Categoria: Cultura

  • Spinelli e parmigiano nella Paola di San Francesco

    Spinelli e parmigiano nella Paola di San Francesco

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    Un documento notarile estratto dagli archivi mette in luce aspetti particolari della quotidianità della corte baronale che abitava il castello di Paola a fine Cinquecento.
    La città di San Francesco è, all’epoca, un centro portuale molto attivo dell’alto Tirreno cosentino, infeudato sin dal 1496 alla casa Spinelli, tra le più influenti e potenti dinastie del Regno di Napoli.
    La parabola di questo casato iniziò nella prima metà del XVI secolo, col matrimonio tra una Spinelli dei marchesi di Castrovillari, baroni di Fuscaldo e della Civitas Paulae, e il Vicerè spagnolo Pedro de Toledo.

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    Il castello dei baroni Spinelli in una stampa d’epoca

    Il castello degli Spinelli: da forte a dimora deluxe

    Paola, col suo castello e coi suoi 4.000 abitanti (quando Cosenza ne contava 10.000 e Amantea 3.000) divenne la capitale dei numerosi feudi Spinelli in Calabria.
    Nato nel periodo normanno-svevo con funzioni militari e difensive, il castello di Paola si era trasformato in palazzo signorile, che sin dalla seconda metà del XVI sec. «somministra sontuosa dimora» al signore feudale e alla sua corte.

    Un indizio singolare della vita a dir poco dispendiosa dei baroni è fornito anche un secolo dopo dall’importo della spesa per l’allevamento di ben «70 bracchi nella Canatteria» del castello. Il mantenimento della muta di caccia di pregiati bracchi degli Spinelli necessitava nel 1693 una somma che sorpassava i «due mila ducati annui» (un ducato napoletano si stima avesse il potere di acquisto di circa 50 euro attuali).

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    Costosi e pregiati: bracchi da caccia

    Le ricchezze nel castello

    Altri elementi importanti per ricostruire il tenore di vita possono essere acquisiti da un rogito del 1551 (7 agosto) stilato dal notaio Angelo Desiderio di Cosenza.
    Il documento, conservato presso l’Archivio di Stato di Cosenza, è un «Inventario del Castello di Paola e degli arredi in esso contenuti».
    Il castello, come appare dalla descrizione che ne fa il rogito, era composto da più piani abitativi. Il piano nobile era in basso. Nella «sala subtana» e in una «camera grande» erano situati invece gli spazi di rappresentanza, le camere da letto e alcuni «magazzeni».

    Nei magazzini si trovavano stipate, fra le altre «massarizie, quattro pezze di panni nigri di arbascio […] item un materazzo piccolo», e non mancano oggetti alla rinfusa e strumenti disparati della vita quotidiana, come «una pala di ferro […] item una sella foderata di velluto […] item quattro baliggi di cojro, due grandi e due piccole […] item venti candele di cera […] item due redini di cavallo».

    A tavola con gli Spinelli

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    Antica tavola nobiliare

    Il notaio passa alla descrizione di un cospicuo elenco di suppellettili di valore, oggetti di uso comune e utensili, arredi e vestiario, ma anche di molte provviste e alimenti che danno una idea concreta e reale dell’esistenza lussuosa condotta dai signori di Paola nel XVI secolo.
    A partire dal “superfluo” – e soprattutto dall’abbondanza di carni, vino, provviste e alimenti pregiati di cui vivono i pochi facoltosi e i privilegiati della corte feudale – è possibile restituire una immagine realistica di un’esistenza priva di angustie e ben lontana dagli assilli del quotidiano.

    Apprendiamo così che «nelle stanze de supra», si trovano «altri magazzeni» per le derrate e «le cucine», con la «stanza del forno, il cellaro, et la dispensa con vittuvaglie diverse». Fra le vettovaglie e gli alimenti conservati in dispensa, compaiono anche molti alimenti ricchi: «due pezzi di carne salata, item lardo […] item suppréssate […] item una pezza di caso palmeggiano».

    Neve ’e Parma: un formaggio speciale

    La diffusione del «caso palmeggiano» alle latitudini calabresi e la presenza di questo insolito formaggio padano sulle ricche mense degli Spinelli, è una rara eccezione gastronomica che infrange le rigide consuetudini alimentari della Calabria del Cinquecento. La regione, all’epoca, era grande esportatrice di formaggi ovini in tutto il Mediterraneo. E la dieta popolare era poverissima: cacio pecorino è praticamente la fonte esclusiva di proteine e grassi animali a buon mercato per i ceti meno abbienti.

    Tuttavia, va ricordato che nel primo Cinquecento il parmigiano era noto nel Mezzogiorno. A Napoli lo vendevano gli ambulanti, persino nella versione grattugiata. In tal caso, era conosciuto col nomignolo di «Neve ’e Parma» (neve di Parma).
    Evidentemente, l’abitudine partenopea di usare il «caso palmeggiano» sui maccheroni, era diffusa tra i ricchi e quindi condivisa anche sulle mense della corte Spinelli.

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    Il signore della tavola: il parmigiano

    Grattacaso, saponi e altri lussi del castello

    Lo conferma lo stesso inventario del 1551, che ci fa scoprire assieme alla preziosa forma di «caso palmeggiano», anche il corredo di utensili da cucina che ne completava l’uso.
    Infatti, nei magazzini del castello, si trovano «due grattacaso de ferro, una grande et una piccola».

    Seguono altri rari beni di consumo. Tra questi, notevole indizio di abitudini igieniche non comuni per quei tempi, la presenza di una cassa di sapone.
    Non mancano i pezzi pregiati: nelle camere da letto scopriamo uno «sproviero di raso giallo guarnito di velluto carmosino misto a bianco et frangie […] item un altro sproviero di seta bianca con passamano et frangie di seta carmosina e bianca […] item due segge guarnite di velluto verde […] item due altre segge guarnite di velluto verde […] item la lettiga guarnita di raso con dentro due cuscini di velluto carmosino».

    Il guardaroba degli Spinelli

    Il guardaroba personale dei signori era costituito da una profusione di vesti e stoffe di lusso, con applicazioni «di frangie di seta verde e oro […] item velluto carmosino […] item seta bianca con passamano».
    Il civettuolo guardaroba personale della castellana di Paola, oltre alle molte guarnizioni di «veste complete», i capi di velluto, seta e raso, non manca di completarsi anche con «pelli di martore […] item pelli di lontra». Mentre fra gli addobbi molte delle telerie «sono di oro; item due misali grandi, item quattro altri misali».

    La cappella privata degli Spinelli

    Fra le non poche suppellettili in oro nell’elenco si contano ben «undici candelieri piccoli», ma anche un oggetto curioso e decisamente superfluo come un «collare di cane arrecamato di oro matto».
    Fra i preziosi e gli oggetti d’arte in possesso dei signori di Paola nel 1551 si trovano inventariati fra gli altri «un calice d’argento, item una patena d’argento, item un madonna d’argento». L’inventario fra le gioie conta ancora «molti scrigni con oggetti preziosi […] item reliquiari».
    Inoltre paramenti sacri e indumenti ecclesiastici completano un quadro di ricchezza di tutto rispetto, probabilmente senza pari anche fra le residenze di altre potenti case feudali della Calabria dell’epoca, come i Sanseverino, i Carafa o i Ruffo.

    Un ospite speciale: l’abate Pacichelli

    Anche dalla vivace descrizione che fa del castello Spinelli di Paola l’abate romano Giovan Battista Pacichelli, sceso a Paola nel 1693, è possibile ricavare un quadro di riferimento attendibile, seppure limitato al solo campione nobiliare, per certi aspetti della vita materiale.
    Il prelato romano annotando nella sua descrizione gli aspetti funzionali e la fisionomia costruttiva del castello Spinelli, descrive una ricca magione. Esso era «partito di più quarti […] e assai commodo», dotato all’ingresso di «un cavalcatore assai largo» e ben illuminato da diverse «fenestre». L’acqua vi veniva condotta per mezzo di un acquedotto di «acqua perenne».
    Il castello disponeva anche di una affollata scuderia attrezzata per ben «60 cavalli, e più muli».

    Più che una fortificazione militare (la piazzaforte era difesa oramai solo da «qualche cannone di ferro», tra cui uno «crepato»), il religioso racconta un lussuoso palazzo signorile con pochi eguali.
    Il visitatore fu condotto «a veder le suppellettili» che impreziosivano il palazzo feudale. Nelle stanze superiori ai trovavano «de tappeti, e de Quadri, scrittori ed altro; una bella tela dipinta da un Forastiero nel volto di un Camerone». La «Cappella nobiliare» esistente all’interno del palazzo era decorata invece con un «Choretto».

    Le meraviglie del castello Spinelli

    Agli occhi del prelato romano, il castello Spinelli sembrava una vera e propria scatola delle meraviglie. Anche la distribuzione e l’organizzazione interna degli ambienti e delle numerose stanze in cui il grande castello si dipanava, assumono una precisa funzione ed un significato ideologico e culturale non trascurabile.
    L’articolata distribuzione degli ambienti e la differenziazione degli spazi abitativi è – come afferma Braudel per la società dell’ancien régime – esclusivo «priviligio dei signori». Un privilegio insostituibile poiché conferma lo status dei potenti, rendendo l’idea e l’immagine della magnificenza e del potere immediatamente percettibili a tutti (molto spazio e molto lusso domestico, molto potere).

    Gli ambienti di servizio del palazzo – «le stanze di sopra» – con le cucine, il «cellaro», i magazzini e le dispense, risultano ben distinti e defilati dagli altri ambienti in basso, al piano nobile, dove invece si svolgeva la vita domestica della piccola corte, che abitava gli ambienti di rappresentanza costituiti dalle numerose stanze «subtane» e si ritrovava nei «due tinelli» comuni situati «nella camera grande». Questi ambienti, riccamente arredati, di solito ospitavano, secondo la descrizione dell’abate Pacichelli, «corte nobile di molti cavalieri, officiali e inferiore servitù».

    L’ufficio del signore

    Fra queste stanze, il potente principe Spinelli aveva un suo spazio privato. Era un luogo ben riposto e discreto, necessario all’esercizio privato del potere del principe: la «stanza detta de Burrello». Il «Burrello», ove il signore di Paola riceve i suoi ospiti, prende le decisioni più riservate e disbriga le pratiche del potere, è appunto una sorta di gabinetto politico.
    L’espressione «de Burrello» che compare nel citato inventario del 1551 allude infatti ad una evidente corruzione della parola francese bureau.

