Categoria: Cultura

  • Il pane nero della fame: il grano era un lusso per pochi calabresi

    Il pane nero della fame: il grano era un lusso per pochi calabresi

    Il pane prodotto dai fornai calabresi è eccellente. Ancora oggi rimane il principe della tavola e tutti gli altri cibi sono semplici sudditi. Un proverbio non a caso diceva: “Non c’è cibo di re più gustoso del pane”. Appena sfornato il suo odore e il suo sapore non sono paragonabili a nessun’altro cibo e, mangiandolo, si ha una sensazione di purezza e di gioia. Il pane è sacro, donato agli uomini dagli dei e per Aristofane non bisognava raccogliere le briciole che cadevano a terra perchè appartenevano agli eroi o ai “daimoni”.

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    Il prelibato pane di Cerchiara calabra

    Il pane di grano era un sogno

    In passato era l’alimento più importante nella dieta dei calabresi e, non a caso, si diceva: quannu alla casa c’è llu pane, c’è tuttu e si c’è lla farina, l’ùogliu e llu vinu, ‘a casa è kina (quando a casa c’è il pane, c’è tutto; e se c’è la farina, l’olio e il vino, allora la casa è piena).

    Nel Settecento, Swinburne annotava che i contadini, dopo aver zappato tutto il giorno, si nutrivano con pane reso più saporito da uno spicchio d’aglio, una cipolla e un pugno di olive secche. Nello stesso secolo Spiriti, tuttavia, precisava che due terzi dei campagnoli non sapeva nemmeno cosa volesse dire pane di grano: quelli più fortunati utilizzavano farina di germano o granturco ma la maggior parte consumava pane di lupini o castagne. Se il re di Francia desiderava che nei giorni di festa i contadini mangiassero un pollo, egli sperava che quelli calabresi si satollassero di pane bianco con qualche cipolla o un pezzo di formaggio.

    Galanti aggiungeva che il pane scarseggiava a causa delle continue carestie e quello disponibile era in genere duro e rancido: si preparava poche volte l’anno e, nelle famiglie più povere, solo a Natale e a Pasqua.

    Pane secco da grattare o bagnare

    Infornato ogni tre mesi e conservato sopra graticci appesi al soffitto, dopo qualche tempo diventava talmente duro da dover essere mangiato bagnato nell’acqua o raschiato col coltello. Cento anni dopo dopo Franchetti confermava che i contadini calabresi vivevano con un pane tanto secco che per mangiarlo dovevano grattare col coltello nel cavo della mano e versarselo in bocca a bricioli o nelle minestre di erbe cotte nell’acqua con un po’ di olio e sale «quando ne avevano».

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    Pastore fra le strade di San Giovanni in Fiore

    Nei grandi centri urbani il pane prodotto dai fornai era riservato a nobili e galantuomini e una signora ricca era chiamata «donna di pane bianco». Dal 1878 al 1883 nella provincia cosentina, in una situazione alimentare notevolmente migliorata, si consumava pane di frumento in 93 paesi, in 5 qualche volta e in 53 mai. Nel 1812, un relatore dell’inchiesta murattiana comunicava che nei villaggi della Calabria Citeriore, specie nei circondari di Celico, Spezzano, Aprigliano, Rogliano, Scigliano e Carpanzano, il pane era di castagne o di segale, nel resto della provincia di frumentone e solo a Cosenza, Rossano, Corigliano e Cassano, di grano.

    Fornai avidi e farine scadenti

    Il pane prodotto dai fornai aveva comunque spesso un «aspetto cattivo» e «pessimo sapore» perché poco fermentato e perché, rimanendovi frammenti delle «vetuste macine», si avvertiva fra i denti «la presenza di polverio siliceo e calcare». I cittadini protestavano spesso perché il pane venduto era immangiabile e accusavano gli avidi fornai di utilizzare farine scadenti e di ricorrere a vari rimedi per migliorarlo. Utilizzavano solfato di rame, zinco, magnesio, acido borico e carbonato di potassa per accelerarne la fermentazione; carbonato ammoniacale per renderlo più poroso, soffice e durevole; allume, gesso, calce e polvere di marmo per farlo più bianco e pesante.

    Pane bianco solo nei giorni di festa

    I contadini consumavano u mursiellu, detto altrimenti agliu o agghiu e, per il resto della giornata, si sfamavano mangiando pane di frumentone, segale, lupini o castagne. Padula annotava che il massaro, il più agiato tra i contadini, coltivava il grano per venderlo ai galantuomini e si saziava di pane bianco solo nei giorni solenni dell’anno. La moglie infornava il pane una volta al mese e lo appendeva al soffitto per lasciarlo indurire, così da consumarne di meno: pani tuostu mantena casa, ma ci volevano denti di ferro per frantumarlo e quindi lo si mescolava con la minestra. Pasquale confermava con amarezza che i campagnoli erano soliti lasciare ammuffire il pane per risparmiare legna e offrire al palato cibo meno appetitoso. Il pane della «gente mezzana» era di frumentone e segale, quello dei «buoni possidenti» di grano e quello dei contadini di frumentone, castagne o avena.

    Si consumava generalmente pane di granturco e di segale nelle zone di montagna e di grano misto a orzo negli altri territori. I contadini lo condivano con olio e sale e, a volte, come companatico utilizzavano sarde salate, olive o peperoni. La sera cenavano con una minestra calda di verdure o legumi. In media un colono mangiava 1.400 grammi di pane di granone o di segale, una minestra di patate e verdure di 900 grammi o di legumi di 400 grammi.

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    Oggi si presenta morbido e delizioso, ma il pane nero non troppi anni fa era duro e dal sapore forte

    Pane di Calabria: così duro da tagliare con l’accetta

    I campagnoli più poveri si alimentavano con pane di frumentone o di segale e, in tempo di carestia, di orzo, lupini, cicerchie e fave. Comune era anche il pane di castagne e Dorsa ricordava che il contadino calabrese, parco nel suo vitto, aveva sempre i suoi vàlani, castagne lesse o baloge e i suoi pistilli o mùnnule, castagne disseccate al calore del fuoco che spesso gli «servivano di pane».

    Le donne del cosentino portavano le castagne al mulino per farne farina, ma il pane che se ne ricavava dopo qualche giorno diventava così duro che per tagliarlo si utilizzava l’accetta. Uno studioso affermava che un pane di castagne del diametro di quattro pollici richiedeva almeno un’ora di masticazione e faceva molta pena guardare la povera gente costretta a nutrirsene. Anche il pane di segale, pur se alcuni sostenevano che era sostanzioso, era duro, nero, viscoso, disgustoso e di difficile digestione.

    Il pane che provoca nausea, febbri maligne e cancrene

    Col pane di segale si preparava un pane leggero e di facile digestione ma bisognava fare attenzione perché la contaminazione con lo sperone di segale o grano cornuto (alcune spighe prendevano la forma dello sperone di un gallo o di un cornetto nero) rendeva il pane nauseante e nocivo. Uno studioso del Settecento scriveva che la claviceps purpurea della segale spesso aggrediva anche il frumento e da quel pane dal sapore disgustoso provocava confusioni, nausea, stanchezza, ubriachezza, diarrea, febbri maligne, dolori alle braccia e alle gambe e persino cancrene.

    Ramage ricordava che i giornalieri dei paesi silani, vivendo nella «più nera miseria» e nutrendosi per lo più di pane fatto con farina di castagne, durante l’inverno emigravano in massa in Sicilia e in altre regioni «alla ricerca di cibo». Nel circondario di Cirò una sarda salata con due pani, una cipolla e un pugno di olive in salamoia, formavano il pranzo quotidiano di un bracciante che maneggiava la zappa almeno otto ore al giorno. Secondo Padula i giornalieri si saziavano con pane di segale, frumentone, castagne e orzo o con una mistura di veccia, fave e lupini. Non bevevano vino se non quello ricevuto in dono e si cibavano di carne in occasione della macellazione del maiale o quando «suonava in tasca una lira di più».

    Minestre di foglie cotte nell’acqua marina

    Per rinfrancare le forze cavavano dalla tasca un cantuccio di orribile pane da mangiare scusso o accompagnato da agli e peperoni. I braccianti del Tirreno se la passavano peggio: si saziavano con una minestra di «foglie» cotte nell’acqua marina e pane di granone mentre il pane bianco, detto pane de buonu, sempre presente nelle mense dei ricchi, era prerogativa dei malati.

    Un colono del Vallo di Cosenza d’inverno mangiava a colazione e a cena pane di granturco e fichi secchi e a pranzo minestra di fagioli o patate; nelle altre stagioni a colazione e a cena pane di grano, una sarda, una fetta di formaggio o un pezzo di carne salata e a pranzo una minestra di fagioli, patate o cavoli conditi con olio e sale.

    Solo in occasione di lavori particolari come la vendemmia e la mietitura si saziavano con pane di grano, carne affumicata, castrato o altro. Un colono, piccolo proprietario o affittuario dei paesi silani, in inverno a colazione e a cena mangiava pane di granturco o di castagne e una cipolla con olio e sale, a pranzo minestra di fagioli o patate; nelle altre stagioni a colazione e a cena pane di segale o di grano, formaggio e sarde, a pranzo minestra di fagioli freschi, patate e cavoli.

    Il pane del litorale jonico

    Un giornaliero del litorale jonico in inverno a colazione e a cena consumava pane di granturco, olive in salamoia o pesce salato, a pranzo minestra di verdure; nelle altre stagioni a colazione e a cena pane di grano, cipolle e formaggio, a pranzo una minestra di verdure. Nei giorni festivi si beveva il vino e si univa alla minestra la pasta fatta in casa. Pastori e vaccari per tutto l’anno mangiavano a colazione pane di granturco e ricotta, a pranzo minestra di verdure e a cena pane di granturco e formaggio.
    Verso la fine dell’Ottocento, durante il viaggio di circa un mese sulla nave che portava negli Stati Uniti, gli emigranti mangiavano carne e pane bianco e ciò creava meraviglia tra chi considerava tali cibi un lusso, tanto che, per indicare un uomo sfinito e ammalato, si diceva che si era «ridotto a pane di grano».

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    L’antico rito della mietitura
  • Cosenza è una città “friggi e mangia”, altro che cultura

    Cosenza è una città “friggi e mangia”, altro che cultura

    Come ricominciare? Come riprendere il filo di certe conversazioni? Non è facile, certo non è facile. Il vuoto delle sale cinematografiche e le difficoltà dei teatri lo dimostrano.
    Dopo quasi tre anni di isolamento, dopo mesi e mesi di solitudine e di incontri surrogati come rinsaldare il desiderio di musica, di recitazione, di un ascolto collettivo per sentire un brivido che appartiene a tutti?

    Stare insieme, ascoltare, rincontrarsi mentre tutto il negativo ante pandemia è ancora presente e vivo, anzi pure peggio. E allora dove è un inizio possibile? La poesia dialettale e i suoi poeti diventano un sicuro riferimento perché il “il parlante è vicino al poeta” come Pasolini ebbe a scrivere in un illuminato saggio sulla poesia dialettale del ‘900, nel 1948.

