nei secoli hanno contribuito in maniera decisiva al mantenimento della famiglia. Le braccianti lavoravano duramente e neanche nel periodo della maternità avevano riposo. In un’inchiesta ministeriale di fine Ottocento si legge che le gestanti del cosentino faticavano sino al giorno del parto. Non era raro che fossero colte dalle doglie sui campi per riprendere il lavoro una settimana dopo la nascita del figlio.
Manodopera femminile era impiegata nelle manifatture ma anche nei cantieri stradali, concerie, segherie, frantoi, mulini e fabbriche di laterizi e liquirizia. La maggior parte lavorava nelle industrie tessili: nel 1861 erano occupate 59.911 donne contro i 18.641 maschi e dieci anni dopo il loro numero scese a 50.298 unità di cui 47.398 lavoratrici tessili e 2.141 impiegate nelle sartorie.
Una donna calabrese lavora al telaio (foto Gerhald Rohlfs)
Sono state le donne calabresi a sostenere le famiglie nel periodo della grande emigrazione nelle Americhe. Nella provincia di Cosenza le mogli rimaste sole a provvedere al mantenimento dei figli erano migliaia, nel 1901 se ne contavano 19.260. Un ufficiale sanitario del litorale tirrenico comunicava ai superiori che da quando gli uomini erano espatriati le femmine erano sfiancate dalla fatica. Descrivendo la pietosa condizione delle «vedove bianche» informava che «il maggior lavoro incombeva alle povere donne, moglie e figlie di emigrati le quali per bisogno di campare la vita lavoravano oltre le loro forze».
Le donne calabresi in Africa
Seppure avvezze a sopportare stenti e sacrifici le donne non esitavano a lasciare la loro terra quando intravedevano la possibilità di migliorare le loro condizioni di vita. Intorno alla metà dell’Ottocento, centinaia di donne della provincia di Cosenza partivano per l’Algeria e la Tunisia; quelle della provincia di Catanzaro, imbarcandosi a Pizzo, si recavano al Cairo o ad Alessandria d’Egitto. In Africa facevano soprattutto le balie ma lavoravano anche come domestiche, cameriere e stiratrici in case private e alberghi. Gli studiosi del tempo si mostravano scandalizzati da questo flusso migratorio che abbatteva la credenza secondo la quale le donne vivevano in condizioni di totale reclusione.
Scalise scrive che si trattava di un ingente esodo di donne che, appena dopo il parto, lasciavano i figli e, col seno turgido e riboccante di latte, andavano a nutrire i nati delle anemiche inglesi che abitavano nel paese dei faraoni. Lo studioso rileva che, fatto insolito e quasi unico, nel 1881 in provincia di Catanzaro il numero dei coniugati presenti al momento del censimento era superiore a quello delle coniugate. E aggiunge il suo malizioso commento personale: le donne lontane, svolgendo un lavoro ozioso e gentile, belle e ben nutrite, arrotondavano i fianchi e non erano restie a concedere le labbra coralline al bacio spesso doppiamente adultero! Resta il fatto che il coraggio di queste donne lo colpisce persuadendolo che il sesso debole si dimostra forte quando ha la libertà di affermarsi. Scalise non è tra coloro i quali si scandalizzano per questa originale emigrazione, come aveva fatto l’economista francese Ovou in un suo articolo comparso sulla Revue des Deux Mondes.
Le due Guerre mondiali
Le donne calabresi erano coraggiose e spesso si ribellavano ai soprusi. Nella prima e seconda Guerra mondiale migliaia di popolane scesero in piazza per chiedere il rientro dei mariti dal fronte e per denunciare la penuria di generi di prima necessità, l’aumento indiscriminato dei prezzi, l’inadeguatezza dei sussidi e la mancanza di assistenza alle famiglie.
Sventolando bandiere tricolori giravano per le vie e con loro portavano i figli per rendere la manifestazione più rumorosa e scoraggiare l’uso delle armi da parte dei soldati. A volte queste rimostranze sfociavano in episodi violenti, come occupazioni di municipi, saccheggi di negozi, aggressioni agli amministratori e ai «milionari» che non davano un centesimo per i bisognosi e ingrassavano speculando sulla guerra.
È sabato pomeriggio. Ci sono due ragazze abbracciate davanti all’obiettivo, sedute su un Sì Piaggio di colore blu. Fanno con le dita il segno della vittoria e profumano di Lulù de Cacharel. Sullo sfondo s’intravede Cosenza. Palazzo degli Uffici circondato dal traffico, le insegne verticali di negozi e agenzie di viaggi, gli autobus arancioni dell’Atac che fanno la gimcana tra le auto in doppia fila. Micidiale, questo è un tuffo negli anni ’90. È l’alfabeto minimo di una ragazza cresciuta negli anni Novanta.
A come aquile
Sono le “A” della scultura di Baccelli (che in realtà sono colombe nelle intenzioni dell’artista), simbolo di piazza Kennedy, la piazza di due generazioni di giovani cosentini. Il sabato sera era una bolgia, si parlava ininterrottamente, un brusio senza sosta, la vita che pulsava, seduti sui motorini parcheggiati, sui gradini, a terra, sul muretto. Uno scenario che i ragazzi di oggi non riuscirebbero neanche ad immaginare, senza schermi accesi e teste chinate, notifiche e storie.
Solo chiacchiere, ennesime sigarette, accendini Zippo che passavano da una mano all’altra. Qualcuno, il solito, che faceva la colletta: «Oh, ma soldi spicci?». Ognuno al suo posto perché ogni pezzetto della piazza segnava l’appartenenza a una tribù: il gruppo della farmacia Chetry, a via Mario Mari gli ultrà fuori e dentro le sale giochi (Matriarca, Number One e Romano), poi quelli della concessionaria e – i più grandi – sotto il monumento.
C’era addirittura chi aveva come riferimento una scritta sul muro, mentre per qualche tempo la piazza ebbe anche un bar eponimo. La piazza si divideva tra “borghesi” col Fay o col Barbour comprato da Mazzocca e “proletari”, quelli del centro sociale, con le borse colorate di Shiva Shop e gli anfibi militari (così originali che leggenda vuole che fossero stati sfilati ai soldati morti in guerra) presi ai mercatini di Lungo Crati.
B come bar
Non c’erano gli apericena, c’era la pizzetta doppia della pizzeria Romana con i suoi sgabelli altissimi e il rumore delle lame sulle teglie di alluminio. Il sabato era obbligatoria una puntatina al bar Mazzini o al Carbone (dietro il bancone c’era il mitico “zio Tonino”) per un cicchetto, una nuvoletta o un Angelo azzurro. La domenica mattina invece il bar era simbolo del vassoio di paste, ad esempio i cannoli alla crema di Cribari a piazza Loreto o lo zuccotto, poco più avanti, da Pedatella.
