Categoria: Cultura

  • La fuga dei fascisti: la rete al femminile tra Calabria e alte sfere del Vaticano

    La fuga dei fascisti: la rete al femminile tra Calabria e alte sfere del Vaticano

    Non è un romanzo né un film, sebbene la vicenda abbia tutti i crismi della spy story. Anche l’Italia ebbe un’organizzazione simile a Odessa e Der Spinne, che mirava a proteggere i fascisti in fuga alla fine della guerra.
    A differenza delle due strutture tedesche, l’associazione italiana non fu completamente segreta né ebbe caratteri illegali o, peggio, criminali.
    Ma ebbe comunque le sue peculiarità: fu un gruppo essenzialmente femminile (e, per i parametri dell’epoca, anche “femminista”) ed ebbe la sua base vera in quella Calabria che, dopo la caduta del regime, si riscopriva “rossa” e in cui i contadini, appoggiati dalle forze di sinistra, iniziavano le prime, importanti mobilitazioni.

    Il Movimento italiano femminile, così si chiamava questa struttura, fondato dalla principessa Maria Pignatelli nell’autunno del ’46, ebbe anche il singolare primato di essere la prima organizzazione neofascista legale del Paese, perché precedette di poco la nascita ufficiale del Msi (che si costituì il 26 dicembre 1946).

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    La principessa Maria Pignatelli

    La strana fuga

    È l’estate del 1945. La principessa Pignatelli è prigioniera nel campo di concentramento britannico di Riccione. In città c’è Puccio Pucci, un reduce di Salò collegato a Pino Romualdi e ad Arturo Michelini, che nello stesso periodo si trovano a Roma e cercano di radunare tutti i fascisti sbandati attorno a un progetto politico.
    Pucci non è lì per caso. Deve recuperare la principessa che progetta l’evasione dal campo. Il piano riesce: grazie all’aiuto delle suore di Cesena, che fanno le ausiliarie del carcere alleato. Le religiose nascondono la principessa nel furgone della biancheria e la fanno arrivare a Roma. Qui trova rifugio in Vaticano, presso monsignor Silverio Mattei, prelato della Sacra congregazione dei riti.
    Proprio a casa di Mattei la Pignatelli inizia a tessere la trama con cui costituirà il suo movimento di assistenza ai fascisti, grazie senz’altro alla sua formidabile rete di contatti con l’aristocrazia romana e con molti esponenti dell’ex regime. Ma soprattutto grazie all’aiuto delle autorità vaticane.

    Un personaggio particolare

    La fuga a Roma, dove si erano rifugiati moltissimi fascisti in fuga dal Nord, mette la parola fine a due anni di prigionia per la principessa.
    Tutto era iniziato nella primavera del ’44, quando donna Maria riuscì in un’impresa spericolatissima. Varcò il confine di guerra, all’epoca poco sotto Roma, incontrò il feldmaresciallo Kesserling, a cui riferì notizie sensibili sulle strutture strategiche alleate. Poi andò a Gargnano sul Garda, dove incontrò Mussolini e Francesco Maria Barracu, ex federale di Catanzaro e in quel momento sottosegretario della Repubblica Sociale Italiana.
    Stando alle dichiarazioni della principessa e a varie testimonianze storiche, Mussolini in persona ordinò alla nobildonna di creare il Mif.
    L’ordine non fu dato per caso, perché la principessa Pignatelli sembrava la persona adatta allo scopo.
    Fiorentina di origine e figlia dell’ammiraglio Giovanni Emanuele Elia, donna Maria aveva sposato in prime nozze il marchese Giuseppe de Seta, aristocratico siciliano col vizio del gioco. Da lui ebbe quattro figli, tra cui Vittorio de Seta, che sarebbe diventato un importante regista del filone neorealista.

    Michele Bianchi e la principessa Pignatelli

    Sposa del principe Pignatelli di Cerchiara

    Ma il matrimonio durò poco. Subito dopo la separazione, la marchesa de Seta si legò a Michele Bianchi, di cui fu amante. Poi, nel ’42, subito dopo la morte del marito, sposò il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara.
    Il loro fu un legame forte, in cui sentimenti e passione politica costituirono un mix micidiale vissuto con una certa incoscienza. Anche Valerio, un fascista irrequieto con una carriera militare alle spalle, era legatissimo a Mussolini, per conto del quale aveva creato, alla fine del ’43, la Guardia ai labari, un’organizzazione clandestina ramificata tra la Calabria e Napoli.
    L’organizzazione fu scoperta e smantellata dai carabinieri nell’estate del ’44. Qualche mese prima, la polizia militare britannica aveva scoperto il viaggio della principessa oltre confine e arrestò i Pignatelli.
    Per Valerio e Maria iniziarono la galera e i guai giudiziari. I due, condannati a 12 anni di carcere a testa per spionaggio, furono detenuti assieme nel campo di concentramento di Padula per alcuni mesi. Poi la principessa fu trasferita dapprima a Terni e, da lì, a Riccione.

    Giornale d’epoca sul processo agli 88 di Catanzaro

    Intrighi internazionali

    Il Movimento italiano femminile disponeva di due carte vincenti: una struttura diffusa su tutto il territorio nazionale e l’appoggio della Chiesa, grazie al quale la principessa organizzò, quando ancora era latitante in Vaticano, l’espatrio di oltre 15mila fascisti in fuga verso l’Argentina di Juan Domingo Peron.
    Come rivela l’inchiesta di Giorgio Agosti, all’epoca questore di Torino, gli espatri furono coperti dai francescani di Genova, che radunavano i fuggiaschi e procuravano loro i passaporti per lasciare l’Italia. Assieme ai fascisti sbandati, per molti dei quali era diventato pericoloso restare in Italia, scapparono in Sud America non pochi ustascia croati, per i quali restare in Italia significava il rimpatrio e la morte certa.

    Ma perché proprio l’Argentina e, soprattutto, quale fu il ruolo della Pignatelli? La prima risposta è semplice: la comunità italiana di Buenos Aires era filofascista e, grazie a Peron, era diventata molto influente nelle scelte politiche del Paese latinoamericano. Più nello specifico, Valerio Pignatelli aveva un forte legame personale con il presidente argentino. Questo legame, di cui si avvantaggiò il Mif, fu ribadito in un incontro riservato tra la principessa, le dirigenti del suo movimento ed Evita Peron, che si svolse a Roma nel ’47. Il Mif, inoltre, si occupò anche della raccolta dei finanziamenti inviati dagli italiani d’Argentina per aiutare la nascita del Msi.

    Evita Peron

    Cose di Calabria

    Nell’estate del ’46 la situazione cambia. Grazie all’amnistia di Togliatti, donna Maria abbandona la latitanza e Valerio lascia il campo di Padula.
    I due tornano in Calabria, per la precisione a Sellia Marina. E proprio da lì la principessa inizia a gestire il Mif. Soprattutto, inizia a usare la Calabria come rifugio per fascisti.
    La vicenda, a questo punto, assume tratti pittoreschi, che emergono dalle lettere che la principessa indirizza alle dirigenti calabresi del Mif o ai leader del Msi. Donna Maria non parla mai di “fascisti” o di “latitanti”, ma si esprime in gergo: a seconda della gravità dei casi, parla di “disoccupati”, di “malati che devono cambiare aria”, di “falegnami”, “carpentieri” e via discorrendo.

    La casa in Sila per il fratello di Junio Valerio Borghese

    In un caso, il riferimento è esplicito, quando la principessa chiede aiuto a Luigi Filosa (foto in basso a destra), dirigente del Msi cosentino, perché cerchi una casa in Sila per il fratello e la sorella di Valerio B., cioè del principe Junio Valerio Borghese.
    In un altro caso, a dispetto delle tante cautele, qualcosa emerse a Cosenza, dove due ex repubblichini in fuga da Roma, avevano dato un po’ troppo nell’occhio e allarmato i comunisti. Difficile quantificare quanti fascisti abbiano approfittato degli aiuti del Mif. Secondo un calcolo prudente, potrebbero essere attorno al migliaio.

     

    Fasciste in rosa

    La particolarità del Mif fu la sua natura di movimento creato e gestito da donne, in cui gli uomini potevano avere al massimo due ruoli: quello di legale (che a Cosenza, per fare un esempio, fu ricoperto da Ugo Verrina, altro leader del Msi meridionale) o di consigliere religioso.
    I rapporti col Msi furono tutt’altro che idilliaci, perché la principessa difendeva a oltranza l’indipendenza del Mif dalle mire del partito, che voleva farne una specie di sezione femminile.
    Al riguardo, restano memorabili le polemiche della Pignatelli nei confronti dei vertici missini, di cui non gradiva le ingerenze.

    Se le donne votano come gli uomini, chiedeva la principessa al segretario del Msi Arturo Michelini, a cosa servono le sezioni femminili? E ancora: noi facciamo assistenza a chi ha problemi, non politica, ribadiva la nobildonna alle sue seguaci che si facevano tentare dalle candidature (anche se, va detto, il Msi fu il partito che candidò più donne).
    Il Mif chiuse i battenti intorno al ’53, perché la normalizzazione del quadro politico nazionale ne aveva rese superflue le funzioni. La principessa sopravvisse altri 15 anni. Morì in un brutto incidente stradale, nel momento in cui il ’68 gettava le basi di un protagonismo ben diverso per le donne…

  • Pasolini 100 anni dopo: la Calabria, i banditi di Cutro e quella ragazzina di Crotone

    Pasolini 100 anni dopo: la Calabria, i banditi di Cutro e quella ragazzina di Crotone

    Nell’estate 1959, a Roma, Pier Paolo Pasolini 37enne non era ancora l’autore di successo che sarebbe diventato di lì a poco grazie al cinema. Scriveva qualche sceneggiatura, aveva appena pubblicato il suo secondo romanzo e collaborava sporadicamente con delle riviste. Per Successo, il mensile milanese diretto da Arturo Tofanelli, accettò di realizzare un reportage da pubblicare a puntate sui litorali italiani in piena stagione balneare.

    Il reportage di Pasolini

    Al volante della sua Fiat Millecento, accompagnato dal fotografo Paolo di Paolo, iniziò il suo periplo partendo dal confine franco-italiano, Ventimiglia, e da quello contrapposto, Trieste. Poi passò per le spiagge liguri e toscane (San Remo, Portofino, Santa Margherita, Forte dei Marmi, Viareggio, Tirrenia), le spiagge e le balere dell’Emilia-Romagna, arrivò a Roma (dove a Fregene incontrò gli amici Moravia e Fellini intenti al lavoro). Infine, prima di fare ritorno al nord, affrontò la parte del viaggio che più doveva attirarlo: il sud d’Italia.

    Napoli, Ischia e Capri, Maratea, Taranto, Gallipoli, Santa Maria di Leuca, Rodi Garganico, e quindi la Calabria e le sue spiagge. Pasolini non è un cronista turistico, è un poeta, e come tale descrive ciò che vede ma tende anche a idealizzare (le città biancheggianti, i grandiosi lungomari, i villini liberty incrostati d’ornamenti, le rotonde scrostate), a volte va oltre, ricorre al tipico immaginario pasoliniano, usa il linguaggio metaforico.

    Sulla strada per Crotone

    Sulla strada per Crotone incontra, illuminati dal sole, due uomini che gli fanno segno di fermarsi. Gli è stato consigliato di non farlo, ma lui, figuriamoci, si ferma e li fa salire a bordo: la curiosità dello scrittore è più forte della prudenza. Nei discorsi di quelle persone emerge la durezza della loro vita, il lavoro precario, i mezzi di trasporto che mancano (ogni giorno devono fare venti chilometri ad andare e tornare). Gli dicono anche che quella è una zona pericolosa, di notte è meglio non passarci, fermano le macchine e rapinano, qualche tempo prima c’è scappato pure il morto. Forse un po’ suggestionato da quelle parole ecco che Pasolini arriva a Cutro, che spicca in una specie di altopiano.

