MMXXII 800 anni di storia e devozione è il nuovo progetto realizzato dalla Fondazione Attilio e Elena Giuliani in occasione degli 800 anni della consacrazione della Cattedrale dell’Assunta. La presentazione del percorso multimediale – che sarà inserito e fruibile all’interno del Museo Multimediale Consentia Itinera di Villa Rendano – si terrà venerdì 27 maggio 2022 alle ore 10:30 presso il duomo di Cosenza alla presenza di monsignor Nolè. Al termine, si proseguirà a Villa Rendano con l’apertura delle sale del museo.
Il duomo di Cosenza dentro Villa Rendano
Straordinariamente, per il Museo Consentia Itinera, si prevede una nuova Notte dei Musei al costo simbolico di 1 Euro per vivere la straordinaria emozione della costruzione e delle trasformazioni della nostra Cattedrale di Cosenza. Il museo che ha sede nella celebre dimora del musicista Alfonso Rendano – impegnato nella riscoperta e valorizzazione del centro storico di Cosenza attraverso percorsi immersivi che coniugano ricerche scientifiche e concettuali con il potenziamento del valore sociale e del senso identitario – partecipa con orgoglio alle celebrazioni per gli 800 anni dalla consacrazione della Cattedrale, rafforzando la propria offerta culturale.
Villa Rendano
Sette sale sulla storia del Duomo
La mostra digitale MMXXII 800 anni di storia e devozione è un viaggio immersivo nelle sette sale del museo che racconta la storia pluricentenaria della Cattedrale di Cosenza: si ripercorrono i momenti salienti in cui i fedeli e i religiosi hanno edificato, restaurato e abbellito il cuore pulsante della città; la donazione della Stauroteca da parte di Federico II e un’approfondita analisi e ricostruzione 3D come non si è mai stata vista; le funzioni devozionali e artistiche della Cappella della Madonna del Pilerio con una particolare attenzione all’icona della Madonna restituita alle sue origini duecentesche; i monumenti funebri dedicati a Isabella d’Aragona e ad Enrico II di Hohenstaufen e le tombe dei martiri dei moti del 1843 presenti nella cappella del SS. Sacramento; infine, le trasformazioni della facciata nel corso del XIX e XX secolo.
Una mostra ma non solo
La mostra multimediale sarà fruibile in maniera permanente nelle sale del Museo Multimediale Consentia Itinera di Villa Rendano e in alcune parti sarà scaricabile tramite Qr code presente nella Cappella della Madonna del Pilerio e nel Museo Diocesano in prossimità della Stauroteca. Così come gli altri percorsi multimediali, anche questo sulla cattedrale di Cosenza sarà corredato da uno specifico piano educativo comprendente attività rivolte a famiglie, scolaresche, pubblici con esigenze speciali e alla comunità intera.
Le ricche dimore dei nobili e dei possidenti calabresi di un secolo fa erano per i viaggiatori colti mete ambite, almeno quanto musei e siti archeologici. E Gissing, impossibilitato a visitare le case più eleganti dei suoi ospiti crotonesi a causa di una febbre polmonare, chiede al dottor Riccardo Sculco, esponente della borghesia cittadina, di descrivergli le ville e le ricche dimore che le famiglie nobili crotonesi possedevano nei pressi delle rovine del Tempio di Hera Lacinia.
Lo scrittore e viaggiatore George Gissing
«Il dottor Sculco – riporta il viaggiatore – fece del suo meglio per descrivermi il paesaggio del Capo Naù. Quelle piccole macchie bianche che avevo intravisto col binocolo all’estremità del promontorio erano eleganti ville e storiche dimore, occupate d’estate dai ricchi nobili e dalle famiglie agiate di Cotrone. Il Dottore stesso ne possedeva una lì sul promontorio. Una villa di campagna che era appartenuta a suo padre prima di lui. Alcuni dei primi ricordi della sua infanzia erano appunto legati a quel luogo sul Capo Naù: quando aveva nozioni importanti da imparare a memoria, era solito ripeterle camminando intorno alla grande colonna. Nel giardino della sua villa si divertiva a volte a scavare. Pochi colpi di vanga bastavano a tirare fuori qualche preziosa reliquia dell’antichità».
Porte aperte per un tuffo nella storia
Anche in Calabria il più grande museo diffuso d’Italia, quello delle dimore storiche, riapre in questi giorni le sue porte gratuitamente. Torna la Giornata Nazionale dell’Associazione Dimore Storiche Italiane, quest’anno alla sua XII edizione. Saranno visitabili gratuitamente centinaia di luoghi esclusivi come castelli, rocche, ville, parchi e giardini, in un’immersione nella storia che rende ancora oggi il nostro Paese identificabile nel mondo e che potrebbe costituirne il perno dello sviluppo sostenibile a lungo termine.
Dopo questo lungo periodo di restrizioni, possiamo approfittare oggi di un’importante occasione di cultura e di conoscenza, e riscoprire grandi tesori, in luoghi a noi prossimi, città e paesi. Sarà possibile rivivere così l’emozione del Grand Tour e visitare, a distanza di secoli, custoditi e offerti per la prima volta al pubblico, i luoghi più segreti, affascinanti e meno noti della nostra regione, per ammirare più da vicino oltre a grandi bellezze architettoniche, la storia, i beni culturali e brani del paesaggio tra i più belli e significativi della Calabria.
Anche in Calabria le dimore storiche dell’ADSI, veri e propri musei e case della memoria, rappresentano un patrimonio vasto ed diversificato, diffuso in quasi tutte le città e centri minori della nostra regione, tra dimore e palazzi nobiliari, castelli, fortificazioni, ma anche ville di campagna, giardini, tenute agricole, insediamenti storici e produttivi, costruzioni di particolare pregio architettonico e artistico. Esse caratterizzano da secoli con la loro presenza la fisionomia dei centri abitati piccoli e grandi della Calabria.
Il Castello Gallelli a Badolato (CZ)
Le dimore storiche in Italia
Quello delle dimore storiche è un patrimonio di immenso valore sociale, culturale ed economico, spesso oscurato a scapito delle nuove generazioni. Distribuito in tutto il Paese, le dimore storiche per quasi l’80% si trovano insediate in aree periferiche ai grandi centri urbani e in provincia. Secondo l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, esso costituisce ben il 17% del totale dei beni culturali in Italia. Il 54% di questi siti si colloca proprio nei centri con meno di 20.000 abitanti e, di questi, il 29% nei comuni sotto i 5.000 abitanti. Le oltre 9.000 dimore hanno generato, già prima della pandemia, ben 45 milioni di visitatori. Da qui può passare quindi la ripartenza culturale, sociale ed economica nei centri urbani e nelle aree interne più svantaggiate del Paese.
Trastevere (Roma), l’interno dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione
In Calabria oltre 150 siti
Ognuno di questi insediamenti ha infatti una sua precisa identità e caratteri di unicità, per via della sua storia, per il suo valore culturale, per lo stretto legame con l’ambiente antropologico, per la natura e il paesaggio che caratterizzano i diversi territori locali. Da qualche anno anche nella nostra regione, l’insieme di questo importante giacimento si identifica nella rete associativa dell’ADSI Calabria (sezione regionale dell’Associazione Dimore Storiche Italiane).
Palazzo Sanseverino a Marcellinara
Nata nel 1977, l’ADSI conta circa 4.500 soci in tutta Italia. Già più di 150 i siti in Calabria rappresentativi della complessità storica, della cultura, delle tradizioni e del paesaggio che identificano nella nostra regione una preziosa memoria di beni architettonici, di storia, di arte, di conoscenze e saperi originali, con le innumerevoli rarità cultuali e naturalistiche che si nascondono da secoli tra le antiche mura di queste dimore e tra i viali del loro giardini.
Le opportunità per il turismo e il lavoro
La valorizzazione delle dimore storiche offre anche nuove opportunità ai mestieri antichi della cura e dell’arte, alle professioni artigiane, a restauratori e giardinieri. Figure che già affiancano di necessità i proprietari-custodi, senza i quali non sarebbe possibile la manutenzione delle dimore, degli oggetti d’arte, dei giardini, delle bellezze e delle rarità che rendono unici e irripetibili questi beni. I lavori di cura e restauro delle dimore contribuiscono inoltre al recupero e al decoro degli spazi pubblici, delle vie, delle piazze, delle contrade antiche nelle quali le dimore si trovano insediate da secoli.
Aumentano così le capacità d’attrazione di un turismo sostenibile e la qualità di vita delle comunità locali e dei territori di cui questi complessi monumentali costituiscono spesso il principale elemento di interesse e di attrazione, alimentando la filiera delle attività legate al turismo e alle nuove professioni dei beni culturali, che già vantano un significativo numero di laureati formati all’interno delle nostre università e Accademie di Belle Arti.
Dimore storiche, un progetto targato Calabria
L’ADSI Calabria, con un proprio progetto pilota di interesse nazionale (a cui di recente ha fatto seguito anche l’adozione dello stesso da parte della Conferenza nazionale dei presidenti e dei direttori delle Accademie delle Belle arti d’Italia, hanno siglato un accordo proprio col fine di valorizzare il patrimonio culturale privato delle dimore storiche calabresi).
«Il progetto Ritratto di Dimora, prevede di documentare e raccontare con immagini e restituzioni artistiche dal vero altrettanti “ritratti” delle dimore storiche calabresi associate all’ADSI, disvelando così un patrimonio di grande valore per tutta la collettività, che amplia la fruizione delle bellezze della nostra regione, stavolta prima in questa originale proposta culturale adottata nel nostro Paese, di cui le dimore e gli edifici storici calabresi costituiscono una parte fondamentale», ha dichiarato Gianludovico de Martino, vicepresidente di ADSI Nazionale e presidente di ADSI Calabria.
Una stanza di Palazzo Carratelli
Ritratto di Dimora consiste nell’esecuzione di immagini fotografiche e “ritratti” di interni realizzati con tecniche le tradizionali (acquarello, gouache e olio) dagli studenti dell’Accademia delle Belle arti di Catanzaro presso le principali dimore storiche della Sezione ADSI Calabria. Una scelta di queste immagini illustrerà il volume Dimore Storiche in Calabria, pubblicato da ADSI. Le foto e i dipinti formeranno i materiali di una mostra itinerante che ADSI e A.BB.AA. di Catanzaro allestiranno presso le dimore storiche e negli spazi di musei pubblici. Col patrocinio dell’ADSI la mostra infine verrà proposta, d’intesa con la Regione Calabria, presso la rete degli Istituti Italiani di Cultura all’estero.
Ville e palazzi da (ri)scoprire
Si parte in questi giorni con alcune tra le più prestigiose e rappresentative dimore storiche calabresi, che aprono le porte al pubblico. Come il Palazzo Amarelli, importante residenza d’epoca che a Rossano ospita il Museo della Liquirizia (uno dei musei d’impresa più visitato d’Italia); Palazzo Carratelli, storica residenza urbana eretta nella seconda metà del 1400, rimaneggiata e ampliata a seguito del terremoto del 1638, che nel centro storico di Amantea domina il panorama della città e il mare.
