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  • Logge, ‘ndrine e complotti: la versione di John Dickie

    Logge, ‘ndrine e complotti: la versione di John Dickie

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    Misteri, ma anche sospetti: sono parole che, se si parla di massoneria, quasi sempre finiscono nella stessa frase. Ma è davvero così? Lui si schermisce. Non si considera affatto un “tuttologo” della massoneria. Ma la sua è un’opera monumentale: I Liberi Muratori – Storia Mondiale della Massoneria, edito da Laterza. John Dickie, professore all’University College di Londra, è un esperto di fama internazionale su molti temi della storia italiana. Si è dedicato molto alle dinamiche di natura mafiosa e ‘ndranghetista. Lo ha fatto con testi di rango scientifico. Ma anche con lavori televisivi, come alcuni documentari di successo trasmessi da History Channel.

    Con il suo lavoro, John Dickie mette al centro del ragionamento l’entità che più di tutte al mondo ha attirato le più arzigogolate teorie: la massoneria e i massoni. Membri di una confraternita dedita alla filantropia e all’etica o una società segreta complice dei peggiori misfatti? Dalle Rivoluzioni alle stragi e le trame oscure della storia repubblicana: cosa c’è di vero sui massoni e cosa, invece, appartiene al mito complottista? Il docente inglese ne parla in un’intervista esclusiva a I Calabresi.

    Nel suo libro “I liberi muratori – Storia mondiale della Massoneria” ripercorre le varie epoche vissute dalla Fratellanza. Qual è la genesi della Massoneria? Quali i valori che la ispiravano nel momento della sua nascita?

    «I massoni amano rifarsi alle arti dei mestieri del medioevo inglese, e in particolare all’arte dei lavoratori in pietra. Secondo i massoni, sarebbero state queste radici della Libera muratoria come organizzazione a plasmare allo stesso tempo i loro valori fondamentali (cioè fratellanza, umiltà, solidarietà e beneficienza, pretesa di stare al di fuori della lotta politica, tolleranza religiosa, politica, sociale e etnica…) e la simbologia che sta al centro della vita delle Logge. Tant’è vero che i simboli massonici più importanti (grembiulino, squadra, compasso, ecc.) sono arnesi i quali, per la massoneria, sono ormai diventati metafore di qualità morali.

    Secondo il codice massonico, lo scopo della loro fratellanza è quello di “costruire” uomini migliori così come i lavoratori in pietra di una volta costruivano castelli e chiese. La realtà storica è, inevitabilmente, diversa rispetto a questa mitologia delle origini. L’arte dei lavoratori in pietra era, per una serie di motivi pratici, molto debole e incapace di imporsi come invece facevano l’arte dei sellai o quella degli orefici, per esempio.

    Però in due momenti storici particolarmente importanti l’élite dei lavoratori in pietra (un gruppo di professionisti che oggi chiameremmo architetti) costruisce un legame col potere politico che lentamente trasforma l’arte dei lavoratori in pietra in qualcos’altro: in un’associazione con pretese filosofiche e morali e un luogo dove uomini di diversa provenienza sociale possono riunirsi e discutere in un’atmosfera relativamente libera e egualitaria».

    Quali sono i due momenti di cui parla?

    «Il primo momento accade negli ultimissimi anni del ’500 in Scozia alla corte del re Giacomo VI. Il secondo momento accade a Londra all’inizio del ’700, quando la massoneria si stacca definitivamente da qualsiasi legame con l’edilizia e trova invece un posto all’interno delle reti d’influenza del partito Whig. Ricordo che, per gli standard di quel periodo, i Whigs e la società urbana inglese in genere manifestano forme di tolleranza religiosa e politica, e di libertà d’espressione, molto all’avanguardia rispetto al resto del continente. Vari studiosi hanno sostenuto che la massoneria aveva un ruolo importante come “palestra” della vita politica e istituzionale delle società moderne».

    In Inghilterra, suo Paese, com’è vista l’appartenenza massonica? Quali sono gli snodi più importanti della storia mondiale in cui la Massoneria ha avuto un ruolo centrale?

    «Da Londra, a partire degli anni ’20 del ’700, la Massoneria si diffonde molto velocemente nel resto del mondo, grazie al commercio e all’Impero. Infatti, è con il suo contributo all’imperialismo che la Massoneria forse ha la sua più grande influenza nella costruzione del mondo contemporaneo. Per i soldati, i mercanti, gli amministratori dell’Impero britannico che si muovono tra Calcutta e Città del Capo, tra il Canada e l’Australia, la massoneria offre una specie di welfare internazionale, una banca di contatti, e una vita sociale già bell’e pronta all’arrivo in qualsiasi angolo lontano dei territori britannici.

    E tutto aiuta naturalmente a legittimare ideologicamente la conquista e lo sfruttamento di altri popoli. Detto in parole povere, il codice massonico della tolleranza si presta a diffondere l’idea che gli inglesi costruiscono l’impero non per motivi di avidità, ma per portare la luce della civiltà ai “luoghi oscuri del mondo” (per usare la frase del vate dell’imperialismo di fine Ottocento, Rudyard Kipling, un massone)».

    Lo scrittore britannico Rudyard Kipling

    Nota differenze particolari con l’Italia?

    Per quanto riguarda l’immagine della massoneria in tempi più recenti, un po’ come in Italia con la storia della Loggia P2, in Gran Bretagna gli anni ’80 del ventesimo secolo vedono degli scandali che danneggiano moltissimo l’immagine della Massoneria. Nel nostro caso sono casi di corruzione nella polizia dove vengono chiamati in causa i massoni. Nella mente di persone della mia generazione, la massoneria è rimasta quella invischiata negli scandali di 40 anni fa: una lobby piuttosto squallida, dunque.

    La differenza rispetto all’Italia, dove lo scandalo della P2 dava veramente motivi di preoccupazione, è che questa immagine di una massoneria centro di influenze clientelistiche è, nel caso inglese, uno stereotipo, una memoria collettiva fallace. Molto anni dopo gli scandali, alle fine degli anni ’90, l’inchiesta parlamentare incaricata di analizzare in profondità i legami tra massoneria e corruzione pubblica un rapporto che essenzialmente scagiona le logge e completamente ridimensiona il quadro che avevamo della loro influenza. Emblematico il caso del poliziotto massone che aveva giocato un ruolo eroico nello scoperchiare la corruzione della polizia della City di Londra. E si trattava di forme di corruzione molto serie: legami con violentissimi rapinatori in banca, per esempio.

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    Licio Gelli è stato il capo della P2

    In Gran Bretagna la massoneria ha preso atto dei problemi di immagine che sono l’eredità degli anni ’80. C’è stata una specie di Glasnost massonica, per esempio, con l’apertura degli archivi a storici non massoni come me. Ma cambiare le percezioni del pubblico è un lavoro lungo e difficile, soprattutto quando la Massoneria è in declino».

    Molto spesso, anche in questi due anni di pandemia, quando il cittadino medio non sa spiegarsi qualcosa, tira in ballo la Massoneria e presunti piani di controllo internazionali. Si tratta di teorie complottistiche destituite di fondamento? 

    «Assolutamente sì. So per esperienza che è quasi inutile cercare di convincere un complottista a cambiare idea, ma proviamoci ragionando in base alla natura stessa della massoneria. Innanzitutto, la Massoneria in quanto tale non esiste a livello nazionale in molti casi, figuriamoci a livello internazionale. Sin dal ’700 la storia della massoneria è caratterizzata da scissioni e da una diversificazione di tradizioni e obbedienze. Non c’è nessun franchising mondiale. I massoni hanno perso il controllo del proprio “marchio” secoli fa. Oggi come oggi è facile per un gruppo qualsiasi di chiamarsi massoni e mettere su una loggia, scopiazzando i riti e i simboli da Internet. Il risultato è un mondo quasi ingovernabile.

    Persino nelle tradizioni più autorevoli, come il Grande Oriente d’Italia o la United Grand Lodge of England, le singole logge hanno molta autonomia. E i singoli massoni vivono la propria appartenenza alla fratellanza in modi molto molto diversi. Chi copre una carica alta all’interno della Massoneria tende a non essere una persona con molta influenza nel mondo esterno, per il semplice motivo che immergersi in questa vita porta via un sacco di tempo in riti, amministrazione, diplomazia interna, ecc. Chi invoca “la massoneria” senza distinguo, non fa che dimostrare la propria ignoranza. Altro che complotto internazionale.

    “I Liberi Muratori”, un libro di John Dickie

    Però il legame tra massoneria e miti complottistici non è casuale. Infatti, possiamo rintracciare le origini del complottismo contemporaneo agli anni immediatamente dopo la Rivoluzione francese. Per l’Europa conservatrice, e soprattutto per la Chiesa cattolica, la Rivoluzione francese rappresenta un trauma collettivo di dimensioni inaudite. Come spiegare una catastrofe del genere? A chi dare la colpa? Come orientarsi quando sono saltati tutti gli schemi dell’antico regime? Nel 1797 un prete francese in esilio a Londra, l’abbé Augustin de Barruel, scrive un libro che fornisce la risposta che tutti cercano: la Rivoluzione francese è il risultato di un complotto dei Massoni, ispirati dal demonio. Questo mito del complotto diventerà presto l’ideologia della Chiesa cattolica per gran parte dell’Ottocento, e poi la matrice di tutti i complottismi dei nostri tempi».

    C’è stata, negli anni e nelle epoche, una degenerazione?

    «No. La massoneria è un fenomeno globale, vecchio 300 anni, che si manifesta in forme diverse a seconda del contesto e del momento storico. La massoneria si è prestata alle attività di statisti e rivoluzionari, imperialisti e lottatori per la liberazione, razzisti e umanitari, poliziotti e delinquenti, fanatici religiosi e razionalisti… Questa diversità rende estremamente interessante la storia della massoneria. Non mi sono mai divertito così tanto a scrivere un libro! E questa straordinaria diversità del fenomeno non si può riassumere in un’unica parabola di degenerazione.

    Il fattore dell’affarismo— ed è a questo che si vuole far riferimento quando si parla di una degenerazione attraverso il tempo — c’è stato sin dall’inizio. L’età d’oro della massoneria, l’età della purezza dei valori massonici, non è mai esistita. Ma dall’altra parte, anche in tempi più recenti, l’affarismo rappresenta soltanto una dimensione della lunga storia della Libera muratoria. E nemmeno, a mio avviso, la dimensione più interessante».

    In generale, c’è secondo lei un ambiente o un settore, tra quello politico, militare, economico in cui, nell’attualità che viviamo, l’appartenenza massonica, ha un ruolo preminente?

    «Dipende da dove ci troviamo nel mondo. In molti paesi oggi la maggioranza dei Massoni è composta di pensionati. La massoneria ha sempre avuto un legame molto forte con la vita militare: gli ex militari nella Massoneria sono tanti. Penso che sia perché la massoneria sostituisce alcuni aspetti della vita collettiva nelle caserme e offre una rete di sostegno per chi cerca di fare il difficile viaggio di ritorno al mondo dei civili.

    Al prezzo di generalizzare moltissimo, si potrebbe dire che la massoneria è un fenomeno delle classi medie. Però sarebbe un lavoro molto complicato fare una sociologia dell’appartenenza massonica anche in una sola realtà come quella italiana. In Italia ho visto molti professionisti. Ma le due obbedienze maggiori sono diverse: nella Gran Loggia d’Italia ci sono le donne, per esempio, e nel Grande Oriente no. E poi, ripeto, ogni loggia avrà le proprie caratteristiche».

    In questo momento, tutto il mondo parla della Russia. La massoneria ebbe un ruolo nella Rivoluzione russa, come alcune fonti sostengono?

    «No. Espresso in questi termini, si tratta dell’ennesimo mito del complotto. Lo Zar Alessandro I aveva messo a bando la Massoneria nel 1822, e dopo la Rivoluzione russa anche lo Stato sovietico la vieta. Poco spazio di manovra, dunque, per chi cerca una spiegazione della Rivoluzione russa chiamando in scena le eterne manovre dei fratelli in grembiulino. Non sono per niente un esperto di storia russa, ma nessuna delle analisi scientifiche che ho letto attribuisce importanza al fattore massonico nella Rivoluzione russa.

    Lo stesso vale anche per la Rivoluzione francese, l’Unità d’Italia, la Rivoluzione americana, il palleggio di responsabilità dopo l’affondamento del Titanic, ecc. ecc. In casi simili, la tesi secondo la quale l’influenza massonica è stata decisiva si sente soltanto da sedicenti esperti di massoneria che tendono a vedere la storia attraverso il buco della serratura delle proprie ossessioni».

    Veniamo all’attualità, ma sempre pensando alla storia. Nel suo libro parla anche dell’atteggiamento avuto, negli anni della Guerra Fredda dall’Unione Sovietica nei confronti della Massoneria. Cosa può dirci sul rapporto attuale tra la Russia e la Fratellanza?