C come corso Mazzini
A Cosenza i ragazzi degli anni ’90 il sabato pomeriggio si davano appuntamento a piazza Fera, «sotto la E di farmacia Serra», alla fermata del Costabile. Hip hop e swatch al polso sincronizzati con il grande orologio sul display digitale della Cassa di Risparmio. Si ritrovavano e sciamavano verso corso Mazzini intasato dalle auto, altro che isola pedonale e museo all’aperto. Lungo il marciapiedi si respirava l’odore dei tubi di scappamento e le moquette dei negozi erano impregnate di fumo di sigarette.
La cantante cosentina Flavia Fortunato
Davanti alla Banca Nazionale del Lavoro si sentiva sempre la musica melodica calabrese di un cantante di strada che si esibiva al microfono in cambio di qualche moneta. E Cintuzzo, con la sua cassetta di legno per l’elemosina, andava a rimorchio: «Mintaci ancuna cosa per Sant’Antonio». La scala mobile dei grandi Magazzini Bertucci (dove ora c’è H&M) scendeva e saliva. Sopra tra giacche e maglioni a collo alto, fattura tutta italiana, e sotto tra i mille profumi e le sfumature rosa delle ciprie di Guerlaine. In filodiffusione il jingle cantato dalla cosentina (fresca di Sanremo) Flavia Fortunato: «Bertucci, è tutta un’altra co-sa».
D come domenica
La domenica mattina l’appuntamento era fuori o dentro le chiese, poi il pranzo con i nonni, naturalmente lo stadio quando il Cosenza giocava in casa (era il decennio della ritrovata serie B), infine per digerire si andava a ballare all’Akropolis. La discoteca apriva di pomeriggio e fuori c’era la fila di avventori con in una mano i tagliandi for lady. Nell’altra – occultata sotto i giubbotti – la bottiglia di Gin. Mentre il remix di “Please don’t go” faceva ballare mezza Italia, il 20 febbraio del 1993 i Double You arrivavano scortati all’Akropolis: fu il delirio.
E come epoche
La toponomastica racconta anche la storia di una città e negli anni Novanta se qualcuno vi avesse chiesto di via Misasi o piazza Bilotti, rispondere sarebbe stato impossibile. Ma siccome ci si affeziona al suono delle parole, per noi ragazzi degli anni ’90 piazza Fera, corso d’Italia e via Roma non hanno mai cambiato nome.
F come filone
Quando si “tirava filone” si prendeva l’autobus numero 1, Campagnano-Prefettura-Campagnano, per poi infilarsi furtivamente nel Parco Robinson. Nei recinti c’erano ancora i pavoni e i cavalli. L’alternativa era la Villa vecchia, con i cornetti di pasta sfoglia tra i più buoni della città, a guardare le partite dei “filonari” del Telesio. Gli studenti del liceo classico, dentro, erano invece segregati, la ricreazione la facevano chiusi nel cortile sorvegliati dai bidelli. Che invidia per quelli del Fermi. Essendo nel centro città, a ricreazione avevano un quarto d’ora di libera uscita e – si narrava – potevano andare dove volevano.
G come giri
Non c’erano monopattini elettrici ma si potevano noleggiare gli scooter da Ottorino Gualtieri: un’ora di adrenalina e di trasgressione per tutti quelli a cui i genitori non compravano il motorino, magari alla Piaggio, la concessionaria si trovava dietro piazza Europa.
H come hamburger
I cugini dei cugini ci facevano sognare raccontandoci della vita degli universitari a Roma o Bologna, di Mc Donald e concertoni. Noi gustavamo il nostro panino “America” al Free Pub (hamburger, pomodoro, ketchup e senape) e ballavamo sotto il palco dell’Auditorium del Telesio con i 99 Posse (dicembre ‘93) e Casino Royale (giugno ‘95). A metà anni 90, in piena renaissance del centro storico, la movida si sposta su corso Telesio tra Irish Pub e Beat. Una parte della città fino a quel momento off limit diventa luogo di aggregazione e nasce il mito della città europea.
I come Incontri
Uno squillo: richiamami. Due squilli: sto uscendo di casa. I ragazzi degli anni ’90 facevano la fila alla cabina telefonica. Per le chiamate più lunghe c’era la Sip in zona Autostazione dove – la parola privacy non esisteva – si garantiva più intimità e con una tessera da 5mila lire la telefonata, se urbana, era interminabile. S’incontravano alla fermata dell’autobus o nelle villette. Quella di via Roma dove adesso c’è il parco inclusivo della Terra di Piero era un rettangolo di terra ed erba, non illuminato e mal frequentato, con un enorme serpente in cui ci si poteva nascondere per fumare di nascosto una sigaretta o scambiarsi baci furtivi.
L come Luna Park
Quando i costruttori non avevano ancora colto le sue potenzialità, via Panebianco era il posto giusto per il luna park, così grande (si installava nell’area che oggi ospita un hotel) che c’erano persino le montagne russe. Il massimo era riuscire ad avere i biglietti gratuiti che il negozio di scarpe Big Ben, tra gli sponsor, faceva avere ai clienti più fedeli.
Il tagadà, un must per i frequentatori dei luna park degli anni Ottanta e Novanta
M come mercatini
I più famosi erano quelli di Lungo Crati, dove potevi trovare di tutto. Per la bigiotteria e gli orologi c’erano le bancarelle intorno alla fontana di Giugno. Il leader indiscusso per fama e anzianità, fino alla fine degli anni ’90, è stato Ciccio u cravattaru. La novità arrivò a bordo di grandi pullman fatiscenti provenienti da lontano, con quello che veniva definito “il mercatino dei polacchi”, itinerante, ricco di oggetti giunti clandestinamente con la caduta dei regimi: preziosi memorabilia del Partito Comunista, orologi da tasca, binocoli, stampe e tagliacarte di ottone.
N come negozi
Dove adesso impera Scintille c’era Hit Shop, all’interno l’iconica scalinata con la fontana e tutte le griffe del momento, da Best Company a Versace. I jeans, rigorosamente Levi’s, si acquistavano da Corallino, con l’orlo che negli anni si accorciava sempre di più fino a lasciare il posto al risvoltino.
In un’epoca in cui i vestiti erano sempre di buona qualità abbondavano le mercerie: Pinto, Tagarelli, la Carmagnola, luoghi sovrabbondanti di bottoni e nastri, colori e profumi, in cui le nonne facevano scorta di aghi, rocchetti, uncinetti e toppe. Alla libreria Il Seme di piazza Loreto compravamo le biografie dei Duran Duran e degli Spandau Ballet, spartiti e plettri, i libri di scuola da Percacciuolo a corso d’Italia. Ma la “libreria” era solo la Domus, con il suo labirinto di scaffali di legno e all’ingresso il raccoglitore dei poster più ambiti, da sfogliare.