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    L’ingresso della Biblioteca Civica in piazza XV marzo, sede dell’Accademia cosentina

    Perciò Civicamica ha proposto ai Tridici Canali per il 7 giugno una serata, con l’adesione della Fondazione Giuliani, una serata di lettura di poesie in dialetto, proprio per scoprire se un inizio fosse ancora possibile in una città in cui l’offerta culturale nelle sue istituzioni pubbliche appare svilita, mortificata, con teatri chiusi o quasi, dove l’offerta di musica e di opera lirica è delegata alla iniziativa di privati o di associazioni (è una benedizione che ciò avvenga), giovani e adolescenti affollano le sale dei cinema solamente per gli spettacoli di film con effetti speciali di guerre e massacri, come a confermare l’oscena realtà della guerra a cui si è assuefatti: a corollario di una tale perniciosa circostanza la Biblioteca Civica è chiusa da tre anni, gli ultimi dipendenti senza stipendio da 45 mesi, il suo consiglio di amministrazione oppresso da una montagna di debiti, con il tenue barlume del finanziamento dei fondi Cipe.

    Accenti antichi rievocano Padula, Ciardullo, Buttitta

    Dunque tre associazioni si mobilitano, su intenti comuni concordano un programma, un orario, il luogo: nel giardino del complesso monumentale di San Domenico avviene il miracolo di un crepuscolo, dove accenti antichi parlano di vicinato, di povertà e ricchezza, di emigrazione di ingiustizia e solitudine. Risuonano i versi affidati alle voci dei soci de I Tridici Canali, poeti loro stessi e fini dicitori rispettosi della pronuncia della ricchezza fonetica che “le parlate” calabresi hanno consegnato nei secoli.

    Il pubblico è numeroso, gode nel fresco del giardino di suoni inediti che portano a infanzie lontane o a suoni di contrade e quartieri ora abbandonati e quasi deserti, ma la magia conquista l’attenzione, consolida conoscenza di versi noti come quelli, tra gli altri, di Bendicenti, Padula, Ciardullo e Pane, così come di poeti napoletani o di Buttitta con la poderosa Littra a na madre tedesca. Serata perfetta, niente da dire? Torniamocene a casa tranquilli nel cuore e saturi di atmosfere di garbo e bon ton? Ma non mi passa pi ‘a capu! Ma nemmeno per un attimo.

    Cultura a Cosenza? Tutta “friggi e mangia”

    Lo sdegno monta e trabocca per come sono ridotte le sorti di Cosenza, città “friggi e mangia” già dal 2017, come ebbero a dire degli amici toscani in visita, quando si trovarono avvolti in una nebbia di fumo tra piazza 11 e piazza dei Bruzi: certo era il 23 dicembre e quel che succede, parafrasando Mozart, ben lo si sa.

    La proposta culturale pubblica in questa città non esiste da molto tempo: da quello che è passato come un grande evento “il concerto di Soler” a piazza Bilotti, nella dichiarazione del sindaco dell’epoca si legge che l’esibizione del cantante per la notte di Capodanno «rappresenta una parte importante del complessivo programma di rilancio della città sul piano dell’immagine e della visibilità», sicuramente un altro vanto congruo è stato la vendita di 10mila cornetti nella notte per il forno nella piazza.

    Peccato però che in contemporanea si sia registrato la rinuncia di progettazione per il Fus, l’abbandono di responsabilità diretta per il Rendano, lo stillicidio nella gestione degli altri teatri cosi come la delega al privato della programmazione di stagioni di prosa, appiattite sugli standard televisivi per il successo di audience.

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    Il teatro Rendano vuoto

    Per fortuna (r)esistono enti privati, associazioni e fondazioni

    Non si può dire che la vita culturale della città abbia potuto registrare un indirizzo pubblico, come la norma prevede; che il Comune abbia un compito educativo, così come per altri gli enti locali, è ribadito da un apparato di norme a partire dalla nostra Carta, presente anche negli statuti degli enti stessi, evidentemente a chi tocca essere eletto, nella sbornia della vittoria passa di mente e il detto compito – dall’antichità il più importante -”exemplum”- si omette.

    In questi anni la stretta trama dell’offerta culturale è stata nelle proposte di enti privati, associazioni e fondazioni, che con propri e spesso pochi mezzi hanno presentato un panorama variegato, ampio, locale e nazionale dimostrando quante energie sono presenti nel territorio, quante teste pensanti e tante aspirazioni a promuovere conoscenza, partecipazione, divulgazione, gusto per il bello e culto verso ciò che appassiona come le arti e la scienza. Perché questo ampio spettro di attività e di pensiero non suscita l’attenzione di coloro che sono chiamati ad amministrare per proporre un programma di vasto respiro in tal senso? Mi si obietterà: non ci sono soldi, non sono possibili grandi produzioni.

    Le luci erano meglio della Biblioteca Civica?

    La pezza risulta peggiore dello strappo, i soldi ci sono stati, si è deciso di spenderli in un modo piuttosto che in un altro. Non per aprire menti e per allertare coscienze, ma per rassodare una omologazione che confermi sempre di più chi ha e chi detiene il potere… Sì, ancora un antico discorso, sempre attuale purtroppo. A proposito di scelte, per esempio, si è scelto di negare il contributo alla Biblioteca Civica ritenendola spesa non necessaria, mentre si è valutato l’apparato di luci come decoro urbano…  Sempre per rinsaldare la famosa “visibilità della città”.

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    Palazzo dei Bruzi illuminato dai cerchi simbolo dell’amministrazione Occhiuto

    La città incolta che non ama il dissenso

    Risulta chiaro che “Tata non capisce” come dice il nostro ben noto canto, non capisce e non vuole capire, perché non è solito frequentare i teatri, andare al cinema, leggere libri di narrativa o di saggistica oltre il probabile dovere professionale, non accettare confronti sui dati reali, insofferente al dissenso, in fondo perché non coltiva alcuna passione se non il potere, per il puro purissimo gusto di esercitarlo per sé e per i suoi disegni ( si spera solo per questi) personali personalissimi. Non ciò che serve per migliorare, ma ciò che mi è utile per favorire, per avere voti, per “fregare” l’avversario etc etc… Così non la vedo solo io, ma è il comune sentire di chi poi agli appuntamenti partecipa e nota che gli “eletti” non ci sono quasi mai… Tanto per dirne una.

    Ma “ohi ca mi muoro mi muoro mi muoro” non lo cantiamo, Tranquilli Lor Signori, saremo sempre sulle vostre croste perché qualcuno alla città, a Cosenza ci tiene.
    Ma nell’attesa di ampliare il discorso alle cause più profonde della omologazione coltivata apposta, si affaccia un barlume di speranza: l’attuale amministrazione, da poco insediata, affronta problemi gravissimi per loro stessa ammissione. Al momento sta rilasciando segnali di attenzione, se pur di una certa flebilità (a parte i bandi per il centro storico e il recupero di piani in extremis), ma di questo se ne potrà parlare un’altra volta, sempre con sguardo angolare, senza sconti per nessuno.

    Gilda De Caro

    presidente Civicamica

  • Legno, vetro e valvole: quella rivoluzione chiamata tv

    Legno, vetro e valvole: quella rivoluzione chiamata tv

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    Radio e cinema avevano occupato un posto importante nella vita dei calabresi. Ma, verso la fine degli anni ’50, la televisione sconvolse il loro modo di vivere e pensare. I primi apparecchi furono acquistati da famiglie benestanti e, per attrarre i clienti, da proprietari di botteghe e caffetterie.

    Quel sogno chiamato televisione

    I televisori erano un sogno e molti ricordano che alcuni si fermavano davanti alle vetrine che li esponevano per guardare il segnale video. La gente amava la televisione e preferiva i telequiz come Lascia o raddoppia e Il Musichiere agli altri programmi, perché proponevano un’atmosfera festiva che, seppur fittizia, favoriva l’identificazione tra spettatore e giocatore.

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    Mario Riva e Totò in una puntata de “Il Musichiere”

    I telespettatori, a differenza di quanto accadeva con radio e cinema, avevano la sensazione di entrare nel piccolo schermo e dialogare alla pari con i personaggi. I concorrenti del “popolo” che vincevano grosse somme erano, inoltre, un esempio di riscatto sociale. Già: rispondendo ad alcune domande potevano cambiare le proprie esistenze.

    La prima tv star calabrese

    Nel 1959 la maestra cosentina Lya Celebre partecipo a Il Musichiere. In città vi fu un grande entusiasmo: la notizia si diffuse in un batter d’occhio da via Piave alle Paparelle e da Portapiana a Panebianco.
    La Celebre non vinse ma diventò per qualche tempo una celebrità.
    In una lettera a un giornale locale dichiarò di aver vissuto un’esperienza straordinaria: aveva sorvolato la capitale a bordo di un moderno aereo, ricevuto dalle mani di Mario Riva i due gettoni e il musichiere e vissuto per alcuni giorni in quel mondo meraviglioso di cameraman, luci, giraffe e telecamere.

    La magia dello schermo

    La Tv era un prodotto della modernità e della tecnologia più avanzata ma riproponeva un sistema mitico, simbolico e rituale già in parte conosciuto.
    Le immagini televisive, osservava Jean Cazeneuve, in virtù del loro potere di suggestione e fascinazione, penetrano nella vita degli uomini con la stessa semplicità di alcuni apparati magico-rituali presenti nelle comunità.
    Il televisore stesso, in fondo, era un apparecchio magico. Nessuno riusciva a spiegare in maniera convincente perché sul vetro di quella scatola di legno che conteneva marchingegni collegati con un filo ad un bizzarro albero metallico, si potessero vedere luoghi e persone distanti anche migliaia di chilometri.

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    Visione di gruppo della tv al bar negli anni ’50

    Varie persone mi hanno raccontato che c’era chi, vedendo per la prima volta le immagini, andava dietro all’apparecchio per adocchiare se ci fosse nascosto qualcuno, mentre altri rispondevano al saluto dell’annunciatrice quando presentava i programmi della serata.

    Pregiudizi medici: la televisione fa male

    Negli anni in cui la televisione si affermava, non si percepivano i cambiamenti che essa avrebbe provocato. Tuttavia, c’era già chi mostrava una certa contrarietà.
    Qualcuno sosteneva che gli apparecchi sprigionassero “raggi radioattivi” e “onde sonore” pericolosi per l’udito e la vista e, non a caso, i rivenditori consigliavano di guardare lo schermo a una certa distanza e di porvi sopra una fonte luminosa.
    Altri addirittura attribuivano alla Tv la responsabilità di tante bronchiti, specialmente dei bambini che guardavano i programmi seduti sul pavimento e in locali poco riscaldati.

    Pregiudizi di sinistra: la tv è democristiana

    L’ostilità nei confronti della televisione era comunque dettata soprattutto da ragioni politiche. Molti militanti della sinistra calabrese consideravano la Rai al servizio dei partiti di governo e della Democrazia Cristiana. A parte alcuni programmi di carattere culturale e d’informazione, il resto aveva lo scopo di addormentare le coscienze e distrarre il pubblico dai problemi della quotidianità.

    Le gemelle Kessler

    Pregiudizi cattolici: la tv è libertina

    Anche numerosi cattolici osteggiarono la televisione perché erano preoccupati che il piccolo schermo potesse veicolare una cultura consumistica e libertina.
    Alcuni parroci si fecero promotori di proteste contro il carattere licenzioso di trasmissioni come quella in cui le gemelle Kessler con le gambe scoperte ballavano il Dadaumpa.