    «Il mio libro copre 400 anni di storia, e episodi affascinanti dalla storia di paesi quali la Gran Bretagna, l’Italia, gli Stati Uniti, l’India, il Sudafrica, la Francia, la Spagna, la Germania, l’Australia…. Ma non è un’enciclopedia mondiale della massoneria, e averlo scritto non mi autorizza a dichiararmi un tuttologo in materia di massoneria. Quello che so è che, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della messa a bando sovietica, la massoneria è rinata ma ha avuto una vita molto difficile in tutto l’ex Impero URSS, tra sospetti dello Stato e pregiudizi popolari».

    Lei conosce molto bene la Calabria. E nel suo ampio excursus letterario c’è una parte molto dettagliata che riguarda i rapporti tra la massoneria e la criminalità organizzata. Che idea si è fatto sui legami tra la ‘ndrangheta e la Fratellanza, che da più parti vengono indicati come il vero punto di forza delle cosche? 

    «Mi sono concentrato sul processo Gotha. Sono carte molto importanti che anche tu conosci molto bene. Da anni si parlava di un livello “massonico” del potere della ’ndrangheta. Giravano testimonianze preoccupanti, anche di pentiti e di massoni importanti, alcune dirette, ma molte per sentito dire, e spesso contraddittorie l’una con l’altra. Parlavano di una profonda penetrazione della ’ndrangheta all’interno delle logge del Grande Oriente. O di un controllo della ’ndrangheta da parte di elementi massonici. O di logge corrotte, logge deviate, logge coperte. Parlavano di una rete nazionale, o di una concentrazione del fenomeno nella Piana di Gioia Tauro, o sulla Ionica, e via di seguito. Una enorme confusione, insomma, su cui era doveroso fare luce, compito che il processo Gotha si è assunto.

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    I giudici del processo Gotha durante l’udienza

    E alla fine, almeno secondo le sentenze più recenti, la luce c’è. Ed è una luce abbastanza deludente per i complottisti della situazione. Quello che il processo ha scoperto è un nuovo organo di controllo politico-affaristico della ’ndrangheta, a cui gli ’ndranghetisti stessi fanno riferimento usando diversi nomi: per esempio, “gli Invisibili” o “la Massoneria”. Ma è importante capire che si tratta di una metafora: gli Invisibili non sono letteralmente massoni, la ’ndrangheta non è letteralmente sotto il controllo della massoneria.

    Come ha dichiarato pubblicamente il dottor Giuseppe Lombardo, magistrato da anni coinvolto in questa materia, nel corso di un dibattito con me al festival Trame a Lamezia: “Il rapporto tra la ‘ndrangheta non è un rapporto tra la componente mafiosa e la componente massonica regolare o universalmente conosciuta. Nel momento in cui si parla di componenti massoniche in contatto con le organizzazioni mafiose si parla di componenti che vivono di logiche massoniche, ma non possiamo assolutamente in alcun modo pensare che le massonerie siano un sistema che entra a far parte delle organizzazioni di tipo mafioso. Questo è grave e fuorviante. Non serve al contrasto alle mafie”. Se un problema all’interno del mondo massonico c’è, sempre secondo Lombardo, è con alcune logge irregolari o fasulle, cioè non appartenenti alle tradizioni massoniche maggiori.

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    Il magistrato Giuseppe Lombardo

    Quindi non c’è alcun legame specifico tra le due organizzazioni?

    Io esprimerei il problema in un altro modo. Le logge massoniche sono pezzi di società come gli altri, e come tali hanno i loro specifici punti di forza e di debolezza quando si tratta di rapportarsi col potere della ’ndrangheta. Hanno risorse, umane e culturali soprattutto, che possono far gola alla ’ndrangheta, come ce l’hanno le altre associazioni culturali e religiose calabresi. In una situazione del genere, bisogna seguire le prove, i casi singoli, e non fare di tutta l’erba un fascio.

    Gli intellettuali socialisti dell’inizio del ventesimo secolo usavano dire che “l’antisemitismo è il socialismo dei cretini”. Cioè prendersela con “l’Ebreo” in nome della lotta al capitale era pericoloso e fuorviante. Noi dobbiamo stare attenti a non fare un errore analogo. L’antimassonismo è l’antimafia dei cretini, e prendersela con “la massoneria” nel nome della lotta alla mafia o al malaffare, è pericoloso e fuorviante. Rischia di mettere la lotta alla mafia in mano al populista di turno, che non cerca altro che un capro espiatorio, ruolo svolto dalla massoneria già in molti altri contesti storici».

    In generale, crede che l’aura oscura che avvolge la massoneria, forse soprattutto in Italia, sia frutto dell’esperienza della P2 e che, quindi, si guardi alla massoneria con eccessivo allarmismo?

    Direi di sì. Ma ripeto, si fa presto a dire “massoneria” come se fosse un tutt’uno. Aggiungerei che trovo poco rassicurante l’atteggiamento della leadership del Grande Oriente. Il rifiuto di esaminare seriamente le proprie responsabilità nella vicenda P2. Il rifiuto di prendere sul serio il rischio di infiltrazioni mafiose o corruttive. La tendenza di lanciare accuse di pregiudizio antimassonico ogni volta che il tema della mafia viene sollevato. Tra antimafia e massoneria vedo solo un dialogo tra sordi, quando invece potrebbero avere molto da imparare l’una dall’altra.

    In conclusione, chi sono i massoni oggi?

    «Mi rifiuto di generalizzare. Ma ai non massoni come me darei un consiglio. Non vedere nei massoni degli affaristi e dei dissimulatori a prescindere. Parlateci».

     

  • Pagliacci global, un delitto made in Montalto alla conquista degli Stati Uniti

    Pagliacci global, un delitto made in Montalto alla conquista degli Stati Uniti

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    «Benvenuti a Montalto Uffugo, il paese di Ruggiero Leoncavallo». Recitava così un enorme cartellone stradale visibile dal 2002 all’ingresso di quello che ora è lo smantellato e fatiscente ipermercato Emmezeta, appena fuori dallo svincolo Rose-Montalto dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Curioso invito alla sosta tra luoghi-non luoghi collegati alla genesi artistica e alla vicenda di uno dei più famosi e popolari melodrammi del teatro lirico italiano. Eppure il palinsesto originario di Pagliacci riconduce a un territorio estraneo e distante dalla soglia mobile ed effimera di questi santuari provvisori del consumismo planetario. A un mondo “altro”, lontano anni luce dalle finzioni glamour e dalla spettacolarizzazione a cui ci ha abituato oggi la cultura di massa.

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    Montalto Uffugo, il museo dedicato a Leoncavallo

    Il piccolo Leoncavallo e la vera storia di Pagliacci

    Il più famoso melodramma di Leoncavallo (autore peraltro molto prolifico) nasce intorno al 1890. Enfatizza gli echi più tragici e coinvolgenti scaturiti da un episodio registrato dalle cronache e dal folclore locale. L’opera si ispira a un delitto realmente accaduto a Montalto Uffugo, quando il compositore era bambino. In seguito, il padre di Ruggiero Leoncavallo, Vincenzo, un magistrato napoletano destinato a quel mandamento giudiziario, ebbe il compito di istruire il processo che portò alla condanna dei colpevoli.

    Ecco in breve come andarono realmente le cose. Per una carambola del caso il piccolo e irrequieto Ruggiero venne affidato dalla famiglia alla sorveglianza di un domestico, il ventenne Gaetano Scavello. Siamo nel 1865, Leoncavallo (che prendeva lezioni di musica da quando aveva 5 anni) all’epoca dei fatti ne aveva appena 8.

    La cronaca nera stava per entrare nella sua vita turbando anche la pigra tranquillità di Montalto Uffugo. Proprio Scavello, giovane factutum di casa Leoncavallo, si era preso una sbandata per una bella e forse non del tutto “illibata” (ma quella era la morale paesana di quei tempi) ragazza del paese, che risultava comunque promessa al calzolaio Luigi D’Alessandro.

    La morte del factotum di casa

    Un giorno di marzo il giovane Scavello vide entrare furtivamente la ragazza in una casa colonica. Era insieme al garzone della famiglia D’Alessandro, tale Pasquale Esposito. Pretendendo maggiori spiegazioni, Scavello fermò Esposito, ma il suo rifiuto di rivelare il motivo dell’incontro con la ragazza lo fece infuriare al punto di ferire l’avversario alle gambe con un bastone. La ragione dello scontro venne subito riferita allo stesso Luigi D’Alessandro e al fratello di questi, Giovanni.

    La sera successiva i due feriti nell’onore minacciarono più volte Scavello. E al culmine di un alterco, approfittando della confusione e del parapiglia promiscuo che si era creato all’uscita di uno spettacolo di varietà messo in scena da una compagnia di sciantose e guitti ambulanti che visitava il paese, accoltellarono il giovane a morte tendendogli un agguato in un sopportico. L’istruttoria e il successivo processo per l’omicidio dello Scavello, celebrati da Vincenzo Leoncavallo, si conclusero con la condanna a venti anni di reclusione per Luigi D’Alessandro e ai lavori forzati a vita per suo fratello Giovanni.

    Troppo verista per Ricordi

    Difficile che il piccolo Leoncavallo possa aver assistito direttamente al fatto di sangue, mentre è certo il legame di familiarità stabilito all’epoca dei fatti con la vittima. La traduzione dei fatti originari è quindi piuttosto diversa da quella che segnerà poi lo sviluppo successivo della scrittura dell’opera lirica. Anche la trama e la scrittura del libretto per Leoncavallo non furono cosa semplice e non mancarono scoraggianti contrarietà e rifiuti. Il compositore sottopose il lavoro all’editore Ricordi, che rimase turbato dalla modernità del libretto e dal prologo eccessivamente verista in cui Leoncavallo, tramutando quella tragedia paesana di sangue e di coltello consumata dal vero, aveva tratto ispirazione e materia creando un ardito cortocircuito tra scena comica e vicenda tragica.

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    Ruggiero Leoncavallo

    Leoncavallo provò infine con Sonzogno, che imponendo qualche revisione, gli consentì di portare finalmente a teatro il lavoro che aveva così a lungo e accanitamente immaginato, scritto e musicato. Il suo lavoro mette per la prima volta a contatto figure e costrutti della tradizione e della culturale locale calabrese con i linguaggi della modernità.
    L’opera lirica fu perciò ambientata dal compositore napoletano proprio nella «sua» Montalto Uffugo, il piccolo paese della provincia di Cosenza dove si consumò l’episodio di cronaca che lo condusse a scrivere a 35 anni Pagliacci.

    Toscanini e il primo clamoroso successo

    L’opera ha nell’aria Vesti la giubba e nella definizione del Prologo, espressione di teatro nel teatro che già anticipa la drammaturgia novecentesca, i suoi passaggi librettistici e musicali più conosciuti. Leoncavallo non fu infatti solo musicista ma anche un buon letterato, fu allievo di Carducci a Bologna, visse e lavorò a Parigi – dove conobbe Zola e Hugo – viaggiò dall’Egitto agli USA, in Francia, in Svizzera e in Sudamerica.

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    Arturo Toscanini

    Partita in sordina, considerata opera di un autore minore, con un libretto di argomento rozzo e «barbaramente verista», aggravato dalla remota ambientazione locale e per giunta rurale, sin dalla prima recita messa in scena il 21 maggio 1892 al teatro Dal Verme di Milano, direttore un giovane Toscanini, Pagliacci si rivelò invece inaspettatamente un clamoroso successo, proseguito e riaffermato poi nei teatri lirici di tutto il mondo.

    Anche meglio di Verdi

    Con Pagliacci Leoncavallo e il suo editore Sonzogno, non molto tempo dopo, riusciranno a superare persino gli incassi delle opere di Verdi. A distanza di un secolo Pagliacci resta nei fatti un unicum. Un esempio di sintesi culturale tra i più autentici e riusciti in mezzo ai capolavori del verismo musicale italiano. Sulla scena è protagonista un povero guitto deriso e fatto becco da una Circe da fiera di paese che sceglie il suo ultimo amante tra uno dei ganzi che le ronzano intorno nella confusione della folla eccitata e stordita di un afoso paesino in cui si celebra tra libagioni omeriche e danze contadine la festa di mezza estate.

    La commedia degli attori girovaghi si tiene sotto un tendone lacero e improvvisato. Ma l’attrazione sta nei carrozzoni colorati da cui occhieggiano zingare compiacenti e sciantose imbellettate, il cui fascino profano gareggia con le immagini pie delle madonne barcollanti portate in processione nella controra. Siamo nella Calabria del 1870, ma due elementi danno una credibilità e uno spessore antropologico universale (e beninteso, teatrale) al melodramma: il paesaggio e l’ambiente sociale, emblema di tutti i Sud che si affacciano per le ultime recite sul bordo del vecchio mondo contadino che già declina verso il Novecento, con l’incipiente mondo contemporaneo che vedrà la globalizzazione dei costumi. C’è poi il dramma «classico» e luttuoso che grava sulla figura tragica di Canio.