    A pranzo dai gesuiti

    Pacichelli descrive infine in toni entusiastici i cibi e le portate di un banchetto servito in suo onore dai Padri Gesuiti del Collegio di Paola, presso cui fu ospite. In questo frangente, l’abate celebra fra le pietanze il gusto delle «prede di pesce esquisito» che gli furono servite. E ancora riferisce che «nel desinare con le carni più scelte fu copia di fravola, di limoni e di frutti: et alla cena più specie di pesce». Un banchetto raffinato e sontuoso, esaltato dalla «abbondanza de perfettissimi vini e delicatissimi frutti». Come dire il lusso dei ricchi, i privilegi di nobili e clero.

  • La città dei cani: in Calabria batte un cuore a quattro zampe

    La città dei cani: in Calabria batte un cuore a quattro zampe

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    C’era un akita in in ogni angolo d’Italia una decina di anni fa, dopo l’uscita di Hachiko – Il tuo migliore amico. Il meraviglioso cane giapponese del film con Richard Gere non è propriamente un cane da salotto. È un esemplare da lavoro e da caccia, ha un temperamento particolare. Sa essere docile e mansueto, quando il padrone è bravo a comprenderlo e a gestirlo.

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    Tutti insieme appassionatamente nel Villaggio dei randagi a Caraffa (Cz)

    La razza e i lager

    La moda della razza è un vizio anche calabrese e sono state tante le famiglie che pur temendo i cani, ne hanno accolto uno in casa durante la pandemia. Tra contraddizioni e fenomeni strani, si intravede però un cambiamento, a detta degli esperti.
    Inizia a battere il cuore cinofilo della Calabria. Le associazioni in difesa del randagio non si contano. Da pochi anni opera nella regione Save the Dog, la cui mission è rafforzare l’anagrafe canina e promuovere campagne per la sterilizzazione. I partner locali sono le associazioni Argo e Amici animali Fef di Cosenza.

    La Lega antivivisezione non fa sconti ai canili calabresi: i più affollati d’Italia. Seimila cani, denuncia nel suo ultimo rapporto, sono stipati nel crotonese, le cui strutture superano di parecchio i limiti di capienza. Contro i «canili lager» si batte da sempre Aldina Stinchi, 74 anni.

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    Il Villaggio dei randagi a Caraffa (Cz)

    La città dei cani

    A Caraffa, alle porte di Catanzaro, ha creato vent’anni fa una città del cane. Si chiama il Villaggio dei randagi dell’associazione Bios e si estende su una superficie di tre ettari e mezzo. Cucce e capanne, punti cibo e acqua, alberi, sentieri e niente cemento. «Il nostro è un modello innovativo, i cani vivono in ampi recinti e in gruppi, messi insieme per compatibilità caratteriali e altre caratteristiche che garantiscono la serena convivenza. In questo momento ospitiamo 150 cani. Vivono in semilibertà e soprattutto non sono costretti a stare nelle gabbie, che reputo qualcosa di arcaico e barbaro».

    Ad Aldina venne l’idea del villaggio «dall’osservazione attenta delle leggi sia nazionali sia regionali che, finalmente, impedivano l’uccisione degli animali». Nella dog city di Caraffa si cucinano 45 chili di pasta al giorno e con l’aumento dei prezzi sta diventando sempre più difficile mantenere i ritmi. Non ci sono sovvenzioni istituzionali, ma la solidarietà è tanta, come i volontari.

    Le staffette dell’amore

    E come la tenacia di Aldina che ha dichiarato una «feroce guerra» alle staffette dell’amore, le adozioni dei cani del Sud Italia nelle città del nord. Un fenomeno di grosse proporzioni ma completamente fuori controllo. I social sono invasi da fotografie di animali domestici, da immagini e post che raccontano storie d’amore tra cani e padroni, e sono pieni zeppi di compravendite e appelli per adozioni. La Lav contava 14mila 599 ospiti dei canili sanitari della regione nel 2017. Poi, denuncia nel suo ultimo rapporto, non è stato più possibile avere dati aggiornati.

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    Carmela Di Nardo e Billy the kid (ph Concetta Guido)

    Il boom col lockdown

    Batte il cuore cinofilo calabrese, tra storie tristi e qualche buon segnale. «Credo che in Calabria sia in atto un cambio di mentalità, anche se manca una vera e propria cultura dell’educazione cinofila», dice Carmela Di Nardo, 44 anni, addestratore Enci. «Ritengo che ci siano molte persone competenti. Il numero dei cani adottati è aumentato in maniera considerevole, bisogna dire però che durante il lockdown c’è stata un po’ di leggerezza».

    Carmela dedica tutte le sue giornate ai cani. È educatrice, studiosa di etologia e operatrice zooantropologica. Con il suo compagno e partner di lavoro Luca Indrieri, porta la cultura cinofila nelle scuole e negli asili. Un tipo di attività rara dalle nostre parti, dice, che «fatica ad essere riconosciuta e richiesta». Frequentava l’Orientale di Napoli quando nella sua vita è entrato un labrador. «Lo chiamai Biko, come Steven Biko, pensando alla canzone che Peter Gabriel ha dedicato all’attivista sudafricano». Un colpo di fulmine così intenso da farle decidere di cambiare strada, formarsi in cinofilia ed entrare in un mondo colorato ma faticoso.

    «La nostra associazione, la Yellowjoy, nata nel 2010, si occupa di educazione di base ed avanzata, aiutiamo la relazione tra il padrone e il suo animale, collaboriamo con il veterinario comportamentale, intervenendo su richiesta nel caso di problematiche come può essere l’aggressività o l’iperattività o anche l’avere paura».

    Luca Indrieri, addestratore e compagno di Carmela Di Nardo

    Cani giocattolo

    Perché loro, i cuccioli, non sono giocattoli e neanche un pacchetto da lasciare in un angolo per intere giornate. «Una volta venivano selezionati per carattere e attitudine, cioè per criteri funzionali e non morfologici. Adesso è il contrario – continua Carmela Di Nardo, – si guardano gli aspetti estetici e così può succedere di scegliere un maremmano come cane di famiglia, anche quando si vive in un appartamento di settanta metri quadrati. È chiaro che in questi casi possono subentrare problemi di convivenza».

    In contrada Motta di Castrolibero c’è il campetto di YellowJoy, luogo di addestramento e spazio di socializzazione. Da qui partono escursioni e passeggiate di gruppi di umani e cani in armonia. Qui gli ospiti fanno agility dog e sport condiviso con i padroni. È un giovedì pomeriggio e due levrieri incantano con la loro esile eleganza, un pitbull sta facendo una corsetta a ostacoli e Teseo, un monumentale corso, si prepara all’esposizione internazionale canina di Rende e Vibo Valentia, ripartita dopo un fermo di due edizioni a causa del Covid. Asia e Maia, entrambe simpatiche e argute meticce, Billy the kid e gli altri labrador dell’associazione sfrecciano veloci nell’erba, sembrano impazziti di gioia per poi fermarsi al comando, immobili come statue.

    Addestramento di cani nella Sila Grande

    La Terra promessa

    Carmela, come tanti operatori cinofili, guarda al fenomeno delle staffette con circospezione. Non tutti i cani trasportati a tanti chilometri di distanza dal loro ambiente trovano una sistemazione felice. I canili rifugio esplodono e le staffette che trasportano trovatelli sono ormai quotidiane. Nel 2019 le adozioni, cioè la sistemazione di randagi calabresi, sono state 1492. Quasi totalmente al Nord, sostiene la Lav.

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    Aldina Stinchi

    «Noi ci battiamo in maniera feroce contro questo traffico di animali», dice senza mezzi termini Aldina Stinchi. «Le staffette partono per arrivare a un presunto nord felice che dovrebbe avere la capacità di ospitare migliaia di animali. È qualcosa di indecente e noi non sappiamo che fine facciano tutti i cani. Qualcuno troverà una buona sistemazione, ma gli altri? A volte il cane viene ospitato in una famiglia senza che ne sia stato verificato l’indice di adattabilità. E così viene abbandonato una seconda volta». L’associazione della Stinchi denuncia le collette promosse su Facebook, il business dei canili, che percepiscono soldi pubblici per mantenere i loro ospiti, le condizioni del viaggio verso le terre promesse, «terribili. Per me sono vere e proprie deportazioni».

    Gabbie invisibili

    A Caraffa di Catanzaro si recuperano nel green cani ammalati, abbandonati, buttati davanti al cancello del villaggio. A contrada Motta, nel campo di Yellowjoy, si insegna caparbiamente che il benessere del cane cammina su sei zampe. In qualche agglomerato cittadino spuntano rari cani di quartiere. Ma le gabbie dei randagi sono dure da abbattere. Sono di ferro ma anche invisibili.

  • Un Messia a Bocchigliero: la setta dei Santi e la “coricata”

    Un Messia a Bocchigliero: la setta dei Santi e la “coricata”

    La storia della Società dei Santi, setta religiosa sviluppatasi a Bocchigliero nella metà dell’Ottocento, è sintomatica della complessità della religiosità popolare. Tutto ha origine con l’apparizione dell’Arcangelo Michele a un paesano che annuncia l’avvento di un nuovo mondo. Molti contadini, suggestionati dalla visione, si organizzano per attendere la venuta del Messia e dichiarano la nascita di una nuova religione in contrasto con quella predicata da preti corrotti e simoniaci.

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    L’iconografia classica di San Michele Arcangelo

    Predicare tutti, predicare ovunque

    In nome delle verità antiche, i Santi si rivolgono al tempo in cui la Chiesa era essenzialmente laica e i predicatori avevano un rapporto diretto con Dio. Matteo Renzo, Gabriele Donnici e la giovane Rachela Berardi sono ispirati direttamente dal Padre Eterno e le loro parole danno speranza, pacificano le anime inquiete e infondono una grande serenità. I Santi professano la predicazione libera di tutti e non ritengono necessario riunirsi nei luoghi consacrati poiché Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo.

    Il profeta Matteo Renzo, come Gioacchino da Fiore, evoca l’andamento delle stagioni, il cielo e il mare, il giorno e la notte. Per simboleggiare la miseria cita l’inverno, periodo in cui gli uomini non lavorano e soffrono il freddo e la fame; per dare l’idea del benessere e della felicità, parla dell’estate, tempo dei raccolti e dei benefici raggi del sole. Come Gioacchino, pensa all’avvento di un nuovo mondo, alla nascita di uomini eletti e alla venuta di un novello Messia che sarebbe nato proprio a Bocchigliero, tra gli adepti della setta.

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    Uno scatto di Franco Pinna presente nel libro di Ernesto De Martino sul rito della “coricata” (1959)

    Il Messia a Bocchigliero

    Il messia dei Santi somiglia a quello che aspettano gli Ebrei, popolo in cui si riconoscono, forse perché analoghe sono le attese per la realizzazione delle promesse di giustizia. E perché, come loro, oppressi e umiliati, cercano di riscattare la propria sottomissione sociale, politica e culturale. È probabile che la loro propensione per il giudaismo sia retaggio della presenza degli Ebrei in quel paese che, secondo Padula, porta un nome di chiara origine semitica. È interessante notare come molti adepti della setta si chiamino Matteo, Mosè, Giuditta, Rachele, Daniele, Giacobbe, Samuele, Giosuè, Ezechiele, Davide, Abramo, Gabriele e Abele.