    La giornalista cosentina: tv scema e conservatrice

    Molti, invece, lamentavano che la Tv proponeva ideali e valori conservatori. Nel 1957 la Baronessa scalza, curatrice cosentina della rubrica Schermi e teleschermi, trovava ridicolo il balletto La belle époque, trasmesso in televisione.

    Cino Tortorella nei panni del Mago Zurlì

    Le danzatrici indossavano gonne e mutandoni lunghi e facevano inchini e mossette in modo da apparire più delle collegiali che ballerine del celebre locale parigino.
    L’acuta e ironica giornalista, inoltre, criticava alcuni programmi televisivi dedicati ai bambini come C’era una volta, in cui Laura Solari narrava noiosissime e banali favolette e quelli in cui l’attore Cino Tortorella, pagliaccescamente travestito da mago, presentava un anacronistico programma di indovinelli a premio.

    Anni’60: la televisione conquista le masse

    Nei primi anni Sessanta, ogni perplessità nei confronti della televisione era svanita e anche le persone più ostili o incredule ne erano conquistate.
    Con la Tv le famiglie non trascorrevano più le serate in casa ma uscivano per riunirsi nei bar, parrocchie, sezioni dei partiti e nelle case di chi possedeva un apparecchio per assistere a telequiz, commedie e programmi d’intrattenimento.
    Guardare la televisione era un’occasione di svago e di socializzazione anche al di là del contenuto delle trasmissioni.
    La semplicità e l’immediatezza delle immagini televisive sembravano inoltre conformarsi alla mentalità di gran parte della popolazione. A differenza della radio e del cinema, la televisione proponeva un universo dove la realtà si convertiva in magia e la magia in realtà.

    La tv entra nelle case 

    Come osserva Cazeneuve, i telespettatori, in fondo, percepivano tale distorsione del reale, ma, simili ai personaggi del mito della caverna di Platone, finivano per amare quel teatrino d’ombre, perché in tal modo evitavano la dura quotidianità, filtrandola e convertendola in spettacolo.

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    Una televisione “domestica” degli anni ’50

    Col passare del tempo il televisore entrò in tutte le case. Possedere un apparecchio televisivo costituiva motivo di orgoglio e prestigio sociale. A chi lo acquistava, amici e parenti portavano la “stimanza” in segno di augurio: di solito una bottiglia di liquore, un pacco di zucchero o caffè.
    Il televisore era considerato parte integrante dell’arredamento ed era posizionato nel luogo più bello e spazioso. Le donne, addirittura, confezionavano un apposito «vestito» che serviva per proteggerlo dalla polvere.
    Con il diffondersi degli apparecchi televisivi scomparvero i gruppi d’ascolto nei locali pubblici e nelle sedi politiche che avevano caratterizzato gli esordi. Ogni famiglia aveva il proprio apparecchio e i programmi Rai sempre più dettavano i ritmi della giornata e del tempo libero.

    A ciascuno il suo programma

    Le donne seguivano assiduamente gli sceneggiati, eredi diretti dei fotoromanzi, ancora diffusi e apprezzati dal pubblico femminile.
    Gli anziani, invece, amavano soprattutto le trasmissioni come di padre Mariano, del professore Cutolo e del maestro Alberto Manzi.
    I bambini, infine, vedevano la Tv dei ragazzi e soprattutto telefilm come Rin Tin Tin, il cane lupo simpatico e intelligente amico di Rusty, un orfanello accolto dal Settimo cavalleggeri di stanza a Fort Apache.

    Ma Carosello conquista tutti

    La trasmissione che conquistava tutte le generazioni era Carosello.
    Preceduti dal suono di trombe e mandolini, gli sketch di Carosello, della durata di un paio di minuti, erano piccoli film girati da noti registi e interpretati da attori famosi. Quelle celebri scenette in bianco e nero aiutavano a dimenticare gli anni della guerra e condensavano sogni e speranze della povera gente.

    Mina fa la pubblicità a Carosello

    Spettacolo nello spettacolo, televisione nella televisione, Carosello era un palcoscenico di divi che diventavano persone tra le tante e la cui fama si stemperava nella quotidianità.
    I ricordi di coloro che ho intervistato erano molto vaghi sui programmi televisivi. Ma quando si parlava di Carosello, leggevo sui volti contentezza: tutti ricordavano con sorprendente precisione prodotti pubblicizzati, musiche, attori e battute.

    Padrona televisione

    La televisione cambiava i modi di vita e le abitudini dei calabresi molto più di quanto non avessero fatto radio e cinema.
    Appena nata, pochi credevano nelle sue potenzialità, ma ben presto fu evidente che nessuno dei media esistenti aveva le sue capacità.
    Fin dalle prime trasmissioni, appariva chiaro che la Tv era un mezzo molto forte e pervasivo: non strumento in mano agli uomini, ma uomini ridotti a suo strumento.
    Gli spettatori diventavano semplici clienti che valevano non per quello che erano ma per quello che consumavano. La televisione delineava una visione del mondo in cui la merce avrebbe assunto un valore assoluto e gli oggetti pubblicizzati avrebbero dominato i desideri e l’immaginario.

  • Da Montanari a Uyangoda: viaggio nel Premio Sila 2022

    Da Montanari a Uyangoda: viaggio nel Premio Sila 2022

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    Lo storico dell’arte Tomaso Montanari ha tenuto una Lectio magistralis, la sera del 27 maggio, davanti al pubblico riunito sul sagrato della cattedrale di Cosenza per le manifestazioni del Premio Sila 49.
    Di solito le conferenze fanno parte di un repertorio del passato: non le si ritiene più uno strumento efficace di comunicazione, specie se ci si prefigge di coinvolgere i non addetti ai lavori, non specialisti ma persone curiose e interessate.

    Montanari racconta il Duomo

    Montanari ha parlato senza mezzi interattivi a disposizione, perché l’oggetto del suo intervento era dietro le sue spalle: la facciata della cattedrale consacrata 800 anni fa, ricostruita dopo un violento terremoto per l’impegno dell’arcivescovo Luca Campano, discepolo e scrivano di Gioacchino da Fiore.
    Ma lo storico dell’arte ha ragionato soprattutto di come le persone comuni percepiscono un luogo come quello in cui si trovava in quel momento.

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    Tommaso Montanari al Duomo di Cosenza

    Una piazza circondata da edifici, coi colori delle pietre che mutano col mutare della luce, e di sera diventano più dolci, ristorano le persone riunite dopo una giornata di lavoro, con l’armonia che trasmettono.
    E poi c’è la chiesa, un’altra piazza “coperta”. Le chiese, nella storia italiana ed europea, hanno sempre avuto una funzione sociale: sotto le loro volte si sono riuniti i cittadini per prendere decisioni vitali. E in tempo di guerra hanno dato rifugio a chi temeva le violenze degli invasori.

    Le chiese e le città

    Le chiese, insiste Montanari, raccontano la storia delle comunità che le hanno volute, finanziate, ricostruite. Inoltre, sono monumenti e custodiscono pregiate opere d’arte. Quindi vanno tutelate da interventi arbitrari, che fino al secolo scorso erano frequenti e a volte nascondevano l’edificio originario.
    Come è accaduto anche alla cattedrale di Cosenza, che un secolo fa venne liberata da sovrastrutture di gusto barocco e riportata, per quanto possibile, al suo stile romanico.

    Ma se non fosse stato possibile – a volte non si può tornare indietro – non importa. Infatti, ha osservato Montanari, questi segni  raccontano la storia di ogni comunità, il mutare dei gusti e il legame profondo con un edificio a cui ogni epoca desidera imprimere il proprio stile. A rischio di danneggiarlo.

    Brandi e Levi a Cosenza 

    Montanari ha documentato il suo discorso con testi di grandi studiosi come Cesare Brandi, di viaggiatori e artisti curiosi come Carlo Levi, e altri. E tra il pubblico sembrava proprio farsi strada quello stato d’animo accennato prima: gustare un luogo bello, assorbirne l’armonia, e mettere da parte per un po’ gli affanni della giornata. A questo servono le belle piazze e i monumenti così numerosi del nostro Paese.

    Carlo Levi

    Premio Sila: una storia accidentata

    Una parte del pubblico aveva seguito anche l’incontro precedente, alle 18,00, a piazza dei Follari, un angolo fascinoso del centro storico, per cui valgono le considerazioni fatte da Montanari sulla cattedrale. A dispetto del degrado percepito da chiunque attraversi le strade dissestate della città vecchia.
    Del resto la storia del Premio Sila è accidentata come quella dei monumenti cosentini, abbattuti e riedificati più volte. Il Premio esordì nel 1949, come giustamente ricorda l’intitolazione attuale. Dopo la prima edizione ci volle un decennio per vedere la seconda. E poi altre interruzioni, polemiche, contestazioni, fino agli ultimi anni del secolo scorso.

    Un libro dedicato al Premio

    Un volume di Tobia Cornacchioli e Maria Tolone, Il Premio Sila. Cultura e impegno civile nella storia di un premio letterario meridionale (Pellegrini editore, 1997) ricostruisce le vicende tormentate della manifestazione. Lo fa attraverso una documentazione di prima mano, comprendente i verbali dei lavori e le motivazioni.
    Il titolo lega cultura e impegno civile: i buoni libri fanno riflettere, anche quando divertono, richiamano alla realtà che subiamo senza lucidità, perché troppo presi dai nostri problemi personali e limitati.
    E l’impegno civile accomuna i libri e gli autori premiati nell’edizione 2022, di cui si è discusso lo stesso pomeriggio a piazza dei Follari.

    Nadeesha Uyangoda e gli altri vincitori del Premio Sila

    La ventottenne Nadeesha Uyangoda, autrice di L’unica persona nera nella stanza (edizioni 66thand2nd), è arrivata in Italia da bambina.
    Spero che una parte del merito vada anche al sistema scolastico e universitario italiano, se ha saputo accompagnare questa giovane a diventare colta, acuta, brillante e precisa.

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    Nedeesha Uyangoda durante la premiazione

    Lei è una delle vincitrici di questa edizione, assieme a Nicola Lagioia e Luciana Castellina.
    Commuove ascoltare una ragazza così: non capita spesso. Nadeesha lo ha spiegato: per quelli come lei, studiare e affermarsi è un modo per ripagare i genitori dei sacrifici affrontati in un Paese straniero. A volte è difficile, ha aggiunto, seguire le proprie inclinazioni creative: si rischia di deludere la famiglia o di insospettire quegli italiani che sembrano apprezzare gli immigrati solo se raccolgono pomodori e pesche sotto il sole.

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    L’intervento di Montanari davanti al Duomo di Cosenza

    Il Premio Sila meritava più pubblico

    Insomma, nel 2022 i premi letterari possono ancora rivelarsi interessanti. Dipende da come vengono pensati e gestiti. Certo l’uditorio non era sterminato, forse per il caldo, forse per qualche limite nella comunicazione (personalmente ho notato un unico manifesto sul corso). A volte nella nostra terra si nota un certo vezzo di muoversi separati per gruppi, circoli più o meno esclusivi. Questo modo di fare rischia di tradursi in un ostacolo alla riuscita delle iniziative più meritevoli. Perfino i licei allestiscono in proprio eventi teatrali, a volte di buon livello. Tuttavia, certe fatiche dovrebbero essere maggiormente “socializzate”, per usare un termine del passato. Oppure io sono particolarmente distratto (l’età), come i liceali e universitari cosentini, assidui animatori della movida notturna: giovani brillanti, ma impegnati in altro.