    Cutro, il paese dei banditi

    E scrive così: «Lo vedo correndo in macchina: ma è il luogo che più mi impressiona di tutto il lungo viaggio. È, veramente, il paese dei banditi, come si vede in certi western. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi. Si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge, o, se non dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, a un altro livello. Nel sorriso dei giovani che tornano dal lavoro atroce, c’è un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia».

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    Pasolini a Crotone in occasione del premio conferitogli per Una vita violenta

    In realtà, nel suo testo, Pasolini precisa che il “paese di banditi” deve intendersi alla maniera dei western, poi ha anche parlato del fervore che precede la cena, l’omertà che in quel luogo ha una forma lieta, vociante. Ma non basta, non basterà. Sarà lo scandalo, abbastanza devastante, anche perché il sindaco di Cutro querelò Pasolini per diffamazione a mezzo stampa, e questo avvenne, non a caso, proprio nei giorni in cui il suo romanzo Una vita violenta riceveva il Premio Crotone per la narrativa.

    La Calabria non si tocca, il sindaco querela Pasolini

    Nell’esposto del sindaco, si difendeva: «La reputazione, l’onore, il decoro, la dignità delle laboriose popolazioni di Cutro… le dune gialle, altro termine africano usato da Pasolini, sono punteggiate di centinaia e centinaia di casette linde, policrome, gaie, dell’Ente di Riforma dove la laboriosa gente del Sud, della Calabria, di Cutro, fedele al biblico imperativo, guadagna il pane col sudore della propria fronte». Una penosa questione ingigantita non solo dall’orgoglio e dal campanilismo, ma anche da un’astiosa polemica politica (il sindaco di Cutro era democristiano, l’amministrazione comunale di Crotone era comunista) e da una serie di interventi istituzionali (le aziende di soggiorno locali, il prefetto di Reggio Calabria).

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    Pasolini a passeggio con alcuni giovani di Cotrone

    Poi per fortuna tutto rientrò, la querela fu archiviata e soprattutto ci furono le spiegazioni. Pasolini scrisse lettere aperte e accettò incontri chiarificatori con intellettuali e studenti cutresi. Per lui – spiegò – «il termine “banditi” voleva dire “emarginati”, uomini banditi dalle classi dominanti che li sfrutta e spinge al crimine».

    Uno scandalo tra i tanti

    Era dunque uno spiacevole equivoco ma lo scandalo rimase e andò ad aggiungersi ai tanti scandali, più o meno gravi e dolorosi, che hanno accompagnato la vita privata di Pasolini (le denunce per corruzione di minori, addirittura un processo “per rapina a mano armata”) e la sua opera (da Accattone, suo esordio nel cinema, a Salò e le 120 giornate di Sodoma, uscito postumo, tutti i suoi film hanno avuto censure e sequestri). E questo fatto può spiegarsi solo con il modo di Pasolini di vivere il suo ruolo e il suo personaggio nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta.

    Cento anni dalla nascita

    Amato o odiato, lodato o rifiutato sempre sull’onda del pregiudizio, a cento anni dalla sua nascita (che ricorre il 5 marzo)  e a quasi mezzo secolo dalla sua morte tragica, Pier Paolo Pasolini (1922-1975) è ancora con noi con le sue prese di posizione spiazzanti, le sue provocazioni, le sue anticipazioni quasi tutte avverate: la globalizzazione, il consumismo dell’effimero, lo sviluppo senza progresso, l’ecologia, le nuove forme di sfruttamento. Ma al di là dei giudizi di merito su un’opera così vasta e proteiforme (poesia e narrativa, cinema e teatro, saggistica politica, pittura, musica, danza), c’è una cosa che resta indiscutibile: la vera rivoluzione operata da Pasolini riguarda proprio la figura dell’intellettuale.

    Con lui si realizza per la prima volta quella che Tullio Kezich chiamò «l’integrazione dell’intellettuale italiano con la società contemporanea». Una figura, quella dell’intellettuale, fino allora chiusa nell’isolamento editoriale e accademico, e che solo con Pasolini si aprirà, in maniera violenta e irresistibile, ai mezzi di comunicazione di massa.
    Fuori dagli agi e dai comportamenti borghesi, intempestivo e provocatorio, agendo senza calcoli e cautele, c’era in lui certamente una voglia di protagonismo, quasi una spinta masochistica a “venire alle mani” con il giudizio corrente e nel mettere in discussione i valori di quella borghesia italiana da lui giudicata “la più ignorante di Europa”.

    Di qui, conseguentemente, l’infinita serie di scontri e scandali, di volta in volta con gli studenti del Movimento studentesco (quando prese le parti dei poliziotti “figli del popolo” dopo gli incidenti di Valle Giulia a Roma), con i radicali e le femministe (quando si schierò contro la legge sull’aborto), contro i comunisti (quando li sfidava sul piano della moralità e del conformismo), contro la DC (i famosi articoli-invettiva pubblicati sul Corriere della sera, poi raccolti in Scritti corsari).

    Pasolini e la Calabria: poca sintonia, tanto amore

    In questo contesto può apparire quasi secondario l’incidente di Cutro “città di banditi” e invece è significativo per comprendere la difficoltà di Pasolini a entrare in sintonia con la cultura del suo tempo e anche con una regione come la Calabria da lui sicuramente ammirata, come avrebbe dimostrato più volte con i fatti e con le opere. Tornò infatti a girare spesso in Calabria, proprio a Crotone e nelle vicinanze, alcune parti di Comizi d’amore (1963) e Il Vangelo secondo Matteo (1964, le scene del lago Tiberiade). Era di famiglia calabrese Ninetto Davoli, che accompagnò a lungo la sua vita e partecipò a gran parte della sua filmografia, erano calabresi la Madonna giovane de Il Vangelo (Margherita Caruso) e San Tommaso (il partigiano Rosario Migale).

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    Margherita Caruso ne Il Vangelo secondo Matteo

    Ma con Pasolini non si smette mai di avere sorprese. Gianni Scalia, scrittore e suo amico affettuoso, avvertiva: «Su Pasolini bisogna essere sospettosi e interrogarlo nell’unico modo possibile. Dovremmo forse essere cattivi interpreti, non prenderlo alla lettera, e prendendolo alla lettera, trascinarlo nelle nostre contraddizioni, mescolarlo alla “nostra” vita». In molti casi la “nostra vita” erano le beghe politiche, i pregiudizi culturali, le ritorsioni. Tradurre Pasolini, interpretarlo, è quindi necessario, mai imbalsamarlo. Che è un’indicazione di lavoro utile e, insieme, anche la conferma della particolare attualità di un’opera che a distanza di anni continua a parlare al cuore e all’intelligenza delle persone.

    Ma che cos’è questo onore?

    A me è capitato, facendo la curatela di un libro dedicato all’opera omnia di Pasolini, di rivedere tutti i suoi film e rileggere tutti i suoi scritti. Le sorprese non sono mancate, e una riguarda proprio la Calabria e i calabresi. All’inizio degli anni Sessanta, Pasolini girò il film-inchiesta Comizi d’amore, ancora una volta in anticipo sui tempi, dedicato all’educazione sessuale degli italiani. Quella era l’Italia del “miracolo economico” (tassi di crescita quasi del 6%, indici di produzione e consumi costantemente positivi), ma sulla cultura e sul sesso il risultato è di un’arretratezza spaventosa. E questo dato riguarda il nord esattamente come il sud, gli operai delle fabbriche di Monfalcone come i frequentatori delle discoteche romagnole, come i bagnanti delle spiagge meridionali.

    Pasolini interroga intellettuali (Ungaretti e Moravia), psicoanalisti (Musatti), cantanti famosi (Peppino Di Capri) e calciatori del Bologna (Bulgarelli e Pascutti), ma soprattutto gente comune. Ai bambini chiede se sanno come sono nati, agli adulti l’importanza data alla verginità nelle donne, l’infedeltà coniugale, il divorzio, l’omosessualità. Un po’ si diverte, un po’ provoca, un po’ s’indigna per il maschilismo di certe risposte, per l’arrendevolezza complice delle donne.

     

    Anticonformismo a Crotone

    In uno stabilimento balneare di Crotone intervista soprattutto le donne, e le risposte sono di un’incredibile chiusura: la sacralità della famiglia unica e indivisibile, la supremazia del maschio, il dovere della donna a non dare scandalo.
    Ma ad un certo punto Pasolini si trova di fronte una ragazzina che davanti alla madre scandalizzata e furente dice che no, che secondo lei è giusto separarsi quando l’amore finisce. Pasolini l’inquadra a lungo in primo piano, il sorriso, la sicurezza.

    E per la prima e ultima volta nel film, lascia il suo ruolo di intervistatore neutro e con la sua voce fuori campo, un po’ emozionato, le dice: «Senti, treccina, voglio proprio dirti che la bella sorpresa della mia inchiesta è una ragazza come te, nel generale conformismo voi ragazze siete le uniche ad avere idee limpide e coraggiose». Questo accadeva sessant’anni fa a Crotone.

    Piero Spila
    giornalista e critico cinematografico

  • San Giuseppe&Co: Cosenza e la sua fiera a (cacio) cavallo dei secoli

    San Giuseppe&Co: Cosenza e la sua fiera a (cacio) cavallo dei secoli

    La Fiera di San Giuseppe è un appuntamento storico per Cosenza e non solo. E, dopo la pausa imposta dalla pandemia, rispunta la possibilità di rivederla in città, seppure a fine aprile. In passato i paesi della Calabria non erano autosufficienti: non consumavano tutto ciò che producevano e non producevano tutto quello che consumavano. A parte quei fortunati che possedevano un pezzo di terra, la maggior parte degli abitanti comprava nei mercati e nelle botteghe legumi, frutta e verdura oltre che olio, pasta, farina, baccalà, stoccafisso, sarde salate, formaggi e salumi.

    In ogni centro vi erano negozi, forni, trappeti, botteghe e rivendite nei quali acquistare derrate alimentari. Nella Calabria Citeriore del 1826 vi erano 52 acquavitaj, 48 arancisti, 3 biscottieri, 25 caffettierj e sorbettieri, 65 venditori di foglia, 159 fornai, 38 fruttajuoli, 47 venditori di generi al minuto, 45 liquoristi, 75 maccaronaj, 203 macellaj, 386 molinaj, 391 negozianti, 168 panettieri, 541 pescatori e pescivendoli, 324 pizzicagnoli, 164 speziali, 180 tavernarj, 185 veditori privilegiati e 29 verdumaj.

    La fiera? Un privilegio

    Le fiere costituivano un importante momento di scambio dei prodotti ma le autorità rilasciavano la «concessione sovrana» con «prudente moderazione». Le comunità che avevano avuto tale privilegio non volevano che se ne celebrassero altre nei paesi vicini e ciò suscitava malcontenti, proteste e divisioni.

    Nel 1836, il sindaco di San Lorenzo Bellizzi scriveva sulla necessità di liberalizzare le fiere: «Se è vero che ogni terra non produce ogni cosa, e che ogni terra è abbondante di qualche cosa, il commercio è il mezzo efficace a mettere l’equilibrio fra il soverchio e il necessario». E un suo collega qualche anno dopo aggiungeva: «L’esperienza ha dimostrato che le fiere producono degli evidenti vantaggi al commercio, una delle principali risorse della ricchezza dei popoli, mentre donano il mezzo a realizzare ed estrarre i generi indigeni».

    Abuso di potere

    In occasione delle fiere, che duravano in genere due giorni, le Università facevano costruire baracche per esporre le merci e, per garantire l’ordine pubblico, nominavano dei “mastrogiurati” i quali erano spesso contestati dai rivenditori.