    Nell’attesa del Messia, i Santi auspicavano la nascita di un movimento religioso nuovo, quello dei Secolari, simile ai Santi Crociferi e alla Milizia dello Spirito Santo, profetizzati secoli prima da San Francesco di Paola. Gli adepti cominciano a vivere una vita da asceti, a mortificare il corpo e a praticare penitenze estenuanti. Si racconta che alcuni, con le braccia legate da funi, in bocca l’assenzio e in capo una corona di spine, si esponessero al freddo e al vento e praticassero rigorosi digiuni.

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    L’altopiano silano (foto di Franco Pinna 1959 tratta dal libro di Ernesto De Martino sulla “coricata”)

    La coricata

    Le penitenze non erano, però, sufficienti per la completa purificazione dei mali che abitavano nell’uomo: ira, ingordigia, avarizia, superbia e, soprattutto, lussuria. Il desiderio di purificare anima e corpo, spinge gli adepti della setta a teorizzare rigide forme di mortificazione carnale, a considerare il sesso come degradante e la verginità come fonte di santità. Essi iniziano a praticare il rito della coricata: per una intera notte uomini e donne nudi uniscono gli ombelichi – accucchiamu villicu e villico – e tentano di non eccitarsi per sconfiggere il diavolo – ppè scattare lu malu nimicu.

    L’idea che ispira questo tipo di prova è semplice: il corpo dell’uomo è per natura corruttibile in quanto opera e proprietà di Satana, mentre l’anima è puro spirito incorruttibile perché opera e proprietà di Dio. Dio ha creato lo spirito e Satana la materia per imprigionarlo. I Santi credono, dunque, che per raggiungere la più completa purificazione bisogna liberarsi da ogni soggezione dalla materia; ottenendo la purezza e superando le differenze irriducibili come maschio e femmina, sarebbero diventati santi e ricongiungendosi a Dio avrebbero conquistato la vita eterna. Il nocciolo del loro impianto religioso è di natura gnostica: il corpo inteso come prigione dell’anima. Solo attraverso il distacco dai piaceri materiali e la mortificazione del corpo si giunge alla conoscenza e alla perfezione.

    Asceti a Bocchigliero

    È difficile stabilire come e quando il rito della coricata sia maturato nella setta. Può darsi che tale ritualità si sviluppò da aneddoti raccontati dai preti sulla vita di asceti, per esempio quello ricorrente della tentazione del demonio che si presenta sotto forma di avvenente fanciulla: San Francesco d’Assisi, per spegnere gli ardori sessuali, si rotolò nudo nella neve, San Francesco di Paola si immerse nelle freddissime acque del torrente Isca.

    La ritualità della coricata è una radicalizzazione di metodi già sperimentati dai cristiani per resistere alla tentazione della carne. Secoli addietro alcuni fedeli si erano allontanati dalla comunità per vivere nel deserto o nei conventi, dove la battaglia contro fame e sete sarebbe stata molto più dura di quella contro il sesso. Per i Santi di Bocchigliero un rigido regime di vita o la solitudine estrema non sono sufficienti a frenare la passione carnale. Così, come gli Encratiti, praticano l’astinenza collettiva, in modo che l’individuo, sentendosi parte del gruppo, sia spinto ed aiutato ad osservare la castità.

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    Campanacci: le foto di Franco Pinna accompagnano il testo dell’antropologo Ernesto De Martino “La Sila, Roma, Lea 1959. Il rito della coricata”.

    Il figlio di San Giuseppe

    I Santi furono accusati di vivere nel peccato poiché, con la scusa di sottoporsi a prove erotiche per raggiungere la purezza, praticavano il libero amore e la promiscuità sessuale. Fra le donne che rimasero incinte c’era la più stimata della setta, Maria Giuseppa Berardi e il padre del bambino era Matteo Renzo, detto san Giuseppe, colui che prima di ogni altro era riuscito ad ottenere il distacco dello spirito dal corpo. La giovane chiese all’amante di riparare l’onore perduto e di riconoscere il figlio, ma egli acconsentì solo dopo le minacce dei parenti di lei.

    Le vergini di Bocchigliero

    Non possiamo escludere che il rito della coricata o la convinzione che il messia dovesse nascere da una donna della setta fossero delle trovate per avere rapporti liberi. Tra la popolazione di Bocchigliero era diffusa la credenza che con la pietra agave, o pumiciosa, fosse possibile restituire la verginità alle donne e che consumare il matrimonio prima di sposarsi non fosse peccato perché il diavolo possedeva tutte le vergini in procinto di prendere marito.

    Si trattava di stratagemmi per aggirare codici morali che impedivano i rapporti prematrimoniali o frutto di superstizioni radicate nella mentalità collettiva? Non abbiamo motivo di dubitare che la gente credesse sinceramente che il demonio deflorasse le fanciulle: in paese non c’era abitazione senza un’immagine apotropaica utile a scacciare gli spiriti maligni. Preti e laici accusavano i Santi di imprigionare il Diavolo che si trasformava in un gatto nero o in una bella donna, ma diversi religiosi erano specializzati nell’esorcizzarlo.

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    Strade e volti in Sila alla fine degli anni ’50: foto di Franco Pinna

    La Madonna carcerata

    Le magie, le credenze, il delirio, l’autoesaltazione e la bizzarria dei Santi, denunciate come tali dai loro nemici, erano il risultato di una cultura religiosa antichissima, sopravvissuta nella comunità di Bocchigliero con la complicità della stessa Chiesa. In occasione della festa in onore della Madonna de Jesu, che si svolgeva due volte all’anno, la chiesetta della Riforma era affollata di gente che con devozione portava «mai», accendeva candele e lampade ad olio, cantava e salmodiava rosari, strisciava in ginocchio fino all’altare.

    In occasione di tormente di neve, alluvioni o siccità, la stessa Madonna veniva, però, immediatamente trasferita dal suo altare e «carcerata» nella chiesa madre affinché allontanasse i pericoli dalla comunità. Il termine carcerare sta ad indicare proprio l’intenzione degli abitanti: la Vergine era prigioniera e restava lontana dalla sua chiesa sino a quando non avesse esaudito ciò che il popolo pretendeva. Grandi feste e grande devozione per la Madonna, dunque, ma anche disappunto e vendetta nel caso che non si comportasse adeguatamente!

  • Primo Maggio a Carfizzi: storia della più antica lotta contadina in Calabria

    Primo Maggio a Carfizzi: storia della più antica lotta contadina in Calabria

    A Carfizzi, appena 506 abitanti tra la Sila crotonese e la costa jonica, la storia, anche quella contemporanea, sfocia nella leggenda.
    A Carfizzi, che sorge su una collina a poco più di 500 metri sul livello del mare, c’è un’ulteriore altura, la Montagnella, in cui confluiscono tre sentieri, che partono dal centro del paesino e dalle vicine Pallagorio e San Nicola dell’Alto.

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    Bandiere rosse sventolano sulla Montagnella di Carfizzi negli anni ’70

    Sono tre comuni arbëreshë dalla demografia ridotta al minimo dall’emigrazione. E tuttavia, hanno una memoria importante.

    Carfizzi: avanguardia contadina

    Le comunità albanesi di Calabria hanno una vocazione particolare: essersi trovate in prima linea in tutte le grandi trasformazioni storiche. Fu così per il Risorgimento e per il fascismo. Ma anche per l’antifascismo.
    A riprova che nella Calabria contemporanea povera e arretrata ci fu sempre chi desiderò un futuro diverso. Ma gli arbëreshë, forse, lo desiderarono di più.
    Ed ecco che il primo maggio 1919 si svolse proprio sulla Montagnella di Carfizzi la prima lotta pubblica dei contadini, in perfetta sincronia con quanto avveniva al Nord in quegli stessi anni di crisi profonda e in anticipo o quasi sul resto del Mezzogiorno.

    Pasquale Tassone: il dottor Lavoro

    Si potrebbero riempire interi tomi sulle condizioni dei braccianti agricoli calabresi a cavallo tra XIX e XX secolo.
    Terribile ovunque, la vita dei contadini non proprietari era pessima nel Crotonese, dove il latifondo aveva resistito a tutti: francesi, Borbone e liberali.
    E c’era di peggio: il livello di vita dei minatori. La parola chiave di questa situazione, che rispecchiava alla perfezione gli schemi marxisti, è: sfruttamento.

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    L’urna di famiglia di Pasquale Tassone

    Erano senz’altro una forma di sfruttamento, a tratti odiosa, le 12 ore al giorno di lavoro nei campi di Carfizzi e Pallagorio e nelle zolfatare di San Nicola per compensi da fame.
    La prima protesta, pacifica, fu organizzata da Pasquale Tassone, medico e sottufficiale del Regio Esercito, fresco reduce della Grande Guerra e si svolse, appunto, il primo maggio del 1919.

    Tassone, di idee socialiste come molti esponenti della borghesia emergente dell’epoca, riuscì a organizzare i lavoratori per dare il via a una serie di manifestazioni dal forte simbolismo. L’unità tra operai e contadini, tanto predicata da Gramsci (un altro albanofono illustre), si realizzava anche nella Calabria profonda, in occasione del primo maggio.
    In perfetta coerenza con le proprie idee, il medico operaio divenne antifascista. E forse pagò con la vita la sua scelta e le sue lotte: morì per un colpo di fucile ricevuto in circostanze mai chiarite il 12 dicembre del 1935.

    Carfizzi e non solo: storia della manifestazione

    Il primo maggio “albanese” subì, va da sé, un’interruzione durante il Ventennio.
    Ma anche a questo riguardo, non mancano le leggende metropolitane: c’è chi sostiene che i braccianti e gli operai della zona abbiano continuato a celebrare di nascosto la festa dei lavoratori sulla Montagnella, magari approfittando della tolleranza dei notabili locali.

    Tuttavia, il primo maggio della Montagnella riprende alla grande solo a partire dal 1946, quando l’amministrazione dell’Amgot (il governo militare alleato), non proprio favorevole alle manifestazioni operaie, lascia il territorio alle contese tra la Dc e il Fronte popolare.

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    Contadini in marcia nel Crotonese

    La ripresa, raccontano le poche fonti d’epoca, avvenne in grande stile, con tre grossi cortei che invasero pacificamente la Montagnella per celebrare la prima vera Festa dei lavoratori del dopoguerra.

