Categoria: Cultura

  • Vedi Cosenza e poi muori: la città ammazza re

    Vedi Cosenza e poi muori: la città ammazza re

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    Gli storici cosentini hanno raccolto nei secoli narrazioni utili per dare solide fondamenta all’identità cittadina.
    Il bisogno di infondere l’orgoglio di appartenenza a una comunità, li ha spinti a volte a inventare un passato glorioso e mitico. I caratteri originali della città vengono sottolineati sin dalla sua fondazione.

    La “pastetta” degli dei

    Cosenza era stata voluta dagli dei, che l’avrebbero protetta e resa immortale. Il suo territorio era pieno di ricchezze e i fiumi, soprattutto il Crati, possedevano acque miracolose. La città aveva una posizione felice e, come la grande Roma, era circondata da sette colli a cui erano legate varie leggende.

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    La statua di donna Brettia, la leggendaria liberatrice di Cosenza

    Condottieri a Cosenza: in principio era Ercole

    Uno dei miti sulla fondazione di Cosenza narra che Brettio, figlio di Ercole e di una ninfa acquatica, giunse alla confluenza del Crati e del Busento dopo un giro estenuante per tutta l’Europa.
    L’illustre rampollo si innamorò del luogo e vi edificò una città, che chiamò Brettia. Altre storie raccontano di Brettia, o Bruzia, donna giovane e coraggiosa che aveva aperto le porte della fortezza a nobili guerrieri lucani. Incoronata regina, governò tanto saggiamente che il suo popolo per riconoscenza diede il suo nome alla città.

    Guerrieri fieri e tosti

    I cosentini, in quanto discendenti dalla stirpe di Ercole e dei Bruzi, erano un popolo di fieri guerrieri, orgogliosi della loro indipendenza e della loro patria. Tutti quelli che avevano osato sfidarli avevano pagato un caro prezzo.
    Tre grandi condottieri dell’antichità, come testimoniavano le fonti storiche, vi avevano trovato la morte: Alessandro il Molosso re d’Epiro, Alarico re dei Goti e Ibn Ahmad Ibrahim, più semplicemente Ibrahim II, emiro saraceno.

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    Monete con l’effige di Alessandro il Molosso

    Alessandro il Molosso: prima vittima dei Bruzi

    Tito Livio narra che l’esercito di Alessandro il Molosso, giunto al confine tra il territorio dei Bruzi e dei Lucani presso Pandosia, dovette ritirarsi su tre alture a causa delle continue piogge. In tal modo, divise le truppe che non potevano aiutarsi a vicenda. Due colonne consegnarono vilmente le armi e passarono al nemico.
    Ma Alessandro, con un’impresa ardita, ruppe l’accerchiamento e uccise il capo dei Lucani.
    Le acque impetuose del fiume costrinsero lui e i suoi uomini ad affrontare un guado tanto pericoloso che uno dei suoi soldati, impressionato dalla tumultuosità delle acque, imprecò chiamandolo Acheronte.

    Nell’udire questo nome, il Molosso rammentò una profezia di morte che legava il suo destino al mitico fiume. Incalzato dai nemici non poté far altro che avanzare nelle acque infide. A quel punto, un soldato lucano lo colpì al petto con una freccia ed egli, caduto da cavallo, fu trascinato dalla corrente presso il campo dei nemici.
    Il suo corpo fu brutalmente tagliato in due parti: una fu inviata a Cosenza e l’altra trattenuta per essere orrendamente oltraggiata.
    Mentre i miseri resti erano bersaglio di pietre e dardi, una donna, piangendo disperata, pregò quei soldati rabbiosi di fermarsi: il marito e due suoi figlioli, prigionieri dei nemici, non sarebbero mai stati liberati per lo scempio che si stava compiendo sulla salma del re.
    Metà del corpo del Molosso fu quindi seppellito a Cosenza, l’altra metà rimandata in patria alla compagna Cleopatra e alla sorella Olimpiade.