    Nel 1476, i mercanti cosentini, ad esempio, protestarono vivacemente contro il mastrogiurato perché durante la fiera della Maddalena commetteva ogni sorta di sopruso: «Considerato lo Mastrogiurato de dicta Città have plenaria iurisdictione in lo tempo e la fiera che si dice Madalena, de cognoscere contra de qualsivoglia persona, de qualsivoglia causa et allo presente se alcune persone che, intra et fora delo Reame haveno ottenuti privilegij de vostra Maiesta, che siano exempli dela iurisdictione de dicto Mastrojurato per la qualcosa commectono multi delitti et insulti, et passano senza punizione, de che soleno evenire multi scandali in preiuditio dela dicta iurisdictione et dele persone offese, et per questo se degni vostra Majesta che dicto Mastrojurato possa gaudere sua iurisdictione secondo è solito et consueto, non obstante ditti privilegij de dicta exemptione concessi».

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    Federico II di Svevia istituì l’antica Fiera della Maddalena a Cosenza che poi divenne Fiera di San Giuseppe

    Squadra antitruffa

    I gendarmi dovevano controllare soprattutto che durante le fiere non si verificassero frodi ai danni dei consumatori. Gli intendenti sollecitavano i controllori a punire senza indugio chi vendeva cibi immaturi, grani infraciditi, pani manipolati con sostanze nocive, pesci freschi e salati putrefatti, carni di animali estinti per malattie e oli e vini adulterati. Alcuni macellai, vendevano carne di animali morti naturalmente che, secondo i sanitari, provocavano gravi malattie fra cui antraci, bubboni e «cocci maligni»; avidi fornai facevano pane con farine scadenti o marce e utilizzavano ogni cosa per accelerarne la fermentazione, renderlo più poroso, soffice e durevole, farlo diventare più bianco e pesante; tavernieri senza scrupoli per aumentare la quantità del vino aggiungevano acqua e per mutare il colore, migliorare il sapore, favorire la conservazione e occultare i difetti introducevano nelle botti «droghe malefiche».

    Botte da orbi

    Oltre che impedire frodi e furti le guardie dovevano prevenire o sedare le frequenti risse quasi sempre dovute all’eccessivo consumo di alcol. Nella fiera di Castrovillari, ad esempio, la tranquillità della fiera era interrotta «dall’unione di persone di molte comuni e di provincie diverse che per le contrarie abitudini o per stravizzi, causati dall’opportunità della fiera spesso apportano disordini e non pochi reati vi consumano». Le fiere erano luogo privilegiato per borseggiatori, mendicanti e ciarlatani come tarantolati e ceravulari che cercavano di raggranellare lecitamente o illecitamente qualche soldo.

    Vagabondi e tarantolati

    Nel 1664, in un trattato sui vagabondi, Frianoro scriveva che gli attarantati fingevano di essere impazziti in seguito al morso del falangio e, per attirare l’attenzione dei presenti, facevano cose bizzarre mentre i compagni chiedevano l’elemosina. Per rendere più veritiera la loro follia sbattevano la testa, tremavano sulle ginocchia, stridevano i denti, facevano gesti insensati, lanciavano grida strazianti, ballavano disordinatamente e si mettevano in bocca un pezzo di sapone vomitando una gran quantità di schiuma come i cani arrabbiati. Erano dei mendicanti, fanatici e «santicchioni» che ostentavano estasi, catalessi, isterie e varie forme di corea per farsi credere ispirati dal fuoco, eccitare la compassione pubblica e ricevere offerte.

    Vecchia raffigurazione di un “sanpaolaro”

    San Giuseppe e sanpaolari

    I sanpaolari o ceravulari avevano cassette di legno dentro cui mettevano vipere, scorpioni e tarantole e, per destare meraviglia tra gli spettatori, appendevano al collo serpenti e si facevano mordere. Alberti scriveva che trattavano le vipere come fossero uccelletti domestici e, per meglio colorire le proprie bugie, affermavano di essere immuni dal veleno perché appartenevano alla «casa di san Paolo» o «per invocationi di diavoli». Dioscoride sosteneva che i «sanpaolari» fossero degli ingannatori perché prendevano le aspidi con le mani dopo averle fatto addentare pezzi di carne. Vendevano unguenti simili alla teriaca dei medici, facendo credere alla gente ignorante che, spargendoli sul corpo, avrebbero allontanato qualsiasi malore e bestia velenosa.

    Mercuri li accusava di essere vagabondi, ubriaconi e puttanieri che rifilavano al volgo farmaci giurando sulla loro efficacia: ciarlatani, buffoni e istrioni raccontavano di avere avuto le ricette segrete dal re di Danimarca e dal principe di Transilvania e il popolo credulone sperperava il denaro acquistando polveri, radici, olii, unguenti, pomate, liquori e sciroppi. Frianoro li catalogava nella categoria dei vagabondi e dei ciurmatori: dicevano di discendere da San Paolo nonostante l’apostolo non avesse mai avuto figli e maneggiavano le vipere a cui era stato tolto il veleno tra lo stupore della plebe ignorante; vendendo pietre miracolose, lamine di metallo, pozioni magiche e cantilene per incantare le serpi raccoglievano danaro senza sottoporsi a nessuna fatica.

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    Antica stampa in cui è raffigurata la Fiera di San Giuseppe

    La Fiera di San Giuseppe e le altre

    Le fiere cosentine più importanti erano quella di San Giuseppe che si teneva il 19 marzo in piazza san Gaetano, quella dell’Annunciata il 25 marzo nel largo San Domenico e quella di San Francesco nei primi due giorni di aprile presso il piano davanti la chiesa. Nella fiera di San Giuseppe si vendevano piante e alberi da frutto, attrezzi agricoli, pentole di rame, vasellame, cordami, cuoio, sapone, lino, lana grezza, biancheria e altri generi. Tra i banchi dei mercanti che provenivano da terre lontane era possibile acquistare anche caffè, the, cioccolata, zucchero, spezie, torroni, confetti, biscotti, liquori, sale, riso e pasta («canaroncini», vermicelli, «maccarroncini», «maccaroni» e «tegliatelle»). Si smerciavano anche ottimi salumi e latticini. Particolarmente diffuse erano le scamozze o scamorze, dalla voce spagnola escamochos, rimasugli di formaggio destinato a fare le pezze grosse di caciocavallo.

    Caciocavalli protagonisti delle fiere calabresi

    I casecavalli

    I casecavalli figuravano tra gli alimenti più richiesti e i mercanti delle varie regioni per venderli dovevano pagare una tassa. I caciocavalli freschi erano squisiti ma quasi tutti si stagionavano e, duri e asciutti, avevano un sapore piccante come il pecorino.
    Kashkaval, kashkavat o qasqawal, caci di latte bovino a pasta filata erano prodotti in numerosi centri della provincia e, nel XIV secolo, tra i formaggi preferiti dagli Ebrei della città. Versato in una tinozza di legno, il latte tiepido di vacca si quagliava con presame di capretto affumicato messo in un pezzo di tela e si sbatteva fortemente con una spatola di legno in modo da separare il cacio dal siero. Il formaggio che iniziava a galleggiare si metteva in una tinozza, si versava acqua bollente e si manipolava a lungo con le mani sino a dare la forma di una pera o di un globo con la testa.

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    Le tradizionali forme di caciocavallo della Fiera di San Giuseppe a Cosenza

    Il balocco dei bambini di Cosenza

    I casecavalli, appesi alle travi con una cordicella, erano soprannominati i “caci degli impiccati” ma, secondo l’opinione diffusa, prendevano tale nome perché, stagionavano a coppie appesi “a cavallo” di un bastone.
    Ogni produttore dava al caciocavallo forme diverse e il generale francese Griois, in Calabria durante l’occupazione napoleonica, descriveva un formaggio allungato chiamato per la forma «cazzo di cavallo». Con la pasta dei caciocavalli si realizzavano i casocavallucci, opere artistiche destinate al «balocco dei bambini», acquistati soprattutto dalle famiglie agiate: da qui il detto metterse ‘ncasocavallucce, cioè avanzare nella condizione sociale; per il popolino casocavalluccio significava anche capitombolo, poiché i latticini a forma di cavallo mal si reggevano in piedi.

    La Fiera di San Giuseppe nel 2010, un videoreportage di Gianfranco Donadio
  • Poteri contro: Gullo, Pilotti e il caso che mise fine all’indipendenza della giustizia

    Poteri contro: Gullo, Pilotti e il caso che mise fine all’indipendenza della giustizia

    Fausto Gullo, a buon diritto annoverato tra i compianti “politici-di-una-volta”, nel 1944 era tra i sostenitori della svolta di Salerno. Aveva aderito alla linea del suo leader, Palmiro Togliatti, ed era poi entrato nel secondo governo Badoglio come ministro dell’Agricoltura, carica mantenuta anche nei successivi. Con il De Gasperi II, cioè il primo governo repubblicano, il comunista Gullo è invece passato al Ministero di Grazia e Giustizia. La Dc aveva spinto affinché lasciasse il posto ad Antonio Segni, futuro capo dello Stato su cui, in quel frangente, i conservatori puntavano per frenare l’approccio che il cosentino (ma nato a Catanzaro) passato alla storia come “il ministro dei contadini” aveva impresso al settore agrario.

    Sergio Rizzo e lo scontro tra Gullo e Pilotti

    Tra l’esordio di Gullo nel governo di unità nazionale e la sua nomina a Guardasigilli sono passati appena due anni. Ma, si sa, a precedere l’alba della Repubblica era stata una notte lunga e tempestosa. Che aveva reso quei tempi forieri di straordinarie mutazioni istituzionali e politiche. È in questa fase che un interessante libro appena uscito colloca una vicenda cruciale nella storia della magistratura italiana: il caso Pilotti, assurto a simbolo dell’eterno dibattito sull’indipendenza del potere giudiziario da quello politico.

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    Il giornalista Sergio Rizzo

    Il libro si chiama Potere assoluto – I cento magistrati che comandano in Italia (Solferino) ed è l’ultima fatica di Sergio Rizzo, già firma del Corriere della Sera, oggi vicedirettore di Repubblica e autore di bestseller come La casta, scritto con Gian Antonio Stella nel 2007. Il caso in questione, illuminante rispetto alle odierne questioni che (referendum e anniversari di Tangentopoli compresi) investono il sistema Giustizia, riguarda la carriera di Massimo Pilotti, uno che era già magistrato a 22 anni (nel 1901) e che nel 1933 ottiene la nomina a segretario generale aggiunto della Società delle Nazioni.

    Pilotti l’epuratore

    Un giurista di fama internazionale, insomma, che dopo l’invasione della Jugoslavia fu anche presidente della Corte suprema di Lubiana. E una volta rientrato in Italia diventa procuratore generale della Cassazione (1944). Il governo Bonomi lo mise pure a presiedere le commissioni di epurazione del ministero degli Esteri, del Consiglio di Stato, della Corte dei conti e dell’Avvocatura dello Stato. Incarico, quest’ultimo, da cui si dimise dopo che la stampa lo accusò di aver tramato con i funzionari sottoposti a epurazione per ridimensionare le accuse a loro carico. Il governo Parri lo confermò, nonostante la contrarietà di Togliatti (all’epoca ministro della Giustizia), negli altri ruoli.

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    Ritratto di Massimo Pilotti (dal sito della Procura generale di Cassazione)

    Schiaffo alla Repubblica

    Il vero scandalo però viene fuori quando il Guardasigilli è Gullo. È in corso l’inaugurazione dell’anno giudiziario del 1947, sono trascorsi appena 6 mesi dal referendum del 2 giugno. In platea per l’occasione siede il primo presidente della neonata Repubblica, Enrico De Nicola. «Il procuratore generale della Cassazione – ricostruisce Rizzo – prende la parola, e nel discorso che apre l’anno giudiziario non gli rivolge il saluto istituzionale. Fatto che già sarebbe grave. Ma Pilotti ignora perfino la nascita della Repubblica». Gravissimo. Si dice che Pilotti sia monarchico, una sorta di Quinta colonna dei fedeli al re nella magistratura, che avrebbe anche spinto sul riconteggio dei voti – in quei giorni non mancano gli scontri di piazza – per mettersi di traverso rispetto alla proclamazione della Repubblica.