    Mario De Filippis

  • Lombardi Satriani: l’antropologo che riscoprì il Sud magico e vivo

    Lombardi Satriani: l’antropologo che riscoprì il Sud magico e vivo

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    Volevi sapere cos’era l’antropologia culturale e a cosa serviva l’etnologia? Volevi studiare le scienze umane più rivoluzionarie del ’900?
    Infine, volevi conoscere “sul campo” le ricerche e le contraddizioni che queste discipline fecero esplodere nella “rivolta politica” sessantottina anche le aule polverose delle nostre Università?
    Se stavi più giù di Roma – dove insegnavano Cirese, Lanternari, Tentori, o Tullio Altan – negli anni ’80 poteva capitarti di studiare Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università della Calabria.
    Con il professor Luigi Maria Lombardi Satriani.

    Lombardi Satriani: il papà dell’Etnologia calabrese

    Lombardi Satriani arrivò all’Unical intorno al 1980. Era un docente giovane, ma già affermato presso le Università di Napoli, Austin (Texas) e San Paolo del Brasile. Grazie a lui, in Calabria la storia delle tradizioni popolari e il folklore – che ristagnavano nella filologia e nell’erudizione ottocentesca – si rinnovarono e diventarono Etnologia.
    Ovvero diventarono un insieme di soggetti culturali, politici e sociali da indagare per il valore “contrastivo” della cultura popolare, “la cultura degli esclusi”.

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    Un’immagine recente di Luigi Maria Lombardi Satriani

    Questa disciplina, da cenerentola degli studi si trasformò in «analisi delle culture subalterne, folklore inteso come cultura di contestazione, dislivello interno alla società, in contraddizione con la cultura e l’ideologia borghese dominante».
    E perciò da assumere come «soggetto etnografico e politico degno di sguardo antropologico».
    Quella di Lombardi Satriani fu una rivoluzione epistemologica e politica che sovvertì gli studi tradizionali (Antropologia Culturale e analisi della cultura subalterna, Rizzoli, 1980), ed ebbe il merito di riportare il Sud e le sue culture popolari al centro di una nuova questione meridionale nell’era della modernizzazione.

    Il mio incontro con Lombardi Satriani

    Io ero tra i giovani che ascoltarono quel richiamo. Per me fu un’avventura esaltante, poiché buona parte di questo percorso di ricerca si compiva in quegli anni tra le aule del Polifunzionale dell’Unical, dov’ero studente di Filosofia.

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    Il Polifunzionale dell’Unical

    Infatti, Lombardi Satriani fu prima docente e poi per qualche anno preside di Lettere e Filosofia ad Arcavacata.
    Poi tornò a Roma, per rivestire la prestigiosa cattedra di Etnologia alla Sapienza, di cui è stato professore emerito sino alla morte, avvenuta a 86 anni qualche giorno fa.
    Con Luigi Maria Lombardi Satriani scompare uno degli antropologi più prestigiosi e innovativi del nostro paese.

    Il ricordo di un maestro

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    La copertina di “Antropologia Culturale”, un classico di Lombardi Satriani

    Ma il professor Lombardi Satriani, è stato per me qualcosa di più; il mio primo maestro. Fui suo studente all’Unical e uno dei suoi primi laureati.
    Purtroppo non sono ancora riuscito a ritrovare la foto del giorno della mia laurea, quando Luigi mi proclamò dottore e assegnò la lode e la dignità di stampa alla mia tesi. Poi mi volle poi tra i suoi allievi e fu il mio direttore al Dottorato in Etno-Antropologia. Fu successivamente presidente dell’Associazione Italiana per le Scienze etno-antropologiche (Aisea). E io fui suo sodale per anni nella Sezione di antropologia e letteratura.
    A quest’esperienza sono seguiti anni di incontri e ricerche comuni, convegni e confronti, in cui fu sempre sollecito di consigli e generoso in riconoscimenti, incoraggiamenti e critiche al mio lavoro.
    Devo a lui, alle sue lezioni, ai suoi libri, l’essere diventato a mia volta antropologo, studioso e docente di Antropologia culturale ed Etnologia.

    Un calabrese di mondo

    Il mio debito verso il professore non è dovuto solo al suo immenso lascito di studioso e intellettuale, spinto a indagare «il legame nascosto fra l’arcaico e il postmoderno».
    Ma gli resterò per sempre affettuosamente legato anche per quel che accadeva fuori dall’ambiente accademico.
    Era un uomo di parola, un calabrese di mondo. Una persona affabile, curiosa e gioviale. Un conversatore brillante, una compagnia confidenziale e divertente. È stato uno dei pochi a cui ho aperto le porte di casa.
    Per decine di volte, in anni di frequentazioni, finché ha potuto, è stato mio ospite con reciproco godimento di amicizia, stima e affetto.
    Le cene d’estate con le lunghe chiacchierate sul terrazzo di casa mia a Paola, assieme a mia moglie e mio suocero (entrambi suoi lettori appassionati) e ai miei figli, sono rimaste memorabili. Ogni volta che ci incontravamo rievocavamo quei momenti spensierati e felici.

    Rigore scientifico e meridionalismo

    La vivacità della riflessione di Lombardi Satriani stava nella sua originalissima ampiezza e complessità di pensiero.
    Fu capace come pochi di coniugare il rigore filosofico e scientifico di ispirazione demartiniana nella sua ricerca sul campo, specie quella di ambito meridionalistico.
    L’evocazione letteraria, persino narrativa, che praticò in anticipo sui tempi, resta il tratto tipico della sua scrittura di antropologo.
    Una ricerca, la sua, sempre ricca di sfumature e rimandi letterari. Soprattutto, sempre attenta ad esplorare con rigore i mondi di confine della cultura e della ragione.

    Ernesto De Martino

    La sua introduzione all’edizione Feltrinelli (1980) di Furore Simbolo Valore di Ernesto De Martino, resta un esempio insuperato di efficacia interpretativa e di sintesi tra scrittura saggistica e letteraria.
    Uno sguardo prismatico che lui considerava indispensabile per non trasformare la missione di «partecipazione, umanizzazione e appaesamento» svolta dalle nuove scienze etno-antropologiche, in una sequenza arida di dati e statistiche da compilare in saggio accademico, o in dimostrazione fine a se stessa.
    La temperatura dei suoi scritti era sempre calda e vibrante, colta e appassionata, umanamente partecipe. Mai finalizzata alla dimostrazione per i soli addetti ai lavori.

    Marxista coerente e meridionalista “contro”

    Lombardi Satriani fu nemico allo stesso modo del «passatismo nostalgico» e del «progressismo di maniera».
    Fu inoltre distante sia da un limitante «abbarbicamento all’orizzonte paesano» sia da «fughe in avanti e furori ideologici» che prescindono dalla realtà, «dalla vita concreta e attuale degli uomini e delle donne».
    Mise al centro la vita e la cultura delle classi subalterne e ridiede forza alla critica gramsciana quando in Italia già andavano di moda revisionismo storico e riflusso nelle culture di massa.

    Antonio Gramsci

    Rimase saldamente storicista e marxista critico mentre nel mondo accademico nostrano andavano di moda i “cultural studies” anglosassoni di seconda mano e in molti ambienti si affermava la vulgata strutturalista dell’Antropologia culturale.
    Infine, non ha mai cessato di stigmatizzare la lamentosità e i sofismi di certo meridionalismo paludato e distante, gli eccessi di verbosità di un certo intellettualismo antropologico, oggi riproposto in versione modaiola. Pagine morte che “senza mai spostare in avanti l’orizzonte e lo sguardo problematico, ripropongono senza vie d’uscita concrete, vecchi stereotipi”, e non fanno altro, parole sue, che “attardarsi inutilmente in atavici attardamenti”.

    Nessun erede all’altezza

    «In realtà Luigi Maria Lombardi Satriani», ha scritto in un suo bel ricordo su Repubblica Marino Niola «è sempre stato in presa diretta su ciò che rende umani gli uomini».
    L’unico conforto quando si perde un maestro come lui è pensare che ha messo al primo posto l’impegno di testimoniare con la ricerca. E ha consegnato il suo magistero ai successori come un dono da preservare e arricchire. Ma cosa resta di questo alto magistero nel mondo accademico e nell’Università calabrese in cui ha insegnato per anni?
    Purtroppo molto poco. Nessuno è stato alla sua altezza. Chi si è intestato la sua eredità culturale è accademica ha compiuto una mediocre parabola personalistica e di potere. Ciò ha impedito la crescita di un settore di studi che resta fondamentale per la comprensione critica della Calabria, del Meridione e del Paese.
    Un restringimento localistico che nulla ha a che vedere con la lezione di probità scientifica e di libera ricerca intellettuale che in Luigi Maria Lombardi Satriani hanno sempre avuto un difensore e un simbolo di autonomia e coraggio.
    Anche per questo la sua lezione resterà con me per sempre, e a mio modo la terrò viva onorando il suo magistero e la sua memoria come si conviene per un mastro, vero.

  • La terra dei tredici fari: Calabria per naviganti

    La terra dei tredici fari: Calabria per naviganti

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    Sirene morenti ed eroi leggendari, battaglie navali e mostri marini. E torri, e templi e castelli, che si confondono nel tempo lusingando il mito. Sono ricchi di storie i promontori e le rupi che ospitano i 13 fari a presidio dei mari calabresi. Storie che si rincorrono e si sovrappongono a quelle delle dominazioni che si sono date il cambio lungo i secoli. I greci, i romani, i bizantini, gli spagnoli in quei posti strategici a picco sul mare avevano fondato città. Avevano innalzato sacrari e fortificato torri, lungo una trama che attraversa tutti gli 800 chilometri e rotti di coste della regione. E che si lega con il capillare universo di fari e boe segnalatrici che garantiscono la sicurezza della navigazione moderna.

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    Il faro di Capo Suvero (foto Fiorenzo Fiorenza da Wikipedia)

    La leggenda di Ercole e la famiglia del faro

    La leggenda di Ercole che si riposa sullo Jonio dopo avere portato a termine le 12 fatiche, si fonde alla memoria del guardiano del faro che tiene in ordine la lanterna del punto più a sud dell’Italia peninsulare. E quella del tempio di Era, che con il suo tetto di marmo bianco indicava i pericoli della costa. Si confonde con quella della famiglia Sestito che da oltre un secolo si tramanda la responsabilità di tenere sempre acceso il faro di Capo Colonna.

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    Poi Paola, Punta Alice, Capo Suvero e Scilla; Capo Vaticano e Villa e Capo d’Armi: tredici «piccoli luoghi di luce oltre l’invalicabile presenza della notte», gestiti dalla Marina militare. Ma ormai praticamente tutte le funzioni tecniche che una volta competevano ai “guardiani del faro” sono completamente automatizzate. Tredici storie raccontate ne I fari della Calabria, tra natura e archeologia (264 pagine, edizioni La Vie), duplice e dettagliatissimo progetto curato da Ivan Comi.