Il museo della liquirizia all’interno di Palazzo Amarelli
E poi, ancora, Villa Zerbi a Taurianova, costruita nel 1786 in stile barocco siciliano su progetto dell’architetto Filippo Frangipane, testimonianza delle abilità artigiane di scalpellini e decoratori calabresi impegnati dopo il terremoto del 1783, caratterizzata inoltre dalle essenze rare del suo prezioso giardino mediterraneo; Palazzo Stillo-Ferrara, nel cuore del centro storico di Paola; Villa Cefaly-Pandolphi ad Acconia di Curinga (Cz), elegante dimora adibita a casino di caccia, costruita alla fine del 1700 e circondata da piantagioni di agrumi pregiati. In questa villa la storia è trascorsa lasciando tracce sui bei pavimenti antichi ed i soffitti di legno con affreschi. Qui la famiglia Cefaly ha dato vita a pittori, prelati e uomini di Stato, come Antonio Cefaly che dal 1890 al 1920 è stato vice presidente del Senato e consigliere di Giolitti (l’epigrafe sulla sua tomba fu scritta da Benedetto Croce).
La biblioteca di Palazzo Stillo-Ferrara a Paola
Degno di nota anche Palazzo Sanseverino a Marcellinara, dimora storica risalente al 1400, che conserva tra i suoi numerosi reperti anche uno dei pochi ritratti coevi di San Francesco di Paola, un dipinto devozionale del santo realizzato per mano di un pittore locale durante il suo soggiorno nella casa, custodito insieme ad un altare votivo e altre reliquie come il piatto e le posate utilizzate dal santo durante il soggiorno nel palazzo al tempo del suo viaggio in Sicilia.
Non manchiamo dunque di visitare le dimore storiche per goderci le bellezze che insieme costituiscono il più grande museo diffuso della Calabria. E, dopo i selfie di rito, scattate anche voi un bel ritratto di dimora.
Ancora non era mafia e non lo sarebbe diventata per un pezzo. Eppure i malavitosi di Cosenza odoravano già di leggenda. Va da sé, di leggenda nera. I loro nomi riempiono rapporti di Pubblica sicurezza, dominano le cronache (anche a dispetto delle censure del fascismo) e passano di bocca in bocca.
Parliamo, in questo caso, del mitico Luigi Pennino, detto ’u Penninu, attivo tra il Ventennio e gli anni ’60, e di altri personaggi, come ad esempio Francesco De Marco, detto ’u Baccu e Michele Montera.
Piazza Riforma negli anni ’50: quartiere di nascita di Luigi Pennino, capo della malavita cosentina (foto L. Coscarella)
I tre facevano parte dello stesso gruppo e, in particolare, Baccu e Penninu erano legatissimi. Poi le cose cambiano. Montera si mette in proprio e fa concorrenza a Penninu, che entra ed esce di galera con accuse non leggerissime: lesioni e omicidio.
Ma anche Baccu si ribella a don Luigi. E la paga cara.
Una malavita “bastarda”
Nella prima metà del XX secolo a Cosenza c’è una malavita effervescente, che tuttavia non si può definire mafia. Il motivo è “sociologico”: i traffici della malavita di Cosenza si basano sulla prostituzione. E il lenocinio, secondo gli statuti dell’Onorata Società (il nome che allora la ’ndrangheta dava a sé stessa) è uno di quegli “strani mestieri” che impediscono al delinquente di considerarsi uomo d’onore.
Una condizione che la mala bruzia si sarebbe trascinata fino agli anni ’70, quando la terza generazione di “guagliuni ’i malavita” (titolo dell’omonimo libro di Francesco Carravetta) avrebbe tentato il salto di qualità, in parte riuscendoci, sotto la guida di altri boss come Franco Pino, Antonio Sena, Franchino Perna e Luigi Pranno. Ai tempi di Penninu le cose erano diverse.
Una storica immagine del quartiere dei Rivocati
Luigi Pennino: profilo di un boss
È doveroso premettere che non c’è alcun atto giudiziario definitivo che inchiodi Luigi Pennino al lenocinio. Inoltre: anche i boss non cosentini stimavano Pennino, che non consideravano un lenone. Tuttavia, ‘u Penninu resta la figura di spicco dell’ambiente cosentino, fatto di papponi, piccoli contrabbandieri ed estorsori. La sua leadership si basa su un misto di fascino personale (lo testimonia il suo successo con le donne), astuzia, coraggio e abilità con le armi.
Nasce nel ’900 alla Riforma, che allora non è una piazza ma una campagna ai confini della città che dà su altre campagne, che costituiscono un hinterland povero in mano a pochi ricchi.
Per qualche anno Pennino fa il fotografo ambulante. Ma il suo tenore di vita, testimoniato dall’abbigliamento elegante, è superiore alla sua professione e al suo ceto.
Come si procuri i soldi per vivere bene – e campare una bella moglie – non è del tutto un mistero per le forze dell’ordine. Già nel ’31 ’u Penninu finisce in galera con l’accusa, confermata in appello, di furto e associazione a delinquere. È solo l’esordio.
Il duello tra Pennino e Baccu avviene proprio nella discesa del Crocefisso alla Riforma
Un duello tra ex amici
Nel ’44 a Cosenza la guerra è finita. Ciò non vuol dire che in città regnino la pace e la sicurezza.
A differenza dei compari reggini e siciliani, i malavitosi cosentini non ricorrono alla lupara bianca ma si affrontano a viso aperto dove e come capita.
Così avviene in un tardo pomeriggio della primavera di quel dopoguerra, quando ’u Penninu e ’u Baccu discutono animosamente nella discesa del Crocefisso, che conduce alla Riforma. De Marco, sodale di Pennino, è un bestione dalla forza erculea. E tenta di ribellarsi al capo, a dispetto del fatto che quest’ultimo sia stimato e temuto in tutta la città, perché gestisce il suo potere con garbo e con un senso personale di giustizia che lo hanno reso una specie di Robin Hood. Come mai Baccu si è ribellato? Sulla rivolta del fedelissimo ci sono due versioni diverse, ma non necessariamente contrastanti.
La prima: sarebbe stato Michele Montera, altro ex sodale di Pennino, poi diventato capo di un gruppo rivale, a istigare De Marco. La seconda: De Marco, tra le varie, era invidioso del successo con le donne. Non è la prima volta che don Luigi subisce un tentativo di golpe. E non si fa trovare impreparato.
Pennino contro Palermo: la malavita di Cosenza
Torniamo indietro di quasi dieci anni, per la precisione al 2 aprile 1935. Pennino convoca i suoi per una partita a bocce.
Chi perde, dovrà pagare il vino per un altro gioco: Patrune e sutta.
Col boss ci sono Albino e Michele Montera, Giovanni Del Buono, Francesco Parise e tale Luigi Palermo, detto ’u Calavisi (che, stando alle carte, sarebbe solo omonimo del boss storico, detto ’u Zorru, che prenderà il posto di Palermo).
Luigi Pennino, storico capo della malavita di Cosenza
La partita a bocce va benissimo. Decisamente meno quella a Patrune e sutta: Pennino si arrabbia coi suoi e li convoca fuori per chiarire. Prende sottobraccio Albino Montera e si dirige verso il gasometro.
Alle sue spalle c’è Palermo, che estrae un coltello e lo colpisce di striscio al collo e poi al petto. Il secondo colpo non va a bersaglio come si deve e il coltello buca solo la giacca del boss. Quest’ultimo reagisce e colpisce ’u Calavisi al fegato con una coltellata ben piazzata.
Palermo muore quattro giorni dopo e Pennino è condannato a quattro anni di carcere, perché la Corte d’Assise di Cosenza gli riconosce le attenuanti sull’imputazione di omicidio colposo.
La fine di Baccu
Lo stesso copione si ripete, più o meno, dieci anni dopo alla Riforma. Abituato a guardarsi le spalle, don Luigi si presenta armato come si deve. Ha una Smith & Wesson a tamburo, con cui ha barattato la sua vecchia Beretta. De Marco spara per primo e colpisce Pennino alle gambe.
Il boss è più preciso e deciso, oltre che fortunato: mira al petto e spara tre volte. E tutt’e tre centra il bersaglio.
Stavolta la legittima difesa c’è tutta. Baccu termina la carriera e la vita. Penninu morirà trent’anni dopo e il suo feretro riceverà onorificenze degne di un leader.
Poi inizierà l’era di Luigi Palermo, ’u Zorru. Ma questa è davvero un’altra storia.
Ci sono giganti e fragole a Curinga, borgo calabrese che sembra un quadro di Van Gogh. Il personaggio illustre del paese vive da mille anni in località Corda. È il platano orientale, patrimonio italiano, medaglia d’argento al contest 2021 “European Tree of the Year”. Un monumento verde, probabilmente piantato dagli stessi monaci basiliani che qui fondarono l’eremo di Sant’Elia.
Il platano millenario di Curinga
Fragole e tramonti
Puoi entrarci dentro e cantare, ballare, riposare. L’apertura a grotta è larga tre metri e dell’altezza del gigante si narra da anni. Venti, venticinque, trenta metri.
Le piante di fragole sono milioni, in questo pezzo di Tirreno dell’istmo catanzarese che adesso si chiama Riviera dei tramonti. Negli anni Ottanta e fino a una decina di anni fa era un vero paradiso. Oggi servirebbe una varietà locale che ancora non esiste, ma iniziano a nascere campi di sperimentazione per crearla.
Pino Galati, presidente della Cooperativa Torrevecchia
“Sabrina”, la fragola capricciosa
La “Sabrina” è il tipo di fragola che ha attecchito. Capricciosa e gentile, ostinata e fragile come il cristallo. Non a caso ha un nome di donna. I filari traboccano di frutti rossi e sodi al punto giusto. La raccolta è una corsa contro il tempo: domani mattina dovranno essere sui banchi dei mercati, la loro perfezione è fugace ed entro tre giorni sfumerà. È questa la condanna, una specie di sortilegio per compensare tanta bellezza.
«Lo senti il profumo? È così forte che si può raggiungere un campo di fragole anche ad occhi chiusi». Dopo quarant’anni con le mani nella terra, Pino Galati si muove nelle piantagioni come fosse a casa sua. Dal 2010 è il presidente della Cooperativa Torrevecchia che, nata nel 1978, tiene insieme alcuni fragolicoltori della piana di Lamezia Terme.
Nove piccole aziende, tra Curinga e Pizzo, che, in totale, fanno numeri di tutto rispetto: una produzione annua di 10mila quintali, di cui solo il 30 per cento destinate al mercato calabrese. Il restante 70 per cento va nelle altre regioni italiane. «Il nostro è un territorio storicamente vocato a questo tipo di coltivazione – spiega Galati, 61 anni, – fin dagli anni Ottanta era una coltura leader, qui si produceva un frutto di una qualità molto al di sopra degli standard. Oggi, è inutile negarlo, le cose non vanno più tanto bene».