    Il melodramma più rappresentato in giro per il mondo

    Il verismo di Pagliacci non è solo rappresentato nei costumi, nelle invocazioni gergali, nell’ampio coinvolgimento scenografico di figure popolari –tratte come le scene dal vero della prima rappresentazione teatrale, dai dipinti del pittore calabrese Rocco Ferrari –, ma anche soprattutto nel dramma dell’onore, nelle figure di Canio e Nedda, nell’apoteosi brutale del duplice omicidio finale.

    Ed è forse per questo che l’opera di Leoncavallo, scritta pensando alla Calabria e al suo mondo segregato e distante, ritrova ancora oggi i contrasti tragici della sua radice più classica e insuperata nella congiuntura culturale, che nonostante il secolo trascorso ne mantiene intatto il successo anche in ambito contemporaneo. Pagliacci è infatti ancora oggi il melodramma italiano più frequentemente portato in scena e cantato, persino più volte delle opere di Verdi e Puccini. Ogni anno in giro per il mondo, nei teatri di tutti i continenti, si contano più di 400 rappresentazioni dell’opera.

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    Pagliacci alla Scala di Milano

    Leoncavallo, Pagliacci e l’industria culturale

    Anche l’industria culturale e il cinema ne hanno attinto a piene mani. Le note delle arie più famose di Pagliacci risuonano ne la trilogia de Il padrino di Coppola e una delle scene clou de Gli intoccabili di De Palma, sino alle più recenti versioni melò dell’opera di Leoncavallo firmate in Italia da Zeffirelli (1983), Liliana Cavani (1998) e Marco Bellocchio (2016). Uno dei marchi delle global company più conosciute nel mondo, la Coca Cola, già più qualche anno fa aveva pensato bene di utilizzare per la pubblicità della sua così poco mediterranea bevanda, proprio la traccia musicale di una delle arie più sentimentali e patetiche che danno lustro universale alla vicenda di questo melodramma.

    Leoncavallo fu in grado di operare così una “traduzione” culturale di realtà marginali nelle forme e nei linguaggi più moderni e comunicativi disponibili all’arte popolare di quel periodo: il melodramma verista, e poi la musica popolare delle arie e delle romanze stampate e diffuse ovunque per la prima volta su disco, e particolarmente diffuse grazie questo primo veicolo tra le comunità di emigrati italiani all’estero e soprattutto nelle due Americhe.

    Un tesoro per gli americani

    Ne è prova il National Recording Registry, un museo di files sonori creato dalla Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. In questo archivio multimediale è stata immortalata la storia culturale degli USA. Vi hanno trovato consacrazione le voci ruvide e stentoree di presidenti e generali, le icone sonore di Martin Luther King che pronuncia il suo celebre «I have a dream», la voce da crooner di Frank Sinatra e quella libertaria di un giovane Bob Dylan che canta Blowin’ in the wind.

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    La biblioteca del Congresso a Washington

    In mezzo a questo campionario di voci memorabili è possibile ascoltare i maestri del jazz e della musica classica, i poeti e gli artisti del rock, pezzi di storia popolare come la prima trasmissione radiofonica americana, il primo disco di jazz, il primo album in stereo e altro ancora. In tutto le registrazioni da consegnare ai posteri per ora sono solo cinquanta, selezionate da un gruppo di esperti guidati da James H. Billington, responsabile della Libreria del Congresso, che le ha giudicate «culturalmente, storicamente o esteticamente rilevanti per importanza» per la ricostruzione della storia culturale degli USA.

    Enrico Caruso e una registrazione da record

    Al n. 7 del repertorio, c’è per ora l’unico brano in italiano: un’aria d’opera che divenne subito famosa e amata, e non solo tra gli immigrati italiani, «Vesti la giubba from Pagliacci of Ruggiero Leoncavallo. By Enrico Caruso. (1907)». Il celebre brano è preceduto da questa motivazione: «Tenor Enrico Caruso was probably the most popular recording artist of his time. His recording of this signature aria by Leoncavallo was a best-selling recording». (Il tenore Enrico Caruso fu probabilmente l’artista più popolare del suo tempo a incidere. La sua registrazione dell’aria simbolo di Leoncavallo fu tra quelle più vendute, ndr).

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    Enrico Caruso in abiti di scena

    Si trattava dunque già allora di un successo ultrapopolare del belcanto; Leoncavallo dimostrando grande fiuto per lo showbiz fu tra i primi compositori a registrare le sue musiche su disco. Successo che dura ancora oggi intatto. Merito di Caruso, merito di Leoncavallo e soprattutto di una storia di paese che raccontava al nuovo mondo l’anima degli italiani del Sud.

    Leoncavallo e i Pagliacci globalizzati

    Con Pagliacci Leoncavallo riformulava il melodramma classico, ibridando il belcanto con i temi e gli ambienti sociali emersi dal basso. Del resto lo stesso Leoncavallo, per guadagnarsi da vivere aveva suonato nei bistrot e nei caffè-concerto malfamati di Parigi.

    Ed è forse per questo che all’epoca autore e opera (nonostante il grande successo popolare) furono ambedue così apertamente osteggiati dalla critica musicale purista e dalle posizioni più ufficiali e conservatrici dell’intellettualità nazionale. Piaceva molto invece agli emigranti italiani, e agli americani, quella musica «tumultuosa e vistosa». Era esagerata, ibrida e sporca, come come il jazz, come un musical, come un’opera rock. Pagliacci, globalizzati.

  • Capo Colonna, riaperto il museo archeologico dopo due anni

    Capo Colonna, riaperto il museo archeologico dopo due anni

    Ha riaperto le porte al pubblico ieri, dopo quasi due anni di stop alle visite, il Museo Archeologico Nazionale di Capo Colonna. La struttura espositiva, incastonata sul promontorio del Tempio di Hera Lacinia, era rimasta chiusa – pandemia a parte – a causa di importanti e complessi lavori di manutenzione. Si era reso necessario il ripristino degli ambienti a seguito dei danni provocati da alcuni eventi meteorologici.

    Il Museo archeologico di Capo Colonna nasce nel 2006, con un progetto degli architetti Italo Insolera e Paolo Spada Compagnoni Marefoschi. A comporne il percorso espositivo sono tre sezioni. Esse hanno ampie sale open-space disposte su un unico piano a livello strada, privo di barriere architettoniche.

    Il museo di Capo Colonna fa da complemento all’area archeologica al fine di valorizzarne il legame tra storia, archeologia, natura e paesaggio di un’area antichissima. Gli antichi Romani la consideravano sacro limite del golfo di Taranto. I Greci, a loro volta, la veneravano quale uno dei principali centri mediterranei, consacrato al divino e destinato a rivelarne il soprannaturale per la sua peculiare collocazione geografica.

    Numerosi i tesori dell’antichità all’interno della struttura. Tra i più importanti figurano un elmo acheo, la testa marmorea di un cavallo che ornava probabilmente il Tempio di Hera Lacinia, reperti rivenuti nei fondali marini. Alla riapertura ai visitatori seguiranno ulteriori novità che riguardano l’allestimento del Museo.

  • Oscar: statuette e nominations di Calabria nella notte delle stelle di Hollywood

    Oscar: statuette e nominations di Calabria nella notte delle stelle di Hollywood

    C’è stato un periodo, a cavallo tra 2010 e 2011, in cui era impossibile sfogliare un giornale o navigare un sito della Calabria senza beccare qualche celebrazione di Mauro Fiore, fino a quel momento ignoto ai più, balzato agli onori per aver vinto ad Hollywood il premio Oscar per la migliore fotografia in Avatar.

    Il film di James Cameron, c’è da dire, aveva fatto incetta di statuette (tre) e di nomination (nove). Ma per l’orgoglio calabro, l’Academy Award a Fiore bastava e avanzava: era la prosecuzione del sogno americano, vissuto quasi fuori tempo massimo.

    Fiore, infatti, aveva lasciato la sua Marzi (oggi poco meno di mille anime nel cuore del Savuto) nei primi anni ’70 e aveva fatto carriera a Hollywood in qualità di tecnico all’ombra di grandissimi come Steven Spielberg.

    Mentre la Calabria lo celebrava alla grande, girava qualche commento pieno d’ironia amara: se Fiore fosse rimasto qui, al massimo avrebbe potuto fotografare matrimoni. Ma poco importava: Fiore era diventato Lu Ziu ’i Lamerica.

    Se l’Oscar parla arbëreshë

    Il cinema è stato, in ordine cronologico, l’ultimo ascensore sociale per i migranti italiani in cerca di fortuna negli Usa. Di sicuro la scorciatoia più vistosa per il successo. I calabresi, va da sé, non potevano fare eccezione, minoranze linguistiche incluse.

    È il caso del musicista arbëresh Salvatore Antonio Guaragna, cioè il mitico Harry Warren, che ottenne tre Oscar (per la precisione, nel ’35, nel ’43 e nel’45) più altre otto nominations per la migliore colonna sonora.

    Il minimo, per un autore seriale come lui, che scrisse circa ottocento brani. Giusto per curiosità, le sue canzoni più famose furono quelle che non vinsero. Cioè Chattanooga Choo Choo (nomination nel ’41, che divenne la colonna sonora delle truppe Usa in Italia) e la mitica That’s Amore, l’inno della Little Italy. Tanto successo, ottenuto fuori dalla Calabria, è all’origine di una disputa sulle radici di Warren tra Cassano Jonio e Civita.

     

    Da Corso Telesio a Hollywood

    Più certe le radici di Antonio Gaudio, che nacque a Cosenza, dove il padre Raffaele faceva il fotografo a via Sertorio Quattromani e Corso Telesio. Emigrato oltreoceano con suo fratello Eugenio, sfondò in America come direttore della fotografia e regista. Anche per lui l’americanizzazione del nome fu obbligatoria, ma non fu totale: divenne Tony Gaudio ed Eugenio si trasformò in Eugene.

     

    Con questo nick si aggiudicò nel 1937 la statuetta per la migliore fotografia nel film Avorio Nero, una delle sei pellicole a cui il Nostro lavorò quell’anno. Il suo, visto che Guaragna era nato a Brooklyn, è il primo Oscar tutto italiano della storia. Ma la statuetta, alla morte di Gaudio, è andata perduta, una storia che diventerà presto un documentario.

    L’ultimo Ziu

    L’ultimo Ziu ’i Lamerica, in ordine cronologico, è Nick Vallelonga, tuttofare del cinema a stelle e strisce discendente da emigrati del Vibonese. Vallelonga, che ha esordito con una particina ne Il Padrino, ha ottenuto nel 2019 l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale per Green Book, pellicola dedicata al grande jazzista Don Shirley.

    C’è da dire che questo premio non è stato proprio al riparo delle polemiche. In particolare, quelle della famiglia di Shirley, che avrebbe accusato Vallelonga di aver lavorato un po’ troppo di fantasia. Ma non importa: a lui la Calabria, generosa nel riconoscere il successo dei suoi migranti, ha tributato la solita sfilza di onori alla ’nduja al corpulento Oscar.

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    Nick Vallelonga

    Nonni… e un cugino da Oscar

    Più magra (e carina), Marisa Tomei ha in comune con Vallelonga il fatto di avere qualche nonno calabrese. Per la Tomei, che proviene dalla middle class newyorchese, le difficoltà dei migranti forse non sono neppure un ricordo. Protagonista di una carriera lineare tra grande e piccolo schermo, la Nostra ha ottenuto l’Oscar come migliore attrice non protagonista in Mio cugino Vincenzo (1993), una statuetta su cui si è malignato per anni. L’attrice ha poi confermato il suo talento con altre due nominations per In the Bedroom (2002) e The Wrestler (2009).

    Decisamente più famoso (e magro), F. Murray Abraham vanta due nonni reggini, per la precisione di Staiti e Condofuri. È diventato celebre per aver interpretato Salieri, il cattivo di Amadeus, che gli valse l’Oscar come miglior attore protagonista (1984).

    Sempre per restare ai nonni, le radici calabre emergono anche per Stanley Tucci, vincitore della statuetta come miglior attore non protagonista nell’horror Amabili Resti (2009).
    Protagonista di una carriera densa tra cinema, televisione e teatro, Tucci discende da Stanislao Tucci, emigrato da Marzi, lo stesso paese di Mauro Fiore. Segno che il pane del Savuto porta bene. Meglio ancora se accompagnato con la ’nduja del Vibonese. Non a caso, la nonna di Tucci era originaria di Serra San Bruno.

    https://www.youtube.com/watch?v=-AmEGCNQRJo

     

    Los Angeles? Cosangeles

    Nel toto Oscar di Calabria non poteva mancare la Sila cosentina, rappresentata da Anastasia Masaro, scenografa canadese che ha ottenuto la nomination nel 2009 per il fantasy Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo di Terry Gilliam: sua madre è originaria di Celico.
    Dalla Sila all’hinterland del capoluogo ci sono circa 20 km, meno comunque di quelli che separano la Masaro dallo statunitense Albert Broccoli, Premio Oscar speciale per aver prodotto il mitico James Bond. La famiglia di Broccoli ha le radici a Carolei.
    A Cosenza è nato nel 1982 anche Alfonso Sicilia, membro del team premiato con l’Oscar per gli effetti speciali nel 2014 per Gravity. Lui vive da anni all’estero, ma suo padre lavora ancora a San Pietro in Guarano, pochi km dalla città dei bruzi.