    È un autore e regista catanzarese. Sulla storia dei fari calabresi ha anche realizzato lo splendido documentario La magia dei cristalli con le musiche originali di Mino Freda e Francesca Prestia.

    A presidio del mare

    Ritagliati in un angolo di un antico castello come a Scilla, o tra le mura antiche di una torre cavallara, come a Paola, i moderni fari calabresi illuminano il percorso dei naviganti dalla seconda metà del diciannovesimo secolo.

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    Il faro di Paola, la città di San Francesco (foto Ivan Comi)

    Quasi tutte di realizzazione post unitaria, le “lanterne” attive sulle coste joniche e tirreniche della Calabria hanno particolarità che le distinguono le une dalle altre. Così consentono ai naviganti, sia durante il giorno, sia durante le ore di buio, di identificare immediatamente il tratto di costa a cui sono legate. E se di giorno sono le caratteristiche e i colori delle torri – bianche, a bande nere, rosse con bande bianche – a rendere i fari riconoscibili, di notte è la diversa frequenza e intensità della luce – che con le moderne attrezzature riesce a farsi strada per decine di chilometri oltre la terra ferma – a rappresentare la “carta d’identità” del presidio.

    La luce del fari non deve spegnersi mai

    La gestione unitaria di tutti i fari regionali ricade sotto la responsabilità di Taranto, ma sul campo ci sono ancora gli operatori nautici. Quelli che una volta si chiamavano faristi ora si occupano di tenere tutto in perfetta efficienza. Perché, qualunque cosa succeda, la luce del faro non deve spegnersi mai. Sono loro che si occupano di pulire le ottiche e gli specchi che consentono alla luce di farsi strada nella notte. E sono loro che ridipingono la torre con i colori originali quando i danni del tempo e della salsedine lo richiedono.

    Dalle fascine date alle fiamme nei fari antichi, ai sistemi di ingranaggi complicati quanto quelli di un enorme orologio a pendolo da ricaricare con la manovella ogni quattro ore, fino ai moderni computer che gestiscono automaticamente l’accensione delle lanterne e l’attivazione dei sistemi di emergenza in caso di avaria. Tecnologie cambiate radicalmente nel corso nel tempo e che condividono un unico obbiettivo: tenere costantemente acceso il cono di luce che garantisce la navigazione sicura. Resta quello il punto di riferimento certo per le imbarcazioni anche in un’era fatta di gps e transponder.

    Sulle orme del mito

    Nell’immaginario collettivo, i fari sono generalmente associati all’idea di solitudine e isolamento. Una delle particolarità dei fari calabresi è quella però di sorgere in posti già fortemente antropizzati. A Capo Colonna, ad esempio, il faro sorge proprio accanto al tempio di Era Lacinia.E fu proprio la sua costruzione a favorire un nuovo impulso alle scoperte archeologiche di Paolo Orsi, che su quel promontorio ripercorse i fasti di uno dei templi più importanti dell’età antica. Un legame così profondo quello tra la lanterna di Capo Colonna e la sua storia che, a guardia della torre, i costruttori dell’epoca misero una serie di teste leonine che richiamano da vicino i reperti trovati nell’area sacra.

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    L’unica colonna superstite del tempio di Hera Lacinia a Crotone

    Fari calabresi, acropoli e santi

    Seguendo la costa verso sud, anche il faro di Punta Stilo sorveglia dall’alto il parco archeologico dell’antica Kaulon e poggia le sua fondamenta su quella che gli archeologi considerano l’antica acropoli cittadina. Fu al largo di Punta Stilo che la marina militare inglese mise subito in chiaro la disparità di forze in campo con quelle schierata dall’Italia fascista, in quella che è passata alla storia come la prima battaglia in mare che vide impegnata la marina italiana nella seconda guerra mondiale.

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    Il faro di Capo Spartivento (foto Ivan Comi)

    A testimonianza di quella battaglia, sono rimasti i relitti delle navi affondate a qualche centinaio di metri dalla costa. Risalendo ancora lo Jonio verso lo Stretto, a capo Spartivento l’antico capo d’Ercole – il punto posto più a sud dell’Italia peninsulare, la leggenda racconta di quando San Cristofaro apparse a Sant’Elmo, che in una grotta su quel promontorio viveva da eremita, per ordinargli di accendere una lanterna nelle notti di tempesta per aiutare il passaggio delle navi.

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    Il faro di Punta Pezzo nel comune di Villa San Giovanni (foto Ivan Comi)

    A difesa dei naviganti: dallo Stretto a Paola

    Operativo dal settembre del 1867 è considerato dalla Marina come uno tra i cinque fari più importanti del Paese. Qualche chilometro ancora, e a presidio dell’ingresso nello Stretto, nel comune di Villa San Giovanni, si trova il faro di Punta Pezzo. Costruito alla metà degli anni ’50, accoglie con la sua luce rossa intermittente i natanti che attraversano il braccio di mare che la separa dalla Sicilia. E poi Scilla, dove la lanterna è stata sistemata dentro il cortile dell’antico castello dei Ruffo. Proprio sul promontorio dove Omero fa vivere il mostro marino dalle multiple teste flagello dei naviganti.

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    La luce che spunta dal faro di Scilla (foto Ivan Comi)

    E, ancora, Capo Suvero, risalendo il Tirreno. QUi la luce del faro illumina la costa che secondo il mito ospitò il corpo senza vita di Ligea, la sirena “melodiosa” punita con la morte per l’inganno di Ulisse, che era riuscito a evitarne i richiami facendosi legare all’albero maestro. E infine Paola, dove la lanterna è custodita all’interno della vecchia torre di guardia. Quella che un tempo serviva ad avvisare la popolazione delle incursioni saracene e che ora guida al sicuro le imbarcazioni che si avvicinano alla costa.

  • Quasi cent’anni di solitudine

    Quasi cent’anni di solitudine

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    Del capolavoro di Garcia Marquez sembra condividere un’intuizione: le porte esistono perché qualcuno le chiuda. Per raccontare i suoi novantanove anni di vita non basterebbe un libro, figuriamoci un articolo: è la prima cosa che dice mentre ripone sul comodino il ritaglio di un giornale ingiallito e fa segno di accomodarsi. Da decenni insieme alla moglie abita in una casa di una sola stanza persa in un labirinto di strade strettissime. Il grande letto, il cucinino e la televisione che a volume alto spara le notizie del giorno.

    Cordì stringe la foto di Alvaro (Foto Salvatore Intrieri)

    Nato a Bovalino, ha passato metà della propria vita a rimediare a quella che l’ha preceduta. Degli anni di infanzia e giovinezza ricorda con orgoglio solo un’amicizia speciale, quella con Corrado Alvaro. Infatti, in una stanza disseminata di santini e immagini sacre, il posto d’onore spetta a una grande foto in bianco e nero dello scrittore di San Luca. Le sue mani la indicano stringendo convinte un accendino azzurro come i suoi occhi. La fine della sigaretta nel posacenere è il segno che possiamo iniziare.

    L’incontro di Cordì con Alvaro e Pirandello

    Alvaro e Pirandello ebbero in effetti un rapporto confidenziale, fatto di molti incontri. Lo scrittore calabrese ne riferisce in diversi episodi della sua intensa produzione letteraria. Fra queste, memorabili quelle nel libro Quasi una vita, il diario edito da Bompiani che gli valse il Premio Strega nel 1951. In quelle pagine Alvaro di Pirandello riporta anche queste parole: “Per noi italiani, vita e morte significano ancora qualche cosa. Sono due termini entro cui dobbiamo adempiere un dovere. Noi sappiamo ancora che il mondo non finisce con noi”.

    Errori di gioventù

    Il bambino che ha conosciuto questi due giganti ora è il vecchio che è disposto a fare i conti con le colpe della sua vita: «Da giovane non capivo tante cose, perciò ho fatto degli errori». Si scurisce nello sguardo e la voce diventa più roca quando parla di “uomini d’onore”. «Ho iniziato a fare la guardiania ai terreni, con i turni di notte, armati. Deve capire, era gente che pagava bene… e noi avevamo visto tanta miseria». Dice che la chiamavano in modi diversi a Locri e a Reggio, a Cosenza e a Crotone, al tempo in pochi sapevano, ma oggi è chiaro a tutti cosa sia la ’ndrangheta.

    In pochi secondi si compie nello stanzino un efficace trattato sul salto di qualità di questa organizzazione criminale ormai globalizzata. L’uomo di quasi cent’anni di vita snocciola fatti con la precisione degli accademici, ma con il patema di chi quelle cose le ha vissute davvero: la morte banale del capobastone più temuto, la strage in piazza del mercato, le famiglie di pastori che formano imprese edili capaci di diventare in pochi anni vasti imperi. Tutto grazie ai sequestri di persona e agli appalti pubblici, presi con la forza, a volte con vere e proprie irruzioni negli uffici comunali.

    Luigi Pirandello, premio Nobel per la Letteratura nel 1934

    Fuga d’amore

    La stella di questo uomo segue il corso di questi eventi e sembra ormai segnata, ma cambia all’improvviso insieme a quello di una ragazza di 17 anni, nel cielo di una sera di maggio. «Deve immaginarla, era una figliola assai bella, di povera gente. Un farabutto se l’era presa con l’inganno, raccontando al padre che l’avrebbe portata al paese e fatta lavorare da un dottore». Invece viveva segregata in un piccolo appartamento, abbastanza vicino a casa sua. Racconta di come un giorno ha trovato lo slancio dell’onore vero: così al tramonto ne organizza la fuga e prima che faccia di nuovo giorno, risalendo le fiumare, riesce a riportarla dai suoi genitori.

    Un duello ad armi impari

    Pare che i fatti gli stiano passando davanti ancora una volta, come nella scura sala del vecchio cinema del paese. Dice che non sapeva bene cosa stesse accadendo in quei frangenti, ma cosa l’attendeva il giorno dopo ancora, lo ha sempre saputo. Così quando, di nuovo a sera, quel poco di buono bussa alla sua porta, i rintocchi sul legno hanno il suono della morte.

    «Io non rispondevo e lui insisteva: “Ti debbo parlare”. Così mi sono messo la pistola sotto la giacca e sono andato con lui. Sotto lo stesso ponte che avevamo usato per scappare la notte prima, stavolta c’erano quattro uomini ad aspettarci. Codardi: cinque contro uno, ma ero pronto, sa? Se dovevo andare all’inferno me ne sarei portato almeno tre di loro con me…».

    La guerra in Africa

    A salvarlo invece fu un caso. O, meglio, un uomo. Tornando dalla pesca passò di lì al momento giusto e con un grido risolse lo stallo. La resa dei conti era solo rinviata.
    Ma prima di lei arrivò la guerra, l’arruolamento a Cosenza, l’addestramento in Piemonte, i lunghi viaggi e la campagna d’Africa. Il racconto si fa sempre più dettagliato, fino alle bombe degli inglesi che lo mandano sotto un metro di detriti.