Acconìa, il posto delle fragole
Acconìa, frazione marina di Curinga, è il posto delle fragole. Rischia di perdere il suo primato e le ragioni sono due: la mancanza di manodopera e la genetica. «Abbiamo coltivato per tanto tempo una varietà di provenienza Californiana, la Cammarosa – continua Galati, – oggi sostituita dalla Sabrina, proveniente dalla Spagna. In questo passaggio, dettato dalle leggi del mercato, abbiamo perso alcune delle caratteristiche che facevano delle nostre fragole un frutto inimitabile altrove». L’obiettivo è tornare a produrre un prodotto peculiare. «L’Università di Forlì sta lavorando alla creazione una varietà autoctona che sia specifica della zona di Curinga. Siamo in una fase sperimentale che sta dando ottimi risultati».
Sapore, colorazione, tenuta e consistenza sono i parametri con cui si misura la qualità. «Basta guardarsi intorno per capire che noi coltivatori continuiamo a dare l’anima per portare sui banchi dell’ortofrutta un prodotto eccellente, ma il futuro non è roseo». La preoccupazione maggiore riguarda la manodopera. È diventato sempre più difficile reperire raccoglitori, nonostante le tutele del contratto.
I lunghi filari di piante di fragole a Curinga
Un’azienda leader, che lavora in solitaria, non associata alla cooperativa è la Vito Galati, cognome molto diffuso nel Lametino. Al contrario delle altre, vende in Calabria il 70 per cento della sua produzione, mentre il 30 per cento parte per l’Emilia Romagna, la Lombardia e, a sud, per la Sicilia. Si possono trovare le “sabrine” dai fruttivendoli di nicchia, quelli che hanno anche l’annona di Reggio Calabria, le merendelle del catanzarese e i pomodori di Belmonte, nella grande distribuzione, nei mercati. Maggio è il mese più felice nel posto delle fragole, il periodo della fase fenologica, quella della piena vitalità.
Tommaso Galati, ingegnere informatico tornato da Firenze per lavorare nell’azienda di famiglia
«Impossibile non avere problemi con la ‘ndrangheta»
Tommaso Galati, 31 anni, figlio di Vito, 56, è un ingegnere informatico che da Firenze è rientrato nel villaggio agricolo di Acconìa, per lavorare nell’azienda di famiglia, accanto al padre, agli zii.
«È un lavoro faticoso ma molto dinamico. Bello perché significa stare a contatto con la natura». Tra i filari, mostra le “crude”, le mature, le colture fuori suolo, la tecnologia a basso impatto ambientale. «Purtroppo non sempre si viene ripagati dei sacrifici fatti, è il motivo per cui i più giovani non si dedicano alle attività agricole». Anche suo cugino Dario, stessa età, lavora in un’altra azienda, sempre di forte tradizione familiare. Spesso discutono di tecniche, futuro della produzione, export e trasporti che non aiutano, distese ariose e cappe irrespirabili in territori dove «è impossibile non avere problemi a causa della presenza della ‘ndrangheta».
Mancano le reti di impresa in Calabria
Il platano è a un quarto d’ora di macchina da Acconia, più su, in collina. Qualche anno fa è arrivato a Curinga un famoso “cacciatore” di alberi rari, Andrea Maroè, per misurarlo in arrampicata. Trentuno metri. Nella sua grotta sono entrate, comode, dieci persone. I cugini di Acconìa entrano nella piantagione e tornano con le fragole più belle in mano. «È il frutto dei diabetici, è dolce eppure il contenuto di zuccheri è modesto, ricco di vitamine e di fibre. E’ un buon alimento anche per le donne in attesa, perché ricco di acido folico».
Nei magazzini gli operai stanno confezionando la merce in partenza.
«Ogni stagione produttiva è un’incognita, possono sorgere tanti problemi, a iniziare dalle conseguenze degli eventi climatici. Altrimenti quello dell’agricoltore sarebbe il mestiere più redditizio del mondo», dice Francesco, 54 anni, zio di Tommaso. E’ appoggiato a un grosso contenitore colmo di pomodori profumati e bitorzoluti. Accanto ce n’è un altro pieno di ortaggi vari. Tutta merce destinata al macero, «invendibile». Per combattere tanto spreco ci vorrebbero segmenti di lavorazione agroalimentare, accanto alla produzione. «Nei distretti produttivi calabresi manca la rete d’impresa. Questo è uno dei problemi più grossi».
Raccoglitrici di fragole a Curinga
I giovani non vogliono raccogliere fragole
Le raccoglitrici portano copricapo colorati e cappelli di paglia. Staccano le fragole una per volta. «La manodopera specializzata è ormai un miraggio – spiega il presidente della cooperativa Torrevecchia. – I vecchi raccoglitori stanno progressivamente andando in pensione e le nuove generazioni non vogliono fare questo lavoro, come se ci fosse una vera e propria repulsione. Eppure la paga, rispetto ad altri settori, non è affatto male». Attualmente sono impegnate nei campi duemila persone ma ne servirebbero molti altri. Sono nella maggior parte donne, si muovono tra i filari con i carrelli, su cui adagiano con grazia i frutti. E intanto ridono, raccontano, si scambiano confidenze sotto il sole di maggio che è ancora clemente.
Una parte del centro storico di Curinga
Fragole, giganti e resti archeologici
«Chiudiamo l’annata con oltre mezzo milione di piante. Ognuna produce fino a un chilo di frutti», spiega Tommaso. L’azienda Vito Galati pratica la coltura tradizionale nel terreno. La metà delle piantine invece compie il suo ciclo vitale nel “fuori suolo”, cioè su strutture alte, ben irrigate. «Tutta acqua che recuperiamo e riutilizziamo, con un notevole risparmio idrico. Ciò significa non disperdere nulla nel terreno. Compreso i concimi e le poche sostanze chimiche che usiamo, con giuste quantità e modalità».
Anche perché ucciderebbero sia i parassiti, sia gli insetti antagonisti, cioè i predatori introdotti tra le colture. L’orius laevigatus divora i tripidi e i fitoseidi mangiano i ragnetti rossi. È un metodo efficace per evitare i pesticidi. Le api ronzano intorno. A loro tocca l’impollinazione, in questa storia di fragole, giganti e resti archeologici. C’è la torre di vedetta di località Mezza praia, che dà il nome della cooperativa e c’è un sito archeologico di pregio, con i resti di antiche terme romane. Il platano veglia. Sulle fragole, sulla costa dei Feaci, sulle raccoglitrici e sulla battaglia degli insetti. Combattuta tra i parassiti e i piccoli predatori che ogni anno salvano distese di fragole.
Si legge spesso sui social che sin dai tempi antichi la Calabria ha qualità che nessun’altra terra al mondo possiede: la gente più ospitale, l’aria più pulita, l’acqua più buona, il mare più bello, i paesi più ameni e i prodotti della terra più squisiti. La Calabria, insomma, è una terra benedetta da Dio. E, non a caso, gli storici antichi scrivevano che dopo il diluvio universale Aschkenaz, attratto dalla bellezza del paesaggio, dalla mitezza del clima e dalla fertilità della terra, si fermò nella regione. È bello essere fieri della propria patria, ma ciò non deve spingerci a falsificarne la storia.
Chi si loda s’imbroda
Gli stessi eruditi calabresi si rendevano conto che le eccessive lodi per la propria regione potevano svilire l’attendibilità delle loro narrazioni. D’Amato avvisava il lettore della modestia del suo lavoro. E, se lo studioso poteva cogliere «molto di riprensibile», esso era frutto della dolcezza e benevolenza per una terra che amava. Fiore ammetteva che l’affetto da cui si era rapiti alle glorie della patria non poteva che essere «vizioso», poiché lo storico, come Mida, tramutava in «oro di lode» tutto ciò che toccava.
Il compito, quindi, era quello di intingere la penna non tanto nell’inchiostro dell’affetto, quanto in quello del vero. Marafioti riconosceva che lo scrittore doveva anteporre il certo all’incerto. E si scusava con i lettori se non sempre aveva potuto verificare che coloro di cui scriveva fossero nati e vissuti a Cosenza. Dio, che conosceva ogni cosa, avrebbe avuto il pensiero di dare «ad ognuno il proprio luogo e a lui avrebbe dato il perdono degli errori».
Calabresi d’adozione
Spiriti non negava che molti personaggi celebri da lui descritti erano nati nei paesi vicini e che molti avrebbero potuto criticarlo per averli considerati cosentini. Egli precisava, però, che i paesi della provincia, quantunque lontani dal capoluogo, costituivano comunque le membra di quel corpo che era Cosenza! Rimproverava coloro che, per rendere grande la città, avevano annoverato tra i cosentini uomini come Guido Cavalcanti, nato e vissuto a Firenze, figlio di quel messer Cavalcante posto da Dante nella bolgia degli eresiarchi.
Un ritratto di Guido Cavalcanti
Fiore lamentava «l’altrui rapacità» che aveva rubato alla Calabria i suoi «notabili» figlioli. E forniva con onestà un lungo elenco di personaggi celebri che per ambizione erano stati considerati falsamente calabresi: tra questi nientemeno che i guerrieri Agamennone ed Aiace, il legislatore Caronda, lo storico Erodoto, l’oratore Lisia, il poeta Ennio e l’imperatore Ottaviano Augusto!
L’olio calabrese e il marchese di Seminara
In Calabria tutto è bello e tutto è buono. Ma se oggi i produttori calabresi producono olio di ottima qualità in passato era pessimo. Didier scriveva che gran parte della popolazione faceva provvista di pane per un mese e lo mangiava condito con olio rancido. Come si potevano accettare queste privazioni quando viaggiando si attraversavano per giorni interi immensi «boschi» di ulivi e campi di grano?
Domenico Grimaldi, marchese di Seminara, nel Settecento scrisse un importante trattato per cambiare radicalmente il modo in cui si coltivavano le olive e le modalità di raccolta, spremitura e conservazione. L’olio calabrese era in genere nauseabondo. Per chi era «sensibile alla gloria della nazione», era doloroso sentire i forestieri burlarsi del gusto grossolano dei calabresi che giornalmente usavano un olio che altrove era utilizzato per lampade e fabbriche di sapone.
Il nobile riteneva che fosse necessario abbattere pregiudizi come quello di non potare gli ulivi e di non spremere le olive appena raccolte altrimenti l’olio avrebbe perso in quantità e qualità. Bisognava, inoltre, sostituire i vetusti e dispendiosi frantoi calabresi con quelli ad acqua alla genovese. E, per dare l’esempio agli altri proprietari, Grimaldi chiamò alcuni operai liguri per impiantare a Seminara un moderno trappeto.
I proprietari si rivolgono al re
Egli annotava che i calabresi, avviliti e sfiduciati, per secoli erano stati poco industriosi e non avevano perseguito nessun’arte, provvedendo ai soli bisogni necessari della vita. Riteneva ottimisticamente che i suoi consigli sarebbero stati comunque raccolti. Non era credibile che i proprietari degli uliveti si fossero «congiurati» a voler restare barbari rigettando tutte le novità «ancorché ne vedessero dimostrato l’utile».
Istruzioni sulla nuova manifattura dell’olio introdotta nella Calabria. Napoli, Raffaele Lanciano, 1773.
Nel 1771, dopo aver perfezionato il frantoio genovese a Seminara e averne mostrato i vantaggi, dovette constatare con amarezza che le sue proposte non erano gradite ai conterranei. I vecchi «trappetai», incoraggiati dai padroni, screditavano il nuovo oleificio. E il «popolaccio», sedotto e intimorito «non ardiva a domandare l’abolizione delle antiche manifatture». I proprietari degli oliveti, resi vieppiù animosi dalla propria propaganda, portarono la «stravagante» protesta sino al re, implorando che non venissero imposti i nuovi frantoi consigliati dal Grimaldi.