     

    Catanzaro (quasi) da Academy Awards

    Credevate che la provincia del capoluogo fosse priva di glorie? Sbagliate di grosso. Originario di Girifalco è Mark Ruffalo, volto più che noto del cinema che ha ottenuto tre nominations come miglior attore non protagonista, rispettivamente per The Kids are all right (2009), Foxcatcher (2015) e Il caso Spotlight (2016). Siamo sicuri che, prima o poi, la mitica Statuetta d’oro la becca, visto che lavora tantissimo. Nel frattempo, si consola coi risultati al botteghino.

    Lo scrittore Nicholas Pileggi, nomination assieme a Martin Scorsese per la miglior sceneggiatura non originale in Quei bravi ragazzi (1991) ha radici a Maida, segno che il morseddu lega bene con la celluloide.
    Più noto al pubblico italiano come erede del cinema impegnato degli anni ’70, Gianni Amelio, nativo di Magisano, ha ricevuto nel 1991 la nomination per il miglior film straniero grazie al suo Porte Aperte, ispirato all’omonimo romanzo del grande Leonardo Sciascia.

    Reggio Calabria, Hollywood e gli Oscar

    Una volta tanto, la musica non è sinonimo di tarantella. Il compositore John Corigliano, figlio di John Paul, primo violino della New York Philarmonic, ha radici ben piantate a Villa San Giovanni. Ha vinto, oltre a un Pulitzer e tre Grammy, l’Oscar per Violino Rosso (1999).

    Inoltre, le foto dei reggini possono non essere così “solari”. È il caso di Nicholas Musuraca, che lasciò Riace nel lontano 1907 e fece carriera nella Rko. Ottenne una nomination per la migliore fotografia nel film Mamma ti ricordo, un melò di George Stevens (1948). Ma, a prescindere dagli Oscar, il suo nome resta legato a capolavori del noir o dell’horror come Il bacio della pantera e Le catene della colpa di Jacques Tourneur, La scala a chiocciola di Robert Siodmak o Gardenia Blu di Fritz Lang.

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    Francesca Lo Schiavo e Dante Ferretti ricevono l’Oscar per Sweeney Todd nel 2008

    Nata a Roma, ma originaria di Taurianova, la scenografa Francesca Lo Schiavo ha ottenuto sei nominations e tre Oscar. Precisamente per The Aviator di Martin Scorsese (2005), Sweeney Todd di Tim Burton (2008), Hugo Cabret, sempre di Scorsese (2012).

    Menzioni d’onore

    Non era calabrese, ma ha sposato una calabrese e, soprattutto, ha amato la Calabria, in particolare Lamezia Terme, dove ha trascorso gli ultimi dieci anni di vita.
    Parliamo del grande Carlo Rambaldi, il mitico effettista del cinema mondiale. Suoi, gli effettacci grandguignoleschi di Profondo Rosso, il capolavoro di Dario Argento. Sue le efferatezze iperrealistiche del giallo all’italiana, in particolare dei film di Lucio Fulci. Suo il sangue che schizzava a profusione nei western di Sergio Leone e nei primi due Padrini di Francis Ford Coppola.

     

    Vinse tre Oscar per i migliori effetti speciali grazie a King Kong di John Guillermin (1976), ad Alien di Ridley Scott (1979), per il quale collaborò con l’artista svizzero Hans Ruedi Giger, ed E.T., di Steven Spielberg (1982).

    Sfiorarono la nomination per la colonna sonora di Dune di David Lynch (1984) i Toto e Brian Eno. Eno con la Calabria non c’entra. Invece, c’entrano tantissimo i Toto perché i tre fondatori, i fratelli Jeff, Steve e Mike Porcaro, sono i nipoti di Giuseppe Porcaro, percussionista originario di San Luca d’Aspromonte.

    https://www.youtube.com/watch?v=p_4aTbJ0SCQ

     

    Per sperare

    In attesa di un Oscar a un calabrese che vive in Calabria per un film realizzato in Calabria, c’è di che soddisfare il campanilismo di una regione in cui solo migrando si ha il successo vero. Per gli attuali cinematografari di successo, ogni ritorno in patria è occasione di celebrazioni e retorica a più non posso.
    Chissà che qualcuno si ricordi di loro quando c’è da spendere qualcosa per celebrare il Sud profondo. Magari costerebbero meno dei vari Muccino e solleverebbero meno polemiche…

  • Bronzi di Riace: due statue, una sola persona?

    Bronzi di Riace: due statue, una sola persona?

    Sono trascorsi 50 anni da quel giorno del 1972 quando Stefano Mariottini, un appassionato subacqueo romano in vacanza in Calabria, riemerse dallo specchio di mare antistante Riace per annunciare una scoperta sensazionale. Aveva rinvenuto, adagiate sul fondale, quelle che si sarebbero rivelate due statue in bronzo. Ma, ancora oggi, c’è molta incertezza su chi ne sia stato l’autore o se provengano dall’Attica o dal Peloponneso. Buio pesto, poi, su chi o cosa raffigurino i due bronzi: non si è mai andati oltre il distinguerli come Statua A, quella con l’aspetto giovanile, e statua B, ritenuta quella di un uomo più anziano.

    Il Bronzo A all’epoca del ritrovamento. A sinistra, Stefano Mariottini

    Tante ipotesi sui Bronzi

    Su tutti questi aspetti, la ridda di ipotesi è davvero interminabile. Alcune sono più accreditate, ma le altre non sono state mai del tutto accantonate. Si è arrivati persino a sostenere che le sculture fossero opera di un bronzista reggino, Pitagora di Reggio, attivo dal 490 al 440 a.C., apprezzato per la sua capacità di rappresentare dettagli anatomici con verosimiglianza. D’altra parte, per avere certezze a riguardo servirebbe una macchina del tempo che permetta un balzo indietro di oltre due millenni. In mancanza di quella, ci si deve affidare alle fonti storiche e alla loro esegesi, farsi guidare da autori come Erodoto, Tucidide e Diodoro Siculo.

    Gli storici dell’epoca

    I primi due vissero entrambi nel V secolo a.C. e quindi c’erano negli anni in cui, presumibilmente, furono creati i Bronzi di Riace. E c’erano sicuramente all’epoca dell’alleanza tra Sparta e Atene in cui infuriava la guerra tra greci e persiani.

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    Una vecchia edizione de La Guerra del Peloponneso di Tucidide

    C’erano Erodoto e Tucidide e raccontarono, da contemporanei, storie di guerre ed eroi, ma anche di trionfatori caduti nella polvere. Come Pausania, uno tra i più giovani generali spartani, nipote del leggendario Leonida. Tucidide ne parla nel suo La guerra del Peloponneso. Pausania fu l’artefice della vittoria dell’alleanza tra Sparta e Atene sui persiani a Platea, ma era un uomo dall’irrefrenabile ambizione. Questo infastidiva gli alleati attici, che non lo ritenevano stratega affidabile. E ne erano consapevoli anche gli spartani, che ritennero di non affidargli più alcun ruolo nella guerra.

    Pausania, il generale che tradì Sparta

    Pausania era partito alla volta di Cipro al comando di venti navi, affiancato dalla flotta degli alleati. E dopo aver conquistato l’isola, si era diretto alla volta di Bisanzio strappando anche quella al dominio persiano. Ma la sua tracotanza e prepotenza indussero gli alleati a chiedere il comando ateniese nelle operazioni di guerra. Anche per Sparta il modo di operare del loro stratega assomigliava davvero troppo a quello di un tiranno. Il tempo trascorso dal giovane generale nelle varie campagne contro i persiani gli aveva consentito di approfondire le proprie conoscenze presso quei popoli.

    Nel Peloponneso c’era chi addirittura scorgeva negli atteggiamenti di Pausania un che di medismo. E, comunque, non era uomo che sarebbe rimasto fermo ad attendere una serena vecchiaia. Di propria iniziativa armò una nave per riprendere la lotta ai persiani, ma il suo fine si rivelò essere ben diverso: raggiungere accordi con i nemici e mettersi alla loro testa per marciare contro Sparta.

    Un’intercettazione ambientale ante litteram

    L’accusa mossa contro Pausania era pesantissima. Il suo destino era segnato, ma occorrevano prove davvero schiaccianti agli spartani per sostenere le accuse e giungere a una condanna. Quello che descrive Tucidide in merito alle indagini sembra essere il primo vero caso di quella che, ai giorni nostri, definiremmo un’intercettazione ambientale. Il giovane (ormai ex) generale spartano si rifugiò come supplice nel tempio di Atena “Calcieca” a Sparta e qui lo raggiunse un suo amico fidato.

    La conversazione tra i due avvenne in una sorta di capanna fatta piazzare appositamente dagli efori per carpirne, non visti, i contenuti. Pausania parlò delle pesantissime accuse di tradimento e della fondatezza delle imputazioni a suo carico. Era dunque un reo confesso, ignaro che ad ascoltarlo fossero proprio gli efori spartani alla ricerca di prove. Non occorreva altro per arrivare a una sentenza di morte.

    E l’oracolo disse: «Due bronzi per espiare il sacrilegio»

    Siamo nel 470 a.C,. Pausania ha 40 anni, la sua condanna è morire di fame e di sete all’interno del tempio di Atena. I carcerieri murano gli ingressi e scoperchiano il tetto dell’edificio. Contano di accorgersi in tempo del sopraggiungere dell’ora fatale ed evitare così che il prigioniero spiri tra quelle sacre mura, ma non fanno in tempo. Pausania muore, ancora quarantenne, nell’edificio dedicato ad Atena Calcieca, violando la divinità del luogo. Si stabilisce di gettare nel fiume le spoglie dell’ex generale.

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    La morte di Pausania (fonte Wikipedia)

    Ma – così racconta Tucidide – «il Dio, attraverso l’oracolo di Delfi, intimò agli Spartani di traslarne la salma nel punto stesso della morte (ancor oggi riposa infatti all’ingresso del santuario, come provano le iscrizioni di alcune stele). Ingiunse anche di espiare l’atto commesso, un sacrilegio grave, dedicando ad Atena Calcieca due corpi in cambio di uno solo. Furono così fatte erigere e consacrare alla dea due statue di bronzo, quasi a compenso di Pausania». Due statue in bronzo, dunque, erette per espiare un sacrilegio e per ripagare la divinità violata dalla morte di un uomo soltanto. Circa 2.500 anni dopo quei fatti due statue, finite lì a causa di un naufragio, affiorano dalle acque di Riace.

    I nomi più ricorrenti

    Chi raffiguravano dunque i due guerrieri in bronzo? I nomi più ricorrenti sono quelli di Eteocle e Polinice, fratelli, figli di Edipo, protagonisti della guerra contro Tebe, immortalati da una celebre tragedia di Eschilo. A seguire, nell’elenco dei probabili eroi raffigurati, vi sono Aiace e Oileo nonché Tideo e Anfiarao. Sull’identità dei Bronzi, ascrivibile a questi ultimi, il professor Paolo Moreno, docente di Archeologia e Storia greca all’Università La Sapienza si dice certo. Sostiene pure l’ipotesi che le due statue provenissero dalla città di Argo, nel Peloponneso.

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    Giovanni Silvagni, Eteocle e Polinice (1800 circa, fonte Wikipedia)

    Capolavori (e visitatori) a confronto

    I Bronzi custoditi nel museo di Reggio Calabria sono meravigliosi e questo potrebbe e dovrebbe bastare per attirare visitatori da tutto il mondo. Statue come quelle rinvenute a Riace nel 1972 se ne contano non più di cinque in tutto il pianeta, ma nessuna che possa gareggiare in bellezza con loro. Eppure la loro attuale dimora non è sicuramente tra le più visitate, neppure a livello nazionale, nonostante i Bronzi siano in ottima compagnia di reperti dal valore inestimabile. Il costo del biglietto per ammirarli è davvero irrisorio: si va dai 2 agli 8 euro al massimo.

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    I Bronzi nel Museo di Reggio Calabria

    Una volta l’accesso al museo era totalmente gratuito, omaggio alla logica dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, dove non si paga il pedaggio per incentivare i flussi turistici a venire al Sud. Detto ciò, si può fare un raffronto tra il museo calabrese e quello del Cenacolo Vinciano a Milano, celebre per la presenza di un affresco di Leonardo da Vinci raffigurante “l’Ultima Cena”. Lo spazio espositivo è ricavato in delle sale della basilica di Santa Maria delle Grazie. Per visitare l’opera occorre talvolta prenotare mesi prima, ci vogliono almeno 20 euro per un biglietto d’ingresso, mentre per un tour guidato ne occorrono quasi 45. L’accesso nella sala dove si trova l’affresco di Leonardo è fisicamente snervante: bisogna passare a piccoli gruppi attraverso camere stagne e comparti speciali dove si viene deumidificati. Ciononostante, il numero di visitatori è sempre in crescita e le attese, come detto, sono a volte lunghissime. Ma questa è un’altra storia.