    Da allora in avanti, il copione di questo Primo maggio arbëresh è rimasto più o meno invariato: il raduno sulla cima dell’altura, l’immancabile comizio dei “forestieri”, cioè dei dirigenti sindacali della “triplice”, regionali e non solo, e poi la festa.
    Ma negli anni ’40 il clima era tutt’altro che allegro e il sindacato non era affatto “imborghesito”, come oggi.

    Disordini e tragedie: Giuditta Levato

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    Giuditta Levato

    La fine della guerra aveva riacceso le vecchie tensioni sociali, calmierate dal fascismo col classico “bastone e carota” tipico delle dittature.
    La legge Gullo, in particolare, aveva rilanciato le speranze dei braccianti di poter diventare proprietari, vivere del proprio e non più sotto padrone.
    La questione delle terre, irrisolta dai tempi delle Due Sicilie, riesplose con le occupazioni dei contadini.
    La morte tragica di Giuditta Levato, colpita a morte da una fucilata a Sellia Marina durante una protesta contro il barone Mazza, chiuse in maniera tragica il 1946.
    Ma il peggio doveva arrivare.

    Arresti e strage: Carfizzi e Melissa

    Nel 1949 la borghesia italiana tira un sospiro di sollievo: la Dc ha vinto le Politiche dell’anno prima e l’Italia resta a Ovest.
    Tuttavia, le tensioni restano altissime, in particolare sulle coste orientali della Calabria, dove si verifica un’imponente manifestazione di massa: circa 14mila contadini occupano le terre abbandonata o “usurpate” dai vecchi notabili, trasformatisi da feudatari in latifondisti.
    Più che rivoluzionaria, la pretesa dei braccianti è legalitaria: il rispetto delle norme della legge Gullo, su cui la Dc, all’epoca vicina ai terrieri, era piuttosto “tiepida”.

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    Il ricordo delle vittime della strage di Melissa

    In questo contesto, in cui la fobia anticomunista giustifica le strette autoritarie, sedici contadini di Carfizzi vengono arrestati. La loro colpa? Aver partecipato a una manifestazione per l’occupazione delle terre.
    Ma la tragedia vera e propria avviene a Melissa, per la precisione nel feudo Fragalà, di cui il maggiore proprietario è il barone Luigi Berlingieri.

    Ottobre di sangue

    Su questo feudo c’è una contesa antica. I napoleonici ne avevano assegnato metà al demanio. Tuttavia, gli ex feudatari avevano di fatto “usurpato” la parte pubblica, destinata ai contadini poveri. E questa situazione si era protratta fino alla legge Gullo.
    L’esplosione delle proteste spinge i dirigenti calabresi della Dc a chiedere aiuto a Roma, in particolare al Ministero dell’interno, presieduto da Mario Scelba, un duro animato da un anticomunismo a prova di bomba.
    Scelba invia i reparti della Celere, il corpo di polizia antiguerriglia di fresca costituzione. Uno di questi reparti si stabilisce proprio a Melissa, dove la tensione tra i contadini e il barone Berlingieri è alle stelle.

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    La storica prima pagina che il settimanale satirico Cuore dedicò alla morte dell’ex ministro Scelba

    Il 29 ottobre, la tragedia: i celerini caricano la folla dei manifestanti. E sparano ad altezza uomo: prima proiettili di legno, poi quelli veri.
    Nel parapiglia, restano colpiti 18 contadini. Due di loro muoiono sul colpo: sono il 30enne Francesco Nigro e il 15enne Giovanni Zito.
    Angelina Mauro, una ragazza di 23 anni, viene soccorsa. Ma inutilmente: morirà poco dopo per le ferite ricevute.

    Il primo maggio borghese

    In memoria di quella tragedia, a Carfizzi l’artista Antonio Cersosimo ha realizzato nel 1998 il “Monumento al I maggio” una scultura in marmo che svetta in cima alla Montagnella.
    I tempi sono cambiati per fortuna, e la miseria da cui sono scaturite quelle tragedie è un ricordo.

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    Il monumento sulla Montagnella

    La Montagnella del 2022, riprende dopo due anni di interruzione dovuta alla pandemia, con un tema antico: la sicurezza sul lavoro, affrontato da Angelo Sposato, segretario generale della Cgil Calabria, Santo Biondo, il suo omologo della Uil, Giuseppe De Tursi e Rossella Napolano, dirigenti della Cisl della Calabria centrale. A chiudere, il concerto di Eugenio Bennato, un habitué di queste iniziative.
    A 104 anni di distanza dalla prima Montagnella il lavoro resta un’emergenza, con ben altre tragedie.

  • Torremezzo: nostalgia del mare arbëresh

    Torremezzo: nostalgia del mare arbëresh

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    Terzo anno di pandemia, di nuovo a pensare alle vacanze possibili. Condizionato dal Covid e dalle relative problematiche due anni fa e poi l’estate scorsa ho iniziato a passare in rassegna le spiagge della mia infanzia, progettando di ritrovarne una adatta a un periodo di riposo. Ne ho rivisto alcune dopo decenni di reciproca indifferenza. Speravo di evitare le videochiamate pietose dei tanti connazionali confinati in quarantena a Malta, come a Mykonos o alle Baleari, imploranti soccorso dalla patria lontana. Questa umiliazione pubblica e mediatica no, non intendevo subirla.

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    Il mare di Fiumefreddo visto dal centro storico

    Due mesi sul Tirreno cosentino

    I miei genitori, da Cosenza, quando noi figli eravamo piccoli – parliamo di mezzo secolo fa – avevano preso l’abitudine di affittare un appartamento al mare. Per un mese, a volte anche per due, come si usava allora, di solito sul Tirreno cosentino. Da Amantea a Cetraro, da Guardia Piemontese a Fiumefreddo, da Fuscaldo ad Acquappesa, abbiamo vagato per molti anni, come gli ebrei nel deserto del Sinai. Gli ebrei avevano trasgredito, così racconta la Bibbia, ma noi che colpa dovevamo espiare? Cosa cercavamo, dopo aver caricato l’auto di tante masserizie, che all’epoca i padroni di casa non ritenevano di mettere a disposizione degli ospiti?

    Dune, mare, edifici abusivi

    Un’estate, forse due siamo sbarcati a Torremezzo, frazione sul mare di Falconara Albanese. Le marine calabresi si somigliavano tutte, tra le dune dal nulla spuntavano case e palazzi vicinissimi alla spiaggia. Edifici in gran parte abusivi ovviamente, proprio davanti al rilevato ferroviario, così di notte si saltava nel letto, al passaggio di ogni espresso Palermo-Milano.
    Le prime case prese in affitto dai miei non le ricordo, ero troppo piccolo. Dai racconti che ritrovo nella memoria si capisce che erano essenziali e scomode, ma ancora più ristretti erano gli alloggi dei proprietari che, pur di guadagnare qualcosa, si trasferivano in una mansarda, o presso parenti. A Torremezzo, però, eravamo già negli anni Settanta e le sistemazioni pioneristiche, per uomini duri, erano disponibili, per fortuna nostra, solo ai ritardatari incalliti.

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    Il centro storico di Falconara Albanese, Comune che comprende anche Torremezzo

    L’eparchia di Lungro arriva a Torremezzo

    Non ho trovato molte foto di queste vacanze, soprattutto le case si vedono appena. All’epoca scattare una foto richiedeva un minimo di formalità, un’occasione, un compleanno, una prima comunione, eravamo lontani dalla follia dei social.
    Quello che mi ha meravigliato, però, dopo tanti anni, parcheggiando sul lungo viale di Torremezzo, davanti ai palazzi e ai condomini scrostati dalla salsedine, è stata la scoperta di trovarmi nei confini dell’eparchia di Lungro. L’eparchia è una circoscrizione amministrativa, in uso nella chiesa orientale. Quella di Lungro è una delle due eparchie italiane, l’altra ha sede a Piana degli Albanesi, in Sicilia. Nelle due estati trascorse a Torremezzo non mi ero reso conto di dimorare in una comunità di cattolici albanesi di rito greco.

    L’eparchia di Lungro è stata istituita nel 1919, le sue comunità sono sparse lungo la valle del Crati, alcune anche fuori regione, ma i fondatori di Falconara si sono allontanati dai compatrioti fino a stabilirsi tra le montagne della catena tirrenica.
    La comunità originaria è quella di Falconara, un borgo nascosto tra le montagne, a qualche chilometro dal mare. Per non trovarsi d nuovo davanti i turchi, o piuttosto i pirati saraceni, da cui erano fuggiti intorno alla metà del Quattrocento, quando la loro terra entrò a far parte dell’Impero ottomano, la Sublime Porta.

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    Particolare del Castelluccio, nel Comune di Falconara Albanese

    La Storia mi è apparsa davanti all’improvviso, sotto le modeste sembianze di una piccola chiesa, intitolata al Santissimo Salvatore, in mezzo ad alcuni sterminati alveari abitativi dall’aspetto desolato, in abbandono. Tra le palazzine orfane di vacanzieri la chiesa era aperta e in ordine, ed era una tipica chiesa bizantina, con le icone alle pareti, i mosaici e l’iconostasi che separa la zona riservata al papas, al sacerdote, dal settore dei fedeli.

    I Balcani sul Tirreno?

    Imperdonabile non aver esplorato il territorio delle vacanze, anche se la chiesa non credo esistesse in quegli anni (su un sito arbëresh ho letto che fu edificata nel 1991). Ho scoperto anche che la parrocchia di Falconara entrò a far parte dell’eparchia in tempi recenti, durante l’episcopato a Cosenza di monsignor Enea Selis, che volle riunire quella comunità isolata alle altre comunità albanesi.
    Ma perché durante il mio soggiorno non mi ero spinto fino a Falconara? Cosa avevo da fare di importante in quella noiosa marina?

    Monsignor Selis accanto al papa in occasione dei 750 anni del Duomo di Cosenza

    Se mi fossi mosso da ragazzo avrei scoperto, molti anni prima, il fascino del mondo balcanico. Magari sarei partito subito per la Morea, in cerca dei castelli crociati e delle fortezze ottomane e veneziane. In Albania avrei ammirato prima il parco archeologico di Butrinto, bellissimo, immerso nel verde, circondato da una laguna, dove si passano in rassegna tutte le civiltà mediterranee.

    Le vacanze dei cosentini

    Il problema delle vacanze dei cosentini, a ragionarci adesso, mi appare chiaro: ci si ritrovava al mare, tutti negli stessi posti, sempre tra le stesse facce, a volte in mezzo a conoscenti, vicini di casa, parenti proprietari di seconda casa, data la nota, sfrenata passione edilizia dei miei concittadini. Quindi non ti veniva la curiosità di esplorare i luoghi, perché ti sembrava di stare sempre a Cosenza, una Cosenza con la spiaggia e il mare.