L’olio calabrese? Buono solo per lampade e saponi
La caparbietà nella conservazione di certe abitudini mentali interessava più i proprietari che i contadini. Sentendosi minacciati dal cambiamento, i signori difendevano le tecniche tradizionali che da sempre avevano garantito la loro egemonia. Nel Settecento Galanti annotava che le olive prodotte in Calabria continuavano ad essere raccolte con le scope e lasciate macerare in trappeti desueti, cosicché l’olio prodotto risultava rancido, puzzolente e non commerciabile.
Qualche anno dopo, De Salis Marschlins scriveva che i «mulini da olio» della regione erano simili a quelli del Marocco. E che i contadini coglievano le olive addirittura nel mese di giugno, quando il frutto era marcio e dava poco e cattivo olio. Bartels confermava che la lavorazione delle olive era allo stato arcaico: l’olio calabrese era giallo e maleodorante. Persino quello che altrove era usato per far ardere le lampade, era più puro.
Carl Ulisses von Salis-Marschlins
Nell’Ottocento De Tavel osservava che gli ulivi di Calabria erano alberi d’alto fusto che davano ricchi raccolti. Tuttavia, l’olio prodotto era di pessimo sapore e veniva venduto alle fabbriche estere, soprattutto ai saponifici di Marsiglia e Trieste. Tucci commentava che i contadini, rispettando l’adagio «l’ulivo tanto più pende tanto più rende», raccoglievano le olive da terra e le spremevano, sporche di fango, guaste e puzzolenti in «grossolani» trappeti. Ottenevano un olio «che solamente può servire per i lumi, non essendo bono per gli usi di cucina e molto meno per mangiarlo crudo».
Olive ammucchiate
Un funzionario napoleonico confermava che i proprietari lasciavano imputridire le olive sul terreno e nei trappeti spremevano sia quelle buone che quelle guaste col risultato di produrre un olio «imperfetto». Pilati scriveva che un terzo delle olive veniva mangiato dopo averle seccate al sole o al forno, gli altri due terzi spremute e l’olio venduto in gran parte a mercanti spagnoli e genovesi.
Rilliet asseriva che le olive raccolte erano gettate in un truogolo, nel quale girava una macina che schiacciava il frutto e lo riduceva in pasta che posta su graticci di vimini era sottoposta alla pressa. L’olio che si produceva in Calabria lasciava molto a desiderare, perché un antico pregiudizio i proprietari ammucchiavano le olive in una cantina e non procedevano alla macinazione che quando la fermentazione era già cominciata e così l’olio era meno pregiato di quello di altre regioni e «non serviva che al basso ceto ed all’illuminazione».
Olive nere al forno
Rebuschini era convinto che il cattivo odore dell’olio fosse causato dalle olive che si raccoglievano una volta cadute ed eccessivamente mature si imbevevano del sapore del terreno. Se a ciò si aggiungeva il sistema primordiale di «fabbricazione» generalmente usato, si capiva perché l’immensa produzione di olio della Calabria era destinata alla combustione quando avrebbe potuto dare uno dei migliori oli del mondo.
Sistemi primordiali
Lombroso notava che le olive si facevano maturare sugli alberi finché cadevano e si lasciavano ammonticchiate nei magazzini prima di essere spremute: con questa pratica barbara si ricavava un olio di pessimo odore e peggior sapore, buono solo per le fabbriche di sapone. Per Rebuschini l’olio calabrese aveva gusto e odore cattivo perché le olive erano raccolte una volta cadute e perché il sistema primordiale di «fabbricazione» forniva un prodotto buono solo per la combustione.
In una inchiesta agraria del 1876 si legge che nella provincia di Cosenza le donne raccoglievano le olive quando cadevano al suolo, le trasportavano dentro sacchi all’opificio oleario dove, conservate dentro cellette in muratura, a volte rimanevano ammonticchiate anche per tre o quattro mesi e l’olio che se ne ricavava «per quanto era più grasso e pastoso, per altrettanto era di odore e sapore nauseabondo».
L’olio calabrese tre secoli dopo Grimaldi
Ci sono voluti circa tre secoli prima che i proprietari calabresi ascoltassero le raccomandazioni di Grimaldi. Oggi gli olivicoltori selezionano le olive, le raccolgono prima della loro completa maturazione e, con grande passione e perizia, producono un olio di altissima qualità. Il marchese di Seminara sarebbe felice vedere uscire dai frantoi della sua regione l’olio puro dal colore verde intenso contaminato da inebrianti profumi di piante e minerali.
In occasione delConcours Mondial de Bruxelles – la kermesse patrocinata dalla Regione e ospitata a Rende dal 19 al 22 maggio: coinvolti oltre 320 giudici, 8mila i vini da 50 nazioni – la Calabria potrà “raccontarsi”, come da formula di marketing territoriale alquanto abusata: se negli anni scorsi i vini calabresi facevano registrare presenze molto basse, in questo 2022 ne vedremo iscritti al Concours oltre cento. Tuttele degustazioni saranno alla cieca: in campo circa 70 commissioni composte ciascuna da 5-6 degustatori, con valutazioni fatte sui tablet per evitare qualsiasi margine d’errore. I giudici non assaggeranno più di 40/45 vini per mattinata.
Vini, attenti all’autocelebrazione come per gli amari calabresi
Saranno giorni di degustazioni, divulgazione ed eventi collaterali. L’occasione, però, è anche propizia per fotografare – senza l’illusione dell’esaustività – il movimento vitivinicolo calabrese, che per la sua crescita esponenziale degli ultimi vent’anni è difficilmente etichettabile o riducibile in griglie precostituite.
Di certo si è arrivati a un apprezzamento sempre maggiore – per qualità e quantità di aziende e bottiglie ma anche per la presenza di personalità eccelse tra produttori e divulgatori locali, come vedremo, oltre che di enologi che hanno tracciato la strada come Donato Lanati per Librandi – in modo meno “drogato” di quanto sia accaduto nell’ultimo lustro nel mondo degli amari, tra continui exploit e premi non sempre “prestigiosi” come da formula. Il rischio è l’autoreferenzialità provinciale e anzi ombelicale riassumibile in un celebre post de Lo Statale Jonico («È calabrese la città calabrese più bella della Calabria»); ma questo è un altro discorso. Luoghi comuni a parte, ecco dunque un alfabeto minimo e semiserio (e soprattutto in continuo aggiornamento) su vini e produttori calabresi.
Archeologici
Acroneo è un brand acrese legato alla famiglia Bafaro: «La produzione dell’archeo-vinoAcroneo è frutto di uno studio accurato delle fonti letterarie, iconografiche e archeologiche. Ogni aspetto è curato nei minimi dettagli, per ricostruire il processo di vinificazione antico, si tratta di archeologia sperimentale». Arkon, un Magliocco in purezza da 15,5° affinato in anfora interrata, territorio San Demetrio Corone, sarebbe l’ideale con il garum, la salatissima salsa al pesce degli antichi romani antesignana in un certo senso della sardella. Ammesso che sappiate riprodurla.
Artigianali
Chi sono i Vac? Vignaioli artigiani di Cosenza, sigla che vale anche per Vignaioli dell’Alt(r)a Calabria, guidati da Eugenio Muzzillo (Terre del Gufo). I magnifici dieci (gli altri sono L’Antico Fienile Belmonte, Rocca Brettia, Elisium, Tenute Ferrari, Manna, Ciavola Nera, Cerzaserra, Azienda Agricola Maradei, Cervinago) propugnano una filosofia davvero bio e puntano sul vitigno autoctono a bacca nera che trova a 500 metri slm il suo habitat ideale.
Fabio Lento, Ciavola Nera: è uno dei vini calabresi “targati” Vac (foto Facebook)
Bruzio, orgoglio
Proprio il Magliocco rivive oggi nella Dop Terre di Cosenza, denominazione che in un decennio è passata da 10 a 60 aziende consorziate e un milione di bottiglie prodotte. Merito di un lavoro commerciale e comunicativo che trova le sue basi in un fondamentale libro di Giovanni Gagliardi e Gennaro Convertini su Il vino nelle terre di Cosenza (ed. Rubbettino 2013, con le formidabili foto di Stépahne Aït Ouarab). Il Consorzio è oggi presieduto da Demetrio Stancati dell’azienda agricola Serracavallo (Bisignano, CS).
Creativi/1
Restiamo in ambito letterario e nelle Terre di Cosenza con il MaglianicoSerragiumenta, etichetta che gioca con l’Aglianico la cui fortuna è stata decantata – è il caso di dire – dal potentino Gaetano Cappelli in un gustoso libro per Marsilio che celebra il vitigno del Vulture. In questa bottiglia di rosso “da meditazione” dell’azienda agricola di Altomonte (CS) troverete il 60% di Magliocco e il 40% di Aglianico: sempre che riusciate a meditare accanto a un arrosto di carne o un tagliere di formaggi a lunga stagionatura, piuttosto che vedere i draghi. Esperienza comunque da consigliare, vista la qualità del vino.
Creativi/2 (pure troppo, forse)
Dgp? Una volta che sarà corretto il simpatico refuso sull’etichetta (Denominazione Geografica Protetta, un ibrido tra Dop e Igp) varrà tantissimo questo stock di bottiglie firmate Colle di Fria, tipo il Gronchi rosa o la moneta da 1000 lire del 1997 con i confini dell’Europa sbagliati (valore su eBay: 3mila euro).
Eretici
Incurante della polizia del pensiero unico, Dino Briglio Nigro con la sua barba marxista spinge il suo Sputnik 2 (azienda L’Acino, San Marco Argentano, CS), una magnum di Magliocco in purezza (14°) dall’etichetta orgogliosamente sovietica. Dell’altrettanto eretica azienda presilana Spiriti ebbri(citata nientepopodimeno che dal compianto Gianni Mura in una delle sue ultime classifiche del meglio dell’anno su Repubblica) consigliamo invece il Cotidie (rosato e bianco).
Dino Briglio Nigro appartiene alla categoria degli eretici tra i produttori di vini calabresi
Governativi
La Tenuta del Castello di Roberto Occhiuto (antica cantina dell’alto Jonio cosentino di cui sono proprietari anche Paolo Posteraro e Valentina Cavaliere) aggiorna in un certo senso, restando nel centrodestra e in zona ionica, l’impegno da 4 generazioni dei Senatore (Cirò Marina) o quello di Dorina Bianchi (Pizzuta del Principe, Strongoli). Una versione calabrese della passione dalemiana con la sua cantina umbra La Madeleine.
Indipendenti
FrancescoDe Franco (azienda ‘A Vita, vedi anche alla lettera R) ha da poco celebrato, il 14 maggio, il Sabato del Vignaiolo, la giornata pensata in tutta Italia dalla Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti «per raccontare al pubblico e agli appassionati le realtà territoriali dei 1400 soci Fivi»: 18 appuntamenti organizzati da nord a sud da altrettante delegazioni locali, tra banchi d’assaggio, degustazioni guidate e abbinamenti gastronomici.