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    Il funerale di Alarico

    Alarico: il barbaro eccellente

    Il racconto della morte di Alarico risale alla cronaca di Jordanès. Il re visigoto, dopo avere saccheggiato Roma, era sceso in Calabria per raggiungere Reggio, imbarcarsi con i suoi uomini per occupare dapprima la Sicilia e poi procedere alla conquista dell’Africa.
    Ma una tempesta nello Stretto distrusse le navi e costrinse i Visigoti a tornare indietro. Alarico morì improvvisamente a Cosenza e i suoi uomini lo seppellirono sotto il letto del Busento con l’armatura, il cavallo, il tesoro e gli schiavi che avevano deviato le acque del fiume e scavato la fossa.

    Ibrahim II l’esotico

    La fine di Ibrahim II è tramandata da diversi storici arabi e latini.
    Nel settembre del 902, l’emiro, dopo avere espugnato Taormina, attraversò lo Stretto e, alla testa dei suoi uomini, iniziò ad occupare la Calabria.
    I saraceni non incontrarono particolare resistenza e il primo ottobre giunsero a Cosenza attestandosi sulle sponde del Crati.
    Dopo ventidue giorni d’assedio, il feroce principe cominciò a soffrire di una terribile dissenteria e morì nello stesso mese. I capitani del suo esercito offrirono il comando al nipote Ziyadat Allah, il quale decise di tornare in Sicilia per seppellire l’avo.

    Miti e realtà: la parola alle fonti

    Non abbiamo motivo di dubitare della presenza di questi condottieri a Cosenza. Tuttavia, le fonti su cui sono state ricostruite le loro vicende sono scarne, poco credibili e contraddittorie.
    Nonostante ciò, gli storici locali le hanno accettate e liberamente manipolate arrivando spesso a conclusioni diverse e fantasiose.
    L’impianto che caratterizza i racconti su Alessandro il Molosso, Alarico e Ibrahim è sempre lo stesso: condottieri spietati e sanguinari trovarono a Cosenza la strenua resistenza di coraggiosissimi cittadini. Se questa non bastava, interveniva direttamente il castigo divino.

    Soldati saraceni in un dipinto d’epoca

    Una storia per creduloni

    La trama intessuta dagli storici locali sugli ultimi giorni di vita dei tre grandi condottieri a Cosenza era semplice e ingenua.
    Il Molosso, Alarico e Ibrahim, giunti da lontano per compiere le loro scorrerie, una volta in città morivano.
    Erano guerrieri temuti e conosciuti per la loro brutalità e la loro ferocia.

    L’arabo sanguinario

    Di Ibrahim II, ad esempio, si raccontavano, storie di smisurata efferatezza.
    Quando alcuni astrologi gli predissero la morte per mano di un fanciullo, fece uccidere tutti i paggi della sua reggia.
    Venuto a conoscenza che un eunuco aveva rubato un suo fazzoletto di seta, non sapendo chi fosse l’autore del furto, fece sopprimere tutti e trecento gli eunuchi della sua corte.
    Accecato dalla gelosia, fracassò il cranio di un fanciullo che amava e gettò nella fornace i sei compagni con cui viveva.

    Un giorno, fece trafiggere trecento ribelli berberi, strappò i loro cuori con le proprie mani e li fece infilzare in una funicella appesa come un festone su una delle porte di Tunisi. Mandò a morte ciambellani, ministri, cortigiani, segretari e assistette personalmente all’esecuzione di otto suoi fratelli.
    Faceva strangolare, murare vive e decapitare mogli e concubine e sopprimere tutte le figlie femmine. Condannava a morte coloro che rifiutavano di convertirsi: fece tagliare in due un cristiano che non voleva abiurare e appendere le due metà su pali.
    Comandò che i giudei portassero sulle spalle una toppa bianca a forma di scimmia e i cristiani una a forma di maiale. Inoltre, gli stessi dovevano appendere sull’uscio delle loro case tavole con questi animali dipinti.