    Un Gullo diverso

    Il nuovo ministro ha bene in mente il giudizio sprezzante del suo predecessore nei confronti di Pilotti, che Togliatti definì l’uomo «di fiducia del Governo fascista al momento della conquista dell’Etiopia». Così lo sgarbo a De Nicola diventa un’occasione per fare le scarpe all’alto magistrato. Gullo è certamente un uomo diverso rispetto agli anni della clandestinità, quando da giovane politico-avvocato, nonché fondatore di giornali come Calabria proletaria e L’Operaio, veniva schedato, sorvegliato, arrestato e mandato al confino in Sardegna. Non è nemmeno più lo stesso a cui nel novembre del 1943, dopo la rivolta cosentina contro la permanenza in cariche istituzionali di persone coinvolte con il Fascismo, veniva preferito Pietro Mancini come prefetto.

    Soprattutto, Gullo non è più quello della svolta di Salerno, in nome della quale i partiti antifascisti avevano accantonato la questione monarchica per favorire l’unità nazionale. Ora i conti si possono regolare. Così il Guardasigilli scrive al Consiglio superiore della magistratura, all’epoca dipendente dal suo Ministero, annunciando l’intenzione di rimuovere Pilotti. L’epuratore, dunque, sta per essere epurato. Prova a difendersi, ma Gullo è irremovibile: Pilotti perde il posto da pg. Ma uno così non non finisce certo in rovina. Lo piazzano alla Presidenza del Tribunale delle Acque e per l’occasione elevano la carica a pari grado di procuratore generale.

    Giustizia e politica: due scuole di pensiero

    Anche la pensione non gli va malaccio: da collocato a riposo, nel 1949 Pilotti diventa arbitro italiano alla Corte permanente di arbitrato dell’Aja e, nel 1952, presidente della Corte di giustizia della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Nel togliere a Pilotti la poltrona di pg, secondo Rizzo, Gullo avrebbe incontrato ben altre resistenze se la vicenda non si fosse incrociata con quella dell’Assemblea costituente. Che proprio nei giorni dello sgarbo a De Nicola discute degli articoli sul rapporto tra giustizia e politica.
    Si scontrano due scuole di pensiero. Da una parte quella che rappresenta anche il futuro presidente della Repubblica Giovanni Leone: propone che i pm dipendano dal governo e che a guidare il Csm sia il capo dello Stato. Dall’altra chi sostiene l’indipendenza assoluta dei magistrati dal potere politico.

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    La Corte di giustizia della Ceca. Al centro, Massimo Pilotti (1952, dal sito della Corte di giustizia europea)

    Le parole di Calamandrei sullo scontro tra Gullo e Pilotti

    Tra questi c’è Piero Calamandrei. Ma, dopo il caso Pilotti, la sua linea perde consistenza e nell’Assemblea si finisce per mediare tra le due posizioni. «In realtà chi ha impedito all’autogoverno della magistratura di affermarsi in pieno nel nostro progetto – attacca Calamandrei alla Costituente – non sono stati tanto gli argomenti dei colleghi sostenitori della opinione contraria, quanto è stato Sua Eccellenza il procuratore generale Pilotti».

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    Piero Calamandrei

    Lo sgarbo, secondo Calamandrei, l’alto magistrato lo ha fatto «non al presidente della Repubblica, ma proprio alla magistratura: e la magistratura deve ringraziar proprio lui, il procuratore generale Pilotti, della ostilità con cui è stata accolta nel progetto della Costituzione l’idea dell’autogoverno: proprio lui, col suo gesto, è riuscito a impedire che la magistratura possa aver fin da ora quella assoluta indipendenza di cui la grandissima maggioranza dei magistrati, esclusi alcuni pochi Pilotti, sono degni». Qualche giorno dopo il discorso di Calamandrei, Gullo rimuove Pilotti. E, secondo Rizzo, l’idea «dell’indipendenza cristallina della magistratura tramonta con la sua defenestrazione».

  • Pulcinella belli e brutti sulle alture del Pollino

    Pulcinella belli e brutti sulle alture del Pollino

    Rappresentato come un omaccione di paglia vestito in maniera goffa e bizzarra, Carnevale era sistemato su un carretto trainato da un mulo per le vie del paese. Lo seguiva una folla di gente che fingeva di piangere fino in piazza, dove il fantoccio era bruciato. Nelle rappresentazioni teatrali, moribondo per colpa del troppo cibo, rosso in viso e con una pancia grossa, Carnevale faceva testamento con la disperazione della moglie Quaresima.

    Carnevale, tuttavia, non si mostrava pentito degli stravizi alimentari e chiedeva di essere sepolto tra salsicce, soppressate, prosciutti e maccheroni. Rappresentava la fame delle classi subalterne che, dopo aver mangiato durante l’anno minestre e legumi, potevano finalmente sfamarsi di carne. Miegliu mora saziu ca campare dijunu, a trippa è nna rizza: chiù ci minti, chiù ci cape e chini dijuna due mali fa: l’anima perda e aru ‘nfiernu sinni va: durante la ricorrenza si mangiava carne e si beveva vino in quantità. Ma a quei giorni licenziosi e abbondanti sarebbe seguita la Quaresima, lungo periodo di astinenza e prolungati digiuni.

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    Zampogne e maschere nel Carnevale di Alessandria del Carretto (foto Paolo Napoli)

    Il Carnevale di Alesandria del Carretto

    Nei giorni di Carnevale ad Alessandria del Carretto si celebrava invece la festa dei Pulcinella belli e brutti. Accanto al corpo apollineo dei Belli, espressione di eleganza e apparenza, vi è il corpo dionisiaco dei Brutti, espressione di materialità e istinto. I Brutti, dall’aspetto grottesco e terrificante, camminando curvi come fossero storpi, scatenano scompiglio e paura; i Belli, dall’aspetto seducente ed enigmatico, danzano con grazia e si avvicinano alla gente con fare gentile.

    I Belli del Martedì grasso

    Il Martedì grasso, assistiti da familiari e amici, i Belli indossano pantaloni «millerighi» infilati in ghette di cuoio, scarponi scuri, guanti neri, cravatta e camicia bianca su cui appuntano fazzoletti da taschino e da borsetta; coprono le spalle con pregiati scialli colorati che durante la danza, allargando le braccia appaiono come due grandi ali d’uccello; uno scialle viene fissato a mo’ di grembiule mentre altri, più leggeri e piccoli, vengono fermati sul petto in modo da scendere sulle cosce. I giovani coprono il viso con una maschera di legno tenuta per mezzo di legacci e sulla testa pongono un ingombrante copricapo, detto cappellett, ornato con fiori di stoffa, penne di gallo sgargianti e nastri colorati che cadono lungo le spalle; al centro del copricapo è fissato uno specchio da cui penzola una collana di perle e dietro la schiena, all’altezza della vita, è legato un grosso campanaccio.

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    I belli, maschere dall’aspetto seducente ed enigmatico (foto Paolo Napoli)

    Tra i vicoli del paese con i policinel

    Ultimata la vestizione, i policinel escono furtivamente di casa per riunirsi con le altre maschere e con u gegand, il più alto di tutti. In gruppo vanno a prendere a zit, la sposa, con il volto coperto da un foulard e vestita con abito cerimoniale. Le maschere girano per i vicoli del paese piroettando in cerchio al suono degli strumenti per arrivare nella piazza centrale dove a turno danzano con la sposa. Di tanto in tanto un policinel si stacca dal gruppo e, continuando a danzare, sfiora con lo scriazz, bastone di legno da cui pendono pon pon di lana, il seno delle donne e i genitali degli uomini.

    Sul calar del sole giungono i Policinel layed. Vestiti con stracci e vecchi abiti, hanno il viso coperto da fuliggine, si muovono disordinatamente, buttano cenere sulle persone, si avvicinano alle ragazze con gesti sconci, fanno scherzi di ogni genere e parlano camuffando la voce per non farsi riconoscere. All’arrivo dei Layed, i Biell lasciano la piazza e attraversano i vicoli della parte bassa del paese, sino ad arrivare alla zona detta Timbonerie. Da qui, dopo aver tolto la maschera lignea, si recano per mangiare e bere nelle case di parenti e amici.

    Dove la neve arriva fino ai tetti delle case

    Alessandria del Carretto è un piccolo paese di montagna situato alle pendici del Pollino, accessibile in passato solo a piedi o con asini e muli. Nei mesi invernali, quando calavano le tenebre, il villaggio era avvolto da un silenzio inquietante. Un manoscritto del XVII secolo ci informa che gli abitanti «pativano estremamente, e cioè di gran freddo per li grandi jacci» e la neve spesso «giungeva a ricoprire le porte e finestre delle abitazioni ed arrivare a passare li tetti». Gli Alessandrini desideravano che il cupo inverno andasse via al più presto e aspettavano con ansia febbraio, mese in cui veniva «febbre alla terra» e ai primi tiepidi raggi di sole tutto cominciava a fremere e rianimarsi.

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    Il corteo delle maschere tra le strade di Alessandria del Carretto (foto Paolo Napoli)

    Nietzsche ad Alessandria del Carretto

    La messa in scena dei Belli e dei Brutti può essere considerata, come scrive Nietzsche, il primo richiamo dionisiaco che ribolle dal folto di un cespuglio al risveglio della primavera. Era un rito di passaggio stagionale volto ad assicurare la rinascita della vegetazione; un cerimoniale di buon augurio per il nuovo ciclo dell’anno; un espediente per superare sul piano simbolico le frustrazioni accumulate durante i mesi freddi.

    La ritualità si celebrava per propiziare fertilità, espellere il male e rigenerare il mondo. Il calpestio dei piedi e il suono di campanacci, ciaramelle, tamburelli e organetti destavano la terra dal sonno dell’inverno; la danza delle maschere incessante ed estenuante solennizzava l’evento del risveglio; la ricchezza del costume e il copricapo ricco di fiori e nastri colorati erano un inno alla primavera; la presenza della sposa stimolava le forze creatrici e riproduttrici della natura; lo scriazz era simbolo di potere e organo di rigenerazione; lo specchio sul copricapo rifletteva la luce e accecava agli spiriti maligni.

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    I brutti, il lato grottesco del Carnevale di Alessandria del Carretto (foto Paolo Napoli)

    Nessun ribaltamento del potere

    Costretti a stare per lungo tempo chiusi nelle case a causa dell’inverno rigido e buio, gli abitanti a Carnevale avevano finalmente la possibilità di stare all’aperto, evadere dalla dura vita quotidiana e vivere il tempo della festa. La messa in scena dei Belli e Brutti è indenne dalla retorica dei sentimenti e dell’impegno sociale. Non si propone di risolvere conflitti morali o suggerire modelli comportamentali. Le maschere non sono preoccupate di dare un senso a ciò che fanno e gli spettatori non ne cercano il significato.

    Il fine della rappresentazione teatrale dei Pulcinella è quella di ricreare un’atmosfera di gioia e paura che popola i sogni degli uomini, offrire sensazioni d’illusione e incantesimo, dare spazio a quell’irrazionale che abita nelle profondità dell’anima, trasportare uomini e donne in un universo ignoto alla ragione. I Brutti operano una mortificazione del corpo in senso grottesco. Non hanno cura dell’estetica, vestono colori scuri, tingono il volto di fuliggine, gettano cenere sulla gente, ballano senza grazia e si abbandonano a parole scurrili. I Belli, al contrario, accompagnati dalla musica danzano con eleganti movimenti che sembrano evocare presenza e assenza, avvicinamento e allontanamento, movenze che ricordano quelle dei fieri galli.