Magno, anzi maximo
Con un punteggio di 99/100, il Megonio 2019 Librandi a inizio anno è risultato il miglior vino italiano in assoluto secondo la guida Vitae 2022 edita dall’Ais (Associazione italiana sommelier). Il rosso Igp Calabria richiama nell’etichetta il quadrumviro romano attivo nel II secolo d. C. nella città romana di Petelia, oggi Strongoli. Per molti calabresi però, con i rossi Gravello e Duca Sanfelice, è stato per decenni sinonimo di vino rosso di fascia altissima.
Il Megonio Librandi, fresco vincitore del titolo di Miglior vino d’Italia sulla guida Vitae 2022
New York Times
Un altro rosso, stavolta di Odoardi (vai alla lettera Q), a fine 2021 è stato collocato nel gotha dei 20 migliori vini al mondo al di sotto dei 20 dollari: parola di Eric Asimov, tra le firme più influenti del New York Times e autorità planetaria del settore vino, entusiasta per 149 – L’inizio, una «miscela rossa, incentrata sull’uva Gaglioppo, che è affumicata, tannica e un po’ selvaggia, come la Calabria, ma concentrata e deliziosa».
La sede del NYT
Pionieri e volti nuovi
Dopo anni di premi e soddisfazioni, il 2022 ha portato al guru Nicodemo Librandi il dottorato di ricerca honoris causa in Scienze agrarie, alimentari e forestali all’Università Mediterranea di Reggio Calabria. E se Roberto Ceraudo, fondatore dell’azienda Dattilo a Strongolioggi anche ristorante stellato grazie alla figlia Caterina, è diventato intanto ambasciatore dell’Accademia dell’olio di Spoleto, è un volto nuovo eppure già noto quello del “benemerito della vitivinicoltura italiana per il 2022”: si tratta di Giovanni Celeste Benvenuto (vai alla lettera Z), abruzzese figlio di calabrese che ha trovato a Francavilla Angitola (VV) il suo eden: è stato premiato nella cerimonia di apertura dell’ultimo Vinitaly.
Qualità/quantità
Il rischio di articoli come questo è tanto di ridurlo a un elenco di aziende quanto di dimenticarne imperdonabilmente qualcuna: dunque, per qualità, evoluzione e presenza sul mercato (in qualche caso anche nei settori Horeca e Gdo) bisogna citare, con la già menzionata Serracavallo, almeno Ferrocinto, Fratelli Falvo, Terre Nobili di Lidia Matera, Tenuta del Travale di Raffaella Ciardullo, i gemelli rendesi Giraldi&Giraldi, Chimento, Colacino, i decani Eugenio Cundari e Giuseppe Calabrese nel Cosentino; Baroni Capoano e Casa Comerci nel Vibonese; Sergio Arcuri, Ceraudo, Enotria, Ippolito, Iuzzolini, Russo & Longo, Cantine San Francesco, Santa Venere, Tenuta del Conte e Termine Grosso nel Crotonese oltre naturalmente a Librandi e ai rivoluzionari cirotani che trovate alla lettera seguente; Criserà, Lavorata e Tramontana nel Reggino; Dell’Aera e Le Moire nel Catanzarese e il già citato Odoardi nel Lametino, con Statti e Lento.
Rivoluzionari
La “revolution” dei Cirò boys, intanto diventati lord, potrà dirsi conclusa quando arriverà la tanto agognata Docg, o almeno si avvierà l’iter: a oltre 10 anni dal cambio del disciplinare, l’idea della denominazione di origine controllata e garantita non è mai tramontata e anzi è quanto mai attuale. Intanto i più visionari tra i vignerons calabri – capitanati da Cataldo Calabretta e Francesco De Franco (lo abbiamo trovato alla lettera I) – continuano con la loro missione nel distretto più importante della vitivinicoltura calabrese, tra i più longevi e produttivi del Mezzogiorno, un unico paesaggio che ingloba anche Crucoli e Melissa: duemila ettari circa (dati Arssa 2002) ovvero il 20% della superficie vitata dell’intera Calabria. Con il Gaglioppo re assoluto e incontrastato.
Spumanti
Le bollicine erano il grande tabù della vinificazione calabrese: poi arrivarono, quasi 15 anni fa, Almaneti e Rosaneti di Librandi. Due etichette ormai storiche cui aggiungere quantomeno il brut Dovì di Ferrocinto, Chardonnay in purezza da un vigneto a 600 metri slm esposto a nord, forte di 36 mesi di affinamento sui lieviti.
Viola
Il Moscato di Saracena è tra i vini calabresi più apprezzati
Un discorso a parte merita la famiglia Viola che da un quarto di secolo a Saracena (CS) con il suo Moscato al governo ha riportato al top nazionale la tradizione cinquecentesca del vino dolce, menzionato dalle fonti storiche sulle tavole pontificie almeno dal XVI secolo. Merito dell’intuizione di Luigi, maestro elementare in pensione, e della passione dei figli.
«Per sapere se il vino è buono non occorre bere l’intera botte»: Oscar Wilde lo diceva riferendosi all’incostanza delle letture, noi prendiamo la frase in prestito per ribadire che per apprezzare il vino calabrese non serve citare tutte le aziende (qui un elenco accurato). Di certo ci abbiamo provato: e la difficoltà di essere esaustivi già la dice lunga su quanto sia in crescita il settore.
La primavera è tempo di fave ma per Pitagora erano un alimento impuro e immondo. Il filosofo di Crotone era un convinto vegetariano ma vietava l’uso delle fave. Porfirio racconta che «prescriveva di astenersi dalla fave non meno che da carne umana» mentre nei detti simbolici affermava perentoriamente: «astieniti dalle fave».
Busto che raffigura il filosofo Pitagora
I filosofi non mangiano fave
Per Aristotele, Pitagora ebbe a dire che «mangiar fave, è lo stesso che mangiare il capo del genitore» e per Luciano «io non mangio alcuno animale; tutte le altre cose poi, infuor le fave». In un’altra occasione affermò sulle fave: «Io non le odio, ma per sempre me ne astengo, perché son sacre, perché hanno una natura mirabile». Tertulliano ci informa che Pitagora addirittura «aveva prescritto ai suoi discepoli che non si doveva neppure passare attraverso i campi di fave» e, secondo Porfirio, voleva che tale prescrizione fosse rispettata anche dagli animali.
I pitagorici uccisi per colpe delle fave
Secondo Dicearco, Pitagora morì nel tempio delle Muse di Metaponto dove si era rifugiato in seguito alla rivolta contro la sua scuola. Eraclide sostiene che, dopo avere seppellito Ferecide a Delo, si ritirò in quella città dove pose fine alla sua vita lasciandosi morire di inedia giacché non desiderava vivere più a lungo. Molti racconti mitici legano però la fine di Pitagora e dei suoi discepoli alle fave.
Ippoboto e Neante, scrive Giamblico, narrano che il tiranno Dionisio, poiché non riusciva a farsi amico nessun pitagorico, dal momento che rifuggivano dal suo carattere dispotico e violento, inviò una schiera di trenta uomini, sotto il comando del siracusano Eurimene, per tendere loro un agguato. I soldati si appostarono in un luogo nascosto nella zona di Fane, una località vicino Taranto piena di voragini, dove i pitagorici sarebbero dovuti necessariamente passare e a mezzogiorno li assalirono levando alte grida, alla maniera dei briganti.
I discepoli di Pitagora decisero di fuggire e si sarebbero salvati, perché gli uomini di Eurimene, ostacolati dal peso delle armi, erano rimasti indietro nell’inseguimento, ma s’imbatterono in un campo seminato a fave già in pieno rigoglio. Così, non volendo contravvenire al precetto che imponeva di non toccare le fave, si fermarono si difesero con pietre e bastoni ma furono sopraffatti.
Il mistero delle fave non può essere rivelato
Continua il racconto di Giamblico sulla sorte di Millia e Timica, due pitagorici sfuggiti al massacro: «Ma subito in costoro si imbatterono Millia di Crotone e Timica di Sparta, che erano rimasti indietro rispetto al gruppo perché Timica era all’ultimo mese di gravidanza e perciò procedeva lentamente. Essi li fecero prigionieri e soddisfatti li condussero dal tiranno, dopo averli trattati con ogni cura, affinché rimanessero in vita. Dioniso, una volta informato dell’accaduto, si mostrò assai abbattuto e disse loro: «Da parte mia voi riceverete, a nome di tutti gli altri, gli onori che meritate, nel caso vogliate regnare assieme a me».
Poi, visto che Millia e Timica respingevano ogni sua proposta aggiunse: «Se mi spiegherete una sola cosa, sarete lasciati andare sani e salvi con una scorta adeguata». E a Millia che gli domandava che cosa volesse sapere, rispose: «Per quale ragione i tuoi compagni hanno preferito di morire pur di non calpestare le fave?». Al che Millia: «Quelli si sono assoggettati alla morte pur di non calpestare le fave; io, per parte mia, preferisco calpestare le fave pur di non rivelartene la ragione».
Il tiranno Dionisio
Allora Dioniso, colpito dalla risposta, diede ordine di portar via con la forza Millia e di sottoporre Timica a tortura, convinto che, in quanto donna, in attesa di un figlio, e per di più priva del marito, avrebbe facilmente parlato per timore della tortura. Ma l’eroina si morsicò la lingua, staccandosela, e la sputò in faccia al tiranno, mostrando con ciò che anche se la sua natura di donna, sopraffatta dalla tortura, fosse stata costretta a rivelare a qualcuno segreti su cui era obbligatorio tacere, lei aveva tagliato via lo strumento a ciò necessario».
Piante demoniache
Sul tabù di Pitagora si sono avanzate varie spiegazioni. Le fave erano piante demoniache, antenate degli uomini, cibo dei morti, intorpidivano il corpo, provocavano il favismo, erano indigeste e via dicendo. Un tabù è difficile da comprendere. Come il mito, per sua natura è bizzarro e illogico, tende all’occultamento e alla mistificazione del reale, non risponde a delle domande e non da spiegazioni. Il tabù è ambiguo, spesso il suo senso non risiede in ciò che racconta, ma in qualcosa che non racconta; rende manifesti certi meccanismi fondamentali della mente umana, ma non per questo li significa. Il suo compito non è quello di chiarire, ma deformare, ingannare e infittire le oscurità intorno a sé; non è quello di persuadere ma di affascinare, non di spiegare ma di fondare, non di porre domande ma dare risposte.
Le fave probabilmente erano un tabù pitagorico
Fave e tabù
Gli stessi pitagorici probabilmente non cercavano di svelare il segreto delle fave, non chiedevano di sapere le sue origini, non esprimevano giudizi su di esso. Alcuni sostengono che tabù come quello delle fave rimarranno sempre insoluti e indecifrabili. Baudrillard scrive che ogni interpretazione è qualcosa che si oppone alla seduzione e ogni discorso interpretativo è il meno seducente che ci sia. Ogni interpretazione impoverisce e soffoca il tabù, poiché esso ha una tale ricchezza di significati che non possono essere rivelati dalla logica di un ragionamento. Il tabù delle fave è enigmatico e sconcertante, è il mondo del mistero, della magia e della seduzione. I suoi segreti sono una sfida all’ordine della verità e del sapere e gli uomini non capiscono il senso della sua immagine, ma si immedesimano in essa.