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    Visitatori ammirano il Cenacolo Vinciano a Milano

    Esistono altri cinque bronzi?

    Dei Bronzi di Riace sappiamo tutto, tranne due cose: chi le ha create e chi rappresentassero. Abbastanza somiglianti tra loro la Statua A e quella B, quindi la tesi più accreditata circa la loro identità resta quella dei due fratelli Eteocle e Polinice. Ma perché solo due statue se i comandanti della spedizione contro Tebe erano sette? Da qualche parte, nelle profondità del mare, potrebbero dunque giacere altri cinque bronzi. Oppure soltanto Eteocle e Polinice hanno meritato il privilegio dell’immortalità bronzea per le loro gesta? Volendo tirare le somme, di elementi o, quantomeno di indizi, nel tentativo di dare una identità ai Bronzi di Riace, resterebbe l’episodio di Pausania raccontato dettagliatamente da Tucidide ne La Guerra del Peloponneso.

    Ma più in generale è utile soffermarsi sulla parte introduttiva di quel libro. Lì lo storico descrive il modo di vivere, di organizzarsi socialmente e persino di vestirsi dei peloponnesiaci. Ed ecco alcuni brani di quel racconto: “Furono i primi gli Spartani ad adottare un sistema di vestire misurato e semplice, moderno… Gli Spartani furono anche i primi a spogliarsi e, mostrandosi nudi in pubblico, a spalmarsi con abbondanza d’olio in occasione degli esercizi ginnici”.

    L’uomo che visse due volte

    Allevato per essere un generale, imparentato con Leonida, il leggendario condottiero delle Termopili; Pausania fu colui che un anno dopo quella disfatta ricacciò dall’Egeo i persiani, indeboliti nella battaglia navale di Salamina condotta da Temistocle. Lo scontro finale fra le truppe del giovanissimo generale spartano e quelle del re Serse avvenne a Platea nel 479 a.C. Neppure dieci anni dopo i trionfi, il generale Pausania, come abbiamo letto, moriva di fame nel recinto sacro del tempio dedicato a Atena Calcieca. Era spirato là dove non avrebbe dovuto, dove simile sacrilegio non sarebbe stato tollerato dalle divinità.

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    Gerald Butler interpreta Leonida nel film “300” di Zack Snyder

    Il morto aveva vissuto due volte: da eroe acclamato e da cospiratore, quindi da nemico. Non si potevano comunque trascurare i servigi che Pausania aveva reso alla patria infliggendogli dopo una fine terribile e miserevole riservata ai traditori. Due corpi da restituire alla dea anziché uno solo aveva dunque sentenziato l’oracolo per porre rimedio al sacrilegio commesso dagli spartani. Fusero il bronzo necessario e lo scultore modellò due corpi raffiguranti due guerrieri, nella medesima posa, ma con un atteggiamento diverso; più giovane uno, più in avanti con gli anni l’altro; olimpico l’uno; più terreno l’altro.

    Come il tesoro di Tutankhamon

    Potrebbe essere che le statue bronzee di cui Tucidide dà conto, raffigurassero una il giovane e brillante generale che gli spartani avevano conosciuto e l’altra l’uomo che questi era diventato. Chi fossero quelle due statue affiorate nel 1972 a Riace, da dove venissero, chi mai fosse stato l’abile scultore ad averle realizzate, così perfette ed emblematiche, son tutte cose racchiuse nel mistero di uno dei più grandi rinvenimenti della storia, quasi al pari della tomba di Tutankhamon in Egitto.

    Il loro valore, soprattutto per la Calabria, è ingente quanto i tesori rinvenuti nel sepolcro del re egizio nell’ormai lontano 1922. Trascorso un altro mezzo secolo potrebbe scoccare l’ora di una nuova grande scoperta, ma c’è poco da sperarci. Forse sarà molto meglio riscoprire quanto di più prezioso si possiede e metterlo a frutto. La Calabria ha le due statue di bronzo più belle del mondo, ma siamo sicuri che davvero tutto il mondo ne sia a conoscenza?

    Antonella Policastrese

  • Cinquant’anni e non sentirli: tutto quello che non è stato fatto per celebrare i Bronzi di Riace

    Cinquant’anni e non sentirli: tutto quello che non è stato fatto per celebrare i Bronzi di Riace

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    Il 16 agosto 1972 Stefano Mariottini, un giovane sub dilettante romano, si immerse nel mar Ionio a 230 metri dalle coste di Riace Marina e rinvenne a 8 metri di profondità le statue dei due guerrieri che sarebbero diventate famose come i Bronzi di Riace. Pochi mesi, quindi, e sarà il giorno del cinquantennale dello storico, incredibile, ritrovamento.

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    Uno dei Bronzi circondato dalla folla dopo il ritrovamento di 50 anni fa

    I Bronzi di Riace, capolavori unici

    Storico, incredibile. Due aggettivi utilizzati non per sensazionalismo. Né per essere didascalici. Ma l’impressione data dalle Istituzioni – da sempre – è quella della colpevole sottovalutazione del valore dei due guerrieri, esposti da anni all’interno del Museo Archeologico di Reggio Calabria. Dei Bronzi di Riace ci si ricorda raramente. Per spiattellarli qua e là in qualche cartellone aeroportuale. Oppure per il flyer o il trailer di (spesso poco riusciti) spot divulgativi delle bellezze del territorio.

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    I Bronzi protagonisti di uno spot della Regione di qualche anno fa

    Anche sul sito ufficiale del Museo, un’immagine di una delle due statue. Ma nemmeno un accenno alla ricorrenza che cade nel 2022. In qualunque parte del mondo fossero stati ritrovati e fossero esposti, sarebbero diventati un brand riconoscibile. Come il Colosseo per i romani. Come le Piramidi per l’Egitto. O, magari, come l’Acropoli di Atene.

    Il libro dei sogni delle Istituzioni

    E, invece, i Bronzi sono lì. Forse non valorizzati come si dovrebbe.  L’entrata al Museo è a pagamento: 8 Euro il biglietto intero, 3 Euro il biglietto ridotto per i visitatori dai 18 ai 25 anni. I visitatori di età inferiore ai 18 anni entrano gratuitamente. Mercoledì: 6 Euro il biglietto intero e 4 Euro quello ridotto.

    La Regione, ma anche il Comune di Reggio Calabria e il Museo Archeologico avevano promesso iniziative e celebrazioni speciali che andassero oltre la commemorazione del ritrovamento nelle acque del Mar Ionio. La stessa Regione Calabria ha annunciato, appena pochi giorni fa, lo stanziamento di 3 milioni di euro. Senza, tuttavia, specificare per quali attività.

    La presentazione (a Paestum) del logo, già oggetto di critiche, per l’anniversario del ritrovamento

    Anche i lavori del Comitato di coordinamento interistituzionale e il gruppo di lavoro per il cinquantesimo anniversario del ritrovamento dei Bronzi di Riace istituito dalla Cittadella non sembrano aver sortito granché.

    Il grande assente

    La vicepresidente della Regione Calabria, Giusi Princi, che ha anche la delega alla Cultura, ha l’obiettivo di «far arrivare a tutto il mondo un messaggio positivo della Calabria». Ma l’impressione è che, fin qui, si stia preparando un evento che dovrebbe essere di portata mondiale, come se si stesse organizzando una sagra.

    Anche nel leggere la composizione del Comitato – in Calabria i comitati e i tavoli tecnici non mancano mai – spicca l’assenza del Ministero della Cultura. O, meglio, una presenza molto marginale. Peraltro comparsa solo all’ultimo momento, quindi non già nelle fasi prodromiche all’insediamento. Nel corso della prima riunione, non solo non ha partecipato il Ministro competente, Dario Franceschini. Ma nemmeno un viceministro o un sottosegretario.

    Il comunicato ufficiale menziona solo un delegato. Forse troppo poco per un patrimonio come quello rappresentato dai Bronzi di Riace: «Ne nascerà a breve un programma collettivo, unitario, un unico brand con logo condiviso e comunicazione congiunta», è scritto nel comunicato ufficiale.

    Bronzi di Riace, 50 anni in sordina

    A meno di cinque mesi dall’anniversario, quindi, non esiste nemmeno una bozza di programma delle attività. Che, peraltro, avrebbero potuto coinvolgere anche altre città. Proprio per incentivare quel turismo che, nel politichese più stantio, è da sempre considerato un “volano di sviluppo”.

    E, invece, a Reggio Calabria non si vede alcun simbolo che possa far presagire un anno così particolare. Né la città percepisce l’aria che precede una grande festa, come un evento culturale del genere dovrebbe innescare. Addirittura, probabilmente, in pochi, esclusi gli addetti ai lavori, se interrogati potrebbero dimostrarsi informati circa la storicità di questo 2022.

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    Il monumento a Giuseppe De Nava nell’omonima piazza di Reggio Calabria (foto Aldo Fiorenza, fonte Wikipedia)

    Sembra appassionare di più la disputa, arrivata anche in consiglio comunale, sui lavori di Piazza De Nava, immediatamente antistante al Museo. Eternamente discussi, ma mai iniziati. E, infine, proprio nell’ultimo consiglio comunale aperto, la mozione approvata all’unanimità per «richiedere che l’inizio dei lavori per la riqualificazione dell’area di Piazza De Nava sia posticipato all’anno 2023 al fine di rendere fruibile la stessa area a tutto il 2022 per le celebrazioni del cinquantesimo anno del ritrovamento dei Bronzi di Riace».

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    Cannizzaro e Princi

    Proprio nel giorno dell’insediamento del Comitato voluto dalla vicepresidente Princi, il deputato di Forza Italia, l’onnipresente Francesco Cannizzaro (che della Princi è cugino e, secondo le malelingue, dante causa) ha annunciato, in pompa magna, di aver incontrato il ministro Franceschini. Non per parlare dei Bronzi. Né delle tante tematiche delicate che riguardano il Museo e il patrimonio archeologico. Ma di Piazza De Nava. Per perorare, la causa degli «oppositori più fermi al progetto così come è stato pensato e approvato dalla Soprintendenza», riporta il comunicato di Cannizzaro.

    I problemi del Museo di Reggio Calabria

    A proposito del Museo Archeologico di Reggio Calabria. Anche nella “casa” dei Bronzi, si respira tutto tranne che un’aria di festa. Qualche tempo fa, il professor Daniele Castrizio, uno dei maggiori esperti sui Bronzi di Riace, autore di alcune ipotesi identificative delle due statue tenute in grande considerazione, ha anche rivelato, nel corso di un webinar, il clima che si respira all’interno del Museo: «Il direttore non mi saluta da novembre». Salvo poi chiarire, nelle ore successive allo scoppio della bufera: «Grazie alla amicizia e alla stima reciproca che ci lega, stiamo cercando, insieme, di trovare soluzioni comuni a problemi e di contribuire in armonia a portare avanti le iniziative relative ai Bronzi».

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    Daniele Castrizio

    Proprio nelle ultime ore, lo stesso direttore Carmelo Malacrino, che aveva esultato per il finanziamento di 3 milioni annunciato dalla Regione, ha affermato: «Il Museo soffre di una drammatica carenza di personale, al punto da rendere difficile, se non impossibile, la normale gestione e programmazione delle varie attività. Complice il mancato turn over e alcuni distacchi presso altre sedi, da anni stiamo lavorando in regime estremamente ridotto e con affanno. Ormai siamo arrivati a soltanto un terzo del personale previsto in pianta organica, poco più di 30 unità su 95». E poi, il monito: «Con tale carenza di personale, però, in alcune giornate potrebbe diventare necessario chiudere al pubblico alcune sale». Lo stesso problema avuto a Sibari con un altro tesoro archeologico calabrese, insomma.

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    Carmelo Malacrino

    Il profetico Giorgio Bassani

    Insomma, la “casa” dei Bronzi di Riace non sembra neanche lontanamente pronta ad ospitare gli eventi per il cinquantennale del ritrovamento delle due statue. Anche se, c’è da dire, con i preparativi fin qui non di certo in pompa magna, sarà difficile prevedere folle oceaniche.  Perché il senso dei calabresi per i Bronzi è proprio questo. Lasciarli lì, al sicuro. E indignarsi solo quando, ciclicamente, qualcuno vorrebbe spostarli, renderli itineranti.

    Sul punto risuonano, a distanza di oltre 40 anni, le parole pronunciate nel 1981 da Giorgio Bassani, per anni presidente di Italia Nostra, uno degli intellettuali che maggiormente si è battuto per la tutela del patrimonio artistico nazionale: «I Bronzi di Riace non sono il prodotto di un’opera d’artigianato sia pure sommo, bensì autentici fatti d’arte, di poesia e, come tali, unici e irripetibili». E si schierò contro una delle tante ipotesi di trasferimento dei Bronzi (in quel caso, in America), rivendicando che tali opere debbano rimanere lì, ferme, ad attendere i visitatori come in un pellegrinaggio: «La poesia dev’essere considerata un fatto religioso, perché lo è».