I regali di compleanno si sceglievano da Cose Così, con il lettering bubble nella mitica nuvoletta bianca. Non c’era coppia di innamorati che non si fosse scambiato un cuore o un peluche preso qui. Due piani di gioia pura, tra lampade, specchi e le delicate fantasie Naj-Oleari replicate su borse, portafogli, cerchietti, portachiavi.
Le camerette poi, erano piene di oggetti acquistati da Famele, Chiappetta, Chiarello, Ianni: le cartolerie, luoghi del cuore di chi ha vissuto i ‘90. Felponi, accessori sportivi e attrezzatura per sciare erano da KamaSport, Alfieri e Montalto. I giocattoli più belli al Fagiolo magico su via Alimena. Le scarpe le compravamo da Spadafora, Forgione Rosso e Forgione Blu (a cui si è aggiunto Forgione Più per l’abbigliamento) ma i più arditi volevano le Cult, quelle con la punta di ferro. Il franchising Energie, a piazza Kennedy, fu tra i primi a mettere la musica a palla e a tenere le porte sempre aperte, bastava poco per ricreare, vagamente, l’atmosfera londinese.
Cult con la punta di ferro
O come offese
“Dietro le poste” era la perifrasi utilizzata per offendere o prendersi in giro, facendo riferimento alle prostitute in attesa di clienti a piazza Crispi. E da lì partiva il puttan tour dei giovani cosentini quando per strada non c’era più niente da fare. Passava dalla Villa Nuova davanti alle macchine parcheggiate con i fari accesi e si spingeva – superate le forche caudine del ponticello a S all’inizio di via XXIV Maggio – fino a via Popilia, dalla mitica “Felicetta” nella casupola che oggi ha lasciato il posto alla rotatoria a favore di discount, all’ombra del ponte di Calatrava. A quel punto i più intrepidi osavano varcare ogni confine lecito. Arrivavano a Gergeri, fino a vedere i fuochi accesi nei bidoni davanti alle baracche dove vivevano le famiglie rom in seguito trasferite nel Villaggio di via degli Stadi.
P come pizze e panini
Quando piazza Kennedy si svuotava, il sabato più classico delle comitive era al Free Pub (vai alla lettera H), con birra, panino e VideoMusic. In alternativa c’era la pizza della Luna Rossa in zona Tribunale o della Sfinge per chi si muoveva a piedi e si impossessava della città. Stella e Black Orchid su via Molinella si contendevano il popolo della notte.
Da Stella, Maurizio e i suoi fratelli sfornavano panini multistrato farcitissimi e il mitico “primavera” (mozzarella pomodoro e insalata) e si finiva a parlare per ore e ore. Il rito del sabato sera prevedeva un’altra tappa, per i più piccoli l’ultima prima di tornare a casa. La Casa del Gelato e del Frullato, «Ciao raga’», ad accoglierli il sorriso buono del titolare e il suo vocione, era un amico dei ragazzi.
Storico adesivo del Free Pub
Seduti ai tavolini si ordinava Banana split o un frullato che oggi chiameremmo frappè, ma c’era la frutta vera esposta al banco, niente polverine. Chi non era qui era alla Cornetteria di piazza dei Bruzi a scegliere tra tanti gusti la novità black and white. La pizza con i genitori o per le feste di famiglia era da Frank a Saporito, Quelli della pizza a Mendicino e Blade Runner a Castrolibero. Fuori dal centro la tappa più gettonata – magari dopo una sosta all’Ipanema per un Barone Rosso o un Angelo Azzurro – era all’Apocalisse, con le interminabili partite con le torri di legno innaffiate da pinte di birra alla spina.
Marco “Bamba” versione Punk
Tornando a Cosenza, da menzionare è la breve ma felice stagione della “Bamba” di Marco e Sonia, erano giovani e innamorati e il loro era il locale più originale del centro (via Galliano). Nei pomeriggi lenti di una città che offriva pochissimo ai ragazzi, c’erano il juke box e i giochi da tavolo e si potevano gustare tisane e piadine in stile romagnolo.
Nuovi gusti per una generazione pronta a sperimentare anche nel cibo e che ha poi scoperto l’esistenza della soia solo quando su via Alimena è comparsa l’insegna rossa del ristorante cinese, con le sue tavole rotonde su cui, portata dopo portata, ci si ritrovava a fine cena satolli e solo un fondino di grappa alla rosa salvava.
Q come quaglie
Il soggetto della scultura commissionata a Baccelli agli inizi degli anni ’70 per piazza Kennedy (il luogo rievocava l’impegno pacifista del leader americano) sono le colombe, da cui il nome dell’opera. Ma nella vulgata gli uccelli sono sempre stati indicati come quaglie, forse a causa dell’eccessiva stilizzazione operata dall’artista. O per sminuirne il valore.
R come radio
Il decennio 1990-2000 si è aperto con l’occupazione del cinema Italia e con la fondazione di Radio Ciroma e poi del centro sociale Gramna. Tutto in pochi mesi. La radio era la colonna sonora dei pomeriggi degli adolescenti. Lo stereo sintonizzato sulle stazioni locali: Radio Cosenza Nord, Radio Sound, Radio Queen, in attesa del momento juke-box, quello in cui si poteva richiedere un brano. Il numero di telefono? Quello di Radio Sound, grazie a un fortunato jingle. L’avevamo sempre in testa: «La musica che vuoi ascoltala con noi…7-3-0-8-4, uh!» (il prefisso divenne obbligatorio in seguito). Iguana Disco Shop, Orfeo e Piro Dischi erano le tappe irrinunciabili in un’epoca in cui la musica si comprava e vinili, cd e musicassette erano pane quotidiano.
Francesco “u dutture” Febbraio a Radio Ciroma con Oreste Scalzone
S come stampe
Le foto si stampavano, si attaccavano sul diario, sui muri della camera, si raccoglievano nei portafotografie. Raf Caputo, Centro foto meridionale, Restivo erano alcuni dei punti in cui consegnare i rullini da 12, 24 e 36 foto. Dopo qualche giorno la busta Kodak era pronta, con il suo carico di emozione e curiosità e l’odore inconfondibile dei negativi.
Lo storico fotografo cosentino Raf Caputo, scomparso pochi anni fa
T come Totonno lo squalo
“A Juventus è morta!” gridava spalancando la bocca. La giacca lisa, la mano tesa per chiedere i soldi spicci per un panino. È morto a Corigliano nel 2006 ma è stato per tanti anni una maschera (sdentata) della città. E oggi continua a vivere nella memoria dei cosentini: il suo volto, qualche anno fa, è stato impresso su un murales – purtroppo danneggiato dal tempo – realizzato dal Collettivo Fx sulle pareti del centro sociale Rialzo.
Piazza Loreto, il Generale nella sua tipica posa
Totonno u squalo (foto Benedetta Caira)
Corso Mazzini, Alberto e la sua immancabile sigaretta tra le mani (foto Ercole Scorza)
Insieme a lui restano nei nostri cuori anche il Generale (il soprannome dovuto alla sua giacca militare costellata di medaglie) col suo braccio destro alzato nel saluto (solo immaginato) al Duce e Alberto, presenza fissa su corso Mazzini, la sigaretta accesa sempre incollata alle labbra e la voglia di lasciarsi andare e ballare, ballare.