    La battaglia di El Alamein

    «Il capitano che mi ha aggiustato il braccio nell’ospedale di Tunisi, dove sono stato per tre mesi dopo El Alamein, bestemmiava e gridava: “Loro fanno la guerra e poi mandano questi figli di mamma a morire”. Era contrario alla guerra, e lo eravamo anche noi».
    Dopo la guerra quegli occhi decidono che di morte ne hanno visto abbastanza. Tornato in Calabria, ritrova l’amore della donna che aveva conosciuto prima di partire e non la lascia più. Insieme se ne vanno lontano, sperando di lasciarsi tutto alle spalle. Dopo molti anni, però, nella piazza del paese, arriva un’auto scura.

    Una nuova vita

    Erano tempi in cui i telegiornali litaniano ogni giorno cognomi uguali al suo: è stata la madre delle guerre di ’ndrangheta, che in 40 anni solo a Locri e dintorni ha lasciato a terra quaranta corpi dilaniati dall’odio più cieco. «Io leggevo, ma non volevo saperne più. I miei parenti hanno capito e mi hanno lasciato in pace, altrimenti avrebbero eliminato anche me. Corrado Alvaro lo diceva che non si sconfigge questa dannata malattia, ma forse non pensava che saremmo arrivati a questo. Che devo dirvi, si vede che doveva andare così».

    Corrado Alvaro

    L’appuntamento

    Indica la tv, chiede di avere una copia della foto con in mano il ritratto di Corrado Alvaro e saluta. Il prossimo appuntamento è per il suo centesimo compleanno, vuole un pacchetto di Ms dure da venti per regalo, ma al tabacchino c’è una piccola foto in bianco e nero di un giovane adornato di baffi, giacca e dolcevita: è proprio lui. Dietro c’è scritto: “Quale ricordo a tutti coloro che in vita gli vollero bene e che in morte lo ricordano”. Fatto salvo della moglie e di pochissimi, Enzo è morto in solitudine in quello stesso letto, poche settimane dopo l’intervista. Così, mentre i funerali dei boss vengono celebrati da folle e fanno il giro del mondo, dell’uomo che ha avuto il coraggio di ribellarsi restano una foto sbiadita e venti sigarette dure.

    (ha collaborato Salvatore Intrieri)

  • Giacomo e Ida: storia d’amore e d’anarchia a Cosenza

    Giacomo e Ida: storia d’amore e d’anarchia a Cosenza

    Un giro del mondo e tanti guai, tra l’amore e l’anarchia. Li ha vissuti Giacomo Bottino, un operaio nato a Paola nel 1897 e poi emigrato, giovanissimo, a San Paolo del Brasile.
    Sulle rotte dell’emigrazione transoceanica, Giacomo incontra la sua prima, grande passione: la politica.
    A inizio XX secolo, essere socialisti non è facile. Ma essere anarchici può essere peggio: significa fare concorrenza a sinistra ai compagni dell’Internazionale, già in fase di divisione tra socialismo e comunismo. E significa, ovviamente, finire nel mirino delle autorità quasi in completo isolamento politico.
    Che è poi quel che accade a Bottino.

    Stuccatore a Formia

    In Brasile Bottino non ha solo conosciuto l’anarchismo, ma ha anche imparato un mestiere: fa lo stuccatore ed è abbastanza apprezzato.
    Nel 1921 si trova a Formia, dove si divide tra il lavoro e l’attività politica. E dove non ci mette molto a farsi schedare.

    Una copia d’epoca di Umanità Nova

    Infatti, Giacomo si dedica a un’intensa propaganda tra i muratori e i ferrovieri, in maggioranza comunisti, ai quali distribuisce Umanità Nova, la mitica rivista fondata e diretta da Errico Malatesta, dapprima a Milano e poi a Roma, dove il giornale e il suo fondatore sono costretti a trasferirsi perché i fascisti ne avevano incendiato la sede per rappresaglia in seguito alla strage dell’hotel Diana, attribuita agli anarchici.
    Bottino frequenta Malatesta e proprio a casa del guru dell’Internazionale Anarchica conosce l’altra sua grande passione: Ida Scarselli.

    Una famiglia pericolosa votata all’anarchia

    Bella, alta mora e un po’ robusta (e, aggiungerà qualche anno dopo un anonimo verbale di polizia, «dall’aria simpatica») Ida è coetanea di Giacomo.
    Ma in quanto a passione anarchica sembra tre volte più anziana: fa parte di una famiglia toscana di sette fratelli (oltre a lei, Oscar, Ferruccio, Egisto, Tito, Leda e Ines), tutti anarchici e tutti pericolosi.

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    Ida Scarselli

    Il 28 febbraio 1921 gli Scarselli si fanno (a dir poco…) notare a Certaldo, in provincia di Firenze, dove partecipano a un durissimo scontro di piazza con le Forse dell’ordine e i fascisti, giunti a dare manforte.
    Ferruccio, il fratello maggiore, resta ucciso. Oscar, affetto da una vistosa zoppia, si dà alla macchia e fonda un suo gruppo: la Banda dello Zoppo. Poi scappa all’estero, gira mezza Europa e alla fine si rifugia in Urss, assieme a suo fratello Tito.
    Egisto passa guai peggiori: arrestato subito dopo i disordini, si becca vent’anni di condanna. Ida, invece, viene arrestata e processata a Roma. Ma sarà assolta nel 1925 per insufficienza di prove.

    Propaganda e anarchia: il primo guaio di Giacomo

    Con questo popò d’esempio, Giacomo non ci mette molto a ficcarsi nel suo primo guaio serio.
    Nel 1922 si trasferisce a Roma per stare vicino a Ida.
    Il 24 aprile di quell’anno, Bottino si fa beccare dalla Polizia mentre volantina tra i soldati per incitarli alla diserzione. Viene arrestato e finisce sotto processo per propaganda sovversiva. Lo salva l’insufficienza di prove.
    Ma i problemi veri sono solo all’inizio.

    Una lettera maledetta

    Il 27 novembre 1926 la censura intercetta una lettera indirizzata a Giacomo, che nel frattempo convive a Roma con Ida.
    Gliel’ha spedita suo cognato Oscar dal Belgio e sembra scritta apposta per far infuriare i fascisti: dentro c’è tutto quello che un fuoriuscito può pensare del duce.

    Errico Malatesta, il guru dell’Internazionale anarchica

    Le autorità iniziano a scavare nelle vite di Giacomo e Ida e trovano abbastanza elementi per considerarli non più dei “semplici” antifascisti, ma addirittura dei cospiratori.
    A questo punto scatta il confino di pubblica sicurezza. Per sottrarvisi, Giacomo scappa a Messina. Ma la fuga dura poco, perché i carabinieri lo beccano il 13 febbraio 1927.
    A questo punto il confino a Lipari dovrebbe essere una certezza, per lui.
    Ma il regime la pensa diversamente: la pratica di Giacomo e Ida è passata, nel frattempo, al Tribunale speciale per la difesa dello Stato.

    La galera e il confino 

    I due anarchici non sono più un affare delle prefetture, ma sono diventati di competenza dell’Ovra, la famigerata polizia fascista, che li ritiene parte del Soccorso Rosso internazionale, dopo aver scoperto le attività di Ida in favore dei detenuti politici.
    Giacomo è rispedito a Roma il 20 marzo 1927 e subisce un processo per direttissima assieme alla sua compagna.
    La condanna, inevitabile, è una mazzata per entrambi: tre anni di carcere, tre di sorveglianza e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici a lui; due anni e mezzo di carcere, tre di sorveglianza più l’interdizione a lei.
    Ma l’amore vince ancora su tutto. E stavolta, galeotto è proprio il fascismo.

    Il matrimonio e il ritorno in Calabria

    Giacomo esce di galera il 19 marzo 1930, ma le autorità lo trattengono e lo spediscono al confino a Ponza. Qui ritrova Ida e, finalmente, la sposa Scontata del tutto la pena, Giacomo fa ritorno in Calabria nel ’32, dove porta con sé Ida e i loro tre figli.
    Dapprima la famiglia Bottino si stabilisce a Paola, dove Giacomo chiede, invano, alla Questura di Cosenza un passaporto verso il Brasile, per sé, per la moglie e per una figlia.
    Poi la coppia si trasferisce nel capoluogo, dove lui lavora come stuccatore nel cantiere del Palazzo degli Uffici.

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    La Scarselli e Bottino (a destra)

    Li raggiunge il cognato Egisto, nel frattempo uscito di galera grazie all’amnistia concessa dal regime per celebrare il suo decennale. Giacomo, con tre figli a carico, si dà la classica calmata e lavora duro. Anche Egisto si dà da fare come muratore nel medesimo cantiere del cognato. Tuttavia, non perde la passione politica e il vizio della propaganda. Resiste finché può a Cosenza e poi prova a scappare all’estero. Ma la polizia di confine lo ferma il 18 febbraio 1938 a Ventimiglia, assieme a un antifascista cosentino: Edoardo Vencia di Pedace.

    Nel Brasile dei golpisti

    La fine della guerra e del fascismo non significa la pace per la famiglia Bottino. Evidentemente, l’Italia di Mario Scelba, per anarchici come loro, non è più sicura di quella del ventennio.
    Il 19 gennaio 1947 Giacomo, Ida e i tre figli si trasferiscono in Brasile, per la precisione a Niteròi, una città costiera dello Stato di Rio de Janeiro.

    Il visto di residenza brasiliano di Ida Scarselli

    L’approdo in America Latina è la classica brace dopo la padella: nel 1964 i militari cacciano con un golpe il presidente João Goulart e instaurano la dittatura che durerà per i ventun anni successivi.

    Fine della storia

    Da questo momento in poi, Giacomo, di cui sono note anche in Brasile le simpatie politiche, finisce nel mirino della polizia e subisce le angherie di un vicino di casa, evidentemente legato al regime.
    Quest’ultimo minaccia Giacomo più volte e lo denuncia ai militari. Non pago, arriva a sparare all’italiano e lo uccide. È il 14 settembre 1970.
    Ida muore il 22 ottobre 1989, a novantadue anni suonati. E vanta un primato singolare: è stata la prima donna condannata da un Tribunale fascista. Per questo merito, lo Stato italiano le ha riconosciuto la pensione e la reversibilità di Giacomo.

  • Il paradiso delle piante esiste… all’Unical

    Il paradiso delle piante esiste… all’Unical

    La dea Iride amerebbe come proprie creature le meraviglie variopinte che accolgono i visitatori. Da lei prendono il nome le iris (viola, gialle, rosa, ciclamino) che costeggiano il viale d’ingresso dell’Orto botanico dell’Università della Calabria, l’unico (riconosciuto) della regione. La fioritura a maggio è nel suo pieno, ma il caldo fuori stagione rende i petali già un poco vizzi, quasi a chiedere alla dea dell’arcobaleno di gonfiare di pioggia le nuvole. L’Orto botanico è uno scrigno che racchiude bellezza (in superficie), biodiversità, sapere scientifico, cultura del territorio (a un livello più profondo). È, anche, un laboratorio a cielo aperto, in cui le piante alimentano l’attività di ricerca e l’osservazione può portare a scoperte sorprendenti.