I pitagorici preferiscono la malva
Le proibizioni e le prescrizioni pitagoriche hanno un senso solo se viste all’interno di una logica che tendeva a organizzare il mondo in una scala di valori. Ai suoi discepoli Pitagora diceva che bisognava onorare gli dei prima dei daimon, i daimon prima degli eroi, gli eroi prima dei genitori, i genitori prima dei parenti. In questa scala c’erano poi delle cose pure e impure, buone e non buone, belle e brutte. Il filosofo sosteneva che la fava era demoniaca e la malva santissima, ma tale affermazione non aveva nessun senso se pensiamo che la maggior parte della popolazione si nutriva di fave e che invece la malva era utilizzata di tanto in tanto come infuso.
La malva era santissima e le fave erano demoniache perché bisognava comunque scegliere all’interno del mondo vegetale le cose buone e le cose cattive. In tale prospettiva di prescrizioni e restrizioni è quindi del tutto inutile trovare delle ragioni ai tabù, poiché il loro senso era puramente formale, senza contenuto, privo di significato.
La divisione tra le cose permesse e proibite non aveva un significato legato alle loro proprietà intrinseche ma al fatto che si dovevano introdurre delle distinzioni per dare un ordine. Secondo Aristotele, il dualismo fondamentale che per i pitagorici rifletteva l’opposizione tra bene e male, era quello tra limitato e illimitato: il male era proprio dell’illimitato e il bene del limitato.
L’antropologo Claude Lévi-Strauss
Sostiene Lévi-Strauss
Il modo di ragionare di chi stabiliva i tabù rientrava in una struttura mentale di pensiero che cercava di decifrare e ordinare in un sistema di coppie concettuali in cui il primo membro era contrassegnato positivamente e il secondo negativamente. Lévi-Strauss scrive che l’attività mentale dell’uomo tende a organizzarsi attorno ad una struttura binaria e che il passaggio dallo stato di natura a quello di cultura si definisce con l’attitudine a pensare le relazioni sotto forma di sistemi di opposizioni. Dualità, alternanza, doppio e simmetria non costituiscono dunque i fenomeni da spiegare, ma dati della realtà mentale e sociale nei quali riconoscere i punti di partenza di ogni possibile spiegazione.
Divieti, puro e impuro
Le regole pitagoriche, dunque, tendevano all’armonia e all’equilibrio, a tradurre il caos in cosmo e cioè in un sistema razionalmente ordinato e armonico. I divieti erano senza contenuto e senza significato: la proibizione serviva solo a costruire un sistema logico che strutturasse il mondo. I tabù facevano parte di una struttura mentale che contrapponeva sacro e profano, puro e impuro, lecito e illecito per porli in relazione. Questa struttura mentale inconscia e universalmente astorica non solo dava ordine al disordine ma era fondamentale per favorire lo scambio tra gli esseri umani: la reciprocità tra gli uomini è stabilita sempre sulla base di proibizioni e le stesse proibizioni hanno segnato il passaggio dalla natura alla cultura.
Chi non gli vuol bene (o è deluso) rimprovera due cose all’ex sindaco Mario Occhiuto: essersi concentrato sul voluttuario e il dissesto del Comune di Cosenza.
Quest’ultimo non è colpa sua. O, almeno, non lo è del tutto. Gli si può rimproverare di non aver tenuto i conti sotto il livello di guardia, tanto più che lo Stato aveva iniziato a sforbiciare le sue rimesse dal 2011. Gli emblemi del voluttuario by Occhiuto restano le luminarie con cui ha tentato di abbellire, non sempre riuscendoci, varie zone della città.
Parliamo dei famosi “cerchi” e dei santini di un improbabile Re Alarico che hanno troneggiato per anni, a costi non proprio leggerissimi.
«Archite’ ricogliati ssì circhi», rappavano alcuni anni fa Zabatta e Solfamì, i re mascherati dell’hip pop satirico cosentino.
Ora che i circhi non ci sono più (anche se Franz Caruso li ha rimessi in giro), è doverosa una riflessione: il dissesto di Cosenza non è colpa delle luci. Ma a Cosenza c’è stato un sindaco che ha messo il Comune in crisi per altre luci: Francesco Martire.
Cosenza verso il dissesto: il primo grande debito
Francesco Martire non era un archistar ma aveva lo stesso il pallino delle opere pubbliche.
Esponente della sinistra storica, già deputato per tre legislature a partire dal 1865, aveva promosso la realizzazione della ferrovia Sibari-Sila.
Nel 1876 Martire diventa sindaco di Cosenza, dove fa ricostruire il ponte Alarico e, appunto, realizza l’illuminazione a gas.
Il vecchio ponte Alarico (1883) in ferro, sostituito dall’attuale dopo la Seconda Guerra mondiale
Per una città come Cosenza, il gasometro è la classica manna. Ma anche uno sproposito: costa un milione di lire dell’epoca, oltre venti milioni di euro attuali.
Infatti, la Cosenza dell’ultimo quarto del XIX secolo conta circa ventimila abitanti e il suo bilancio è al massimo di duecentomila lire. Quindi s’impone il mutuo. Martire lo contrae a nome del municipio col banchiere napoletano Gaetano Anaclerio.
Il contratto è un capestro: per garantirlo, il Comune emette 3.036 obbligazioni da cinquecento lire l’una, da rimborsarsi entro cinquant’anni. Più gli interessi ed eventuali penali. C’è chi mugugna. Ma tant’è: nella Cosenza di allora, chi non è d’accordo salta, più che in quella di oggi.
È il caso di Antonio Coiz, il preside del Telesio, trasferito in Puglia qualche mese prima del prestito. Martire è intoccabilissimo, perché protetto da tutti. Dalla sua sinistra e dagli avversari.
Inciucio d’epoca tra destra e sinistra
Luigi Miceli
Alle spalle di Martire c’è Luigi Miceli, esponente della sinistra radicale, che fa la guerra al destrorso Francesco Muzzillo.
Muzzillo sulle prime la spunta: la sua lista vince le elezioni del 1876. Ma Miceli, parlamentare di lungo corso ed esponente della Cosenza che conta, preme per lo sconfitto. All’epoca i pastrocchi non sono un problema, visto che il sindaco è nominato dal re su proposta del Consiglio comunale.
Quindi Martire diventa sindaco. Ma, per tenersi la poltrona, ricorre a un espediente oggi molto in uso nei paesi dell’Europa orientale: riempie la giunta di avversari.
Dissesto: la massoneria scende in campo a Cosenza
Pietro De Roberto
Passano gli anni e le cose cambiano. Cambia anche il debito, che triplica per colpa delle clausole firmate da Martire e, va da sé, dell’insolvenza del Comune.
Cambia anche la posizione di Miceli, bollito da anni di potere e insidiato dalla massoneria.
Miceli, nel 1888, è ministro dei Lavori pubblici nel governo di Francesco Crispi. A Cosenza le logge “Bruzia”, guidata dal patriota Pietro De Roberto, e “Telesio” gli fanno la guerra.
Allo scopo, i grembiulini preparano un trappolone: un incontro pubblico presso il teatro Garibaldi, promosso dal settimanale La lotta. Lo scopo del meeting è apparentemente innocuo: la richiesta di un reggimento del Regio esercito in città. Ma il dibattito diventa una requisitoria contro Miceli, che, nonostante il suo consistentissimo seguito politico, subisce una bella botta.
A.A.A. sindaco cercasi
Cosenza, che non ha un sindaco da tre anni ed è amministrata dal facente funzioni Giuseppe Compagna, va alle elezioni nel novembre 1888. Con una novità: il re non nomina più i sindaci, che sono eletti direttamente dai Consigli.
Le elezioni sono tipicamente cosentine: venti liste per un totale di settantuno candidati. Con gli occhi di oggi, non sembrano grandi numeri. Ma per una città di poco più di ventimila abitanti in cui ha diritto al voto il quindici per cento circa dei residenti è tantissimo.
Vince la lista sponsorizzata dalla loggia “Bruzia”, che si aggiudica sedici consiglieri su trenta. Ma è una vittoria parziale, perché arriva la parte più difficile: fare il sindaco. Le finanze di Cosenza sono vergognose: tre milioni di debito, saldato in minima parte (il Comune ha rimborsato solo duecentoventi obbligazioni). Più che un sindaco, in questa situazione, occorre un eroe.
Infatti, il finanziere Angelo Quintieri, aristocratico e ricco possidente di Carolei, rifiuta la poltrona offertagli dalla “Bruzia”.
Alimena sindaco
Al suo posto accetta Bernardino Alimena, figlio del patriota Francesco e professore universitario a Napoli. Alimena sembra l’uomo giusto al posto giusto: giurista di prima grandezza (tra le varie, è l’avversario più accreditato del criminologo Cesare Lombroso) ha il prestigio necessario per dare lustro alla città e ottenere credito politico a Roma.
Bernardino Alimena
Il prof si dà subito da fare: denuncia il debito alla cittadinanza, inizia a tagliare i conti e, soprattutto, dà la caccia agli evasori, che anche allora non sono pochi.
Come sempre, il rigore comporta l’impopolarità: gli elettori si ribellano e la giunta, piena di massoni, perde pezzi. E perde pezzi anche la loggia “De Roberto”: piuttosto che vedersela con gli elettori arrabbiati, i grembiulini si mettono in sonno. A fianco di Alimena resta il solo De Roberto, che muore nel 1890. Per il professore la situazione diventa critica: rimpasta due volte la giunta pur di restare in sella, ma niente da fare. È costretto a dimettersi appena sei mesi dopo la nomina.
Dissesto, luminarie e lampioni
In tutto questo, resta una domanda: come presero i cosentini di allora l’innovazione del gasometro? Secondo le cronache dell’epoca, malissimo: i rapporti di polizia giudiziaria riferiscono di lampioni presi a sassate in alcune zone. In particolare, nel rione Sant’Agostino, zona storica delle “lucciole”, e nel quartiere Santa Lucia, dove le professioniste dell’amore avevano iniziato a trasferirsi. Segno che, per certe attività, il buio fosse più gradito.
Il debito, invece, è estinto nel 1924. Ma più per merito dello Stato, che ha nazionalizzato il sistema bancario, che del Comune. Nessuno, invece, ha danneggiato le luminarie di Occhiuto, che in compenso non hanno provocato il dissesto di Cosenza pur offrendo il loro modesto contributo alla causa.
Ma questa storia ha un’unica morale, che vale oggi come a fine Ottocento: per chiarire i conti pubblici, non c’è luce che basti.
Una campagna stampa virulenta. Ma anche un classico del giornalismo d’inchiesta contemporaneo, con tutti i pregi e i difetti del caso.
La lunga requisitoria condotta da Il Candido, la più famosa testata d’inchiesta e di satira di destra nella Prima Repubblica, contro Giacomo Mancini vanta almeno un primato: è il primo dossier completo nei confronti di un leader politico di prima grandezza. Soprattutto, è la prima inchiesta andata a segno.