U come The Usual Suspect
I Soliti sospetti (1995), il film amatissimo – è ancora un cult – eppure in quel decennio oscurato da almeno altri due titoli forse più generazionali come Pulp fiction (1994) e Trainspotting (1996) poteva regalare emozioni nelle case dei ragazzi dei Novanta: una volta visti al cinema (niente multisale) si andava di Vhs. Dopo scelte che potevano durare ore davanti alle pareti piene di custodie da consultare per la lettura delle trame, le videocassette si noleggiavano da Only One a corso d’Italia (vedi lettera E). O, più tardi, da Blockbuster a via Panebianco, antro magico che ebbe tra i meriti quello di farci scoprire i gelati Haagen-Dasz.
V come veglioni
Le feste più “in” erano al Garden Club e allo Sporting Club. Luoghi eletti anche per i veglioni di Capodanno insieme al Cinema Garden e al Timer, la sala ricevimenti che si trovava sulla strada per Sant’Agostino e aveva imbroccato la strada fruttuosa delle feste a inviti. Boccoli, molto velluto, calze velatissime, le ragazze degli anni ’90 arrivavano all’appuntamento solo dopo essere state dal parrucchiere e con un outfit impeccabile. Peccato, erano i tempi in cui si poteva fumare anche nei locali e si arrivava alla fine della festa senza scarpe e completamente sfatte. Sì, esattamente come succede oggi.
Z come Zorro
Il gelato? Almeno tre opzioni tutte da provare: lo storico Zorro, bar Mary e Dante Gelo a Rende. Quanto di più distante dalle mousse pannose e burrose dei nostri giorni, che forse hanno bisogno di dolcezze surrogate.
Roma caput mundi, Martone secundi: gli abitanti del minuscolo centro appollaiato sulle colline dello Jonio reggino (e le migliaia di concittadini sparsi un po’ per tutto il pianeta) se lo ripetono come un mantra, scherzando, ma non troppo.
Poco più di 400 abitanti “effettivi” Martone, come tutti i micro paesi che lo circondano, combatte una guerra (quella allo spopolamento) che difficilmente potrà vincere: una storia fatta di emigrazione forzata (e ininterrotti ritorni) che ha creato una rete capillare di martonesi in giro per il mondo che, partiti da questo pezzettino di Calabria, il mondo se lo sono conquistati. Come il neo ambasciatore in Turchia Giorgio Marrapodi, approdato ad Ankara nei primi giorni di gennaio, e ultimo arrivato, in ordine di tempo, di un parterre de rois in grado di scalare i vertici degli apparati pubblici nei pezzi di mondo via via “colonizzati” dall’emigrazione made in Martone.
Panorama di Martone, piccolo centro nella Locride
L’abate illuminista di Martone
A braccetto con Nelson Mandela, impegnati sul fronte delle rotte migratorie lungo il Mediterraneo o alla guida dello Stato più importante d’Australia, la storia recente è piena di concittadini di Orazio Lupis – abate, dotto illuminista e grande manovratore del mondo accademico della Catanzaro di metà ‘700 – in grado di ritagliarsi un posto al sole nel Paese in cui la forzata emigrazione li ha spinti.
Marrapodi ambasciatore in Austria e Turchia
La storia di Giorgio Marrapodi è figlia delle migrazioni “moderne”, quelle che si ripetono anche oggi, con i ragazzi che, finito il liceo, sbarcano nelle grandi città universitarie d’Italia e lì rimangono per costruirsi un futuro diverso da quello che la Regione più sgangherata del Paese potrebbe offrigli. Nato a Martone nel ’61 e approdato a Firenze, negli anni ’80, dopo la laurea in giurisprudenza, Marrapodi entra nel mondo delle feluche facendosi le ossa, e non potrebbe essere altrimenti, nella Direzione generale dell’emigrazione. Poi gli incarichi nelle ambasciate di Madrid e Bucarest e quello all’Onu a New York, fino al ruolo di ambasciatore a Vienna prima e ad Ankara adesso.
La “rotta turca” dei migranti che porta nella Locride
Una poltrona che scotta e su cui l’ambasciatore in Turchia è finito seguendo il Risiko delle nomine seguite al mezzo terremoto politico-amministrativo provocato dall’insediamento del Governo Draghi. Nelle sue mani, ora, la patata bollente della “rotta turca” che vede proprio la Locride approdo preferito, da venti anni, di uno dei flussi migratori più imponenti che interessano l’Europa. È dalla Turchia che partono, con frequenza sempre più stringente, i barchini carichi di migranti provenienti dal Medio Oriente ed è sempre nel Paese di Erdogan che la grandi organizzazioni criminali che quel traffico lo intrecciano, fanno convergere gli improvvisati scafisti.
Le distrettuali antimafia calabresi su Ankara hanno puntato i riflettori da tempo, quello di Marrapodi non sarà un lavoro semplice. Ospite fisso delle estati calabresi, il neo ambasciatore d’Italia in Turchia, da anni è in prima fila all’alzata della “’ntinna”, l’albero della cuccagna tagliato sulle montagne e portato in paese da una coppia di buoi ed elevato in onore al “doppio” Santo – in paese è doveroso dire Santo San Giorgio – per una tradizione pagana che accomuna tutti i martonesi.
Un primo ministro d’Australia
In paese come a Sydney, dove la comunità martonese, tra prima e seconda generazione, è quasi 10 volte più numerosa di quella presente in patria. Ed è anche grazie ai voti dei suoi concittadini che Morris Iemma – che “downunder” ci è nato poche ore dopo essere sbarcato dal piroscafo che portava all’altro capo del mondo la sua famiglia che era partita dalle colline reggine – ha scalato i vertici dei labouristi della più grande città d’Australia fino a diventare Primo ministro dello stato del New South Whales.
Morris Iemma, primo ministro dello Stato del New South Wales in Australia
Un “regno” durato quattro anni e costruito nel cuore della foltissima comunità italiana: figlio di un operaio dalla marcate idee comuniste e di una sarta, Iemma ha rappresentato l’ala “destra” del partito dei lavoratori australiano per oltre un decennio. Profondamente legato al paese d’origine, non sono rare le sue presenze al “San Giorgio” di Sydney, feticcio della comunità calabrese in Australia e strano mix di tradizioni vere e stereotipi altrettanto reali.
Ministro dell’Istruzione in Canada
Figlio delle migrazioni dei ’60 era stato invece Tony Silipo, che a Martone era nato e da cui era andato via, a seguito della famiglia, subito dopo la licenza elementare. Sydney per qualche anno, come tanti prima di loro, poi una nuova rivoluzione e lo sbarco in Ontario, sponda orientale del Canada per una nuova ripartenza. Lo studio in giurisprudenza, l’impegno in politica nei labour canadesi, le prime vittorie alle elezioni parlamentari: un crescendo che lo porta a guidare il ministero del tesoro prima e quello dell’istruzione poi.