    A volte passeggiando a Guardia Piemontese, per dire, mi capitava di pensare di trovarmi in città, a via Caloprese. C’erano negozianti, parrucchieri, che in estate aprivano al mare un doppione dell’attività cittadina. Perfino i sacerdoti andavano in trasferta, a tenere d’occhio le pecorelle del gregge parrocchiale, temendo la dissolutezza e il sesso libero delle vacanze. Il massimo dell’esotismo era rappresentato da qualche famiglia di napoletani. In questa situazione non potevo pensare né all’esodo albanese né al dramma dei Valdesi massacrati a Guardia. Eravamo autoreferenziali, come si dice adesso.

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    Lo Scoglio della Regina nella marina di Guardia Piemontese (foto Alfonso Bombini 2021)

    In una marina nulla è pensato per spingerti verso la storia. Poi negli anni Settanta le marine erano una manifestazione della volontà di buttarsela alle spalle, quella storia triste, fatta di paesi isolati, di contrade senza acqua potabile e luce elettrica. Di noia e occhi sempre puntati addosso. Al mare si stava in costume, si passeggiava fino a tardi, si mangiava in modo più disordinato.

    In mezzo a tutti quei glutei esibiti senza ritegno (in molti casi sarebbe stato opportuno un velo pietoso), a quei corpi ustionati e spalmati di olio solare (un solo flacone di Coppertone appestava una spiaggia), offerti allo sguardo critico o libidinoso dei vicini di ombrellone, ognuno poteva illudersi di trovarsi nella lussureggiante Bora Bora. I locali, ovviamente con nomi evocativi, minimo Palm Beach, mandavano musica ad alto volume, tutto il giorno; che ti fregava, insomma, della storia della fondazione di Falconara?

    Torremezzo e Falconara

    Evidentemente questi saranno stati i miei colpevoli pensieri in quelle roventi estati a Torremezzo, pensieri disturbati dal fischio stridente del treno. Ora ne passano meno, di treni, mi sembra, e le folle di vacanzieri devono aver preso altre direzioni, a giudicare dall’aspetto dimesso e malconcio di molti edifici. Il mare purtroppo mi apparve sporco, in quella prima estate di pandemia, segnato da schiuma e strisce inquietanti. Peccato.

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    Ombrelloni vuoti sulla spiaggia di Torremezzo

    Ora sarebbe il momento di recuperare il filo della storia: a Falconara qualcuno si è preoccupato di studiare, raccogliere tradizioni, canti, usi della piccola comunità. In rete si trova qualche documento interessante, si rinvia a dei libri. Molto più di quello che di solito si riesce a leggere su un comune così piccolo. Bisognerebbe raccontare o inventare, nel caso, le mitiche peripezie dei fondatori. Necessita un racconto di fondazione. Si potrebbe anche prenderlo in prestito dai libri di Carmine Abate, che ne ha scritti tanti. Io ho ancora da recuperare gli altri borghi delle mie vacanze del secolo scorso, per espiare la distrazione peccaminosa degli anni giovanili.

  • Il partigiano della Sila che liberò Tirana

    Il partigiano della Sila che liberò Tirana

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    Se nessuno può cancellare le responsabilità dell’Italia fascista per la sua entrata in guerra nel 1940, nessuno può consentire che scenda l’oblio sul contributo eroico che, dopo l’8 settembre 1943, giorno della resa del Regio Esercito agli Alleati anglo-americani, i soldati italiani diedero alla liberazione di gran parte dei Paesi balcanici (Jugoslavia, Albania, Grecia) dalla occupazione nazista. A serbarne memoria concorre la vicenda di Giovanni Laurito, roglianese, nato un secolo fa (9 febbraio 1922) nella frazione silana di Saliano, combattente partigiano in Albania, che non volle arrendersi ai tedeschi e che, anzi, li combatté associandosi alle formazioni della Resistenza di quel Paese, dov’era giunto come militare di leva in forza alle truppe di invasione coloniale.

    Cent’anni da romanzo

    Un centenario, una vita da romanzo. Uno di quegli eroi, sin qui, anonimi che pure testimoniano i drammi della Seconda guerra mondiale e che, con aurea iscrizione, meritano di entrare negli annali con la forza del loro passato. Del partigiano Laurito non è solo la vicenda bellica del soldato a suscitare interesse e ammirazione, ma è anche la storia singolare dell’uomo, il vissuto del suo personale dopoguerra, che, dalla condizione di analfabeta e di autodidatta, lo portò, grazie alla sua alfieriana (nel senso del volli, e sempre volli, e fortissimamente volli) tenacia, alla irrefrenabile passione per la lettura, con risultati sorprendenti.

    Le rappresaglie dei nazisti

    Soldati del Reich in Grecia

    Tra l’8 settembre del 1943 e l’estate dell’anno successivo le truppe hitleriane, che avevano fiancheggiato quelle italiane di occupazione, in Albania, come in Jugoslavia e in Grecia, nella frustrazione della loro sconfitta, oramai ineluttabile, e della rottura dell’alleanza da parte dell’Italia, oramai irreversibile, scatenarono inaudite violenze contro le popolazioni locali e feroci rappresaglie contro i militari italiani in totale sbandamento. Che, pur decimati da deportazioni e da eccidi, come quello di Cefalonia, non mancarono di reagire.

    Partigiani all’estero

    Il loro coraggio, spinto in ardite controffensive, valse a indebolire le forze tedesche. In Grecia, tra i furiosi combattimenti ingaggiati tra ex alleati nelle isole dell’Egeo, a Corfù, a Cefalonia, i resti della Divisione Pinerolo, in azione nella Tessaglia, si unirono alle formazioni partigiane dell’Elas. Nel Montenegro, quelli delle Divisioni Venezia e Taurianense alimentarono le brigate della Divisione Garibaldi, che recarono un poderoso contributo alla guerra di liberazione.

    A Belgrado, si stagliò il valore dei battaglioni partigiani Garibaldi e Matteotti, nuclei della Divisione Italia, che, a fianco degli eserciti jugoslavo e russo, diede riconosciuto vigore alle operazioni in Slavonia fino al maggio del 1945 e alla liberazione di quelle terre. Dappertutto, fu versato sangue italiano. Come in Albania, dove le Divisioni Firenze, Arezzo e Perugia e i cavalleggeri della Monferrato sostennero aspri combattimenti contro i tedeschi per poi dar vita alla Divisione Antonio Gramsci, fornendo alla insurrezione albanese determinanti rinforzi.

    La Divisione Garibaldi in Montenegro

    La liberazione dell’Albania

    Tirana, 17 novembre: la parata nel giorno della liberazione

    Nell’agosto del 1944, l’anonimo soldato di Saliano, con l’esercito in rotta, fu tra quelli che rifiutarono di consegnare le armi ai tedeschi, rischiando così, se non la fucilazione, la deportazione nell’orrore dei lager nazisti. Con altri riuscì a sfuggire alla cattura e a rifugiarsi nelle boscaglie a monte del fiume Erzen, nei pressi di Tirana, sino a raggiungere il comando clandestino della Gramsci, chiedendo d’essere aggregato e di combattere dalla parte dell’Esercito albanese di Liberazione nazionale. Inquadrato come partigiano, non si tirò indietro dalle tempeste di fuoco fino al vittorioso epilogo. Il successivo 17 novembre, a conclusione delle ultime tre settimane di continui, durissimi combattimenti, Tirana fu definitivamente liberata.

    Un sagrestano comunista

    Tornato in patria, riconosciuto ufficialmente come “Partigiano per gli Italiani” combattente all’estero dal ministero dell’Assistenza postbellica (con nota del 16 ottobre 1948 inviata al Comitato provinciale dell’Anpi di Cosenza), il reduce di guerra (ri)costruì la sua vita, con l’aiuto del parroco, che lo applicò come sagrestano nella chiesa della Madonna del Rosario. Si iscrisse al Partito comunista (Pci).

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    La lettera che certifica l’impegno da partigiano di Laurito in Albania

    Lettere al partito

    Si dedicò, febbrilmente, alla sua istruzione, divorando libri e giornali. Prediligeva testi di storia e filosofia, saggi di politica, biografie e autobiografie delle personalità storiche che maggiormente lo affascinavano. Maturò, via via, la sua acerba confessione politica di puro comunista sino a farne un credo integralista, una fideistica ragione di vita.

    La esprimeva in fluviali lettere, indirizzate ai leader del Pci, un po’ per complimentarsi quando sentiva di farlo, un po’ per dispensare consigli e proposte, molto per richiamarli alla coerenza con i dettami del marxismo. Non pare ricevesse risposte, ma lui si sentiva appagato per il semplice fatto di aver detto la sua e di avere assolto i canoni della sua ortodossia.

    La biblioteca di un ex analfabeta

    Di frequente, nei pomeriggi d’estate, i paesani lo vedevano seduto sui gradini esterni all’ombra di qualche casa, al centro del borgo, con la testa china, concentrato nella lettura e pronto a compulsare uno dei vocabolari della sua ricca collezione, alla quale non mancavano dizionari dei sinonimi e contrari.

    Alcuni libri della biblioteca personale di Giovanni Laurito

    Nella biblioteca domestica dell’anziano partigiano tuttora campeggiano, tra i tanti altri, libri su Marx, su Lenin e sulla Rivoluzione d’ottobre, sul Risorgimento e, persino, un testo della Costituzione cinese; scritti di Rousseau (Origini della disuguaglianza), Stuart Mill (“Saggi sulla religione”), Antonio Labriola (“Lettere a Engels”), Antonio Gramsci (“Americanismo e fordismo”), Aleksandr Sergeevic Puskin (“Storia di Pugaciov”); Cesare Beccaria (“Dei delitti e delle pene”), Giuseppe Garibaldi (“Lettere”).

    Non mancano ritagli di giornale, tra i tanti, tutti significativi dei suoi interessi e della sua sensibilità politica: “La discussa eredità di Mao” (L’Unità, 23 settembre 1979); “Tartassati da uno Stato spendaccione” (Gazzetta del Sud, 14 febbraio 1988); “La ritardata notifica di provvedimenti cautelari provocherà l’esodo dei boss del maxiprocesso” (Gazzetta del sud, 3 giugno 1988).

    Il compleanno di Giovanni Laurito festeggiato con gli altri ospiti della casa di riposo di Malito

    Piuttosto restìo a raccontare il suo passato, Laurito ha dovuto compiere cent’anni (festeggiatissimi nella casa di riposo di Malito, dove da anni si trova), perché venisse fuori la trama d’una esistenza, la sua, votata alla più ferma aderenza alle proprie idee e battagliata, su più fronti, sempre in lotta di liberazione, prima, dalla tirannia, poi, dalla ignoranza. Del Partito comunista continua a sentirsi «militante e portabandiera». Nella sua quadratura culturale, gli viene facile conciliare cattolicesimo e marxismo, con radicale persuasione. «La mia idea – taglia corto – è stata ed è questa. Non la cambio proprio ora, no!».