Giacomo Mancini in una foto d’epoca
Mancini lascia la segreteria del Psi
Iniziato il 26 novembre del 1970, il battage dura circa due anni. Al termine dei quali, il quadro politico italiano, di cui Mancini era una delle figure più importanti, cambia radicalmente.
Il leone socialista, malridotto dall’inchiesta, lascia la segreteria del Psi. Giorgio Pisanò, diventato nel frattempo bersaglio anche di attentati mai chiariti (gli incendi alla sede milanese de Il Candido del ’72), approda in Senato col Msi.
Il centrosinistra, infine, entra nella sua prima grande crisi, perché l’affermazione della Destra nazionale di Almirante, spinge la Dc su posizioni conservatrici.
Il calo di Mancini, infine, cambia anche gli equilibri interni del Psi, che sprofonda nell’immobilismo della segreteria di Francesco De Martino.
Tutto questo riguarda la grande politica nazionale. E la Calabria? È l’epicentro di questa vicenda che ancor oggi fa discutere.
Una delle prime pagine del Candido che attaccano frontalmente Mancini
Il Candido: storia di un giornale “contro”
Fondato da Giovannino Guareschi nel ’45, Il Candido nasce come foglio di satira rivolto al mondo cattolico, all’opinione conservatrice e, va da sé, al mondo neofascista. Il settimanale di Guareschi è un po’ l’alter ego settentrionale de l’Uomo Qualunque del commediografo napoletano Massimo Giannini, che pescava nello stesso bacino. I piatti forti della testata non sono solo i lazzi e le vignette (indimenticabili quelle sui comunisti “trinariciuti”), ma anche le inchieste. Una di queste, dedicata ad Alcide De Gasperi, finisce malissimo.
Il papà di don Camillo aveva sostenuto, sulla base di documenti non attendibili, che De Gasperi, durante la guerra, aveva segnalato agli americani alcuni bersagli sensibili da bombardare. Querelato per diffamazione, Guareschi finisce in galera nella primavera del ’54 e vi resta un mese. Condannato a un anno di carcere, lo scrittore schiva la pena per amnistia. Un destino simile toccherà, circa vent’anni dopo, a Giorgio e Paolo Pisanò. Ma andiamo con ordine.
Giacomo Mancini: il superministro calabrese
Nel 1970 Giacomo Mancini è il politico calabrese più influente e potente di tutti i tempi. Già ministro della Sanità e dei Lavori pubblici nei governi di centrosinistra guidati da Moro, Mancini diventa segretario del Psi al posto di Francesco De Martino, di cui era stato il vice col quale aveva condotto la campagna elettorale del ’68, assieme al Psdi.
I risultati, com’è noto, non furono lusinghieri. In compenso, le polemiche furono virulente. Resta memorabile quella condotta da Aldo De Jaco su L’Unità, che conia per l’occasione il primo – e più famoso – nomignolo su Mancini: il Califfo.
Meridionalista fino al midollo, Mancini non si staccò mai dalla Calabria e dalla sua Cosenza, che cercò di privilegiare in tutti i modi. Tuttavia, la calabresità si rivelò un tallone d’Achille. Perché la Calabria, a inizio ’70, entrava di prepotenza nelle cronache nazionali. E non solo per gli ambiziosi progetti di sviluppo, promossi dallo stesso Mancini.
Giorgio Pisanò: fascista, spia, contrabbandiere, giornalista
Come ha ricordato in tutte le sue autobiografie, Giorgio Pisanò era uno di quelli che non ha mai potuto smettere di essere fascista.
Già ufficiale delle Brigate nere della Rsi, Pisanò svolse missioni spericolate per conto di Salò durante la guerra civile. In particolare, si occupava di spionaggio e di sabotaggi. Per svolgere questi compiti, varcava più volte i confini militari tra la Repubblica di Mussolini e il Regno del Sud, allora sotto amministrazione angloamericana.
Cosa curiosa, ne uscì sempre illeso. Al punto da ammettere, nel suo La generazione che non si è arresa, che i Servizi alleati sapessero tutto di lui ma non gli facessero nulla.
Perché? La risposta oggi è persino banale: gli americani avevano deciso di salvare il salvabile del fascismo per impiegarlo in chiave anticomunista. Insomma, nasceva la Stay Behinditaliana.
Finita la detenzione a San Vittore e nel campo di concentramento di Terni, Pisanò si arrangia come può per sbarcare il lunario. Inizia come contrabbandiere al confine svizzero e poi si dà al giornalismo, dove si fa notare subito per le ricostruzioni sugli eccessi dei partigiani.
Il fascista e i servizi segreti
Difficile dare un giudizio assoluto su queste prime inchieste di Pisanò, dietro le quali non è difficile leggere le imbeccate e le veline dei Servizi segreti militari.
Tuttavia, il loro valore storiografico è notevole, visto che vi si sono “abbeverati” tanti storici, accademici e non, a partire da Renzo De Felice per finire a Giampaolo Pansa.
Del rapporto tra i Servizi e Pisanò resta una traccia in una velenosissima intervista rilasciata da Giacomo Mancini a Paolo Guzzanti e apparsa su Repubblica del 12 ottobre 1980: «Adesso nessuno apre gli occhi sul fatto che Pisanò, uno dei giornalisti amici del generale Aloia e dell’ex capo del Sid Henke stia pubblicando una impressionante documentazione».
Il riferimento va all’inchiesta postuma di Pisanò su Aldo Moro. Ma questa è un’altra storia. Per quel che ci riguarda, è importante notare che nel ’68 Pisanò, che comunque si è fatto un “nome”, rileva il Candido dagli eredi di Guareschi. La partenza è in sordina: per attendere il botto ci vorranno due anni.
Giorgio Pisanò è stato anche direttore del giornale Il Candido
La campagna stampa di Pisanò contro Mancini
L’inchiesta di Pisanò su Mancini fu il classico fulmine. Non proprio a ciel sereno, perché nella Calabria dei primi ’70 prendeva forma un curioso (e inquietante) laboratorio politico: la rivolta “nera” di Reggio, guidata dal sindacalista Cisnal Ciccio Franco e sposata dal Msi di Almirante, che mirava a spostare a destra tutti gli equilibri e (squilibri) politici possibili.
L’esordio è dirompente: Biografia di un ladro, recita lo strillo di copertina del Candido. E non è da meno il paginone centrale che reca lo stesso titolo e contiene la prima di circa trentasei puntate.
Grazie a un’indiscutibile abilità editoriale, Pisanò cerca un target facile. E lo trova in Calabria (come più o meno ha fatto di recente Giletti). Abbraccia la rivolta di Reggio e picchia in testa ai leader calabresi. In particolare, il segretario del Psi.
La campagna stampa è un crescendo di virulenza, ma anche di documentazione. E più crescono i documenti, più il linguaggio si appesantisce.
Tra inchiesta e sfregio: la requisitoria del fascista
Lo testimonia una striscia curiosa che, a partire dal ’71 diventa l’occhiello degli articoli: Mancini è un ladro. Oppure: Mancini sei un ladro. Il tutto ripetuto come un mantra.
Pisanò non risparmia niente. Ad esempio, lo stile di vita dell’ex ministro: «Compagno socialista che tiri la cinghia-Consolati: il ladro Mancini se la gode anche per te».
Oppure i finanziamenti per la sua campagna elettorale: «1968: ha speso un miliardo per farsi eleggere».
Da manuale dello sfregio anche i titoloni delle copertine, rigorosamente bicromatiche: «Mancini, un uomo tutto d’un puzzo”. E ancora: «Il ladro Mancini non ci ha denunciati».
Restano agli annali due battutacce che forse sono ancora il sogno dei titolisti più spregiudicati: «Si scrive leader si legge lader» e «Quelli che rubano con la sinistra sono Mancini».
I contenuti sono roventi: si va dagli appalti dell’Anas ai legami con Cinecittà. Pisanò racconta un intreccio fitto di tangenti, fondi stornati e favoritismi spregiudicati. L’inchiesta non si ferma solo al segretario, ma coinvolge i suoi affetti, a partire dalla moglie donna Vittoria, e i suoi amici, ad esempio il produttore cinematografico Dino De Laurentis. Proprio il caso De Laurentis diventa la buccia di banana per Pisanò.
In galera
Mancini sommerge Il Candido di querele e qualcuna va a bersaglio. Ma è poca cosa. Invece si rivela più efficace la denuncia di De Laurentis, per un presunto reato decisamente più pesante della diffamazione: l’estorsione.
Giorgio Pisanò e suo fratello Paolo finiscono in carcere a febbraio ’71 e vi restano per due mesi. Durante i quali tentano di esibire delle prove a loro discolpa (alcune bobine contenenti le registrazioni di colloqui tra Pisanò e De Laurentis).
Ma, soprattutto, capitalizzano al massimo l’incidente con un diario dal carcere che appare a puntate.
La tensione arriva al massimo e l’inchiesta deraglia: esce dai recinti del giornalismo e sfocia nello scontro personale.
Alla fine della giostra, i Pisanò vengono assolti, De Laurentis si trasferisce negli Usa e Mancini si dimette. La segreteria del Psi torna dov’era prima. Cioè nelle mani di De Martino.
Pisanò anticipa Tangentopoli
Quest’inchiesta, tutta da rievocare e approfondire, ha un limite: Pisanò attribuisce al solo Mancini un meccanismo di finanziamento, essenzialmente illecito, che riguardava tutto il suo partito.
Detto altrimenti, il giornalista milanese non si era “accorto” di aver anticipato Tangentopoli. Ma tant’è: allora era più facile colpire le persone che i partiti in blocco.
L’inchiesta tutt’oggi resta divisiva: c’è chi osanna Pisanò e chi, al contrario, lo considera un prezzolato che mescolava verità e bugie per conto terzi.
Chi potrebbero essere questi ultimi? La lista non è proprio corta.
Eugenio Cefis
Gli utilizzatori
In cima potrebbe esserci Eugenio Cefis, ex partigiano e potentissimo patron dell’Eni, che di sicuro odiava, cordialmente ricambiato, Giacomo Mancini.
Attenzione: Pisanò, come riporta correttamente Paolo Morando nel suo Cefis. Una storia italiana (Laterza 2011) non aveva risparmiato strali a Cefis. E di questi strali c’è traccia anche nel dossier del Candido dedicato ad alcune vicende oscure del passato partigiano del presidente dell’Eni. Ma mentre gli attacchi a Cefis calano quelli a Mancini aumentano.
Certo, non c’è prova che Cefis abbia finanziato Pisanò. Tuttavia, molti attacchi del Candido sembrano fatti apposta per compiacere Cefis. Il quale, c’è da dire, era abituato a rapporti particolari coi giornalisti, anche quelli più insospettabili. Ad esempio Mauro De Mauro, il leggendario cronista de L’Ora di Palermo che, secondo i giornalisti Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco, era finito a libro paga dell’Eni. Di sicuro, Cefis voleva far fuori l’ex ministro e l’inchiesta di Pisanò lo ha aiutato tanto.
Compagni coltelli
Secondo un’opinione diffusa, un utilizzatore dell’inchiesta del Candido sarebbe stato il socialdemocratico Luigi Preti. Saragattiano convinto e più volte ministro di settori delicati (le Finanze), Preti era un altro che non amava Mancini.