Tony Silipo è stato ministro del Tesoro e dell’Istruzione in Canada
Quella volta con Nelson Mandela
Una carriera interrotta dalla malattia nel 2012 per un martonese che con la sua terra non aveva mai tagliato i ponti. Tanto da rimettere in piedi la vecchia casa abbandonata dai genitori in cerca di una vita migliore, e tornarci, praticamente ogni estate come tradizione impone. Ed è in quella piazzetta – che il comune intende dedicargli – che Silipo raccontava ai suoi amici di un tempo, di quella volta che, da ministro dell’istruzione, introdusse ai suoi studenti il futuro presidente del Sud Africa, Nelson Mandela, protagonista della lotta all’apartheid che, proprio su input del ministro Silipo, era diventata materia di studio nelle scuole canadesi. Piccole storie che si intrecciano con la Storia e che hanno come comune denominatore un paesino minuscolo e sempre sull’orlo del baratro ma confidando che, in fondo, Roma caput mundi, ma Martone secundi.
Quella di Francesco Saverio Fava è una memoria in bilico. Innanzitutto, tra due città: Salerno, dove nacque, e Amantea, dove la sua famiglia affondava le radici ed è legata a una vicenda forte, in cui la storia locale finisce nella grande storia: la resistenza antinapoleonica della cittadina tirrenica, rimasta fedele ai Borbone fino all’ultimo.
Inoltre, il barone Fava fu in bilico tra due sistemi politici: la monarchia amministrativa del Regno delle Due Sicilie, dove iniziò la sua carriera di diplomatico come console, e quella costituzionale del Regno d’Italia, in cui fu “ripescato” dalla nuova élite e destinato a sedi diplomatiche allora secondarie: tra queste, gli Usa, all’epoca considerati una potenza non “di rango”.
Eppure, grazie a questo incarico, il nobile calabrese diventò un personaggio di primo piano nella scena internazionale di fine ’800. Non solocreò quasi da zero l’ambasciata italiana negli Usa, ma fu protagonista di una vicenda terribile, che portò i due Paesi sull’orlo della guerra. Parliamo del pogrom di italiani compiuto a New Orleans nel 1891.
Il diplomatico italiano originario di Amantea, Francesco Saverio Fava
Antefatto: gli eroi dei Borbone
Difficile capire se gli antenati di Fava si misero alla testa della resistenza di Amantea per fedeltà ai Borbone o per difendere i privilegi che i re di Napoli avevano assicurato alla città e quindi a loro stessi. A questo interrogativo non fornisce risposta neppure Il barone persistente, l’unica biografia del diplomatico calabrese, scritta da Alberto Fava (“Il barone persistente”, Amantea, Carratelli 2019), un suo discendente.
Fatto sta che il barone Giulio Cesare Andrea, lo zio di Francesco Saverio, e sua moglie Laura Stocchi Procida, si misero alla testa della difesa del piccolo comune costiero di Amantea, assediato dalle truppe napoleoniche nel 1806. Particolarissimo fu il ruolo della baronessa, che più volte guidò i suoi contadini all’assalto delle truppe francesi: una specie di amazzone, che caricava a cavallo alla testa dei suoi seguaci.
Amantea capitolò nel 1807 e i Fava furono espropriati.
Ferdinando IV di Borbone
Al ritorno di Ferdinando IV, ’o Re Nasone, i Fava ricevettero in premio l’ingresso nell’alta burocrazia del Regno. In particolare, Francesco Fava, il papà del futuro diplomatico, ottenne la nomina di direttore del Fondaco dei Sali del Principato di Salerno. E, in seguito, quella di direttore generale delle Finanze della Calabria Citra (l’odierna provincia di Cosenza).
Facciamo un salto in avanti, nel tempo e nello spazio, e spostiamoci negli Usa.
Amerikan pogrom
È il 14 marzo 1891. A New Orleans si raduna una folla di 12mila persone, aizzata dall’avvocato Parkenson, assistente del sindaco Joseph Shakespeare, e si dirige verso la prigione. Lì sono in attesa di essere scarcerati 11 italiani, prosciolti dall’accusa di aver assassinato il capo della polizia, il discusso David C. Hennessy.
L’assalto contro gli italiani a New Orleans in una stampa d’epoca
La “marmaglia”, come l’avrebbe definita il console italiano della capitale della Louisiana, sfonda il portone posteriore del penitenziario e lincia gli undici “dagos”, che è il nomignolo spregiativo affibbiato dagli americani wasp ai migranti “latini”, soprattutto agli italiani del Sud. Il massacro di New Orleans è il più grave dei 22 casi di linciaggio subiti dai migranti italiani nell’ultimo decennio dell’Ottocento. Ma stavolta il massacro non resta senza risposte, politiche e diplomatiche. Di cui si incarica il barone Fava.
Un diplomatico in prima linea
Fava era arrivato negli States come ministro plenipotenziario, dopo aver fatto una gavetta molto dura. A differenza dei colleghi settentrionali, lui aveva scontato sulla propria pelle il pregiudizio dell’élite del nuovo Regno nei confronti dei funzionari ex borbonici.
Tuttavia, questo “trattamento” non proprio di favore aveva consentito all’aristocratico di Amantea di farsi onore con la gestione di situazioni difficili e di essere testimone oculare di avvenimenti importanti, tra cui la nascita della Romania.
Il primo contatto del barone col nuovo mondo fu l’Argentina. Lì il diplomatico toccò con mano le difficoltà in cui versavano i migranti italiani, oggetto di pregiudizi e spesso vittime di violenze e massacri, a cui le autorità quasi non si opponevano. In questo caso, Fava escogitò una soluzione: l’uso di corvette italiane sulle grandi tratte rurali, ad esempio il rio Paranà, senz’altro per tutelare le comunità italiane in occasione delle troppe rivolte antigovernative che tormentavano il Paese sudamericano. Ma anche come suasion nei confronti di malintenzionati…
Negli States la situazione era in parte simile a quella sudamericana. Ma solo in parte, perché il vero ostacolo a una tutela efficace dei migranti era nella Costituzione.
Il linciaggio degli italiani a New Orleans
Un cavillo coi crismi
Gli Usa, a livello formale, si erano impegnati con l’Italia alla tutela dei migranti nel 1871 con un importante trattato internazionale. Ma questo trattato impegnava solo lo Stato federale, che, secondo la Costituzione americana, non poteva intervenire negli affari giudiziari e nella normativa penale degli Stati membri. Morale: lo Stato della Louisiana poteva insabbiare, come in effetti stava facendo. E la Federazione, che pure si era impegnata a tutelare gli italiani, non poteva farci nulla. Né forse voleva del tutto. Il meccanismo dei “grandi elettori” e il sistema elettorale del Senato, entrambi basati sui singoli Stati, condizionavano non poco le dinamiche politiche dell’amministrazione centrale.