  • Il 25 aprile inconsapevole dell’Italia che dimentica (ma festeggia)

    Il 25 aprile inconsapevole dell’Italia che dimentica (ma festeggia)

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    Si potrebbe parafrasare la lapide posta 75 anni prima su un lato dell’ingresso del Teatro Rendano, modificandone i versi di Giovanni Bovio – ispirati alla celebrazione della Breccia di Porta Pia – e rendendoli così: “Questa data politica dice finito il nazifascismo negli ordinamenti civili. Il dì che lo dirà finito moralmente sarà la data umana”. Dico questo dal momento che in questo 25 aprile, dopo quasi 80 anni, sembra ahimè piuttosto evidente che la fine morale non è ancora avvenuta. E non parlo tanto delle recrudescenze, non parlo solo di certe nostalgie estremistiche. Parlo di qualcosa di ben più generale, di altrettanto preoccupante, e soprattutto strisciante: di quella sorta di metastasi culturale che, senza neppure sgomitare tanto, si fa strada per inerzia e con molta comodità. Potrei chiamarla semplicemente ignoranza ma credo sia qualcosa di diverso.

    Il 25 aprile inconsapevole

    Il 25 aprile (giusto, desiderato, ottenuto, sofferto e quindi sacrosanto) è diventato per troppi un espediente per la celebrazione tout court. Vero è che non c’è da stupirsi molto, in un Paese che – se pur formalmente a maggioranza cattolica, e talvolta profondamente osservante – festeggia pure le ricorrenze religiose con ben scarsa consapevolezza di cosa si celi dietro una precisa data. Ma quando si parla di date civili, appunto, il problema potrebbe e dovrebbe irritare di più.
    Era il 2015 quando Ballarò mandava in onda questo servizio, a dir poco mortificante:

    Giovani e meno giovani assolutamente ignari di cosa sia la Liberazione, di quando abbia avuto luogo, e da cosa ci abbia liberato.

    Nei giorni tra il 25 aprile e il 1° maggio di ogni anno, definibili bassa marea dialettica, il già dilagante analfabetismo funzionale sui social dà un’accelerata alle proprie rotative, in cui troppi ripetono a vanvera le stesse due o tre nozioncine imparate – se va benissimo – su qualche bignamino. Il problema risiede anche – non solo – nel fatto che gli accadimenti vengono spesso raccontati male, forse pure in buona fede, in un guazzabuglio di concetti e in un affastellamento di micro-periodi storici che si susseguono e si accavallano l’uno all’altro in una narrazione approssimativa.

    Le bombe alleate

    Voglio fare un esempio, o più d’uno. E comincerei da questa foto cosentina. È la foto che ormai funge da testimonianza dei tragici bombardamenti che colpirono Cosenza il 12 aprile 1943. Bene: questa fotografia dovrebbe considerarsi un simbolo sì, ma non una testimonianza, in quanto col 12 aprile non ha nulla a che vedere.
    Per fatto personale: questa istantanea fotografa infatti il momento forse più tragico nella storia del mio ramo paterno, ovvero l’istante esatto in cui una bomba colpisce il palazzo di famiglia in cui in tre piani e mezzo vivevano i miei nonni, la mia bisnonna con altri tre figli, altra nuora e un nipotino (fortunatamente tutti già al riparo nella località in cui erano sfollati per precauzione). È la nuvoletta più a sinistra nella foto, a mezza altezza, ad indicare il preciso momento in cui tutto un patrimonio familiare, morale e simbolico, non solo materiale, va letteralmente – è il caso di dirlo – in fumo.

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    Cosenza sotto i bombardamenti di fine estate 1943

    Ma non è il 12 aprile: dalla documentazione relativa ai Danni Bellici, redatta dal Genio Civile e oggi custoditi presso l’Archivio di Stato di Cosenza, il quartiere delle Paparelle – o, meglio, via Alfonso Salfi – risulterebbe essere stato bombardato il 28 agosto. Mia nonna ricordava invece la mattina dello stesso 8 settembre, in extremis, ma l’ultimo bombardamento su Cosenza risale in verità al 7 settembre (per la cronaca, Cosenza è stata bombardata – oltre all’ormai arcinota data del 12 aprile e alle altre due appena dette – anche il 6 e il 31 agosto, nonché il 3 e il 4 settembre).

    Liberata e stuprata

    Ora, facciamo due più due: considerato il tenore delle risposte date dai passanti nel servizio del link qui sopra, quanti saprebbero dire chi ha sganciato quelle bombe? Non molti, temo. A futura memoria è forse bene ricordarlo: i bombardamenti del ’43 su Cosenza (e purtroppo non solo su Cosenza) furono opera degli Alleati angloamericani. E ciò va detto per chiarezza storica, e poi per un altro motivo: per tenere sempre a mente il fatto che nessuna Liberazione è priva di costi, nessuna è candida e senza macchia.

    A pensarci bene, la questione non è poi tanto diversa da analoghe situazioni odierne, in cui alcuni protagonisti vengono stigmatizzati per la loro discutibile “esportazione di democrazia” in Paesi già piagati da questioni tutte loro. Ed è quindi giustissimo, credo, che assieme alla celebrazione si affianchi anche un momento di orgoglio di segno diverso: Italia liberata, sì, ma pure stuprata purché si liberasse.

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    Militari marocchini inquadrati nell’esercito francese, accampati nei pressi di Monte Cassino

    Le marocchinate

    Stuprata, dicevo: giusto per ricordare quanto a troppe donne (e non solo) sia costata la Liberazione per mano di alcuni ‘lealissimi’ alleati (e sempre al netto dei ‘misericordiosi’ bombardamenti tattici), basterebbe pensare al capitolo dolorosissimo, e ancora di dominio meno pubblico di quanto dovrebbe essere, delle marocchinate, ovvero le violenze perpetrate dai goumiers nel Lazio (ma anche in Toscana, Sicilia, e probabilmente anche in altri luoghi in cui si preferì per vergogna insabbiare anche il dolore delle vittime e dei sopravvissuti). Immaginatevelo voi, un esercito di 120.000 uomini – nordafricani in forza all’esercito francese – colpevoli di oltre 7.000 stupri ai danni di donne, bambine, vecchi e vecchie.

    Sono convinto che, se certi eventi storici fossero meglio conosciuti, quantomeno il giudizio di non poche donne sulla Liberazione sarebbe meno entusiasta. Vittorio De Sica nel film La Ciociara ne dipinse il quadro tragico, e ancora di più Curzio Malaparte nello scabroso e magnifico romanzo La Pelle. Sono gli stessi goumiers della pagina in cui trattano con alcune mamme napoletane intorno al prezzo dei bambini offerti sul libero mercato dei vicoli.

    liberazione-manifesto
    Manifesto della propaganda bellica contro i bombardamenti delle Nazioni Unite del 1943

    Gramsci, il partigiano postdatato

    Sempre nei giorni della ‘bassa marea’ dei luoghi comuni celebrativi e/o retorici, fa capolino, puntuale, una citazione gramsciana: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano”. Tutto molto bello e condivisibile. Ma questa frase fu scritta dal Gramsci socialista e crociano del 1917 sul giornale La città futura, testata altrettanto socialista, in tutt’altro contesto e riferendosi alla Russia e a ben altro concetto di ‘partigiano’.

    È validissima lo stesso, per carità (e per fortuna) ma, diamine, questa frase fu scritta quando qui non solo non c’era ancora nessuna Resistenza né alcun partigiano. Quando non solo non c’era una dittatura, ma quando non esisteva nemmeno un partito fascista, nemmeno i primi fasci. E quando il giovane Mussolini era ancora direttore del Popolo d’Italia, col sottotitolo Quotidiano socialista. Socialista, appunto, al pari dello stesso Gramsci. Odio gli indifferenti anch’io, dunque. Ma certe volte c’è addirittura molta più indifferenza nella partecipazione acritica, inconsapevole. E un certo antifascismo autoincoronato – dico “un certo” – che pure esiste, mi pare vada in vacanza e ritorni a scadenze precise.

    Fascisti e antifascisti

    Altro esempio: a Bologna, per ricordare la caduta del governo fascista si mettono le corone ai caduti di un movimento nato successivamente e a quelli di un fatto precedente alla nascita del suddetto governo.
    Nel frattempo il piucchefascista Dino Grandi (due volte ministro, ambasciatore a Londra) concluse la sua carriera politica con l’ordine del giorno del 25 luglio 1943 che porta il suo nome, determinando per primo la caduta del regime fascista (e venendo perciò dagli stessi fascisti condannato a morte, pur riuscendo a scamparla). Ripudiato da gran parte della destra in quanto ‘traditore’ del fascismo, dalla sinistra in quanto ex fascista tra i primi e maggiori, il suo funerale passò in sordina e la sua tomba resta oggi pressoché dimenticata, con due fiori appena nel cimitero della stessa Bologna, dove all’ufficio informazioni vi chiedono se fosse un partigiano.

    Bisognerebbe domandarsi – e rispondersi correttamente – quanto merito abbia avuto lui, nella Liberazione dell’Italia dal Fascismo. Ecco, mettiamocelo in testa: senza il fascista Grandi, la Liberazione di due anni dopo ce la sognavamo, con e senza quella Resistenza che – come scrisse l’esule Mario Bergamo (mica uno qualunque) – «non deviò d’un centesimo (…) il corso della guerra. Giovò alla liberazione militare dell’Italia quanto il fuoriuscitismo alla sua liberazione civile».

    La Calabria e l’Italia dopo il 25 aprile

    E da noi, in Calabria? Poco e niente, siamo la Calabria di Michele Bianchi, da una parte, e del martire civile Francesco Misiano, dall’altra. Domandatevi chi meriterebbe d’essere conosciuto più e meglio. La prendo alla larga ma è un discorso molto, molto generale, che ha a che fare anche con i fallimenti dell’epurazione. Per farla molto breve: Churchill aveva ragione da vendere quando notava che l’Italia era passata dall’avere 45 milioni di fascisti ad avere il giorno dopo 45 milioni tra antifascisti e partigiani, pur non avendo mai contato 90 milioni di abitanti.

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    Il calabrese Francesco Misiano, deputato comunista. Malmenato ripetutamente dai fascisti, morto in Russia sotto le purghe staliniane, dimenticato in Italia dai comunisti di Togliatti

    Insomma, teniamocela strettissima, questa Liberazione. Ma teniamoci stretto anche il coraggio di chiederci se sulle sue braci – ché di braci si è comunque trattato, e non soltanto dei sorrisi e degli abbracci del 25 aprile 1945 – si sia riusciti a costruire l’Italia meritata e sperata e non invece qualcosa di maldestro, ancora diviso tra bianchi e neri, buoni e cattivi, e con la solita corsa all’oro di ogni tempo, le solite sperequazioni e gli stessi voltagabbana ai posti più o meno di comando.