Al punto di farlo intercettare, come sostenne l’ex segretario del Psi in un’intervista a L’Espresso. Preti, tra l’altro vicino ai demartiniani, imputava il calo elettorale delle due sigle socialiste proprio alla politica di Mancini.
Inutile dire che la convergenza d’interessi con l’inchiesta di Pisanò c’era. E non solo perché il giornalista era originario di Ferrara, proprio come Preti. Ma soprattutto perché il Candidoandò fortissimo anche in Emilia Romagna… quando si dice il caso.
Altro dettaglio non irrilevante, sono le numerose lettere di plauso inviate dai cosentini a Pisanò. Tutti fascisti? Proprio no: il Candido, a Cosenza, lo si leggeva di nascosto ma tantissimo. E lo leggevano tanto anche i socialisti. Senz’altro i demartiniani. Ma non è un caso che, proprio allora, un demartiniano rampante si staccò da Mancini e ne divenne concorrente: era Cecchino Principe.
Cecchino Principe in un comizio d’epoca
Fine della storia
L’inchiesta terminò con un pari: Pisanò uscì dai processi ed entrò in Parlamento, Mancini iniziò la parabola discendente. Il suo ultimo ruolo di rilievo nazionale fu quello di “Craxi driver”, cioè di accompagnatore di Craxi alla segreteria.
L’asse del centrosinistra, col declino di Mancini, si era spostato a Nord e puntava su Milano. Ma anche questa è un’altra storia…
Quando si vuol dare un esempio di cultura pop, si fa ricorso alla maglietta con il volto di Che Guevara. Per dire che tutti la indossano, senza sapere niente di preciso sulle vicende del mitico personaggio effigiato. L’industria culturale fagocita ogni evento, pure il più tragico, se lo ritiene funzionale alla sua incessante attività.
Anche la Shoah non è sfuggita a questo destino, lo dimostrano innumerevoli film, docufilm, libri, spettacoli teatrali e convegni sfornati, in ogni angolo del pianeta, per narrarla a ogni sensibilità, a un pubblico sempre più vasto e vario. Con contorno di libri che analizzano il fenomeno: Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico (Il Nuovo Melangolo 2016). Ci sembra di conoscere meglio eventi così tragici, proprio perché vengono manipolati e commercializzati.
Sarebbe più corretto dire che tanti hanno un’idea, magari confusa, dell’esistenza di questo luogo e di quello che è accaduto in Italia, dal 1938 in poi, dopo l’approvazione delle leggi razziali. Confondendo fascismo e nazismo, discriminazione e sterminio, razzismo e antisemitismo. Come avviene quando un fenomeno diventa popolare, pop, come le magliette con la faccia di Che Guevara. Dunque il campo di Ferramonti in questi quarant’anni è entrato a far parte della cultura pop.
Ferramonti: il caso editoriale di Capogreco
Ma cerchiamo di andare con ordine: la storia di Ferramonti e dei suoi internati è stata ricostruita, per la prima volta in un saggio organico, da Carlo Spartaco Capogreco: Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d’internamento fascista, edito a Firenze, da La Giuntina, nel 1987. La pubblicazione di questo studio segna un punto di svolta. E a questo libro fanno riferimento tutti gli altri venuti dopo, sull’internamento fascista e sul carattere repressivo, autoritario, di questo regime, sugli strumenti che mette in atto per schiacciare ogni opposizione, dal confino ai campi.
Sono trascorsi trentacinque anni dalla sua pubblicazione, in questo periodo sono accadute molte cose che sono riconducibili al caso editoriale rappresentato da Ferramonti, al dibattito sviluppatosi successivamente. Dopo Ferramonti Capogreco ha pubblicato molti altri contributi, frutto di anni di ricerche, e ha portato avanti delle iniziative che hanno inciso sul dibattito politico e culturale.
Carlo Spartaco Capogreco, storico e presidente della Fondazione Ferramonti
Gli alleati liberano Ferramonti
Capogreco insiste, in ogni suo intervento, sulla questione che il campo di Ferramonti va inquadrato nell’ambito di un regime, un lungo periodo che va dal 1922 alle date cruciali, fatidiche, del 25 luglio 1943, e poi dell’8 settembre 1943. Il campo di Ferramonti viene liberato dagli Alleati nel settembre 1943, ma verrà utilizzato anche dopo, ad esempio da gruppi di ebrei in attesa di partire per la Palestina, dove sorgerà lo stato d’Israele. A ottobre del 1943 i tedeschi a Roma rastrellano oltre mille ebrei nel ghetto, e conducono operazioni simili nella parte d’Italia che controllano, assieme ai fascisti della Repubblica di Salò, ma intanto Ferramonti e i suoi internati sono al sicuro, nella parte d’Italia occupata dagli Alleati.
La memoria pop della grande tragedia
Difficile riassumere questi trentacinque anni: Capogreco ha dato vita, nel 1988, alla Fondazione Ferramonti, che ha svolto un ruolo importante sui temi della memoria, con una serie di convegni e di iniziative di ampio respiro, come il convegno del 24 e 25 aprile 1995, I luoghi della memoria: un contributo essenziale al dibattito pubblico, da allora sempre vivo in Italia, sul modo di intendere la memoria e la salvaguardia dei luoghi legati a questo tema.
Alcuni di questi campi o edifici utilizzati per l’internamento sono stati riconsiderati, recuperati, salvaguardati. In qualche caso sono diventati oggetto di periodici pellegrinaggi. Una forma nuova di turismo culturale. Il recupero della memoria si attua anche attraverso tali forme di fruizione. Con l’inevitabile considerazione che il turismo di massa dei tempi nostri non è il Grand Tour dei ricchi europei del Settecento e dell’Ottocento. Dunque le comitive in magliette sgargianti e lattine al seguito, in marcia attraverso i campi di internamento trasformati in musei, suscitano a volte dei dubbi sul modo in cui viene intesa e consumata la memoria nella nostra società.
Campo di Ferramonti, incontro tra gli internati e il rabbino Riccardo Pacifici
Una miniera inesauribile di storie
La documentazione cartacea, fotografica, memorialistica ed epistolare è imponente, sia quella custodita negli archivi di Stato, sia quella raccolta negli istituti di storia della Resistenza e nelle fondazioni, nei musei della memoria.
Da ogni parte del mondo, gli internati di Ferramonti hanno inviato o consegnato a Capogreco molte testimonianze e dati relativi al periodo di internamento. Una miniera inesauribile di storie e di piste di ricerca. Un materiale che potrebbe facilitare un recupero memoriale, in Calabria, nei piccoli comuni isolati, ritenuti dal regime fascista terra ideale per confinarvi oppositori e persone da controllare, su cui ci sarebbe tanto da raccontare.
Ad esempio, Capogreco ha seguito a lungo le tracce di Ernst Bernhard, medico e psichiatra tedesco di fama internazionale, di famiglia ebraica, internato a Ferramonti, rilasciato dal campo per intervento di un influente accademico italiano, suo amico, e inviato per alcuni mesi in “internamento libero” – così lo chiamavano i fantasiosi burocrati del tempo – nel comune di Lago, a 30 chilometri da Cosenza. Unica traccia, una cartolina postale inviata dallo stesso Bernhard, dove si vede la casa che gli era stata assegnata. La casa non c’è più, ma potrebbero emergere altri documenti su questi mesi.
Internati a Ferramonti
Il Giorno della memoria
Un altro esempio, il giovane studioso di musicologia Raffaele Deluca di recente ha pubblicato un volume dedicato ai musicisti e compositori internati a Ferramonti e negli altri campi fascisti: Tradotti agli estremi confini. Musicisti ebrei internati nell’Italia fascista, Mimesis, 2019. Un lavoro che aiuta a comprendere le infinite possibilità di ricerca offerte da questi archivi.
Nel frattempo sono accadute tante altre cose, ad esempio la Legge 211 del 20 luglio 2000, istitutiva in Italia del Giorno della Memoria. Dopo venti anni si sta discutendo apertamente e senza remore dei rischi connessi a queste celebrazioni. Potrebbero rivelarsi controproducenti rispetto agli intenti dei promotori della legge. Vedi la questione del pop.
Ferramonti non era governato da italiani bonari
Per quanto riguarda Ferramonti e gli altri campi fascisti, si è ingenerata qualche confusione rispetto alla macchina di distruzione allestita dalla Germania nazista. Sono due sistemi diversi, nati per scopi diversi. Almeno fino all’8 settembre 1943 e alla divisione dell’Italia, da una parte l’esercito tedesco, dall’altra gli Alleati.
Quindi bisogna studiare la storia, prima di avventurarsi a discettare di campi e di antisemitismo. Per non incorrere nella grossolana semplificazione che capita ancora di ascoltare, che vuole presentare Ferramonti come un luogo fuori dal tempo, allestito e governato da italiani bonari, paciosi, contrapposto ad altri luoghi più inquietanti, gestiti da tedeschi cattivi.
Prigionieri cinesi nel campo di Ferramonti
La parziale distruzione del campo per fare spazio all’autostrada
Parlare di Ferramonti significa ricordare la parziale distruzione di ciò che rimaneva del perimetro del campo. Anche a causa dei lavori di ampliamento dell’autostrada che lo costeggia. Una volta tanto non è una vicenda calabrese; in ogni parte d’Italia molti luoghi di confino e di internamento sono stati cancellati, per l’incuria, per fare spazio a speculazioni edilizie, per semplice indifferenza. Capogreco ne ha raccolto le tracce ne I campi del Duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, 2004. Un repertorio di luoghi di oppressione e di violenza, le cui vicende sono spesso ignote anche alle persone che vivono accanto a questi siti storici.
Il prefetto che fa lezioni di storia
Intanto la cultura pop fiorisce pure da noi, al Sud. Mi sono trovato in uno dei tanti convegni per il Giorno della Memoria, qualche anno fa, dove il prefetto, proprio Sua Eccellenza il Prefetto, come si scriveva una volta, ha dominato la scena. Prima ha scoperto una targa, distribuendo riconoscimenti di Giusto d’Israele a destra e a manca, con buona pace dell’istituzione israeliana a ciò deputata.
Poi, davanti a una platea di eleganti signore, come si usa nel Sud, ha preso in mano il microfono e si è lanciato in una lezione di storia (ormai è assodato che chiunque può parlare di Shoah) che ha fatto rizzare i capelli in testa agli storici presenti, esautorati d’autorità, come solo un prefetto sa fare. Poi il prefetto, sazio, ha ceduto il microfono a un giovane sacerdote, che si è lanciato a sua volta in un intervento dai toni transreligiosi, ecumenici, buddistici-panteistici. Solo dopo è stato il turno di un rabbino, scovato sempre dal prefetto. Un autentico rabbino che, a onor del vero, almeno ha fatto un intervento da rabbino. Fine del convegno. Molti complimenti al prefetto da parte delle eleganti signore presenti.
E Capogreco? Continua a fare ricerca (insegna Storia contemporanea all’Università della Calabria), e a relazionarsi, attraverso i suoi libri, con gli studiosi di ogni parte del mondo, sui temi dell’internamento e della memoria. Cercando di sfuggire agli agguati del pop.
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