La situazione era avvitata: le autorità giudiziarie della Louisiana affermavano di non riuscire a identificare con precisione i colpevoli e la Federazione non poteva svolgere inchieste autonome perché non poteva violare la Costituzione. L’unica offerta americana fu il risarcimento di 2mila dollari a ciascunafamiglia delle vittime.
Un “prezzo del sangue” giudicato irricevibile sia dal barone di Amantea e diplomatico sia dal marchese Antonio Starabba di Rudinì, il presidente del Consiglio dell’epoca. E così si arrivò alla rottura diplomatica.
Antonio Starabba di Rudinì è stato presidente del Consiglio alla fine dell’Ottocento
Venti di guerra
Fava fu richiamato a Roma il 14 aprile 1891. Il ritiro dell’ambasciatore, nel vecchio diritto internazionale, anticipava spesso qualcosa di peggio: la dichiarazione di guerra. E in effetti in Italia la stampa vicina a Francesco Crispi – ex presidente del Consiglio e quindi avversario di Rudinì – propose atti di forza militare, attraverso l’invio della Regia Flotta per cannoneggiare le coste della Louisiana.
Oggi l’ipotesi fa sorridere, ma all’epoca era tutt’altro che campata in aria. Gli Usa, usciti da una sanguinosa guerra civile, erano praticamente disarmati: il loro esercito era costituito da 128mila soldati regolari, la loro flotta da 3 navi da battaglia, tra l’altro obsolete. L’Italia, al contrario, era armata fino ai denti, con un esercito di 2 milioni e 400mila unità e una flotta di 11 navi da guerra completamente messe a nuovo. I presupposti per la “guasconata” c’erano.
Né l’Italia né gli States volevano arrivare a tanto. Infatti, fu attivato subito un canale diplomatico informale, gestito con grande abilità proprio da Fava, per trovare una via d’uscita accettabile per entrambe le parti. Harrison risarcì i parenti delle vittime, ma a titolo “personale” (cioè pescando dall’appannaggio della Casa Bianca), chiese scusa all’Italia e alle comunità italoamericane e impegnò formalmente gli Usa ad approvare una legislazione speciale per la tutela dei migranti. L’Italia, a sua volta, ottenne un potenziamento della propria rete consolare negli States.
Benjamin Harrison è stato il 23esimo presidente degli Stati Uniti
Il ritorno in Patria
Fava rientrò in Italia nel 1901 e lasciò la diplomazia dopo aver tentato invano di ottenere una sede in Europa. In compenso, entrò in Senato per nomina regia. Inutile dire che i problemi degli italiani all’estero furono il suo pallino. Morì nel 1913. Gli Usa non approvarono alcuna modifica della Costituzione per intervenire nelle giurisdizioni locali fino agli anni ’60, quando i problemi dell’apartheid erano diventati ineludibili. Ma la questione dell’immigrazione fu sbrigata in parte attraverso leggi speciali e in parte si risolse da sé, grazie all’integrazione spontanea dei “dagos”.
Il vinoche si produce oggi in Calabria è di ottima qualità e non paragonabile a quello del passato. In un saggio sull’economia campestre del 1770, poiché l’industria enologica locale produceva vino cattivo, Grimaldi auspicava che i proprietari introducessero nelle loro terre fattoj alla francese e assoldassero vignaioli forestieri.
Questi esperti avrebbero dovuto insegnare come impiantare le vigne, scegliere i vitigni, il tempo per vendemmiare, il modo per raccogliere, spicciolare e spremere le uve, la durata per la fermentazione del mosto nei tini, le modalità d’imbottare il vino, colarlo, trasmutarlo, governarlo e conservarlo. Tutte queste cose in Calabria si facevano arcaicamente e al«rovescio». E così i vini erano fumosi, torbidi, malsani, perniciosi, spiacevoli, di poca durata e inadatti al trasporto.
Aceto un po’ ovunque
Nell’Inchiesta Murattiana si legge che alcuni vini della regione erano buoni e rispondevano «ai gusti della digestione» ma la maggior parte erano scadenti perché prodotti senza nessuna arte. Le varie specie di uve che avevano diversa maturazione si raccoglievano insieme e si pigiavano nei palmenti a piedi nudi senza togliere raspi e acini corrotti. In un saggio sull’agricoltura calabrese del 1848, Tucci scriveva che la produzione vinicola era condotta con metodi allo «stato dell’infanzia».
La piantagione dei vitigni si eseguiva barbaramente. Non si concimava il terreno, non si effettuava la potatura. Le uve erano sostenute da pali che cadevano al primo soffio di vento. Le varie uve erano raccolte insieme e messe alla «rinfusa» nei tini, cosicché una parte era guasta e un’altra acerba. Non si effettuava una selezione dei grappoli «viziati», gli strettoi erano arcaici, le botti inadatte e il vino diventava aceto.
Nostalgia canaglia
In alcuni libri di cucina si coglie spesso una nostalgia per i cibi semplici, sani e genuini del passato. Il fatto che un tempo i prodotti agricoli fossero meno soggetti a trattamenti, però, non implica che il cibo fosse più buono, sano o genuino. Il pane era così duro che per consumarlo bisognava bagnarlo, il vino così aspro e torbido da provocare vomiti e mal di testa, l’olio così rancido e puzzolente da essere buono solo come combustibile.
Le autorità intervenivano senza sosta per impedire la vendita nelle fiere e nei mercati di frutti acerbi, grani marci, pani trattati con sostanze dannose, pesci putrefatti, carni di animali morti per malattie e vini adulterati con sostanze velenose. Anche in passato erano diffuse pratiche di sofisticazione degli alimenti e alcuni di questi, come il vino, erano talmente adulterati da provocare gravi malattie o condurre alla morte.
Il vino taroccato
Nel Settecento il vino subiva tali livelli di sofisticazione che, per i frequentatori delle cantine, da «balsamo della vita» diventava «bevanda di morte». Grossisti, negozianti e tavernieri senza scrupoli per aumentare la quantità aggiungevano acqua e, per mutare il colore, migliorare il sapore, favorire la conservazione e occultare i difetti, introducevano nelle botti «droghe malefiche». I vini prodotti a volte erano manipolati con vari ingredienti «per farli somigliare a quelli forestieri»; quelli di scarsa qualità, trattati con varie sostanze chimiche, diventavano forti, frizzanti, dolci e dal colore intenso.