    Apollineo e dionisiaco sul Pollino

    La rappresentazione dei Policinel, erede di antiche consuetudini, ha perso probabilmente i caratteri trasgressivi. Ma ancora oggi, sospendendo il corso lineare del tempo quotidiano, segna l’irrompere del tempo festivo e stabilisce una tregua nella quale ogni violazione è lecita. Entrando nello spazio e nel tempo provvisorio del Carnevale, i giovani vivono una corporeità apollinea e dionisiaca: da una parte arte, solarità, sogno e magnificenza dei Belli, dall’altra istinto orgiastico, materialità, buio e goffaggine dei Brutti.

    Il teatro dei Policinel è quello della fiaba, della magia e del fantastico, una messa in scena che racconta la storia del male e del bene: il primo è rappresentato da creature ctonie, rappresentanti del buio e dell’inverno, il secondo da creature solari, simboleggianti la luce e la primavera. Nella rappresentazione non è tuttavia prevista una risoluzione del conflitto, Belli e Brutti non vengono a contatto, sembrano ignorarsi ma sono profondamenti legati. Apollo e Dioniso non si pongono come antitesi, ma come doppio. L’uno non è il contrario dell’altro, ma l’altro volto: caos e ordine si danno convegno senza annullarsi, la bellezza apollinea e la sfrenatezza dionisiaca stanno l’una accanto all’altra.

  • Sirene, mostri e meraviglie nella Calabria dei grandi viaggiatori

    Sirene, mostri e meraviglie nella Calabria dei grandi viaggiatori

    Uno dei motivi che spingeva i viaggiatori a visitare la Calabria era la sua natura meravigliosa. Molti religiosi provenienti dalle regioni del Mediterraneo e dell’Europa si rifugiarono nelle grotte lungo le coste o sulle montagne per vivere in eremitaggio. Nel silenzio delle foreste si avvertiva più intensamente che altrove la presenza del numinoso, la natura sconvolgente avvicinava gli uomini al Padre Eterno, creatore di quel mondo incantevole; la serenità del paesaggio e la dolcezza del clima erano ideali per arricchire la mente e lo spirito.

    Dove la natura regnava incontrastata si dimenticavano vanità e orgoglio e si aveva la possibilità di ritrovare i valori autentici dell’uomo persi nel caos della civiltà. Brandon-Albini osservava che in Calabria, lontano dalle brutali e rumorose grandi città, l’uomo poteva togliersi la «scorza» utilitaristica e meschina che sembrava rivestire il cittadino del XX secolo.

    Strabone e Sybaris

    Strabone scriveva che l’ecista Is di Elice non dovette avere molti dubbi nello scegliere Sibari come luogo dove costruire la città: in una manciata di chilometri erano concentrati mare, fiumi, pianura, colline e montagne. Il territorio era attraversato da due grandi fiumi che avrebbero rifornito d’acqua la città e irrigato i campi; le colline e la vasta pianura avrebbero dato grano, olio, vino, ortaggi e frutta in abbondanza; le montagne vasti prati per i pascoli, selvaggina di ogni specie, pece e legname pregiato per la flotta, costruzioni e riscaldamento. Il mare dove sfociavano i due fiumi, navigabili vicino alla foce, avrebbe favorito la pesca e i commerci con i popoli del Mediterraneo.

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    Gli scavi allagati dell’antica Sybaris

    Dio fece la Calabria

    Per De Custine la natura in Calabria era ancora quella creata da Dio: La natura in queste regioni è armoniosa e solenne come la musica sacra! Le forme regolari delle montagne, la luce, i suoni, le lunghe linee delle coste delineate dalle onde, la grandezza e il colore delle pianure che, da lontano, sembrano la continuazione del mare, tutto quest’insieme così diverso, e dove si riconosce il pensiero di un solo artefice, mi causa un piacere simile all’ascolto di una grande sinfonia. L’orchestra è così perfetta che si crede di udire un solo strumento! Un’idea unica espressa con una diversità infinita: questo è il sublime, il capolavoro del Creatore e delle creature ispirate da lui».

    Alla ricerca del vascello di Ulisse

    Una volta giunti nella regione, molti viaggiatori si dichiaravano rapiti e sopraffatti dall’emozione di fronte alla rara bellezza dell’ambiente. Quella regione aveva una natura insieme dolce e pittoresca, inquietante e tempestosa. Wey, contemplando lo scenario di Palmi, confessava che quel posto magico ispirava al pensiero di Dio e degli dei, all’Oriente cristiano e alla Grecia classica. Il viandante scrutava le acque alla ricerca della scia del vascello di Ulisse e della nave di Giasone; ascoltava il fruscio del vento che spirava dalle Eolie, ed era come se sentisse il rumore del martello di Vulcano che forgiava nelle sue fornaci le armi del figlio di Anchise. Palustre de Montifaut, guardando il paesaggio di Bagnara, annotava che ogni genere di splendore si trovava riunito in quel punto del globo, sembrava che la natura avesse voluto, con uno sforzo supremo, dare spettacolo di tutto ciò che era capace di produrre.

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    Una vecchia stampa di Bagnara Calabra

    Da Palmi a Bagnara

    E De Custine scriveva: Non credo che esistano al mondo dei luoghi più belli di questa parte delle coste della Calabria. Quando dall’alto della montagna che le separa da Palmi e si procede verso il mare, si scorge Bagnara, la sua posizione e le rocce che la circondano sembrano talmente straordinarie che appena non le vedo più mi riesce impossibile rappresentarmele. Tutto profuma di erbe aromatiche ed è ornato di festoni di liane pittoresche simili a cascate di fiori. Questi grandiosi anfiteatri si innalzano a delle altezze spaventose e niente è più provocante tra il contrasto del lavoro dell’uomo e l’irregolarità di una natura sempre selvaggia, la cui bizzarria è addolcita da una certa armonia che io ho trovato solo nei paesaggi italiani.

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    Il viaggiatore francese De Custine restò senza fiato dinnanzi alle bellezze di Palmi

    Lusso selvaggio e primitivo

    Le forme e le luci di questi luoghi sfarzosi sono, in verità, delle “invenzioni” della natura. Sembra che essa non voglia permettere all’uomo di abbellire la terra senza intervenire essa stessa. Perciò, si affretta a mascherare le proprie opere d’arte sotto un lusso selvaggio e primitivo. Sembra che in questa terra la natura, indignata dalle conquiste dell’uomo, si burli della civilizzazione non opponendogli degli invincibili ostacoli, come sulle Alpi, ma abbellendola come nella pittura! Tutto ciò che dico è incompleto o monotono: bisognerebbe vedere il trionfo della luce sul mare i cui riflessi mutano ad ogni istante, come quelli di una lama di metallo esposta ai raggi del sole; bisognerebbe udire il mormorio del vento tra gli alberi.

    Come appariva il fiume Crati agli occhi dei viaggiatori francesi

    Anche le zone interne erano affascinanti e incantevoli. Saint-Non, pur vedendo intorno miseria e desolazione, scriveva che la Calabria appariva come una terra promessa vista dal deserto, un’immagine dell’età dell’oro e del paradiso terrestre. C’erano foreste come frutteti e frutteti come foreste e tutto ciò che negli altri paesi avrebbe richiesto dispendio di risorse per abbellire i giardini, in quella terra cresceva naturalmente e con un’armonia sorprendente.

    I giardini di Corigliano e dell’Esaro

    I giardini di Corigliano sembravano simili a quello delle Esperidi, tanto gradevoli quanto utili, tanto abbondanti di frutti quanto suggestivi. In quelle terre si raccoglievano grano e uva in quantità, c’erano pascoli grassi e fertili, si pescavano pesci in abbondanza e si potevano raccogliere i frutti più deliziosi al mondo.

    Corigliano calabro in un’antica stampa francese

    Lenormant, osservando la vegetazione lungo le sponde dell’Esaro, osservava che in quel posto incantato era possibile ritrovare tutti i miti della cultura greca: «Ammiro l’incomparabile rigoglio e la fecondità della vegetazione nei giardini dell’Esaro. Vi sono terreni che sarebbero un vero paradiso terrestre, se la febbre non venisse a screditarli, rendendoli inabitabili durante un gran tratto dell’anno. Nella stagione in cui vi si può passeggiare senza timore e godere liberamente la delizia della loro fresca verdura, questo sito è davvero incantevole, e si darebbe volentieri per quadro ad un idillio. È proprio nei boschetti di tal genere che la poesia greca si compiaceva di descrivere i trastulli delle Ninfe; è proprio in mezzo ai canneti, come quelli che fiancheggiano il fiume, che essa le faceva spiare nel bagno dai Sàtiri.

    Questi canneti, in cui mormora il vento, sembrano scendere in linea retta da quelli che produsse la metamorfosi della ninfa Syrinx, stretta da presso dal dio Pane, che la perseguitava amorosamente; questi allori dal tronco slanciato, si crederebbe volentieri che abbiano avviluppato con le loro cortecce il bel corpo di Dafne, allo scopo di sottrarla agli amplessi di Apollo; queste viti che si arrampicano ai rami degli alberi giganteschi e fanno ricadere intorno ad essi mollemente i loro festoni, rappresentano Erigone, la disperata amante di Dioniso, il corpo della quale si culla in balìa dei venti dopo il suicidio; i vortici fangosi del fiume sono pronti ad inghiottire ancora una volta il bel cacciatore Aisaros, se mai si avventuri imprudentemente nelle sue acque. Qui, come in Grecia, l’aria che si respira è quasi impregnata di mitologia».

    L’antica Stilo

    Mostri e vulcani

    La natura della Calabria attirava i viaggiatori anche per i suoi aspetti mostruosi e terrificanti. Quella terra nascondeva dentro le sue viscere mostri non domati dagli dei che scuotevano il terreno e distruggevano tutto ciò che gli uomini avevano pazientemente costruito in centinaia di anni. De Tavel affermava che la Calabria, il cui suolo si agitava continuamente, riposava sul fuoco dell’inferno: a ogni scossa di terremoto vomitava sulla sua superficie una legione di demoni. Stolberg pensava che la regione fosse al centro del fuoco sotterraneo del Mediterraneo, il cui alito spirava attraverso il Vesuvio, lo Stromboli e l’Etna. La Calabria era come una donna in fiore, ma aveva nel cuore un gigante le cui convulsioni scuotevano spesso la terra! La sua nascita era stata annunciata con violenza dalle doglie della partoriente e queste doglie sconvolgevano la terra da polo a polo!

    Lo Stretto e le sue leggende

    Il mare dello Stretto era ricco di storie mitiche che narravano di mostri spaventosi, sirene mangiatrici di uomini e fate incantatrici. Non bastavano i devastanti maremoti, le impetuose correnti e le trombe marine a rendere quella zona inquietante e misteriosa. Lo Stretto era uno spazio naturale e insieme soprannaturale, un luogo magico dove avvenivano metamorfosi, incantesimi e prodigi in contrasto con le leggi della natura. Da quando Poseidone aveva separato, con un colpo di tridente, la Sicilia dalla Calabria, sulle opposte rive si erano insediati esseri mostruosi.

    C’erano le sirene, che se ne stavano sulla spuma delle onde, sulle spiagge deserte e sulle rocce: belle e perfide donne con la coda di pesce, le chiome d’oro o di colore verde come lo smeraldo, con la loro voce melodiosa ammaliavano marinai e pescatori che, non potendo resistere al fascino della loro bellezza e del loro canto, sbarcavano sulle spiagge, dove venivano fatti prigionieri o divorati. Sempre in quel tratto di mare dimorava la fata Morgana, che aveva il suo castello sotto le acque profonde e, soprattutto nei mesi estivi, si divertiva a fare apparire sulla superficie del mare e nell’aria spettacoli favolosi e immagini bizzarre.