    Guerra e pace

    Due ultime citazioni per concludere: ve lo ricordate quel film di Scola, C’eravamo tanto amati? La frase, in apertura, «finita la guerra, è scoppiato il dopoguerra» è di Suso Cecchi d’Amico (non di Flaiano – che si espresse, poi, in modo analogo – né di Scola, né degli sceneggiatori Age o Scarpelli). Vent’anni prima ne scrisse una simile proprio Mario Bergamo: «Il Fascismo ha perduto la guerra, l’Antifascismo ha perduto la pace». Intelligenti pauca.

    Cosenza, il quartiere delle Paparelle e di Colle Triglio negli anni ‘20/’30 del Novecento (da L.I. Fragale, Microstoria di Calabria Citeriore e di Cosenza, 2016)

     

  • Maneskin contro Putin? L’Italia del Coachella parla calabrese

    Maneskin contro Putin? L’Italia del Coachella parla calabrese

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    L’edizione di quest’anno passerà alla storia per quel «Free Ukraine, fuck Putin!» urlato dai Maneskin sul palco, ma c’è molto altro. Perché il Coachella Valley Music and Arts Festival è il festival musicale più famoso e instagrammato al mondo. Un raduno di musicisti che si avvicendano sui palchi giorno e notte, ma anche di celebrities e influencer che sfilano sui campi dell’Empire Polo Club di Indio, California. La location e l’atmosfera vagamente anni ’70 sono il vero spettacolo, quello che si svolge a favore di telefonini e si riversa sui social.

    https://www.youtube.com/watch?v=hewbCtVY2LU

    Un tocco di Calabria al Coachella

    Dietro il successo di questa edizione c’è anche l’estro di una giovane professionista calabrese che, insieme allo staff dello studio newyorkese con cui collabora, ha progettato un’installazione coloratissima che fa da cornice alle esibizioni sui palchi del festival e, naturalmente, a migliaia di foto postate con l’hashtag #Coachella.

    Una influencer in posa di fronte a Playground, il progetto a cui ha collaborato Anna Laura Pinto

    Lei è Anna Laura Pinto, cosentina, laurea in architettura a Roma e una valigia sempre pronta perché gli Stati Uniti sono ormai la sua seconda casa. Il Playground, questo è il nome dell’installazione che porta anche la sua firma, «è un pezzo di paesaggio urbano vagamente onirico – spiega – nel bel mezzo del deserto: quattro torri colorate che si raccolgono attorno a una piazza pensata come luogo di aggregazione, gioco, relax e che funziona come tale: durante la giornata, in particolare durante le ore più calde, è frequentatissima».

    Una calabrese a New York

    È appena rientrata dalla California, alle prese con i postumi del fuso orario e la valigia ancora da disfare. «Sono rimasta piacevolmente colpita dall’atmosfera che ho trovato – dice – non c’ero mai stata prima d’ora e ne avevo sempre avuto un’immagine diversa, filtrata dalle foto “glitterate” degli influencer. C’è anche quello ovviamente, ma non è la caratteristica predominante: ciò che è straordinario – dice – è lo spirito positivo che anima la collettività del festival, decine di concerti al giorno e migliaia di persone spinte dalla voglia di condividere la propria esperienza con altri. Da un lato le performance dei musicisti, dall’altra quelle degli spettatori. Un’esperienza del genere non può che fare bene allo spirito, direi che ne è valsa la pena».

    Anna Laura Pinto al Coachella Festival

    Quella del Coachella Festival è un’avventura che per Anna Laura è iniziata nel 2019. Si trovava a New York in quanto collaboratrice oltreoceano di Architensions, un prestigioso studio che ha sede nella Grande Mela e a Roma. «Ero venuta in estate a visitare i cantieri di progetti che avevo seguito a distanza. Poco dopo il mio arrivo – racconta – lo studio è stato invitato dalla direzione artistica del Coachella a partecipare a una gara per il progetto di una delle installazioni artistiche per l’edizione 2020, in competizione con altri artisti e designer».

    Un invito raccolto al volo: «In quel periodo vivevo l’ufficio dall’interno e sono stata subito coinvolta fin dalle primissime fasi nella progettazione dell’installazione. Ricordo perfettamente le lunghe discussioni in ufficio con Alessandro, Nick e gli altri membri del gruppo: quando inizi a lavorare ad un progetto e non sai ancora come si concretizzerà, gli scambi di opinioni sono fondamentali per stabilire dei criteri e capire quale sarà la strada che porterà alla definizione dell’oggetto. Il team è una forza».

    L’idea ha preso rapidamente forma: così è nata Playground. «Personalmente ho sempre avuto fiducia nel design di quest’opera – sorride Anna Laura – ho sempre pensato che aveva buone probabilità di essere selezionata. Ho ricevuto la notizia che il nostro progetto era stato scelto dopo il mio rientro in Italia. Fino a febbraio del 2020 pensavo che sarei tornata negli Usa per il Coachella 2020, poi è arrivata la pandemia ed eccoci nel 2022».

    Dall’Italia agli USA

    Anna Laura Pinto ha già all’attivo diversi successi nella sua carriera, il progetto di una casa a cui ha preso parte è stato pubblicato su Domus, la prestigiosa rivista di architettura e design.
    «Mi sono laureata in architettura ormai tredici anni fa a Roma – racconta -, dove ho iniziato la mia gavetta lavorando in diversi studi. Erano i primi anni ‘10 e molti miei coetanei in quegli anni erano già partiti per fare esperienze altrove. In Italia già allora un giovane architetto aveva poche opportunità di crescita professionale. In Cina c’era moltissima richiesta di architetti occidentali, in Europa le mete più gettonate erano Londra e Berlino. Io ero incuriosita dagli Usa, in particolare da New York che è la metropoli per eccellenza: è normale che un architetto ne sia affascinato.

    E così arriva dall’altro capo dell’Atlantico. «Sono partita per la prima volta nell’estate del 2013, un viaggio studio per perfezionare il mio inglese. Al mio ritorno in Italia ho conosciuto Alessandro Orsini, architetto italiano ed ex project designer dello studio Steven Holl che aveva da poco fondato Architensions con Nick Roseboro. Da lì a breve è nato il nostro rapporto di collaborazione. Al tempo l’ufficio era ancora molto giovane, ma mi sono trovata subito in linea con la loro maniera di fare e pensare l’architettura. In poco meno di dieci anni sono cresciuti molto, ed io con loro».

    Di nuovo in Calabria

    Ma nel presente e nel futuro di Anna Laura c’è sempre anche la Calabria. «Dopo aver lavorato ad una serie di progetti negli Stati Uniti, attualmente sono la referente sul versante europeo. Abbiamo da poco ultimato un progetto residenziale a Londra e stiamo studiando un piano per la riqualificazione e lo sviluppo di un paesino proprio qui in Calabria, Architensions è stato ufficialmente invitato dal sindaco. Un’ottima occasione di studio e approfondimento, sono contenta di poter portare avanti questa ricerca in un team internazionale: lo scambio di visioni dovute a esperienze in contesti molto diversi penso possa aggiungere valore al risultato finale».

    Un legame forte quello con la sua terra, in particolare con Cosenza, dove è tornata a vivere dopo il primo periodo negli Stati Uniti. «Ho fatto base qui per tutto questo tempo, trascorrendo lunghi periodi a New York e a Roma, sempre con un occhio verso l’esterno. Però non l’ho mai abbandonata. È un rapporto basato fondamentalmente su un legame d’affetto, ma penso che Cosenza sia una città che ha molto da raccontare, piena di potenzialità inespresse che mi auguro possano essere valorizzate. Ancora è presto per entrare nello specifico – conclude – ma devo dire che alcune collaborazioni sono nate proprio in Calabria, dove ci sono degli ottimi professionisti e dove esiste una vivacità intellettuale e culturale che merita di emergere».

  • La danza di Scanderbeg

    La danza di Scanderbeg

    Qualcuno si spinge fino al Ponte del diavolo. A piedi i più temerari, in sella a vecchi fuoristrada Iveco i meno abituati alle insidie della salita. Sono le prime ore del pomeriggio di un martedì che a Civita e nelle altre comunità dell’Arbëria  ha un significato particolare per le Vallje. Come ogni anno, dopo la Pasquetta, queste antichissime danze segnano il calendario dei paesi albanofoni. Senza la minima tentazione di chiamarli borghi.

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    Vallje a Civita, nel cuore del Pollino (foto Alfonso Bombini 2022)

     

    L’origine delle Vallje non si perde nella notte dei tempi. Nascono per rinsaldare quel legame profondo tra l’Arbëria, la sua storia, la madrepatria. E rievocano un episodio particolare con la forza di diventare un mito fondativo: la vittoria del condottiero Giorgio Castriota Scanderbeg sui turchi nella città di Kruja. Era il 24 aprile 1467. Anche allora era il primo martedì dopo Pasqua.

    Scanderbeg è l’icona più forte in possesso degli albanesi d’Occidente. Al pari della bandiera rossa con l’aquila nera. Immancabile anche ieri a Civita (Çifti). Al lato del palco, forse 3×6, ha accolto il Presidente della Repubblica d’Albania, Ilir Meta.

    Vallje a Civita: da tradizione d’Arbëria a festival del folklore

    C’è qualcosa di immutabile e al contempo rivoluzionario nella cultura di questo popolo, come ricorda lo scrittore Carmine Abate da Carfizzi. Due anni di fermo non hanno fiaccato la voglia di riportare in vita tradizioni così radicate. La pandemia si è fatta sentire e continua a rosicchiare tempo e destini. Ieri il ritorno della sfera pubblica. In una piazza militarizzata con transenne ovunque.

    Misure di sicurezza per garantire protezione a Ilir Meta. Un paradosso difficile da non notare: danze circolari hanno da sempre avvolto autoctoni e forestieri, adesso sono diventate uno spettacolo da festival del folklore. Con un copione imposto. Va bene lo stesso. Ma gli occhi di chi ne ha viste tante tradiscono il disappunto per un rito ormai confinato a beneficio di smartphone e fotografi veri o improvvisati con gli immancabili teleobiettivi parabellum. Quasi a volere entrare dentro il corpo di una comunità. Che invece si lascia attraversare allargando lo sguardo.