Nel 1849 uno studioso di Cirò annotava che, per soddisfare i clienti che da qualche anno ricercavano un vino rosso cupo, brillante e spiritoso, i produttori non esitavano a mettere nelle botti scorze di quercia, sugo di more e altre materie coloranti. Si utilizzavano zolfo, arsenico e gesso per rendere i vini durevoli; acquavite, sidro e alcool per aumentarne gradazione e sapore; allume, colla di pesce, chiare d’uova e gelatine animali per farli diventare meno torbidi; cenere, calce, potassio, rame e piombo per correggerne l’acidità; vetriolo, allume e ferro per mutarne il sapore; sandalo rosso, zucchero abbrustolito, bacche di sambuco, more e mirtilli per dare colore.
Annate da evitare
Negli anni in cui i vitigni erano colpiti da malattie o distrutti dalle intemperie, per soddisfare la forte richiesta, sul mercato circolavano clandestinamente vini completamente artificiali prodotti mischiando acqua, alcool, cremore di tartaro e coloranti vari. I vini adulterati provocavano «avvelenamenti saturnini», violenti dolori intestinali, palpitazioni di cuore, soffocazioni, ansia, tremori, vertigini, vomito, debolezza, perdita d’appetito, ubriachezza, malattie nervose. A volte, persino paralisi degli arti e morte. Le autorità difficilmente riuscivano ad individuare i vini contraffatti e i consigli degli esperti per accertare la presenza di sostanze tossiche erano inutili perché richiedevano l’uso di gabinetti scientifici.
Mito e storia
L’amore per la propria terra spinge spesso a scambiare il mito per storia. In alcuni opuscoli pubblicitari si legge che il vino prodotto a Cirò è l’antico Krimisa che si offriva agli atleti di ritorno dalle Olimpiadi 2.500 anni fa. Si sostiene che lo stesso Milone, vincitore di sei gare nella lotta, fosse un gran bevitore di Krimisa e, citando Teodoro di Ierapoli, riuscisse a ingurgitare dieci chili di carne, dieci di pane e tre boccali di vino. I Greci approdati sulle coste dello Jonio chiamarono la Calabria Enotria, terra del vino, e si racconta che se ne producesse così tanto che aSibari, per facilitarne il trasporto, furono costruiti “enodotti” che dalle colline arrivavano al porto.
Una statua di Milone da Crotone esposta al Louvre di Parigi
È difficile credere che Milone mangiasse venti chili tra carne e pane ad ogni pasto. Così com’è difficile credere che i Sibariti trasportassero il vino dalle colline al mare come si fa per metano e petrolio. È difficile anche credere che nel territorio di Cirò per oltre venticinque secoli gli abitanti abbiano coltivato lo stesso vitigno e bevuto lo stesso vino. Nel 1792 Luigi Grimaldi scriveva che la concorrenza dei viticoltori forestieri aveva sconvolto l’industria vinicola nei territori di Cirò, Crucoli e Melissa. La necessità di aumentare la produzione aveva spinto i proprietari a piantare vitigni stranieri, con il risultato che il vino nuovo, pur adattandosi al gusto «grossolano» delle persone che ne facevano «stravizzo», era particolarmente cattivo e andava facilmente a male.
Addio agli antichi vitigni
La maggior parte degli antichi vitigni calabresi che davano un vino «squisitissimo», erano stati sradicati per piantare una specie importata, detta castiglione che, pur producendo uva in abbondanza, dava un vino di sapore «ordinario» e di «poco durabile qualità». Nel 1849, Pugliese annotava che, verso la fine del Settecento, le uve nere di Cirò erano aglianica, santa severina, lagrima, canina e piede longa e le bianche greca e pizzutella. Lo studioso, tuttavia, precisava che nel giro di cinquant’anni i proprietari avevano introdotto decine di uve straniere da mosto e da tavola.
Le bianche da tavola erano:
moscarella
malvasia
agostarica
vesparula
zibbibbo
sanginella
duraca
nocellarica
uva pietra
corniola
zinna di vacca
zuccaro
cannella
catalanesca
Vigneti nella Cirò Marina dei giorni nostri
Le bianche da mosto erano invece:
donna laura
greca
sprumentino
scilibritto
guarnaccia
pizzutella
scricciaruola
mantonico
Le uve nere da tavola e da «stipa» erano damascena, duracina, pruna, cerasuola, testa di gallo, corniola, zinna di vacca, greco, ruggia o roja.
Infine, quelle nere da mosto erano gaglioppo, piede longa, infarinata, lagrima, tenerella, sanseverina, canina e norella.
“Patrune e sutta”
Nella metà dell’Ottocento, secondo una statistica governativa, in 72 paesi della Calabria Citeriore il consumo di vino era discreto, in 76 era scarso e in 3 nullo. In genere si beveva in occasione delle feste o nelle 2.212 cantine sparse nella provincia e, non a caso, il redattore dell’inchiesta scriveva eloquentemente: «o niente o sbornia». Si consumava vino giocando soprattutto nelle taverne a patrune e sutta, padrone e sottopadrone. Colui che vinceva al tocco si chiamava padrone e poteva bere tutto il vino che voleva. Il sottopadrone, invece, poteva impedire di bere alla persona invitata dal padrone. Il meccanismo del passatempo era perverso e creava tra i partecipanti forte tensione, aumentata dagli effetti dell’alcol.
In una prammatica della Gran Corte della Vicaria del 26 giugno 1756 si legge: «Il giuoco di Padrone e Sottopadrone è dell’istessa maniera, ma queste due sono le persone, che dispongono del chi deve bere. Onde coloro, che in tal gioco, anche vincendo, son privati per altrui strano capriccio del bere, resi corrivi, dando in escandescenza tale, che privati del vero lume della ragione promuovono delle risse, per cui sortiscono ferite, ed anche omicidj; anzi col tenersi dette bettole, e casini aperti quasi che le notti intere, maggiormente nella continuazione delle crapule si fomentano le occasioni a’ disordini, all’offesa del Sommo Iddio, e a tutte le altre discolezze, che possano immaginarsi, specialmente allorché sienvi donne che in tal luoghi per lo più si conducono o vi fan dimora». Visto l’andazzo, il gioco fu severamente proibito. Ma, a quanto pare, i provvedimenti non sortirono alcun effetto.
Il peperoncino oggi è considerato centrale nella tradizione culinaria calabrese e addirittura riconosciuto come simbolo dell’identità regionale. Nei dépliant delle pro loco si legge che è utilizzato fresco, sott’olio o in polvere in zuppe, salse, verdure, insalate e nei piatti a base di carne e pesce. Cuochi e pasticceri hanno inventato marmellate, liquori, cioccolata e caramelle a base di peperoncino. In ogni negozio campeggia la «bomba calabrese», un barattolo di pipariddi sott’olio corredato da involucro e miccia di cartoncino. In un trattato di cucina si legge che il frutto è così radicato nella regione da far pensare che la sua prima patria sia stata la Calabria e non il Messico.