    Nel tratto di mare di Reggio Calabria secondo la leggenda dimorava la Fata Morgana

    Il nome che più di tutti suscitava orrore nell’immaginario dei viaggiatori era quello di Scilla. Per de Custine non aveva senso arrivare in Calabria senza lasciarsi trasportare dalle onde dello Stretto dove aveva navigato la nave di Ulisse e senza vedere dal mare gli orridi scogli di Scilla. Quella rupe che si elevava maestosa all’imbocco dello Stretto, era un limite che separava la soglia dei mortali da quella degli immortali. Nell’infinità del cosmo occupava uno spazio separato e isolato, posto alle estremità del mondo, un punto fisso che orientava i viaggiatori e li metteva in relazione col soprannaturale.

    La natura della Calabria descritta dai viaggiatori è stata mortificata dai suoi abitanti. Già verso la fine dell’Ottocento Wey scriveva che il territorio di Monteleone, soprattutto dove si trovava il «Fondaco del Fico», era una zona infetta e miserabile. In passato, i poeti della Magna Grecia l’avevano celebrato la degna dimora degli dei: la figlia di Cerere vi coglieva il mirto e il melograno e danzava sui fiori e sulle spighe di grano. Da molto tempo quel territorio era preda del soffio velenoso della morte, germogliavano spine, rovi, e l’asfodelo consacrato agli abitanti della Stige. Concludeva dicendo che, se la natura aveva dato un clima salubre e dolce, l’incuria degli uomini e le rivoluzioni politiche, avevano creato delle cloache infette. Questa atmosfera condizionava la moralità degli abitanti e spiegava perché i figli di questa terra, da grandi, diventavano «infidi serpenti».

     

  • Garibaldipoli, la città fantasma tra la Locride e le Serre

    Garibaldipoli, la città fantasma tra la Locride e le Serre

    A Galatro, poco meno di 1.500 abitanti tra la Locride e le Serre, ci sono due potenti attrattori: innanzitutto le terme, costruite a fine ’800, e una fattoria modello, la Tenuta agricola Riario Sforza.
    Queste strutture sono ciò che resta di un progetto ambiziosissimo e mai realizzato. Si tratta di una città nuova di zecca, che avrebbe dovuto prendere il posto del borgo, dedicata nientemeno che all’eroe dei due mondi. Parliamo di Garibaldipoli, forse il primo progetto di rigenerazione urbana in Calabria, concepito da un personaggio singolare, Luigi De Negri, un ex garibaldino genovese trapiantato a Napoli.

    Un avventuriero per due continenti

    Su Luigi De Negri si sa poco. E quel poco che si sa lo si deve alle ricerche effettuate dallo storico Giuseppe Monsagrati, finite nel libro “Garibaldipoli e altre storie di terra e di mare” (Rubbettino 2021). Difficile dire, soprattutto, che età avesse De Negri quando, nel 1862, tentò la fortuna in Calabria meno di un anno dopo essere uscito di galera, dov’era finito per una maxitruffa a Napoli. E non si sa neppure che fine abbia fatto, dopo aver tentato di far fortuna in Africa, agli albori del colonialismo italiano.
    Che sia stato garibaldino e avesse partecipato alla spedizione dei Mille lo si apprende dai documenti del Generale. L’eroe dei due mondi in effetti ebbe con lui un rapporto particolare. In cui c’era di tutto, tranne la fiducia. E le sue idee strampalate, a volte geniali ma sempre irrealizzate, emergono dagli archivi giudiziari e ministeriali.

    Galatro-Garibaldopoli-Garibaldi-I-Calabresi
    Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi

    Una città ultramoderna a Galatro

    Nel 1861 Galatro aveva un problema singolare: lo spopolamento, iniziato addirittura in età borbonica e dovuto alla cattiva posizione del borgo, tutt’altro che salubre.
    Il paese, tra l’altro, era stato ricostruito a inizio ’800 su un’altura, dopo che il terremoto del 1783 aveva raso al suolo il sito originario. In altre parole, questa situazione era il risultato di una scelta fatta in situazione di grave emergenza, in cui i rischi erano ben altri che l’aria insalubre e l’umidità.
    Con tutta probabilità, l’idea di creare una nuova città e dedicarla a Garibaldi fu suggerita agli abitanti di Galatro proprio da De Negri, che quell’anno aveva appena chiuso una tipografia per inventarsi una fantomatica Società Promotrice per le Opere Pubbliche Comunali per l’Italia meridionale, con tanto di sede prestigiosa: il Palazzo Maddaloni di Napoli, proprietà del principe Tommaso Caracciolo.

    Proprio a Napoli, De Negri avrebbe frequentato un galatrese diventato famoso: Nicola Garigliano, un medico liberale, ferito durante i moti che precedettero l’arrivo dell’Eroe dei Due Mondi nella ex capitale dei Borbone. Vediamo meglio di cosa si trattava.

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    Garibaldi entra a Napoli con i suoi uomini

    Garibaldipoli

    Sembra strano trovare tanta modernità nell’Italia appena unita. Eppure, se fosse stata realizzata, Garibaldipoli sarebbe stata la prima città realizzata in project financing.
    Non solo: sarebbe stata anche la prima città costruita su un piano regolatore all’avanguardia: una pianta quadrata, divisa in quattro porzioni da due strade che si incrociano ad angolo retto. L’abitato, infine, sarebbe stato costituito da case di un solo piano, di uno o tre vani. Il nome di Garibaldi, in questo caso, serviva ad ungere le ruote dell’amministrazione provinciale e dei ministeri e ad attirare investitori. Già: perché oltre che dai desideri dei cittadini di Galatro e dalla megalomania di De Negri, il progetto non era supportato da niente.

    La città patacca

    Garibaldipoli si sarebbe dovuta realizzare su un’altura della Valle del Salice, tramite l’esproprio, finanziato dal Comune di Galatro, di vari appezzamenti di terreno agricolo già assegnati a vari privati.
    L’operazione non era leggerissima, avendo un costo iniziale di circa 10 milioni di euro odierni. Stesso discorso per la costruzione, che secondo il piano di De Negri, sarebbe stata finanziata in parte dagli stessi cittadini con l’acquisto preventivo delle case, in pratica una cooperativa edilizia. Più interessante è l’altra parte del finanziamento, che sarebbe dovuto derivare da azioni, dal valore di 200 euro odierni l’una, emesse direttamente dalla Società di De Negri, il quale praticamente non metteva uno spicciolo di suo, ma solo il nome di Garibaldi, con cui millantava rapporti di grande intimità.

    In cambio di tanto impegno, l’imprenditore si “accontentava” della concessione gratuita delle acque termali, che allora sgorgavano in una grotta nei pressi del paese. Per sfruttarle avrebbe costruito uno stabilimento, finanziato sempre con azioni, da collocare addirittura presso il mercato internazionale.
    E non finisce qui: il nome del Generale, inoltre, avrebbe dovuto garantire la costruzione di nuove strade che collegassero l’area di Galatro, praticamente isolata, alla vicina Polistena.

    Convocato da Garibaldi

    C’è da dire che il Nostro si diede da fare per davvero. Inondò di lettere Garibaldi, a cui chiese addirittura di mettere la sua residenza proprio nella futura città.
    Ma l’Eroe dei Due Mondi, ripresosi da poco dalle ferite riportate in Aspromonte, non solo non aderì all’iniziativa, che finì in niente, ma volle vederci chiaro e convocò De Negri a Caprera. Di questo incontro, che avvenne alla fine del 1863, non si sa molto, se non che, da allora in avanti, De Negri non si sarebbe più messo in bocca il nome del Generale.

    Truffe garibaldine

    Infatti, non era la prima volta che De Negri usava il nome di Garibaldi che era già un brand di suo. Già nel 1860, a conquista appena ultimata delle Due Sicilie, l’imprenditore ligure aveva inventato un Comitato per la spada d’onore a Garibaldi, con sedi a Napoli e Milano.
    Era la classica macchinetta mangiasoldi, escogitata assieme ad Alessandro Salvati un altro ex garibaldino avventuriero come lui, segno che chi si somiglia si piglia.
    Lo scopo di questo comitato, che faceva concorrenza ai ben più seri Comitati di provvedimento garibaldini, era la raccolta di fondi per finanziare le prossime imprese dell’Eroe. Tra cui una bizzarrissima e megalomane: una spedizione nei Balcani per liberare l’Ungheria dal giogo austriaco. Sembra strano, ma qualcuno la prese sul serio, col rischio di scatenare una crisi internazionale

    Intrigo internazionale

    In Italia c’era allora una comunità di esuli ungheresi, divisa da una forte rivalità interna tra due leader, entrambi militari. Erano Istvan Turr, comandante della Legione ungherese e uomo di fiducia di Garibaldi, e il generale Sandor Gall.

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    Istvan Turr, comandante della Legione ungherese e persona molto vicina a Garibaldi

    Gall si fece sedurre dall’idea dei due fondatori del Comitato della Spada: uno sbarco in Grecia, possibilmente guidato da Garibaldi (o comunque in suo nome), quindi la risalita in armi nei Balcani occidentali per dare una mazzata all’Impero d’Austria. E così il Comitato iniziò a reclutare volontari e, soprattutto, a raccogliere quattrini.
    Peccato solo che Cavour, impegnato a negoziare la pace, contrastò l’iniziativa, a cui Turr si era ferocemente opposto, e Garibaldi negò il suo consenso. Risultato: i Comitati di provvedimento denunciarono per malversazioni finanziarie Salvati e De Negri, che finirono in galera assieme a Gal.

    Il generale ungherese Sandor Gall

     

    Senza Garibaldi

    Nel 1870 De Negri si tolse dalla testa Garibaldi e si buttò in un altro settore: la pesca. Allo scopo, aveva comprato uno scoglio nella baia di Posillipo, l’isola di Gajola. Luogo su cui aveva costruito una villa che sarebbe dovuta diventare la sede di quest’impresa. Un’attività economica per l’epoca all’avanguardia: l’allevamento dei pesci e il loro sfruttamento razionale. Inutile dire che questa iniziativa si sarebbe dovuta finanziare, più o meno, come Garibaldipoli: attraverso la raccolta di fondi mediante le azioni della sua Società di Pescicoltura. Anche quest’impresa finì malissimo, sia perché i pescatori vi si opposero sia perché la bocciò l’illustre zoologo Achille Costa.

    L’isola di Gajola, che fu acquistata dall’avventuriero ed ex garibaldino Luigi De Negri

    Mal d’Africa

    De Negri tentò l’ultima avventura ad Assab, nei primi ’80 del 1800. Il porto eritreo era da poco colonia italiana perché l’armatore Rubattino l’aveva venduto al governo. Logico che attirasse gli appetiti di imprenditori, semplici lavoratori e di avventurieri. Altrettanto logico che uno come De Negri tentasse anche lì. Infatti, il Nostro ripropose l’idea della pescicoltura con un’aggiunta esotica in più. Purtroppo per lui, trovò sulla sua strada Costa, a cui il governo dell’epoca chiese una consulenza. Inutile dire che il progetto fu lasciato cadere. Da questo periodo in avanti non si hanno più notizie di questo personaggio, a dir poco singolare.

  • Sergio Pugliesi, la rivoluzione della liuteria si fa a Scilla

    Sergio Pugliesi, la rivoluzione della liuteria si fa a Scilla

    Uscire dal recinto obbligato delle tarantelle classiche. Allontanarsi dalle atmosfere ipnotiche della tradizione popolare calabrese. Sposare ritmi e melodie che non si vergognano ad abbracciare il jazz e il pop e virano su rotte che guardano senza timore al passato remoto (e a quello più prossimo) restando con i piedi nel presente. Un presente fatto di un nuovo interesse per uno degli strumenti principe della tradizione popolare: la chitarra battente. È il percorso di tradizione “in movimento” che è diventato il marchio di fabbrica di Sergio Pugliesi. Artista del legno per vocazione familiare e liutaio quasi per caso, con le sue Oliver si è ritagliato negli anni la fiducia di tanti musicisti in giro per il mondo.