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    Il presidente della Repubblica albanese, Iril Meta, in visita a Civita (foto Alfonso Bombini 2022)

    Da San Marzano a Civita

    Ci si ritrova un po’ tutti in piazza, calabresi e non. Persino “Katundi Joni”, gruppo proveniente da San Marzano di San Giuseppe, in provincia di Taranto. Una città meridiana più vicina del capoluogo Catanzaro al piccolo centro del Pollino. Più vicina non solo su Google maps.
    Ne fa parte la signora Carmela. Per la prima volta partecipa alle Vallje. Ma in qualche modo ha un profilo levantino come le stesse Calabrie di quassù. Canta a squarciagola e balla insieme ai suoi compaesani. In Puglia organizza rappresentazioni teatrali rigorosamente in lingua arbëreshë.

    Mancano fiumi di anice

    Pochi metri più dietro qualcuno chiama: «Professo’!». Si gira un signore anziano in camicia bianca e cravatta rossa. Uno dei pochi a sfidare una primavera mascherata da quasi inverno. Inizia a intonare canti, accompagnato da un organetto e un tamburo. Lo suona un tipo coi baffi che sembra un gitano dei film di Emir Kusturica. Vengono da Cerzeto e poco dopo li raggiunge pure il sindaco Rizzo. Nemmeno lui vuole perdersi rito e presidente Meta. Manca l’anice che invece nella vallja “eretica” e carnevalesca di Cervicati scorre a fiumi.

     

    Civita, per le Vallje ecco gli stranieri in Arbëria

    Gli occhi di giovani e meno giovani si posano su un cappello rosso che fa pendant col rossetto. Armata di ballerine ai piedi, sorride e gira video con il cellulare. Quel che resta delle intenzioni cariche di testosterone vittorioso sul colesterolo postpasquale si riversa su di lei. È inglese.

    Non mancano olandesi con figli piccoli, francesi e tedeschi a loro agio in t-shirt. Senza il bisogno di abbigliamento tecnico comprato nella non lontanissima Decathlon di Corigliano-Rossano. La tragedia del Raganello è alle spalle, non il ricordo delle vittime. Qui si viene volentieri. Case Kodra e buon cibo. Gente ospitale.

    Per fortuna la fisiologica passerella della politica non ha ammorbato troppo il pomeriggio di Civita. Tutti hanno già dato al mattino. Tributando saluti a effendi Iril Meta. Adesso il sole taglia queste montagne alle spalle. Il mare si concede ancora alla vista. L’organetto accompagna per l’ultima volta le Vallje di Çifti.

     

  • I cosentini sul podio nei campionati di cucina: ma non chiamateli chef

    I cosentini sul podio nei campionati di cucina: ma non chiamateli chef

    L’arte di arrangiarsi, tipica delle nostre latitudini, è stata la carta vincente che ha portato sei cosentini sul podio dei Campionati Italiani di Cucina 2022 a Rimini. Medaglia d’argento per Daniele Mannarino e Danilo Liparoti (categoria Mistery box); medaglia di bronzo per Domenico Trentinella, Biagio Girolamo e Luca Grillo (categoria street food) e Eugenio Caloiero (categoria singoli).
    Un ottimo risultato per la Federazione Provinciale di Cosenza. Medagliere amaro, invece, per la Calabria che si classifica al nono posto, ben distante da un podio tutto “terrone” con i primi tre classificati Campania, Sicilia e Puglia.

    La competizione

    La sesta edizione dei Campionati della Cucina italiana, nata dalla collaborazione fra Italian Exibition Group e la Federazione italiana dei Cuochi, ha ospitato nelle ultime edizioni più di 500 concorrenti tra team italiani ed esteri. La manifestazione è riconosciuta dal circuito Worldchefs. La prossima sfida della FIC saranno i campionati mondiali, il tanto prestigioso Bocuse d’Or.
    Sebbene caratterialmente distanti anni luce dallo chef stellato Adam Smith, interpretato da Bradley Cooper ne Il sapore del successo, i cuochi cosentini vivono la cucina con la “cazzimma”, l’inventiva e l’amore viscerale per il proprio lavoro tanto da indentificarsene con l’obiettivo di soddisfare ed emozionare i propri clienti.

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    Bradley Cooper nel film “Il sapore del successo”

    Cucina al buio

    Una sfida nella sfida per i cosentini Danilo Liparoti e Daniele Mannarino che hanno conquistato il secondo posto nella finalissima con una mistery box dedicata ai piatti crudisti, vegetariani e vegan.
    Ma come si fa ad essere i secondi cuochi d’Italia per inventiva? «Con sacrificio, passione e determinazione».

    “Linguino”, cuoco per dovere

    Daniele Mannarino è quasi un figlio d’arte. I suoi genitori erano titolari di un alimentari e pasta, pane e scatolette sono sempre stati i suoi “giocattoli”. Ha iniziato a cucinare a sette anni. Non per passione, ma perché doveva preparare il pranzo ai genitori.
    «A convincermi furono le lacrime di mio padre il giorno della firma dell’iscrizione alle scuole superiori. Avevo scelto l’Industriale ma lui mi convinse a iscrivermi all’Alberghiero, per lui avevo talento”. E visti i risultati, come dargli torto.

    Tante le esperienze professionali maturate, dall’esordio a 14 anni in un villaggio a Soverato ad oggi che di anni ne ha trentasette. È stato cuoco a Rimini, Firenze, Stoccarda ma il cuore l’ha lasciato lo scorso anno in una struttura cinque stelle lusso, tre forchette Gambero Rosso di Seby Sorbello a Zafferana Etnea (Catania).
    «È stata la mia esperienza formativa più importante», anche se il suo punto di riferimento rimane il titolare dell’Osteria Francescana, Massimo Bottura.

    Nella cucina di Mannarino non può mancare un piccolo orto di aromi e spezie, perché «a fare la differenza è sempre la qualità della materia prima».
    I suoi piatti forte sono tutti a base di pesce, primi piatti in particolare; da qui il suo soprannome “Linguino”.
    «La cucina inizia nella testa, passa dal cuore e finisce nelle mani. Il tutto condito – dice – da una giusta dose di amore, territorio e passione».

    Il lato oscuro dell’essere cuoco è lo «stress piscofisico, i sacrifici, il rinunciare agli affetti più cari: amici e famiglia». «È una scelta di vita – spiega – non può essere altrimenti». E sull’esito del Campionato non ha mai avuto dubbi. «Mi aspettavo di vincere sia per la mia propensione a creare piatti nell’immediatezza, sia per le qualità di Danilo, il mio compagno di squadra».
    Mannarino è già proiettato all’edizione dei Campionati 2023, resta solo da scegliere la categoria tra singoli, squadre o street food.

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    Daniele Mannarino e Danilo Liparoti

    Il sacro fuoco dei fornelli

    Ha sempre saputo che nella vita avrebbe fatto il cuoco. La sua prima frittata Danilo Liparoti l’ha preparata a cinque anni, rimediando anche una scottatura. Ma non si è arreso. Anzi. Testardo e determinato ha iniziato a lavorare a 13 anni e mezzo, nonostante le lacrime della madre che ora è la sua supporter numero uno.
    Malgrado i 24 anni d’età ha più di quindici competizioni culinarie alle spalle e nove anni di esperienza nelle principali località turistiche calabresi, italiane con una parentesi in Svizzera. A segnarlo maggiormente il periodo livornese. Entrato in cucina da 17enne aiuto cuoco di brigata è diventato quasi subito il capo cuoco.
    «Una soddisfazione- ricorda – ma allo stesso tempo una grande responsabilità. Non è facile dare ordini a persone più grandi di te».

    Per Danilo cucinare «è sperimentazione, essenzialità, colore. Il blu su tutti». Blu come il mare, blu come il pesce, ingrediente base per le sue specialità di antipasti e primi piatti.
    Oltre a materie prime di qualità e aromi (il finocchietto è il suo ingrediente segreto), nella cucina di Liparoti non manca mai la buona musica. «La cucina è passione, se non si sta bene d’umore non si conclude nulla».
    Per Liparoti non esistono esperienze negative: «Ogni volta si impara qualcosa di nuovo». Come quella volta che dopo un piatto tornato indietro ha passato giornate a rifarlo finché non è uscito perfetto: «Perché la soddisfazione passa dal sacrificio».
    «A Rimini la gara si è svolta in un contesto corretto e leale ma il livello della competizione è stato altissimo. E sentire il proprio nome accoppiato ad una medaglia è stata un’emozione indescrivibile».

    La determinazione di Danilo la si legge negli occhi. Il suo sogno è avere un giorno una struttura tutta sua. Il suo chef di riferimento? «Sicuramente Cannavacciulo».
    La sua strada da sei anni si è incrociata con il suo compagno di gara Daniele Mannarino. Oggi entrambi sono le punte di diamante del Fellini Restaurant di Cosenza che con la sua cucina raffinata e ricercata ha conquistato i palati dei cosentini dopo appena sei mesi dall’apertura.

    Cucina di strada

    È stato cuoco del Fellini Restaurant anche Mimmo Trentinella, terzo classificato nella categoria Street Food insieme a Luca Grillo e Biagio Girolamo. (FOTO 4)
    E se è praticamente impossibile avere una foto dei piatti della competizione a causa dei diritti esclusivi della FIC, per il suo street food Trentinella condivide la foto di una delle tante prove fatte prima di arrivare a Rimini.
    Mesi e mesi di ricerca per sfornare un pan brioche di semola farcito con crema di melanzana cotta sottovuoto al microonde insaporita con aglio e menta, stracotto di maialino nero, cipolla caramellata di Tropea, ‘nduja e caciocavallo Dop; il tutto pastellato e fritto. (FOTO 5)

    «Lo street food – spiega Trentinella – è sempre stato un mio pallino, sin da ragazzo». Negli anni Mimmo ha viaggiato molto in Europa per il suo lavoro. «Ad attrarmi sono sempre state le cucine di strada tipiche dei mercati inglesi, polacchi e francesi che, poi, è anche un modus operandi tipico di una parte del Mezzogiorno d’Italia, basti pensare alle pizze fritte campane o agli sfincioni siciliani». Le regioni del Sud hanno tutte un grande potenziale.

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    Luca Grillo, Biagio Girolamo e Mimmo Trentinella

    Cuochi e chef

    Trentinella è diventato cuoco per una sorta di sfida con la sua famiglia: lui uscì di casa ed entrò nel primo ristorante aperto. E lì capì quale sarebbe stata la sua strada.
    A 42 anni Mimmo è meno disincantato di tanti suoi colleghi. È pragmatico e lavora con un obiettivo ben chiaro nella testa: «Tramandare la passione per la cucina ai più giovani che oggi sembrano aver perso mordente».
    Guai a chiamarlo chef. Come il compianto Tonino Napoli dice: «Siamo tutti cuochi, cucinieri. Chef significa capo, cuoco è colui che fa da mangiare con amore».