Il festival del peroncino che si tiene ogni anno a Diamante
A Diamante è nata un’Accademia nazionale che mira a diffondere la cultura del piccante calabrese nel mondo e che organizza il Campionato italiano mangiatori di peperoncino. Concorrenti provenienti da ogni regione, dopo aver superato le eliminatorie nelle varie delegazioni, seduti intorno a un tavolo dinanzi a un numeroso pubblico e un’attenta giuria, in trenta minuti si sfidano mangiando peperoncino, servito crudo e tagliuzzato in portate di cinquanta grammi.
Da un’icona nasce l’altra
Al peperoncino è legata anche la ’nduja, un insaccato morbido e cremoso prodotto a Spilinga e nell’altopiano del Poro con le carni più grasse del maiale. Alcuni sostengono che somiglia alla sobrassada degli spagnoli e per altri al salam dla duja piemontese, un salume di carni suine immerso nello strutto che lo rende a lungo morbido. Altri, infine, ritengono che la ‘nduja, simile all’andouille, realizzata con la carne di maiale, sia stata introdotta dai francesi durante l’occupazione della regione agli inizi dell’Ottocento.
La ‘nduja ricorda anche la nnuglia o nnoglia, una sorta di salsicciotto bislungo da bollire nella minestra, diffuso nelle regioni meridionali. In un trattato del Settecento si legge che era composta essenzialmente di «carni nervose, ventri ed altri interiori tritati», conditi con sale, finocchio, pepe, aglio e altri ingredienti. Tale salame era chiamato anche il pezzente ed essendo un cibo di «vil prezzo», ad un «balordo» si soleva dire «si no piezzo de nnoglia».
‘Nduja di Spilinga
Grimaldi nel 1770 scriveva che, nonostante i maiali calabresi vivendo allo stato brado e cibandosi di ghiande avessero una carne pregiata, «per l’ignoranza e la negligenza» della popolazione lardi, prosciutti, mortadelle e salsicciotti «marcivano, erano tristi e di poca durata». Negli anni seguenti, grazie alle proprietà conservanti del peperoncino, si diffusero nella regione insaccati come la ‘nduja, prodotto che da qualche tempo è diventato una sorta di icona della cucina regionale.
Un inizio difficile
Sembra che calabresi e peperoncino siano stati sempre uniti da un profondo legame, ma in realtà nei suoi confronti vi sono state resistenze e cautele. Come tutti gli altri prodotti «americani», il peperoncino si affermò in maniera lenta e tormentata. Campanella accennava alle proprietà medicinali del piper rubrum indicum ma, nei trattati di agricoltura, nelle inchieste agrarie e nelle monografie sulla Calabria non si fa menzione della sua coltivazione. Il peperoncino era ritenuto un frutto «ulcerativo» e alcuni esperti del Cinquecento avvisavano i lettori che si trattava di un cibo dannoso e «volgare». Soprattutto i semi, simili a lenticchie, «abrusciavano valorosamente lingua, bocca e palato».
Un secolo dopo, pur raccomandando di non mangiarlo spesso perché «noceva molto», Benzo e altri riconoscevano che il peperoncino avrebbe avuto un notevole successo perché sostituiva bene il pepe nero, correggeva la frigidità dei cibi e, scaldando lo stomaco, favoriva la digestione. In un trattato del 1792 su alcune piante straniere introdotte in Italia, si legge che il capsicum frutescens o peperoncino fruticoso era rarissimo e presente nei giardini botanici da pochi anni.
Peperoncino contro il mal di denti
La pianta aveva un gusto acre e il frutto e i semi erano piccanti più di qualsiasi altro vegetale: un piccolo peperoncino, o anche una sua porzione, causava pizzicori, starnuti e un tremendo bruciore in tutta la cavità della bocca e del naso. Mangiandolo, specie per chi non vi era assuefatto, provocava forti irritazioni all’intestino e infiammazioni «parziali e universali». Utilizzato per lenire il mal di denti e curare le febbri terzane e quartane, il peperoncino era così mordace che, ridotto in polvere, lo si metteva tra i panni per uccidere le tarme.
In cucina se ne doveva fare un uso moderatissimo e servirsene «non per nutrimento ma per condimento», aggiungendovi preferibilmente un «acido» per correggerne la troppa acrimonia. Gli stessi «indiani» lo utilizzavano con parsimonia per condire carne e pesce e ne facevano una salsa, mil-tomatl, per stimolare l’appetito e facilitare la digestione.
Al posto del pepe nero
Verso la fine del Settecento, per il suo colore rosso brillante, nelle regioni settentrionali il peperoncino si piantava nei giardini. In quelle meridionali, invece, si usava in luogo del costoso pepe nero e i contadini, per colazione, preferivano un pepajolo alla cipolla e all’aglio. Particolarmente apprezzato era quello dall’estremità ricurva a «guisa di becco di corvo». Pur «abbruciando la gola e provocando starnuti» se ne faceva grandissimo uso nelle pietanze perché favoriva l’appetito, «dissipava il vento» e fortificava lo stomaco.
Nel 1804, Columella annotava che i peparuoli delle province napoletane erano dolci o forti. Tra i primi quelli spagnoli rossi e gialli, tra i secondi i verdastri, a torno e a ciliegia. Raccolti acerbi, si usava farli appassire, metterli nell’aceto e utilizzarli durante l’anno per aguzzare l’appetito e rendere saporose le minestre. I peperoncini a becco di corvo, «di cui abusavano anche i ricchi», una volta seccati e «stritolati» erano adoperati in gran quantità in ragù, frittate, zuppe e salumi «per cui le malattie emorroidali erano frequentissime».
“I pipi di Riggiu”
Secondo un’inchiesta sull’alimentazione del popolino napoletano, i peparuoli erano di quattro varietà: chiochiaro, lungo, spagna e cerasuolo. Quest’ultimo, detto anche «pepe cornuto», piccolo e amarissimo, si disseccava per essere utilizzato in inverno come condimento nelle minestre di verdure e legumi.
Giuseppe Pasquale scriveva che piraparoli a ceraso, pipi infernali e pipi a cuornusi coltivavano in gran quantità nei distretti di Rosarno e Reggio e che i contadini «non mangiavano vivanda senza i peperoni arzentissimi». Erano sempre alla ricerca di quelli più piccanti e ne facevano tale abuso da pregiudicare la sanità dell’intestino.
Nel 1848, Pugliese osservava che quattro o cinque peperoni verdi conservati in aceto, conditi con olio e serviti in un piattello con un pane, costituivano il pranzo dei contadini. Padula racconta che nei villaggi del Tirreno cosentino il lardo della povera gente era una scorta di peparuoli: il bracciante ne buttava un «pugnello» nel piatto, li condiva con olio e sale e li mangiava con il pane. Gli orti lungo la costa erano pieni di peperoni e peperoncini e, una volta seccati, i padroni li usavano per pagare la fatica dei giornalieri. Grazie al clima favorevole le piante crescevano bene e, particolarmente apprezzati, erano i pipi di Riggiu, esportati freschi o essiccati in grandi quantità nella vicina Sicilia.
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