    Autodidatta

    Il Dams nella Cosenza degli anni ’90, gli studi e le ricerche sugli strumenti della tradizione, il laboratorio di falegnameria che era stato di suo padre e di suo nonno prima di lui: gli elementi c’erano tutti. Il detonatore lo fa la passione per la musica. L’innesco, la voglia di costruirsi, da autodidatta, un basso elettrico. «Sì, ma alla fine il risultato non fu eccelso. Avevo già fatto delle cose con il legno – racconta Puglisi appoggiato al banco da lavoro del piccolo laboratorio sul lungomare di Scilla, a due passi dallo Stretto – se vieni da una famiglia come la mia, dove tutti avevano in qualche modo a che fare con il legno, è inevitabile. Ma non avevo nessuna esperienza e non suonava bene».

    Da quel primo tentativo – che ricorda da vicino il modello suonato da Les Claypool dei Primus e che ora osserva dall’alto del soffitto la creazione dei nuovi strumenti – molte cose sono cambiate. Le prime riparazioni agli strumenti dei musicisti locali, le prime creazioni originali sul solco della tradizione, l’intuizione di trasformare passione e talento in un lavoro vero e proprio.

    Animo rock

    L’approccio di Sergio Pugliesi al mondo della tradizione popolare è quindi influenzato dalla contemporaneità – «ai tempi dell’università con un mio professore avevamo fondato il nucleo combattente contro la tarantella», racconta sorridendo – che consente all’artigiano di sforare i dogmi dei «talebani della tradizione» ritagliando alla chitarra battente, strumento divenuto ormai cavallo di battaglia della sua produzione, un nuovo ruolo nel panorama musicale contemporaneo, per uno strumento camaleontico, capace di sposare la musica colta da cui nasce, e quella popolare da cui è stato adottato.

    Un pezzo alla volta

    L’ebano o il palissandro per la tastiera, il mogano per il manico e la sequoia centenaria e il tiglio per la cassa armonica. E poi il pero, il gelso e l’ulivo, in una ricerca continua di materiali e tecniche che seguono la tradizione anche nell’utilizzo delle ricchezze del territorio. Ma anche la fibra di carbonio come rinforzo al manico, e l’acciaio inox per i tasti. E ancora colle e solventi di origine naturale. Tutti elementi essenziali che entrano nel processo creativo di Sergio Pugliesi che realizza a mano ogni suo lavoro.

    Un percorso solitario e che va incontro alle esigenze di chi si è messo in fila per ottenere una battente Oliver. «Istruire un aiutante sospenderebbe di fatto la produzione. Questo è un lavoro di estrema precisione, non ho davvero tempo per insegnarlo a qualcuno. Forse un giorno, se qualcuno dei miei figli dimostrerà interesse…».

    Lunghe attese per le chitarre Oliver

    Ci vogliono infatti diversi mesi di lavoro per realizzare ogni pezzo e la lista d’attesa per ordinare l’agognato strumento può arrivare anche a sfiorare un anno. I prezzi variano da strumento a strumento – oltre alle chitarre, il laboratorio sforna anche lire calabresi e altri strumenti della tradizione che si affiancano a chitarre e bassi elettrici.

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    Sergio Pugliesi e il basso rivestito di peluche realizzato per sua figlia (foto Vincenzo Imperitura)- I Calabresi

    «Quello nero ricoperto con il peluche l’ho fatto per mia figlia che sta imparando a suonare». Per una battente si arriva a pagare anche 2.500 euro, un prezzo che non ha scoraggiato decine di musicisti in giro per il pianeta. Che si sono messi in fila, in questo piccolo laboratorio affacciato sul mare, per poter utilizzare l’arte di questo artigiano calabrese: la battente sul tavolo da lavoro aspetta gli ultimi ritocchi prima di approdare in Cile.

    I sogni nella capsula del tempo

    All’orizzonte, frontiere ancora più sfacciate rispetto all’intoccabile mondo della tradizione calabrese. «Sto pensando a una battente elettrica, ma non mi invento niente, Pino Daniele la usava già negli anni ‘80». E, soprattutto, l’idea di fissare nel tempo la “paternità” degli artisti che suoneranno le battenti di Scilla in giro per il mondo. «Il processo di creazione di ogni battente si alimenta del confronto continuo con il musicista che l’ha ordinata e che la vuole realizzata secondo le proprie indicazioni».

    Francesco Loccisano, compositore e docente della prima classe di chitarra battente in Italia al Conservatorio Tchaikovsky, con una delle creazioni di Sergio Pugliesi

    «Chiederò a ogni musicista con cui lavorerò di scrivere una lettera che descriva il suo carattere, le sue motivazioni, i suoi sogni e la inserirò all’interno della cassa. Sto già lavorando al tipo di colla migliore da utilizzare per fissarla. Ogni chitarra battente diventerà una piccola capsula del tempo che porterà al suo interno la storia del suo possessore originale». Per uno strumento che nella tradizione popolare è costruito con materiali di fortuna – e che, di norma, non è destinato a durare nel tempo – è un’altra piccola rivoluzione targata Sergio Pugliesi.

  • Il drago in letargo sotto la sabbia a due passi dalla 106

    Il drago in letargo sotto la sabbia a due passi dalla 106

    La Storia incrocia la Statale 106 a Kaulon, oggi Monasterace. «Il Mosaico del Drago compie 10 anni – sostiene Francesco Cuteri, archeologo e professore all’Accademia dei Beni culturali di Catanzaro – e mi auguro che, per ricordare questo simbolo del sito di Kaulon, quest’estate ci sia una serie di eventi specifica e articolata per far conoscere la sua storia. È un luogo che ha bisogno di cura e attenzioni e con una protezione sarà sicuramente al riparo dal maltempo».
    Era il settembre 2012 quando a Monasterace Marina un team di archeologi, tra cui proprio Cuteri, realizzò una scoperta unica. Si trattava di un grande mosaico policromo figurato con animali marini che si affrontano. Oggi il solito immobilismo tutto calabrese rischia di pregiudicare una meraviglia tornata da un passato lungo due millenni.

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    Museo archeologico “Casa del Drago”, soglia della camera da pranzo con il mosaico del drago marino

    Le terme nella vecchia polis

    «L’edificio termale – ci spiega la ex direttrice del museo, Maria Teresa Iannelli – di cui il mosaico costituisce il pavimento dell’ambiente con piscina per bagni riservati agli uomini, è particolarmente monumentale ed articolato. Mostra analogie con quelli identificati a Velia, Locri, Gela e Megara Hyblea e, soprattutto, Morgantina». La struttura è denominata «le “terme di Nannon” – continua la Iannelli – per la presenza di un’iscrizione rinvenuta sul bordo di un bacile in terracotta. Potrebbe identificare in Nannon l’architetto delle terme. Nella sua prima fase è stata datata alla seconda metà del IV sec a.C. e rientra nella nuova organizzazione urbanistica di cui si era dotata la polis achea in seguito alla distruzione operata dai Siracusani nel 389 a.C. La trasformazione in edificio termale è successiva al primo impianto ed è stata datata nel corso della prima metà del III secolo a.C».

    Il calcare ha protetto il mosaico

    Il mosaico dei Draghi e dei Delfini, spiega ancora Iannelli, «era coperto dal monumentale crollo della volta a botte dell’ambiente H, le cui componenti, in corso di rilievo e di studio da parte degli archeologi che hanno condotto lo scavo, hanno permesso di delineare interessanti analogie con il sistema di copertura proposto per il calidarium delle terme di Fregellae (II secolo a.C.). Così come di far ipotizzare che la struttura di Kaulon, vista la più alta cronologia, ne rappresenti in un certo senso l’archetipo. Proprio la presenza dei tanti elementi in calcare ed in laterizio all’interno del vano ha permesso di sigillare il mosaico garantendone, anche per lo strato di calcare che vi si è depositato, una perfetta conservazione».

    Il drago sotto la sabbia

    Coperto ancora con sabbia fin dalla scoperta per tutelarlo, il mosaico è visitabile dal 2018 con aperture straordinarie e tour guidati nei mesi estivi. Nel 2020 l’incertezza dovuta alla pandemia costrinse a mettere in dubbio le visite. Cuteri, che è anche una delle guide al mosaico, per protestare si era sfogato su Fb: «Perché interrompere un ciclo? Non è mia abitudine andare allo scontro, qualcuno dice che voglio mettermi in mostra. Tra l’altro scoprendo dalla sabbia il mosaico si verificano anche le sue condizioni».

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    Cuteri circondato da turisti in occasione della riapertura straordinaria del 2018

    Un laboratorio di ricerca per gli studiosi

    Secondo le più recenti ricostruzioni scientifiche a fondare l’antica Kaulon addirittura nel VII secolo a.C. sarebbero stati coloni provenienti dalla regione greca dell’Acaia. I resti della polis, identificata dall’archeologo Paolo Orsi con la località Punta Stilo a Monasterace Marina, in provincia di Reggio Calabria, sono più in generale un laboratorio di ricerca straordinario in cui più atenei si sono confrontati sotto l’egida della Soprintendenza. Dalla Normale di Pisa alla tedesca “Johannes Gutenberg” di Mainz, fino alle università calabresi. Sono arrivati risultati importanti che hanno parzialmente riscritto la storia della colonia. Qui gli archeologi hanno portato tanto altro alla luce e ora lo si può conoscere visitando il Museo dei Bronzi di Reggio Calabria e l’Antiquarium a Monasterace Marina.

    Il parco archeologico dell’antica Kaulon

    Le terme con il mosaico dei draghi e dei delfini e tutta l’area archeologica con i resti di Kaulon erano parte di una piccola città magnogreca che si affacciava sul mare. Si estendeva sulle pendici delle colline retrostanti, dove correva la cinta muraria della città. Il tempio dorico fu ben presto acquisito al demanio dello Stato, mentre la fascia di abitato antico lungo il litorale è stata acquisita dopo il 2000 dal Comune di Monasterace. L’area statale e l’area comunale costituiscono il parco archeologico dell’antica Kaulon, insieme al museo archeologico nazionale, ospitato in una sede di proprietà comunale, ubicati sul lato sud del moderno paese, nelle immediate vicinanze del faro di Punta Stilo.

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    Un particolare del tempio nel museo di Kaulon

    Un parcheggio nella Storia

    Avvolta da mare, 106 e ferrovia jonica, l’area tutelata non è stata ancora recintata completamente e il sistema di videosorveglianza è in attesa solo di essere montato. La collocazione del sito ne rende difficile la gestione. Serve un piano più ampio per consentire una visita integrata al museo e renderlo accessibile a tutti. Occorre anche mettere in sicurezza un passaggio diretto sui binari ferroviari. I pannelli didattici che dovrebbero informare i turisti sui resti della polis sono vecchi e rovinati. In estate parte del sito è utilizzato come parcheggio da qualche bagnante in cerca di un posto più vicino alla battigia.

    Auto in sosta nel parco ad agosto 2021

    Non c’è chi stacca i biglietti del museo

    Dopo un sopralluogo a novembre il museo è anche stato serrato al pubblico. In senso più ampio la Direzione regionale Musei, affidata pro tempore a Filippo Demma, ha segnalato criticità ai piani alti per il venire meno di alcuni servizi esternalizzati – tra cui la gestione della biglietteria – che riguardano anche Kaulon. Comunque, per avviare i lavori di “risanamento” del museo, finanziati dall’Ue con 300mila euro, il Comune ha già approvato la progettazione finale.