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    L’ingresso dell’Orto botanico di Cosenza

    L’orto botanico e la tutela della biodiversità

    «L’Orto botanico è stato fondato nel 1981 per conservare la biodiversità, tutta l’attività di ricerca e divulgazione è orientata in questo senso», spiega Nicodemo Passalacqua. Botanico, è referente scientifico della struttura che da fine 2021 rientra nel Sistema museale universitario, come parte del Museo di storia naturale della Calabria (Musnob). La missione è quella di tramandare alle generazioni future la vita vegetale e animale delle colline di Arcavacata di Rende, a due passi da Cosenza, in cui habitat poco modificati dagli umani convivono con terreni un tempo coltivati. «Qui sono state messe a dimora piante autoctone, spesso a rischio, per far conoscere ai calabresi le varietà del territorio». Ma ci sono anche specie provenienti da altri territori, alcune anche esotiche.

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    Il botanico Domenico Passalacqua, referente scientifico della struttura

    Zona speciale di conservazione

    Va bene la conoscenza, ma tutelare la biodiversità è necessario. Perderla significa contribuire all’insicurezza alimentare ed energetica, aumentare la vulnerabilità ai disastri naturali, diminuire il livello di salute della popolazione, ridurre la disponibilità e la qualità delle risorse idriche e impoverire le tradizioni culturali. L’Orto botanico, tra l’altro, è considerato zona speciale di conservazione dall’Unione europea, per la presenza di una pianta primitiva, la calamaria (Isoetes) e di due insetti, la falena euplagia, che abita tra gli arbusti ai margini del bosco e il cerambice della quercia (Cerambyx cerdo), un coleottero che vive nel legno morto.

    Il fungo sconosciuto

    La biodiversità si declina anche nelle circa trecento specie di funghi che qui sono state osservate. Tra queste, un piccolo fungo sconosciuto al mondo, lo Psathyrella cladii mariscii (dal nome botanico della pianta palustre alla cui base è spuntato). Il falasco (Cladium mariscus) era stato prelevato dalle rive del lago dell’Aquila, vicino Rosarno, e piantato vicino all’ingresso principale dell’Orto, tra un roseto e la vasca con le ninfee. Alcuni anni dopo, alla base dei fusti della pianta è spuntato il piccolo fungo con cappello marroncino, mai descritto e classificato fino a quel momento. La rivista scientifica MykoKeys ha pubblicato la scoperta nel 2019.

    Le piante a rischio custodite nell’orto botanico

    Il viale delle iris costeggia l’orto degli ulivi, con gli alberi da frutto, anche esotici, come il giuggiolo e il melograno, e il giardino roccioso mediterraneo, con le sue colorate varietà di valeriana. Peccato per i tabelloni usurati dal tempo e dalle intemperie, resi quasi illeggibili. Più in là c’è una delle piante più minacciate d’Italia, la Zelkova sicula. «In Sicilia ci sono solo un centinaio di individui, un singolo evento accidentale, come una frana o un incendio, – spiega Passalacqua – può provocarne l’estinzione. Così l’hanno riprodotta e mandata agli orti botanici per la conservazione ex situ». Nell’orto delle cerze (dal nome dialettale delle querce) c’è invece una quercia a rischio di estinzione in Calabria, la farnia (nome botanico Quercus robur). «Si trovava alla foce del Crati e del Neto e stava con le radici sempre nell’acqua. Ora questi habitat hanno subito molte trasformazioni».

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    L’arboreto dell’orto botanico all’Unical

    L’arboreto della Calabria

    Le farnie si trovano nella parte più recente dell’Orto botanico dell’Unical, l’arboreto della Calabria, che custodisce, insieme alla biodiversità, anche la cultura del luogo. «Le specie arboree costituiscono il paesaggio e il paesaggio è un aspetto culturale». Oltre alle querce, ci sono aceri, carpini, frassini, carrubi, sorbi. Accanto al laghetto artificiale, già a secco in questo anticipo d’estate, si stende il viale dei gelsi, le cui foglie si usavano per nutrire il baco da seta, il cosiddetto bombice da gelso. In Calabria la gelsicoltura ebbe la sua massima espansione nel XV secolo fino agli inizi del XX. Poi una grave malattia colpì gli allevamenti dei bachi. All’estremità del viale dei gelsi si trova la cibia, una vasca che un tempo i contadini creavano per avere a disposizione l’acqua per innaffiare l’orto. La superficie è completamente ricoperta dalla lenticchia d’acqua, una pianta che dà al liquido un aspetto vetroso. All’interno della cibia dimora il tritone, un piccolo anfibio a rischio estinzione.

    La ricerca sul corbezzolo

    Più in alto, nel bosco della collina di Monaci, uno dei tre boschi custoditi dall’Orto, si trovano i corbezzoli (Arbutus unedo). I suoi frutti rossi e commestibili e le foglie sono state oggetto di uno studio che ha condotto il dipartimento di Farmacia per verificare l’attività antiossidante e inibitoria di due enzimi (alfamilasi e alfaglucosidasi) per il trattamento del diabete di tipo 2. I risultati sono stati buoni e sono stati pubblicati nel 2020 sulla rivista scientifica Antioxidants. Si tratta di studi in vitro, però, solo un primo step. Per proseguire lo studio ed effettuare le sperimentazioni sugli animali servono risorse ma anche l’interesse.

    Servono più risorse per l’orto botanico

    Più risorse ci vorrebbero anche per la manutenzione dell’Orto botanico. «Uno di queste dimensioni, oltre otto ettari, avrebbe bisogno di 15 giardinieri, noi ne abbiamo solo due», aggiunge Passalacqua. Di questi, Antonio De Giuseppe è giardiniere dell’Orto dei Bruzi da vent’anni, lo conosce come le sue tasche. Il suo lavoro gli permette di osservare come il clima sia cambiato negli ultimi tempi. «Ora le piante hanno bisogno di molta più acqua, persino l’ulivo soffre il troppo caldo. Sono aumentate anche le malattie delle piante. In particolare, si sta sviluppando la cocciniglia, un parassita che un tempo veniva distrutto dal freddo invernale».

    L’arte del bonsai

    De Giuseppe è anche istruttore nazionale di bonsai e ne realizza utilizzando piante calabresi: pini, ginepri, ulivi, mirti. «Noi bonsaisti recuperiamo piante rotte o morenti, cercando di imitare gli stili che esistono in natura». Ha fondato un’associazione, Shibumi, che promuove l’arte giapponese della coltivazione di alberi in vaso e svolge attività di educazione ambientale, in convenzione con l’Orto botanico. Ogni tanto l’associazione organizza eventi, esposizioni. Occasioni, anche, per stare insieme e condividere l’amore per la natura.

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    La dragontea o erba serpentona

    Il fiore che sa di cadavere

    E la natura sa essere sorprendente e straordinariamente complessa. Come nella dragontea o erba serpentona (Dracunculus vulgaris Schott), una pianta bellissima eppure velenosa che cresce nel bacino del Mediterraneo. Nell’Orto botanico si trova vicino una le due piccole serre, tra il bosco della sorgente e quello dell’amore. Si chiama così perché un tempo, quando l’Orto non era recintato, gli studenti andavano lì ad appartarsi. La dragontea ha un fiore incantevole eppure disgustoso, per il suo odore di carne in putrefazione. Tant’è che attira moltissimo le mosche. Queste entrano nel fiore e rimangono imprigionate da due corone di peli, imbrattandosi di polline. Una volta uscite, saranno le mosche a impollinare i fiori femminili. La vita ricomincia anche così.

    Simona Negrelli

  • Calabria di vino… fatto in casa: il viaggio di Soldati contro guide e influencer

    Calabria di vino… fatto in casa: il viaggio di Soldati contro guide e influencer

    In primavera si è conclusa a Rende, sotto i capannoni di un’anonima area fieristica, una grande kermesse mondiale del vino, il Concours Mondial de Bruxelles. Erano 310 sommelier professionisti provenienti da 45 nazioni, suddivisi in commissioni, hanno valutato i 7.376 vini internazionali in concorso, di cui 5.083 Rossi e 2.293 Bianchi, provenienti da circa 40 Paesi.

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    Erano 310 i sommelier impegnati nel Concours Mondial de Bruxelles

    Vino di Calabria: la pattuglia al Concours

    L’Italia con 1.396 iscritti, dopo la Francia (1.645) e prima della Spagna (1.368). E tra i tanti vini italiani in competizione insieme a regioni habitué del Concorso come Sicilia (202 etichette in gara), Toscana (186), Puglia (185) e Veneto (105), spicca quest’anno la partecipazione della Calabria, terra enoica sin dalle origini ma sinora piuttosto disdetta dai grandi recensori del vino e dai sommelier mondiali, con ben 143 etichette.

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    Istantanee dal Concours Mondial de Bruxelles a Rende

    I “produttori” calabresi hanno risposto con grande entusiasmo portando in concorso 11 DOP e IGP tra cui Calabria IGT (82), Terre di Cosenza DOC (24) e Cirò DOC (18). Il Concorso «consente di offrire un’esperienza concreta e autentica di promozione per il nostro settore vitivinicolo, che vanta certamente un primato, quello di essere la terra delle origini del vino, grazie all’arrivo della vite dall’oriente, 2500 anni fa». Dichiarazioni impegnative dell’assessore all’agricoltura Gallo, tra i promotori insieme alla Regione di questa vetrina del vino mondiale.

    Gli influencer e il vino di Occhiuto

    I vini calabresi negli ultimi decenni sono davvero cresciuti molto di qualità e di prestigio, soprattutto per merito di enologi e vignaioli di territorio, e intorno ai filari e alle vigne cresce anche la solita retorica sviluppista di politici e influencer del vino. Era inevitabile.

    Anche in questa occasione si è parlato molto di “grande occasione di visibilità per la Regione”, di “marketing territoriale”, di “settore strategico”, di “vere e proprie eccellenze calabresi”. Il presidente Occhiuto, pure lui produttore di vino, ha dichiarato che «dopo il successo ottenuto al Vinitaly, dimostreremo anche in questa occasione che abbiamo realtà che non hanno nulla da invidiare al resto del Paese e al resto del mondo. E benvenuti in Calabria, terra accogliente, passionale, autentica».

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    Il presidente della Regione Roberto Occhiuto

    Resta il vino di Calabria dopo la sbornia del Concours

    Ora, passata la sbornia retorica dei Concours e delle kermesse enologiche, resta il vino. È utile ricordare che c’è, o almeno c’è stata, un’altra dimensione del vino e della Calabria enoica che fa da contrappeso a una certa vanagloria alla moda dei sommelier e della standardizzazione del gusto in tema di vino. Un mondo sempre più ribaltato sugli interessi dei comunicatori professionali, degli allestitori di fiere, dei compilatori di guide stellate. Apparati economici che, come accade col turismo, fanno business e appaiono sempre più lontani dalla realtà viva della terra, dagli umori di una tradizione, dalla storia e della vicenda concreta di chi vive le vigne.
    Troppi ormai gli elementi astratti da un’attenzione antropologica e culturale che incontrava quelli che una volta il vino lo facevano davvero per berlo. I paragoni con l’attualità non reggono.

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    “Vino al vino”, libro di Mario Soldati

    Mario Soldati: la bibbia del buon bere 

    Chi si ricorda, per esempio, di Mario Soldati? Il suo Vino al vino è una summa, un’opera omnia, documento di una sensibilità e di una intelligenza senza eguali. Soldati ci lascia tre volumi, ciascuno dedicato a un itinerario, usciti il primo nel 1969, il secondo nel 1971 e il terzo nel 1975. Per chiunque scriva di vino e di cibi, di luoghi e di incontri, questo di Soldati resta un sacro testo, una sorta di bibbia laica del mangiare e bere bene andando in giro per l’Italia di provincia. Un modello, ancora oggi, per orientare e correggere non solo stile e scrittura, ma anche l’etica e l’estetica del modus operandi e narrandi di certa gastronomia televisiva alla moda che oggi fa audience.