  • Da Fera a Rodotà, gli sfrattati dalle vie di Cosenza

    Da Fera a Rodotà, gli sfrattati dalle vie di Cosenza

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    Per i cosentini over 40, la stragrande parte della popolazione, le scuole protagoniste della recente polemica su piazza Rodotà, si trovano a via Roma. Di più: sono le scuole “di” via Roma, sebbene dopo la “rivoluzione” urbanistica del decennio scorso, la strada sia dedicata a Riccardo Misasi.
    Un cambio di denominazione al limite dell’accettabile: fuori un pezzo di memoria risorgimentale, dentro un pezzo importante di Prima Repubblica: l’esponente democristiano più importante (e potente) espresso dalla Calabria.

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    Evelina Catizone e Carlo Bilotti

    Per un notabile che entra nello scenario della città, ce n’è un altro costretto a traslocare. E riguarda un altro punto importantissimo dell’immaginario bruzio: piazza Luigi Fera, diventata Carlo Bilotti (col diretto interessato ancora in vita) durante l’amministrazione guidata da Eva Catizone. Per dare comunque un luogo a Fera, si è sacrificato un altro simbolo risorgimental-fascista: corso d’Italia. Un sacrificio necessario, perché uno come Fera non poteva proprio restare senza un posto. Per un doveroso omaggio alla memoria storica, che spesso è la grande assente delle più recenti scelte urbanistico-toponomastiche, non solo cosentine.

    Un museo all’aperto val bene una piazza Bilotti

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    Le prime statue donate da Carlo Bilotti nella loro originaria collocazione su piazza Fera. Oggi sono in via Arabia

    Luigi Fera ebbe, nell’età giolittiana, lo stesso peso che avrebbero avuto dopo i vari Michele Bianchi, Giacomo Mancini e, appunto, Riccardo Misasi.
    Avvocato di grido, professore di filosofia e giornalista, Fera fu sindaco di Cosenza nel 1900 e poi deputato. Già big della massoneria, “esplose” durante la Prima guerra mondiale, quando fu ministro delle Poste (1916-1919) e poi di Grazia e Giustizia (1920-21).
    Tutto questo per dire che il “traslocato” Fera resta un importante contatto tra la piccola storia della nostra scala provinciale e la grande storia del Paese. In altre parole, dovrebbe essere un intoccabile. Infatti, il problema non è lui né Misasi. Ma Carlo Bilotti, l’imprenditore-mecenate che sloggiò Fera per aver donato alla città le opere d’arte che decorano Corso Mazzini. Inutile ritornare sulle polemiche da cui fu investita all’epoca la ex sindaca.

    Vale la pena, però, insistere su un concetto: nessun parroco o vescovo ha dedicato una chiesa a qualcuno sol perché l’ha riempita di panche, mosaici, opere e altri ex voto. Per avere una chiesa a proprio nome occorre essere almeno santi. E per le zone della città? Le deputazioni di Storia Patria non danno regole certissime. Ma un criterio c’è: le strade e le piazze dovrebbero essere dedicate innanzitutto a personalità importanti, locali e non, e ad eventi che hanno segnato l’immaginario collettivo.

    A rischio trasloco come Fera?

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    Bernardino Alimena

    La vera bussola resta la memoria storica. Che a livello locale è poco coltivata. Già: se Fera è stato sloggiato (e la piazza dedicata a Carlo Bilotti, così come uno slargo nel cuore di corso Mazzini a sua figlia Lisa), perché lo stesso destino non potrebbe capitare in prospettiva a Bernardino e Francesco Alimena?

    In pochi sanno (ed è grave, per una città zeppa di avvocati) che Bernardino Alimena, oltre che sindaco e deputato fu un giurista di prima grandezza: fu il capofila della cosiddetta “terza scuola” del Diritto penale, che mirava a superare Lombroso e ad ammodernare i vecchi principi liberali. Suo padre Francesco, protagonista di primo piano del Risorgimento e della cultura liberale non fu da meno. Ma a ricordarli c’è solo la toponomastica. E con questi chiari di luna…

    Allarmi furon fascisti

    La scure dell’antifascismo ha colpito a metà, perché le strade cittadine recano ancora un bel po’ di richiami al Ventennio. Certo, non c’è più il rione Michele Bianchi, che comprendeva una bella fetta di territorio urbano, da Piazza Cappello a salire, fin sopra l’acquedotto.
    Al potente ex ministro dei Lavori pubblici e quadrumviro della Marcia su Roma resta la piazzetta dell’acquedotto, a cui si accede attraverso via Tommaso Arnoni, il podestà che gestì l’urbanizzazione e le opere pubbliche della Cosenza fascista.

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    Michele Bianchi, segretario del Partito nazionale fascista e ministro

    In compenso, sono spariti i riferimenti diretti all’era mussoliniana: gli Alimena hanno preso il posto di Benito Mussolini, e Guglielmo Tocci, avvocato e politico di origine arbrëshe, di Rosa Maltoni, la mamma del duce. Mentre l’antifascistissimo Ambrogio Arabia, avvocato e già sindaco, ha spodestato Arnaldo Mussolini, noto come il fratello minore del duce, un po’ meno per essere il fondatore dell’Ordine dei giornalisti e del mensile La storia illustrata. Ma tant’è: quando cadono le dittature lo sfogo iconoclasta è il minimo e ci sta sostituire i fascisti con gli antifascisti o con i liberali.

    Fuori dall’ultima infornata

    Ci sta un po’ meno la violazione della memoria, compiuta nel 2011, allo scadere dell’amministrazione guidata da Salvatore Perugini. In quell’occasione ci fu una pioggia di intestazioni a personalità minori, mentre restano tuttora prive di luoghi personalità di prima grandezza.

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    Un ritratto del cardinale Fabrizio RUffo

    Nessuno vuole inseguire le paturnie neoborboniche, ci mancherebbe. Ma una via l’avrebbe meritata senz’altro il cardinale Fabrizio Ruffo. E non perché coi suoi sanfedisti restituì Napoli ai Borbone. Ma perché fu un esponente di primo piano dell’assolutismo “illuminato”. In pratica, un riformista. Ora, se questa cosa la capiscono a Belmonte Calabro, dove al “Cardinale Rosso” è dedicato il sottopasso ferroviario, perché a Cosenza, dove tutti, anche quelli di destra, si definiscono riformisti, non gli si dedica almeno una piazzetta o un vicoletto?

    Ma le lacune, come si legge nel piccolo classico Le vie di Cosenza (Periferia, Cosenza 2012), possono essere peggiori. Mentre l’operaio di turno, altrimenti anonimo, ha ottenuto una strada nelle zone di recente urbanizzazione (quelle, per capirci, che prima erano denominate con le lettere dell’alfabeto), mancano alla conta l’abate Antonio Jerocades, illuminista avant la lettre e precursore della massoneria, e Donnu Pantu, la risposta calabrese a Pietro l’Aretino e virtuoso della pornografia in vernacolo.

    Gli smemorati di oggi

    Ma le tirate d’orecchi vanno anche ai vivi. Ad esempio, ai massoni: per carità, c’è una via Abate Salfi. Ma perché non proporne una a Ernesto d’Ippolito? Altra tirata d’orecchi ai socialisti, che forse non si sono resi conto che viale Mancini sta sparendo, inghiottito da un parco dedicato alla compianta Jole Santelli. Anzi, più che sparito, il viale non ha mai attecchito, visto che i cosentini continuano a chiamare “viale Parco” quel che ne resta

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    Un’altra pernacchia dev’essere rivolta ai “destri”: si capisce benissimo il sospiro di sollievo perché nessuno ha rimosso Michele Bianchi e Tommaso Arnoni. Tuttavia, proporre una piazza a Giorgio Almirante (che ebbe l’indubbio merito di battere per presenze ai comizi persino Berlinguer a piazza Fera) è un po’ troppo. Infatti, Cosenza annovera vari neofascisti illustri, che avrebbero la precedenza sul leader missino: dicono qualcosa Luigi Filosa, Orlando Mazzotta, Ugo Verrina?

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    Enrico Berlinguer in una gremitissima piazza (ancora) Fera

    L’esterofilia

    Peggio ancora con l’esterofilia. Tolta l’intoccabilissima piazza Kennedy (a proposito: a quando la restituzione delle “aquile”?), il resto può davvero essere un optional. Ad esempio, piazza Andy Warhol, quando il celebre musicista (e innovatore del pianoforte) Alfonso Rendano aspetta ancora un posto. D’altra parte ci fu anche chi, alla morte di Steve Jobs, propose (invano) di intitolargli la strada che ospita l’Apple Store locale. Aveva creato lui la compagnia e Cosenza ha da qualche anno una “via Paul Harris, fondatore del Rotary” in pieno centro. Con un grembiule in più forse l’inventore dei Mac l’avrebbe spuntata.
    Tuttavia, se proprio si volesse cedere all’esterofilia, perché non dedicare almeno un vicolo ad Albert Broccoli, il produttore cinematografico che lanciò James Bond? Qualcuno lo sa che la sua famiglia era originaria del Cosentino?

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    Le colombe di Cesare Baccelli, storico simbolo di piazza Kennedy, trasferite da Mario Occhiuto su viale Mancini/Parco

    Altre viuzze…

    A Cosenza ci si riempie la bocca di tre cose: cultura, antifascismo e il campo di concentramento di Ferramonti. Peccato solo che a nessuno sia ancora venuto in mente di dedicare un vico a Gustav Brenner, illustre internato di Ferramonti (perché ebreo) e fondatore dell’omonima casa editrice…
    Un last minute, invece, riguarda Francesco Principe, che ha sostituito le memorie coloniali di via Asmara.  Evidentemente, i cosentini non hanno voluto lasciare tutti i diritti d’autore a Rende, nella corsa per la grande città metropolitana.

    In fondo alla via

    Andremo sempre a “via Roma” e ci incontreremo comunque a piazza Kennedy, con l’idea di fare una puntatina a “piazza Fera” (e non Bilotti). In tutto questo, è doveroso chiedersi che fine farà il povero Stefano Rodotà, ora che la sua piazza è praticamente scomparsa, felicemente reinghiottita dal traffico automobilistico. Possibile che non ci sia un angolo di via degli Stadi da dedicargli?

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    I lavori per riaprire la neonata piazza Rodotà al traffico
  • Cosenza colta e accogliente? Non per i viaggiatori

    Cosenza colta e accogliente? Non per i viaggiatori

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    Secondo alcuni studiosi un comune sentire ha sempre legato i cosentini differenziandoli dagli abitanti delle altre città meridionali. Differenza enfatizzata da alcune peculiarità come lo spirito indipendente, l’amore per la cultura e l’apertura nei confronti dello straniero. Piovene affermava che erano uomini «d’ingegno esatto», «rifuggivano dalle iperboli» e avevano spiccata attitudine alla filosofia: se Napoli vinceva in scintillio dialettico, Cosenza aveva un vigore speculativo essenziale.

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    La Biblioteca civica in piazza XV marzo, sede della prestigiosa Accademia cosentina

    Cosenza serva dei potenti

    Nell’Ottocento, Arnoni definiva i suoi concittadini ombrosi nelle traversie della vita e «immaginosi» nei fausti avvenimenti, lietissimi nelle private e pubbliche gioie e cupi e permalosi nelle grandi sventure. Ricordava con dispiacere, inoltre, che pur avendo forti sentimenti religiosi, bestemmiavano frequentemente con «occhi di fuoco» il «Santudiavulu» e la «Madonna». Concludeva affermando che avevano una doppia natura e che bello e brutto, civile e selvaggio, tragico e grottesco, odio e amore, riso e pianto, fedeltà e tradimento, bacio sincero e assassinio a sangue freddo, si avvicendavano in loro senza posa.

    Padula, di Acri, irrideva i Cosentini per la loro piaggeria verso i potenti e li rimproverava di non avere alcun senso del bene pubblico. In città vivevano buoni padri di famiglia, ma non cittadini. Nessuno trascurava la pulizia della propria casa, ma non ci si preoccupava di quella delle strade e tale grettezza era propria sia di chi aveva il cappello a cono che quello a cilindro. Egli catalogava i galantuomini della città in «curiosi», «vanitosi» e «importanti».

    Faccendieri che ostentano amicizie importanti

    Tutti, indistintamente, si ingegnavano per guadagnare l’amicizia, la confidenza e la protezione degli uomini di governo. I «curiosi», invece di apprendere le scienze, erano interessati alle notizie che arrivavano da Napoli e andavano a raccontarle agli amici per il piacere di sorprenderli. I «vanitosi» amavano far visita alle autorità, passeggiare con loro lungo il corso e andarci a teatro: il loro unico scopo era quello di ostentare l’amicizia col giudice, il generale e l’intendente. Gli «importanti» erano individui che frequentavano gli uomini potenti in modo da ottenere protezione e favori, faccendieri che a loro volta risolvevano problemi di ogni tipo in cambio di denaro.