    Alcuni inverni fa, purtroppo, a causa della erosione costiera il mare ha fatto gravissimi danni al sito. Un’interrogazione parlamentare ha aperto un faro sulla reale condizione di Kaulon. Sono visibili oggi alcuni passaggi realizzati negli ultimi tempi per dare maggiore decoro alla Storia. Il museo è stato dotato di un bookshop e di una biglietteria (in attesa della riapertura e dell’affidamento della gestione), in estate – come spiegato – è visibile il celebre mosaico. L’area marina antistante il sito è stata preclusa alle barche dagli enti competenti e il sito è stato in parte protetto dal mare con opere di difesa costiera.

    Quasi 5 milioni di euro per Kaulon

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    Monasterace, complesso archeologico subacqueo

    Se i soldi non mancano per il museo, ce ne sono altri comunitari per il Parco in attesa di essere spesi. In una più ampia strategia specifica per la Calabria, che prevede importanti stanziamenti, il Pon Cultura e sviluppo 2014/20 ha stanziato, infatti, 1 milione e mezzo di euro per “valorizzare gli attrattori culturali di Kaulon”. È in cantiere poi un intervento da oltre 3 milioni di euro. Con questi soldi dovranno essere messe in rete aree archeologiche sommerse e musei che conservano reperti di provenienza subacquea. Si tratta di un programma, chiamato Musei di Archeologia Subacquea. La misura prevede l’adozione di soluzioni tecnologiche innovative tra Monasterace, Crotone, Bacoli in Campania, Manfredonia e Fasano in Puglia.

  • 1943, fuga da Cosenza: il bombardamento tra propaganda di regime e realtà

    1943, fuga da Cosenza: il bombardamento tra propaganda di regime e realtà

    Agli inizi del 1943, incalzati da un possente esercito britannico, i soldati italiani e tedeschi erano costretti a ritirarsi dalla Libia in Tunisia e a Cosenza cominciarono ad arrivare le famiglie emigrate nelle terre dell’impero. In tutta fretta, si erano imbarcate sulle navi per raggiungere Brindisi. Accolti alla stazione i profughi raccontarono spaventati che gli inglesi erano spietati, affondavano le navi con i civili, mitragliavano gli ospedali e maltrattavano i prigionieri. In Russia, nel gennaio 1943, dopo ripetute sconfitte, le truppe italiane si avviavano verso una disastrosa ritirata. I soldati dell’Armir, senza mezzi e senza armi, attaccati costantemente dalle truppe regolari e dai partigiani, fuggivano terrorizzati lungo le steppe innevate. Decine di giovani cosentini e della provincia morivano in battaglia, congelati o nei campi di prigionia dell’Unione Sovietica.

    La ritirata delle truppe italiane dopo la disastrosa campagna in Russia

    La propaganda fascista

    I fascisti cosentini ammettevano che i Russi avevano iniziato una grande controffensiva ma sostenevano che alla fine avrebbe vinto chi a una ferrea resistenza avesse unito «le più pronte doti di recupero». Altre volte affermavano che i bolscevichi erano stati fermati dal glorioso esercito italiano, saldamente schierato, in eroici atti di valore e abnegazione. Per rassicurare la popolazione, pubblicavano sui giornali lettere di combattenti in cui si leggeva che stavano «spezzando le reni» ai bolscevichi. Il soldato Tullio De Simone, ad esempio, scriveva che al fronte russo andava tutto bene, che l’inverno era passato e tutti erano al proprio posto per la vittoria finale. Egli pensava con nostalgia a famiglia, parenti e amici ma, sopra ogni cosa, gli era cara la Patria, per la quale era disposto a combattere sino alla fine.

    Aerei alleati sganciano le loro bombe sull’Italia meridionale

    La popolazione, tuttavia, non credeva più alla propaganda del regime, perché ormai la guerra si combatteva anche in Italia. Centinaia di sfollati arrivavano a Cosenza. Da Genova, Torino, Milano, Messina, Palermo e, soprattutto, da Taranto e Napoli, bombardate costantemente dall’aviazione alleata. Il prefetto De Sanctis, informava il Ministro degli interni che, a seguito delle incursioni aeree, alla fine del gennaio 1943 erano giunti in provincia 1.249 profughi ospitati in genere da amici e parenti. L’afflusso degli sfollati dalle regioni italiane dava l’impressione che Cosenza sarebbe stata risparmiata da un eventuale bombardamento. E, del resto, le stesse autorità avevano sempre rassicurato che difficilmente il nemico l’avrebbe scelta come meta da colpire: non c’erano fabbriche, depositi militari e scali ferroviari importanti.

    Amantea devastata dalle bombe

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    Il ricordo delle vittime del bombardamento su Amantea

    Il Comitato provinciale della forza antiaerea invitava costantemente la popolazione a rispettare le norme sull’oscuramento. Squadre della Mvsn giravano nei quartieri per assicurarsi che non trapelassero luci dalle abitazioni, ma molti cittadini disattendevano le misure ritenendole inutili. L’atteggiamento generale mutò quando, agli inizi del 1943, alcuni centri della provincia subirono tremende incursioni aeree. Particolare impressione suscitò il bombardamento del 20 febbraio ad Amantea, nel quale morirono 21 persone e centinaia furono i feriti trasportati nell’ospedale del capoluogo. Nel paese marino, sede delle colonie estive, letteralmente sconvolto dall’improvvisa devastazione, durante i solenni funerali la popolazione seguì silenziosa il corteo di camion militari adibiti a carri funebri.

    12 aprile 1943, il bombardamento su Cosenza

    I cosentini, scriveva il Questore, in seguito al raid aereo di Amantea, erano rimasti profondamente turbati non solo per le vittime e la devastazione, quanto perché la città non aveva rifugi sicuri ed era del tutto impreparata per contrastare eventuali attacchi.
    Il 12 aprile, uno stormo di bombardieri Alleati partiti dall’Africa, sganciò i suoi devastanti ordigni anche su Cosenza. L’obiettivo principale era la stazione ferroviaria e tuttavia buona parte del bombardamento colpì il centro urbano provocando la morte di numerose persone, tra cui alcuni scolari.

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    Il mobilificio Giuliani distrutto dal bombardamento alleato. Sullo sfondo, il Palazzo degli Uffici nell’attuale piazza XI settembre

    I fascisti denunciarono la vile aggressione definendo gli anglo-americani uomini di razza inferiore che, accecati da bieco livore e incapaci di distinguere il bene dal male, si scagliavano contro gente innocente. L’ignobile bombardamento aveva l’obiettivo di deprimere il morale della popolazione ma le bombe che avevano avuto ragione della carne non avevano intaccato l’incrollabile fede nel fascismo. I cosentini avevano reagito all’incursione aerea fornendo prova di fierezza, fermezza, disciplina, abnegazione e solidarietà; con ogni mezzo si erano prodigati per sgomberare le macerie e portare soccorso ai sinistrati e avevano manifestato odio verso il barbaro aggressore che non aveva avuto pietà neanche per i bambini.

    Il giorno dopo

    Il giorno dopo il bombardamento, fu affisso un manifesto del Federale nel quale si accusavano gli inglesi di avere colpito in maniera spregevole una città indifesa. I degni figli d’Albione avevano sempre disprezzato gli italiani ed erano stati anche responsabili della fucilazione dei patrioti cosentini e dei fratelli Bandiera! Gli effetti devastanti dei quadrimotori avevano provocato il crollo di decine di palazzi e sul selciato erano rimaste numerose vittime incolpevoli ma bisognava stare calmi, stringere i denti e continuare a lavorare: alla fine gli italiani avrebbero vinto la guerra e si sarebbero liberati dalle catene degli schiavisti inglesi! Per la messa dedicata alle vittime del bombardamento, nella navata centrale della cattedrale era stato eretto un catafalco sormontato da una croce bianca e con festoni, ceri e drappi neri.

    Il vescovo Calcara, rivolgendosi alla folla silenziosa e commossa, condannò con parole dure la crudele incursione aerea e invocò la benedizione divina sulle vittime. Il giorno prima della cerimonia, il podestà Angelo Ippolito aveva fatto affiggere sui muri della città un manifesto in cui ricordava che i cosentini nel corso dei secoli avevano dato un largo contributo di sangue alla Patria e che, anche durante il bombardamento, dando prova di fierezza e coraggio, si erano stretti intorno al Fascio littorio. I fratelli morti sotto le bombe chiedevano che ognuno restasse al proprio posto e conservasse la calma dei forti, con la consapevolezza di servire la causa della civiltà contro la barbarie, del puro spirito contro la bruta materia. I micidiali ordigni nemici non avrebbero piegato la resistenza di Cosenza, da sempre madre generosa di combattenti ed eroi.

    Il panico collettivo durante il bombardamento

    In realtà durante il bombardamento, in preda al panico, la popolazione non rispettò quanto stabilito durante le esercitazioni. L’allarme delle sirene suonò in ritardo e le squadre di pronto soccorso si dimostrarono inadeguate. Equipaggiate con tute blu, badili, piccozze ed estintori, non furono all’altezza della situazione. I Vigili del fuoco, che si dettero un gran da fare per estrarre i corpi dalle macerie, erano pochi e scarsamente equipaggiati. Qualche giorno prima dell’incursione, il Comandante aveva avvertito il prefetto che, di fronte alla costante attività aerea nemica, il Corpo non aveva uomini sufficienti per agire in caso di bisogno.

    Soldati impegnati a scavare tra le macerie

    La Milizia della contraerea, composta da soldati riformati, anziani o disoccupati, non aveva reagito in alcun modo e persino i soldati del presidio militare non avevano dato esempio di coraggio e ardimento durante l’incursione aerea. In libera uscita, al segnale d’allarme, avevano occupato i ricoveri pubblici e, allontanatasi gli aerei nemici, erano tornati in caserma senza prestare soccorso ai sinistrati. Questo comportamento indignò la popolazione e lo stesso federale Rottoli chiese una punizione esemplare. Ne seguì un’inchiesta che coinvolse due colonnelli, anch’essi accusati di avere avuto un atteggiamento passivo durante il bombardamento e di aver protetto con rapporti compiacenti i propri uomini.

    Dopo il raid aereo, molti sinistrati furono accolti in capannoni alla periferia della città. Grazie grazie alle offerte di alcuni benestanti, si approntò una mensa per fornire loro un pasto caldo. I senzatetto trascorrevano le giornate nei paraggi delle case crollate, mentre di notte pattuglie di militi e vigili perlustravano i quartieri colpiti per scoraggiare lo sciacallaggio. L’1 maggio, il prefetto De Sanctis scriveva che, nonostante il rilevante numero di vittime provocato dagli ordigni, i cosentini mostravano virile compostezza ed esemplare disciplina, rimanendo tenacemente al proprio posto.

    1943, fuga da Cosenza

    In realtà, come scriveva il giornale dell’arcidiocesi, per causa degli aerei nemici che continuavano a sorvolare sulla città, si registrò un forte esodo della popolazione verso campagne e paesi vicini. Durante il giorno, Cosenza appariva semideserta, anche perché gli studenti d’ogni grado disertavano le aule e il Provveditore ammetteva che il numero dei frequentanti si era ridotto di circa quattro quinti. In una lettera riservata, il questore di Cosenza scriveva che, dopo l’incursione aerea del 12 aprile, si era verificato un largo esodo dei cittadini nelle campagne e nei paesi vicini. Le linee ferroviarie erano continuamente bombardate, gli aerei mitragliavano ogni cosa e la vita in città era spenta.

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    Corso Mazzini semideserto dopo il bombardamento

    «Calabria Fascista» riconosceva che i quartieri si erano spopolati ma molti abitanti avevano raggiunto le case di campagna più per desiderio di uova fresche che per paura delle bombe e la maggior parte degli sfollati conduceva vita da «villeggianti»: spendereccia, festosa e brillante! A fuggire erano state soprattutto le famiglie di ricchi proprietari, professionisti, commendatori e pezzi grossi della burocrazia cittadina, gente verso la quale il partito non nutriva antipatia, consapevole che l’umanità non era fatta solo di audaci eroi, ma anche di persone caute, timide e paurose.