    Il pellegrinaggio alcolico di Soldati

    Soldati nelle sue divagazioni ci rimette sulle tracce di ambienti inediti e spesso oramai cancellati dalla geografia contemporanea della nostra regione, un tempo ricca di umori provinciali. Così è la sua Calabria del vino, che fu re-visionata da Soldati negli anni settanta, per misurarne lo stacco dei tempi nuovi dopo il tramonto della stagione esotica degli scrittori stranieri del Grand Tour. Soldati se la gustò con i sensi e lo sguardo di un narratore di dettagli, un sapido poeta del quotidiano e delle piccole cose. Un pellegrinaggio fatto in nome della cultura materiale e per il gusto di compiacere la propria vitale golosità, piuttosto che per un’esigenza di marketing turistico.

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    Lo scrittore Mario Soldati

    Soldati di sé diceva che viaggiava soprattutto per andare da un vino. Amava doppiamente il vino. Come alimento e sostanza dal corpo vitale, come essenza aleatoria e spirituale. Il vino come la vita «è fatto per dare piacere consumandosi». A dispetto della angusta gamma descrittiva di qualità organolettiche e compilazioni tecniche ostentata invece dai degustatori professionali di vini oggi tanto venerati dai media. «Non sono un tastevin, non sono un professionista dell’assaggio».

    Sputare sentenze e sputare vino

    Chi fa l’assaggiatore di mestiere, chi assaggia vino, sputa sentenze con la stessa facilità con cui sputa il vino (e lo deve sputare se non vuole rapidamente ammalarsi). Ma un dilettante come me non può e non è giusto che possa, e deve dunque affrontare impavidamente il rischio di una malattia». Per Soldati, il vino è individuo. Esattamente come gli uomini, il vino per Soldati è «immisurabile, inanalizzabile se non entro certi limiti, variabile per un’infinità di motivi, effimero, ineffabile, misterioso». Altro che disciplinari e bilancini per le Docg.

    Perciò, anzitempo, non sopporta la globalizzazione, la sofisticazione, la genericità del gusto medio, le descrizioni standard. Il vino è da capire e bere, dunque, solo se si va a farselo amico direttamente sul posto. Altro che accontentarsi dei ridicoli referti televisivi da rubrica enologica dei sommelier alla moda: «Come si può descrivere il sapore del vino? Le parole non bastano mai, si articolano al massimo su una ventina di aggettivi, sempre la stessa musica».

    Cos’è il vino di Calabria? Le persone che lo fanno

    Insomma banalizzarne il carattere è prima che un imbroglio mediatico, un delitto estetico, materiale e morale. E proprio in Calabria, alle prese con la difficoltà a raffigurare a parole la complessità di sensazioni accese dal «gusto concreto del Britto», con la scoperta di un «nuovo» vino Soldati saprà aggiungere una pagina memorabile alla sua fede filosofica e antropologica nel vino. Descrizione e degustazione contano davvero molto poco. Il vino è per sua essenza singolare, un prodotto dell’umanità affabile e fuori mercato. Un dono. Il gusto di un vino per Soldati «significa qualcosa solo in rapporto alla persona che lo beve», e aggiunge che il gusto di ogni vino è imprendibile. Il vino, come gli uomini, «ha sempre qualcosa di astratto».

    Cos’è il vino per lo scrittore Mario Soldati? Le persone che lo fanno

    A Soldati del vino interessano perciò le persone che lo fanno e, allo stesso modo, pure dei cibi coloro che li cucinano. Con inarrivabile curiosità, arguzia e ironia, una straordinaria capacità descrittiva di uomini e situazioni, Soldati nel 1975 ci raccontava anche nei suoi passi calabresi una tradizione della cucina e dei vini in un Sud del lavoro contadino ancora vivacissimo. Oggi lontanissimo, anzi irrimediabilmente perduto, perché quei paesaggi e personaggi, quelle cucine e quei prodotti non esistono più.

    Ruffiane guide enogastronomiche

    Oggi quella tradizione locale del buon gusto, ingenua per certi versi, ma profondamente vera e sana, popolata da campagnoli e galantuomini per i quali produrre vino genuino era innanzitutto un imperativo morale, è stata sostituita anche da noi da un mondo variopinto e fatuo, popolato da scaffali pieni di etichette, da cloni locali degli enologi e dei gourmet televisivi, sedicenti esperti, winemakers e redattori di patinatissime e ruffiane guide enogastronomiche. Libertà anarchica dalle mode e autonomia dal mercato. Questo predicava già allora Soldati, scrittore del desiderio, ghiottone e bevitore omerico.

    Soldati che ama poeticamente «violenza e resistenza» di una Calabria ancora «isolata e anarchica», «scontrosa e ribelle», percorre per intero la regione evitando cantine di produttori industriali ed etichette griffate, schiva ogni pubblicità e predilige la scoperta e la varietà, l’unicità della specialità domestica da apprezzare affidandosi all’ospitalità «nella religiosa compagnia di pochi amici» calabresi che lo accompagnano in una memorabile serie di tappe locali del suo viaggio che divaga alla ricerca della tradizione enologica e degli umori più genuini della Calabria rurale di allora. La sua ricerca fa appena in tempo a cogliere anche da noi gli ultimi veri sapori autarchici.

    La bottiglia di Savuto regalata da Mancini a Soldati

    Come per la piccante – e ancora minoritaria – «Sardella di Crucoli», da Soldati mangiata a cucchiaiate «usando una sfoglia di cipolla dietro l’altra». C’è la scoperta della valle del Savuto, con la sua antica tradizione enologica. Istradato al Savuto da una memorabile bottiglia regalatagli dall’amico Giacomo Mancini, Soldati fu a Rogliano alla ricerca degli umori più genuini e meglio custoditi della vecchia Calabria rurale. La valle più alta del fiume Savuto tra le colline di Marzi e Rogliano, non ancora attraversata dalle autostrade, era zona di produzione tipica del Savuto, il vino che «sta a Cosenza come il Barolo sta a Cuneo».

    Giacomo Mancini regalò una bottiglia di Savuto allo scrittore Mario Soldati

    Il vino del prete di Rogliano

    Qui lo scrittore ha la ventura di assaporare questo vino locale in una particolarità mitica, il «Succo di pietra» dei Piro. Un nettare di Savuto purissimo prodotto dalla famiglia di Francesco Piro e dalle sue «cechoviane sorelle» di cui, a Rogliano, Soldati fu ospite. Poi è la volta di un’altra grandiosa rivelazione enologica. Mentore Don Alberto Monti, «l’immagine nera e allungata del parroco di Rogliano». Il prete che in un’apparizione quasi mefistofelica, in un buio da cripta gli si fa incontro per proporgli un indimenticabile assaggio. Ecco allora che dalla sua «tonaca miracolosa» spuntano due magiche bottiglie senza etichetta: «Savuto è solo il Britto», sentenzia solennemente il prete di Rogliano. E il «Britto», che in dialetto locale «vuol dire bruciato», è l’alchimia suprema del Savuto, con l’incanto superbo di un colore «rosso rame».

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    Il prete del Britto, don Alberto Monti

    Un vino sublimato dal «gusto concreto», che il buon Soldati dichiara «diverso» da tutti gli altri, misterioso e ineffabile, un elisir di lunga vita insieme «giovane e maturo». Il Britto è davvero la varietà di Savuto più fine, ottenuto da un mélange misterioso e ben calibrato di ben sette, anzi, forse, nove-dieci vitigni autoctoni di antichissima origine.
    Soldati lo acclama estasiato dalle sue «liquide trasparenze», quasi fosse «il fondo oro-rame di un’icona infernale» che racchiude nel suo mistero etereo il fascino più autentico di una tradizione millenaria, simbolo sopravvivente di un territorio aspro e ricco di storia.

    L’umile vino Donnici di Piane Crati

    Anche se a ben vedere l’emblema enologico e antropologico di quella Calabria del vino ancora orgogliosamente domestica e antituristica, autarchica e retrò, festeggiata con entusiasmo sovversivo da Soldati, si esprime piuttosto in una bottiglia dell’umile Donnici di Piane Crati «che l’indipendente stradino Eugenio Bonelli pigiò l’anno scorso nella modesta ma onesta cantina dove noi adesso lo beviamo». Con lo stesso spirito Soldati torna anche miticamente a rivisitare altri vini-emblema della Calabria enologica, come il Greco, il «succulento Mantonico», il Pellaro, e infine, giunto nell’enoica e magnogreca terra crotonese, passa in esame il celebre Cirò dal «guizzo vivo e pungente».

    Il Cirò Megonio Librandi, fresco vincitore del titolo di Miglior vino d’Italia

    A Cirò Soldati fa ragionamenti preveggenti sul futuro del vino nelle società tecnologiche. Di fronte ad un Gaglioppo o Magliocco delle vigne del leggendario marchese cirotano Susanna è spinto a fantasticare pensando che il «sapore che un certo vino ha oggi mentre è giovane sarà vanificato: il mistero del vino di un tempo sarà svelato soltanto il giorno in cui qualcuno inventerà il computer organolettico, capace non di archiviare i componenti chimici del vino, ma di descrivere il suo gusto e il suo profumo, e, soprattutto, di riprodurlo fornendone campioni anche a distanza di secoli. Allora, forse, tutto sarà senza inganni, come nell’Età dell’Oro». Si parla di vino, ma con uno stile che fa già contenuto. «L’assoluta leggerezza della scrittura di Soldati – sono parole di Pier Paolo Pasolini – significa fraternità».

    Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini

    L’apocalisse modernista dopo il Boom

    Ma anche sul paesaggio Soldati, progressista-conservatore, ha le idee chiare e ragiona da esteta. Della foga edilizia dell’Italietta immemore e caotica che fa spazio all’eclettismo nella bengodi del Boom, scrive: «Ci pare di veder sorgere, sull’immemoriale ragnatela di questi vicoli, la peggiore delle profanazioni, l’abominio di case nuove costruite arieggiando all’antico: con falsi mattoni, false terracotte, false ceramiche falsi ferri battuti: polite hostarie, palazzotti residenziali per i ricchi, e magari nights gotici o rinascimentali. L’unica soluzione, forse sarebbe quella, semplice e poetica, ove l’area del bombardamento, ripulita dalle macerie più trite, e coltivata in un disordine naturale ma non eccessivo di fiori, cespugli ed erbe, circonda i ruderi del del campanile, che si levano così, con la loro grazia, magra e schietta: un’oasi di contemplazione, un monumento di doppia memoria per i cittadini del presente e dell’avvenire, facilmente e pericolosamente dimentichi di tutto il passato».

    A Soldati il tempo ha regalato almeno la fortuna di non vedere realizzata ovunque, in Calabria e in Italia, «la peggiore delle profanazioni» che paventava: la perdita della memoria, il gusto che si smorza e si abbassa al falso per assaggiare piacevolmente il peggio. In vino veritas.