    Donne eleganti e uomini ardenti

    Le impressioni sui cosentini degli stranieri che nel Settecento e nell’Ottocento giunsero in città sono spesso negative. È inutile precisare che molti di loro avevano uno sguardo etnocentrico, ma non dobbiamo pensare che il loro unico scopo era quello di manifestare disprezzo verso gente ritenuta inferiore e che tutto ciò che annotavano nei loro diari fosse frutto di malafede o fantasia usata a sostegno della loro cultura.
    Bartels scriveva che, sia per le caratteristiche fisiche che per quelle morali, gli abitanti potevano considerarsi i diretti discendenti dei Bruzi.

    Le donne, nonostante il colorito spento provocato dalla malaria, avevano eleganza nel portamento. Gli uomini erano forti, alti, robusti, con i capelli spessi e neri e uno sguardo ardente. Secondo la Lowe i cosentini erano molto avvenenti, gli uomini più belli che avesse mai visto e, probabilmente, era il freddo degli inverni a conferire loro quella freschezza quasi inglese. Anche Gissing, nel suo breve soggiorno in città, aveva notato fisionomie gradevoli e uomini pieni di carattere, doti che avrebbero potuto essere quelle dei Bruzi, loro fieri antenati. Egli notava, inoltre, che a differenza dei napoletani non amavano il chiasso, parlavano con lentezza e non molestavano gli stranieri.

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    Emily Lowe, scrittrice e viaggiatrice britannica

    I cosentini non erano colti e aperti

    L’immagine dei cosentini aperti, colti e moderni non trova riscontro nei racconti dei viaggiatori. Bartels dipingeva una città in cui le donne erano totalmente sottomess. Non prendevano mai parte alle allegre tavolate e il loro compito era solo quello di cucinare e servire a tavola. Per Vom Rath i mariti erano molto gelosi, le occasioni di incontro tra uomini e donne erano rare, le danze quasi sconosciute e il «ballo tondo», in cui il cavaliere stringeva col braccio la dama, era oggetto della massima esecrazione. Didier raccontava che, nella famiglia cosentina presso cui era alloggiato, si rispettavano le antiche tradizioni patriarcali: a donne e bambini era vietato sedersi a tavola e così lui pranzava col capo famiglia e il figlio maggiore. Gissing confermava che a Cosenza, tranne le donne povere, era impossibile vederne per strada, poiché vigeva «un sistema orientale di reclusione».

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    Lo scrittore e viaggiatore George Gissing

    Il taccuino dei viaggiatori

    I viaggiatori mettevano anche in discussione l’amore dei cosentini per l’indipendenza e la libertà della patria. Per De Custine erano tutt’altro che fieri: avevano il terrore dell’autorità e, dal mulattiere al barone, si adeguavano sempre ai nuovi padroni. Discendenti dei Bruzi, secondo de Rivarol, erano disposti a tutto pur di trarre un guadagno, non avevano un senso della lealtà e della morale, erano crudeli e insolenti con le vittime e vili e imploranti con i vincitori.

    I cosentini erano spesso descritti come particolarmente furbi, capaci di grandi doti attoriali che sfruttavano a loro favore. De Custine li dipingeva come istrionici, «crispini» e «scapini» appena scesi dal palcoscenico e usciti dal teatro per continuare i loro lazzi in strada. Avevano la figura, il costume e lo spirito dei personaggi della commedia e lui si divertiva a spiarne le svagate furberie. Al momento di saldare il conto, l’oste di Strutt si distese su un letto dibattendosi e giurando che non poteva accettare un solo tornese in meno. L’inglese, dal canto suo, assicurava di non potergli dare un solo tornese in più e l’uomo con smorfie, strette di spalle e occhi semichiusi, continuò a tendere sconsolatamente la mano.

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    Il viaggiatore francese Astolphe De Coustine

    Amanti del teatro e dei vestiti alla moda

    Questa abilità dei cittadini nel recitare, spiegava il loro amore verso il teatro, unico luogo di intrattenimento serale. La Lowe rimase colpita dal fatto che il pubblico conoscesse le arie a memoria: tutti canticchiavano come se volessero unirsi al coro. Anche Didier ebbe modo di notare che i cosentini amavano molto gli spettacoli e, andando a teatro, gli sembrò di essere tornato in Europa, siccome da quando era in Calabria si sentiva in Africa!
    Gli stranieri notavano meravigliati l’attenzione che gli abitanti di Cosenza prestavano alla cura del proprio aspetto e del proprio abbigliamento. Didier rimase colpito nel vedere in un negozio i modelli del Journal des Modes di Parigi che stridevano nel contesto delle aspre montagne calabresi.

    A differenza di altri luoghi le donne non si coprivano la testa col velo nero come monache e gli uomini non portavano il cappello a cono ornato di nastri. Anche Emily Lowe notava che i cosentini ci tenevano molto ad apparire eleganti. Gli uomini indossavano un cappello particolare e pochi si contentavano di averne meno di due, uno vecchio e uno nuovo, da usare a seconda del tempo e delle circostanze: a un rovescio d’acqua compariva il vecchio, col cielo azzurro o davanti a una ragazza carina, spuntava quello nuovo. Maurel scriveva che le donne, anche quelle dei ceti popolari, erano sempre ben vestite e si rammaricava di non averle potuto fotografare con la sua Kodak, sebbene la pellicola non sarebbe stata capace di rendere il vivo colore dei vestiti e i movimenti aggraziati del loro incedere.

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    Il Teatro Rendano di Cosenza

    Cosenza città sporca

    I viaggiatori sottolineavano, tuttavia, che all’estrema cura della persona non corrispondeva quella per il decoro della città, descritta come particolarmente sporca e in abbandono. La struttura urbana appariva assai modesta, fatta da viuzze strette e ripide, alcune delle quali s’insinuavano al di sotto dei palazzi in portici tortuosi e bui. Questa trama edilizia monotona e povera era rotta, di tanto in tanto, da palazzi nobiliari di sobrie linee architettoniche, con ampi portoni e cortili.

    Cosenza era talmente sudicia da «fare pietà». Per Maurel la città poteva essere meravigliosa solo se la si visitava senza fermarsi: nonostante un viaggiatore del ventesimo secolo fosse disposto a sacrificare alcuni comfort per soddisfare la sua sete di conoscenza, a tutto c’era un limite! Se si voleva sapere cos’era la sporcizia, bisognava visitare Cosenza. Egli era rimasto talmente sconvolto dal lerciume che lo circondava, da decidere di concludere la giornata in montagna, tra capre che gli sembravano profumate!

    Parlavano troppo 

    Altro aspetto che rimarcavano i viaggiatori sui cosentini era la loro eccessiva loquacità. Alcuni stranieri erano infastiditi di dover sopportare le chiacchere delle persone presso cui erano ospiti e dichiaravano apertamente che avrebbero fatto volentieri a meno di ascoltarle. De Tavel ricordava che i cittadini usavano tutta la loro astuzia se volevano persuadere qualcuno: le loro maniere diventavano striscianti e insinuanti e, se non si conosceva la perfidia di cui erano capaci, si rimaneva puntualmente beffati; dotati di grande talento nel giudicare il carattere delle persone, estremamente furbi e adulatori, non risparmiavano alcun mezzo per raggiungere i propri fini.

    La doppiezza degli abitanti di Cosenza

    De Custine stentava a comprendere l’atteggiamento dei suoi ospiti: erano allo stesso tempo gli uomini più falsi e più sinceri che avesse mai visto. Mentivano quando l’interesse lo esigeva e lo facevano con tanta sottigliezza e abilità che le loro falsità sembravano verità. Mostravano un’ingenuità disarmante che incuteva paura nel momento in cui si scopriva quanto fosse falsa e lontana dall’innocenza. Ogni volta che conversava con loro rimaneva confuso, non riuscendo ad afferrare cosa pensassero veramente; erano capaci di accusare un uomo e subito dopo di giustificarlo, di criticarne le azioni, aggiungendo che in fondo il suo scopo era lodevole. In altre parole, dopo aver dimostrato la meschinità di un uomo, ne diventavano gli avvocati difensori. Era praticamente impossibile per uno straniero riconoscere la sincerità in contraddizioni così artificiosamente combinate.

     

  • Cosenza di culto, la cattedrale ritrovata anche grazie all’Unità d’Italia

    Cosenza di culto, la cattedrale ritrovata anche grazie all’Unità d’Italia

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    Il Duomo di Santa Maria Assunta ha da poco compiuto ottocento anni. Da otto secoli tra i “pileri” delle sue navate batte il cuore di Cosenza.
    Sostando sulla piazza digradante lungo corso Telesio per ammirare l’imponente facciata di pietra rosa di Mendicino, entrando nell’ampia aula dove i fedeli si raccolgono in preghiera, ci sembra che il Duomo sia lì da tempo immemore. Uguale a se stesso, incrollabile, saldo come roccia. Eppure, così non è. Nel corso dei secoli numerosi terremoti hanno colpito la Cattedrale danneggiandola talvolta in modo grave.

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    Celebrazioni in onore della Madonna del Pilerio, patrona della città, all’interno della Cattedrale (foto A. Bombini) – I Calabresi

    Un immaginario da cartolina

    Nel Settecento un intervento barocco ha radicalmente trasfigurato la sua natura duecentesca. Infine, nell’ultimo scorcio dell’Ottocento è cominciato un paziente lavoro di restauro. È durato oltre cinquant’anni e ci ha restituito le linee architettoniche di una spiritualità priva di orpelli e colma di devozione. Così oggi, ci sembra che la facciata sia sempre stata lì, in attesa dell’ennesima istantanea del buon ricordo.
    Siamo talmente assuefatti al gesto automatico di immortalare in una foto ricordo le bellezze d’Italia – le piazze, le cattedrali, i palazzi e i castelli – che non ci chiediamo quasi mai: «Chi ha costruito, conservato e valorizzato l’immagine monumentale del nostro patrimonio artistico e morale?».

    Affascinati da un immaginario da cartolina pensiamo che le facciate del Duomo di Milano; di Santa Maria del Fiore e Santa Croce a Firenze; del Duomo di Amalfi; del Fondaco dei Turchi e della Ca’ d’Oro a Venezia; il campanile di San Marco; i Castelli della Val d’Aosta; Palazzo Madama a Torino; il Castello Sforzesco a Milano; Porta Soprana a Genova; nonché moltissime altre meraviglie d’Italia siano un lascito arrivato fino a noi nelle forme in cui le opere furono concepite e realizzate dagli antichi maestri delle pietre. La storia è ben altra.

    I meriti dell’Unità d’Italia

    Se non ci fosse stato, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e dall’Unità d’Italia, uno straordinario sforzo di costruzione e conservazione dell’immagine architettonica del Bel Paese, gran parte del nostro patrimonio identitario avrebbe oggi un aspetto molto diverso: incompiuto, quando non sfigurato o cadente.

    Dobbiamo alla lungimiranza del Ministero della Pubblica Istruzione – istituito con l’Unità e ai coevi Uffici Regionali per la Conservazione dei Monumenti – il privilegio di poter ammirare, con il naso all’insù, i monumenti di cui le città d’Italia vanno fiere. Grazie all’opera e al pensiero di uomini come Camillo Boito e Luca Beltrami a Milano, Alfredo De Andrade in Piemonte e Valle d’Aosta, Giuseppe Partini a Siena, Enrico Alvino a Napoli – per citarne solo alcuni – l’Italia può andar fiera della sua “grande bellezza”.

    Splendore che si mette in mostra in un’infinità di situazioni ideali per le fotografie che hanno i loro antenati nei cliché in bianco e nero delle vecchie e care caroline turistiche. Dobbiamo ad artisti che si sono formati nelle Accademie di Belle Arti (quando ancora le Facoltà di Architettura non esistevano) se l’Italia si è costruita un’immagine monumentale solida come il marmo e non solo di facciata. Un sodalizio fra il sacro e il profano in cui la cattedrale e il palazzo comunale sono quasi sempre gli interpreti di una narrazione civile e religiosa che sfida i secoli parlando di cultura, di storia e di ingegno.

    Le radici nella Storia

    Quegli artisti-architetti, prima ancora di dividersi e scontrarsi sotto le insegne accademiche del restauro filologico da una parte o della ricostruzione in stile dall’altra, erano accomunati da un profondo senso della storia. Le loro scelte estetiche scaturivano sempre da modi personali di interpretare il passato. Fermo restando che il progresso, per loro, era indissolubilmente legato al richiamo della storia patria.
    L’Italia cercava le proprie radici nella storia e i monumenti disegnavano l’albero genealogico della sua cultura. Il dibattito fu molto acceso. I concorsi per la ricostruzione della facciata di Santa Maria del Fiore o del Duomo di Milano, nella seconda metà dell’Ottocento, ne sono una vivace testimonianza.

    Unità d’Italia, un progetto (anche) culturale

    La modernità era interpretata studiando e ispirandosi a un passato ricco di significati non solo estetici, ma anche etici e politici. Un passato iniziato ben prima che l’Italia, negli anni della Riforma e della Controriforma, venisse contesa e spartita fra le corone di mezza Europa. Il Medioevo e il Rinascimento, in epoca risorgimentale, erano i simboli illustri di una italianità autentica, e come tali, alimento inesauribile dell’immaginario degli architetti. Per molti di loro l’Unità era innanzitutto un progetto culturale e politico che si richiamava alle sorgenti dello stile romanico e del gotico. L’uso politico dell’architettura fu dunque uno dei cavalli di battaglia nella costruzione dell’identità nazionale. La conservazione del patrimonio monumentale uno dei temi di costante negoziazione fra lo Stato e la Chiesa.

    Monsignor Sorgente e la raccolta fondi per il restauro

    Cosenza non fu estranea a tale dibattito. L’arcivescovo del tempo, monsignor Camillo Sorgente, insediatosi a Cosenza nel 1874, nel tentativo di contrastare il cosiddetto “patriottismo di pietra” che cercava di escludere le gerarchie ecclesiastiche da ogni decisione operativa, rivendicò il ruolo della chiesa e lanciò una campagna di sottoscrizione per ricostruire la Cattedrale gravemente danneggiata dal terremoto del 1870. Egli si proponeva di ricondurre la sua Chiesa alla spiritualità dello stile di transizione fra il romanico e il gotico voluto dal fondatore Luca Campano, monaco benedettino e scrivano di Gioachino da Fiore; a quella essenzialità delle linee cistercensi che l’enfasi barocca di metà ‘700 aveva trasfigurato nel conformismo stucchevole degli ori e delle volute.

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    Disegno pubblicato in Bollettino del Collegio degli Architetti e Ingegneri in Napoli, febbraio 1887

    Il progetto di ricostruzione fu affidato a Giuseppe Pisanti, allievo di Enrico Alvino, a quel tempo già impegnato con successo nel progetto di restauro della facciata del Duomo di Napoli. Constatate le condizioni di gravissimo degrado delle strutture – la cupola era crollata, le murature in parte lesionate e le volte delle cappelle pericolanti – e confidando nella veridicità di una lapide dove si leggeva che «il Cardinale Maria Capece Galeota a fundmentis restituit la Basilica», Pisanti elaborò un progetto di ricostruzione che la critica del tempo giudicò con grande favore.
    Così il 14 giugno 1886 Monsignor Sorgente circondato dal collegio episcopale e dal capitolo, alla presenza del prefetto e del popolo festante, pose la prima pietra dei lavori di restauro.

    Duomo di Cosenza, si torna al passato

    Quando iniziarono le demolizioni però, Pisanti scoprì che nella parte absidale, sotto gli stucchi e i pesanti intonaci, le strutture duecentesche erano pressoché intatte. L’arco trionfale, l’abside e gli imponenti pilastri avevano resistito alla violenza dei terremoti e allo zelo dei pomposi abbellimenti settecenteschi.
    Alla morte di Pisanti i lavori proseguirono sotto la supervisione del suo allievo Silvio Castrucci. Poi, dopo la pausa forzata della Grande Guerra, i lavori, fra non poche polemiche, furono affidati a Tullio Passarelli, un ingegnere romano che completò il restauro delle navate e della facciata nelle forme che ancora oggi possiamo ammirare, in particolar modo quando i raggi del sole animano i riflessi rosati della pietra di Mendicino.

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    Monsignor Aniello Calcara

    La data “1944”, scolpita sotto il rosone centrale, indica l’anno di fine lavori e, a ricordare la terza e ultima consacrazione celebrata il 20 maggio 1950 dall’arcivescovo e letterato Aniello Calcara, sta invece la lapide posta sulla parete di controfacciata.
    L’austero aspetto abbaziale che ben si armonizza nel contesto di piazza Duomo è dunque il risultato di un’opera di restauro e di integrazione le cui motivazioni estetiche affondano in una cultura della tutela del patrimonio intesa come salvaguardia del genius loci.

    Giuliano Corti

  • Nicola Longo, il Serpico calabrese che stregò Fellini

    Nicola Longo, il Serpico calabrese che stregò Fellini

    In meno di un’ora di conversazione Nicola Longo riesce a raccontare una serie di aneddoti che una sola sceneggiatura poliziesca non basterebbe a contenere. Può menzionare uno per uno i mammasantissima calabresi che ha arrestato a Roma, parlare dei traffici di cocaina in cui si è infiltrato tra night e salotti della Capitale, ricordare come ha sgominato i laboratori dei marsigliesi che fornivano eroina a mezzo mondo, oppure ridere della somiglianza che Gerard Depardieu sosteneva di avere con lui perché voleva interpretare il film sulla sua vita.

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    Nicola Longo con Federico Fellini e la sua immancabile sciarpa rossa

    Il film mancato di Fellini sul Serpico calabrese

    In realtà lui pensava di avere più tratti in comune con Sylvester Stallone e sognava di essere impersonato da Robert De Niro, ma Federico Fellini, che pure ci credeva, non è mai riuscito a girare quel film. Su indicazione di Tonino Guerra – poeta, scrittore e sceneggiatore che ne ha parlato anche a Tg2 Storie – il regista aveva letto la prima bozza dell’autobiografia di Longo, La valle delle farfalle: gli era talmente piaciuta da fargli firmare subito un contratto. Il progetto per portare al cinema la vita leggendaria di quel poliziotto di origini calabresi, definito da Fellini «un poeta con la pistola», non è però mai andato in porto. Adesso quel libro è stato pubblicato da Rubbettino con il titolo di “Macaone” e una postfazione di Vincenzo Mollica.

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    Nicola Longo con lo scrittore e sceneggiatore Tonino Guerra

    Il poliziotto infiltrato per conto dei servizi segreti

    Le cronache della Roma nera degli anni ’70 e ’80 riportano spesso le imprese spericolate del «Serpico italiano». Lavora ufficialmente per la Narcotici, ma ancora prima di iniziare a fare il poliziotto viene contattato dai Servizi segreti. Dopo anni da undercover, infiltrato prima tra gli hippie di Piazza di Spagna e poi tra i trafficanti della Roma bene, finisce per collaborare a più operazioni di portata internazionale con la Dea. Mettendo le manette a boss della ‘ndrangheta e di Cosa nostra, oltre che a leggende del crimine come “Renatino” De Pedis (uno dei capi della banda della Magliana) e il boss corso-marsigliese Jack Masia.

    Da bullizzato a lottatore

    La sua avventurosa vita inizia nella Piana di Gioia Tauro degli anni ‘50, tra Taurianova e Polistena. Il padre, sottufficiale dei carabinieri, arresta qualche parente di alcuni suoi compagni di scuola che, per questo, lo bullizzano in ogni modo. O almeno ci provano, perché lui reagisce scoprendo che i suoi pugni fanno parecchio male. Ne nasce la passione per la boxe – ma in seguito diventa anche una promessa olimpica della lotta libera – che lo porta, nel 1962, ai Campionati italiani novizi di pugilato. È tra i finalisti dei welter leggeri e si scontra con un certo Casamonica, membro di una famiglia di nomadi stanziali nel Lazio di cui, anni dopo, avrebbe arrestato un parente che aveva importato dal Pakistan un carico di eroina nascosto dentro un blocco di marmo.

    Nicola Longo voleva diventare un boxeur

    «Volevo fare pugilato, non la guerra»

    A 17 anni entra nelle “Fiamme Oro”, i gruppi sportivi della Polizia, ma quando lo convocano per il ritiro della nazionale di pugilato deve fare una scelta. È stato infatti ammesso alla Scuola Allievi Sottufficiali e una strada esclude l’altra: o lo sport o la divisa. «Amavo la boxe – racconta a I Calabresi – e prima di entrare in Polizia avevo fatto un corso speciale nell’Esercito per incursori arditi. Mi dicevano che avrei fatto sicuramente una bella carriera militare, ma io volevo fare il pugilato, non la guerra». Si rivela decisivo un colloquio con il professor Franco Ferracuti, psichiatra e criminologo del Sisde. «Mi convocò nel suo ufficio ancora prima che prendessi servizio alla Mobile. E mi disse: “Il tuo destino è qua, nei Servizi”. Negli anni è diventato il mio mentore. Anzi, la mia ombra».

    Il mio nome è Massimo Macaone

    All’inizio degli anni ’70 comincia il lavoro di infiltrato per la Narcotici. Come prima cosa gli dicono di scegliere un nome falso e lui opta per Massimo Macaone, un omaggio a un esemplare di farfalla che lo riporta alle sue radici, ai pomeriggi assolati della Calabria, e che richiama un eroe omerico. «Con i capelli lunghi, una camicia aperta sui jeans sdruciti, scarpe logore e al collo un laccio di cuoio con appeso un dente di pescecane, mi confondevo con i giovani hippie di piazza di Spagna. Sulla scalinata di Trinità dei Monti avevo sistemato un cavalletto sul quale dipingevo miniature di paesaggi che vendevo ai turisti».

    Quando fece scappare un ragazzo di Rosarno

    Come gli è già capitato nelle guerriglie urbane con studenti e operai «che non percepivo come nemici», anche nei tossicodipendenti non vede avversari da sconfiggere «ma vittime da salvare». Scopre proprio a Piazza di Spagna quanto sia difficile fare amicizia con persone che poi potrebbe far arrestare. E gli capita anche di far scappare, di proposito, un conterraneo di Rosarno che sarebbe poi diventato una presenza costante della sua vita. Si fa chiamare Schizzo e della sua vicenda personale, narrata nel libro con la tenerezza del ricordo, si sarebbe innamorato anche Fellini.

    Nobile siciliano e narcos capitolino

    In un altro incarico da undercover assume l’identità di un nobile siciliano, Nicola Paternò, proveniente dalla Colombia e arrestato in Germania con una grossa partita di cocaina da piazzare a Roma, probabilmente nei locali notturni. L’arresto non viene reso noto, così lui si può spacciare per il barone siculo infiltrandosi nel giro dei night. Per completare la trasformazione, da fricchettone a nobile playboy con la Mercedes messa a disposizione dal Ministero, si sarebbe reso necessario un passaggio dal barbiere. Ma anche un corso di galateo con madame Annie, nobile di origini austriache a cui qualche tempo prima avevano rubato i gioielli di famiglia. Che proprio lui aveva recuperato «arrestando due tossici mentre tentavano di rivenderli».

    La sparatoria e l’arresto di Vallanzasca

    Ha condotto sotto copertura diverse operazioni contro il riciclaggio di denaro sporco e il traffico internazionale di armi. È stato pure protagonista dell’azione che dopo una sparatoria per le strade di Trastevere ha portato all’arresto di Renato Vallanzasca e della sua banda. Nel 1978 è rimasto gravemente ferito, per la seconda volta, in un conflitto a fuoco. Durante la convalescenza scrive un racconto destinato alle scuole per la prevenzione della tossicodipendenza. È il suo esordio con la scrittura. E quando Guerra lo legge non può che incoraggiarlo a continuare.

    Il Serpico calabrese Nicola Longo con il maestro Federico Fellini

    Stregato da Fellini

    C’è un bel po’ di Calabria in “Macaone”, dall’infanzia nella Piana alla violenza delle faide, con le parole del padre che gli tornano spesso in mente: «Uno ’ndranghetista vale quanto una penna lasciata al vento o quanto l’oro di tutta Francia». Nel Cinema Italia di Polistena, dove aveva visto “La Strada”, è nata la sua passione per quel mondo. Di nascosto era riuscito a portarsi a casa delle lastre e aveva messo in piedi, con una scatola bucata e una pila elettrica, delle proiezioni casalinghe su cui ricamava storie inventate. «Quando lo raccontai a Fellini – confida – disse che ce l’avevo nel sangue e che avrebbe voluto insegnarmi a fare il regista».

    Il regista si fa portare da lui in moto in giro per Roma, spesso di notte, a scegliere i luoghi che avrebbero dovuto essere il set de La valle delle farfalle. Poi però tutto naufraga a causa di alcune divergenze tra Fellini e il produttore, ma si parla anche di pressioni arrivate dai vertici nazionali della Polizia. «Lui non ha mai smesso di pensarci – spiega Longo, e la lettera inviatagli dal regista nel luglio del 1989 lo conferma – e penso volesse fare qualcosa che richiamasse il neorealismo. Giulietta Masina, dopo la sua morte, mi confermò che ai piani alti del Viminale non volevano che il film si facesse, dicevano che era per non mettermi a rischio… mah».

    La lettera inviata da Federico Fellini a Nicola Longo

    Da poliziotto a scrittore

    Di certo il pericolo, dopo una vita di adrenalina e storie folli che oltre al fiato sospeso custodiscono anche una certa sensibilità, non sarebbe stato una novità per Longo. Come non lo è l’ennesima trasformazione, la sua seconda vita: da poliziotto a scrittore. «La Polizia è come il resto del mondo, al suo interno c’è il bene e c’è il male. Ma io ora mi sento uno scrittore, è questa la mia nuova strada». Così, prima di salutare il cronista «paesano» con altri episodi degni dei polizieschi di Enzo G. Castellari o di quelli con Tomas Milian che lui stesso ha ispirato, spiega che sta già lavorando al seguito di “Macaone”. Le storie non gli mancano. E sa anche come raccontarle.

    Nicola Longo ha ispirato persino Tomas Milian (a destra)