    Condottieri e propaganda a Cosenza

    Gli storici cosentini volevano comunicare con le storie del Molosso, Alarico e Ibrahim un messaggio chiaro: mentre nelle altre città del Sud gli abitanti terrorizzati fuggivano vilmente davanti all’invasore, i cosentini, degni figli dei fieri Bruzi, affrontavano i nemici senza paura.
    Cosenza era una città di uomini liberi, sempre pronti a battersi contro coloro che volevano soggiogarla e, quando le forze del nemico erano soverchianti, poteva contare sul buon Dio che faceva morire i capi degli invasori.
    Potenti eserciti che avevano espugnato grandi città e fortezze, giunti a Cosenza, capoluogo vulnerabile e povero di abitanti, venivano fermati. I cosentini non solo riuscivano a proteggere la loro città, ma l’intera penisola dalla violenza di uomini rozzi e malvagi.

  • Vampiri a San Nicola Arcella, l’horror che stregò Lovecraft

    Vampiri a San Nicola Arcella, l’horror che stregò Lovecraft

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    Con l’arrivo dell’estate, come ogni anno, lungo tutto il tratto nord della Statale 18, da Praia a mare fino a Cetraro, debutta l’ingorgo delle presenze turistiche anarchiche. Quelle che sfuggono a statistiche e controlli, che significano economia super-sommersa, inquinamento e abusivismo senza fine, ingorghi, bancarelle e lungomari che diventano una specie di Piedigrotta a tutte le ore del giorno e della notte.

    Chi può si gode la vista del golfo di Policastro. Magari da uno di quei villini fucsia o color pisello che occhieggiano dal mostruosissimo Villagio del Bridge, una catasta di spaventosi cottage in cemento con vista sulla baia di San Nicola Arcella, che leggenda dice costruito coi soldi di Maradona.

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    Lo scrittore Francis Marion Crawford

    Grand Tour: stregati dal nord della Calabria

    Niente come il turismo di massa è capace di marcare i cambiamenti nella cultura e nei costumi. Queste coste magnifiche della Calabria del Nord un tempo non così lontano dal nostro furono il luogo elettivo del mito un poco svenevole degli stranieri del Grand Tour a caccia di natura selvaggia e panorami mozzafiato.

    Qui scesero lo scozzese Craufurd Tait Ramage e il più noto e pruriginoso Norman Douglas. Ma, su tutti, da queste parti visse l’eccentrico e ricchissimo scrittore americano Francis Marion Crawford. Non un personaggio qualsiasi, anche se il nome di Crawford (1854-1909) oggi direbbe poco anche al lettore più erudito e smaliziato. Questo autore che compare solo in cataloghi antiquari e nelle ristampe di editori minori di serie horror e fantasy, fu un caso fra i più curiosi e insoliti nella letteratura popolare di fine Ottocento.

    Crawford fu uno scrittore di storie incredibilmente prolifico e versatile, di grande mestiere e di enorme successo. Ma anche uomo eccentrico e misterioso. Eccezionale poliglotta (parlava ben 11 lingue) studioso di culture esotiche ed etnografo sui generis, ma anche uomo di mondo, eccellente marinaio e viaggiatore avventuroso, cultore di esoterismo e scienze occulte, abile schermitore e architetto. Al culmine di un’esistenza intensa e stravagante, bruciata in soli 55 anni, i suoi 44 romanzi ottennero un successo eccezionale fra fine ‘800 e inizio ‘900.

    Autore del primo libro in inglese sulla mafia

    In vita la sua popolarità e la sua fortuna di narratore raggiunsero vette leggendarie. Già il suo primo romanzo, l’anglo-indiano Mr. Isaac (1882), ebbe un successo immediato di pubblico, e Crawford ne fece subito un seguito l’anno appresso, tradotto in 23 lingue. La sua carriera da allora fu un crescendo, fino alla morte improvvisa avvenuta nel 1909 in Italia, a Sorrento.

    Fu lui a scrivere il primo romanzo in inglese sulla mafia che si conosca, l’antropologico I padroni del Sud (The Rulers of the South, 1900). Crawford con la sua penna fosca e fantasiosa riuscì guadagnare grandi fortune, assieme all’ammirazione del pubblico e una celebrità che dava sui nervi. Con un best seller dopo l’altro era infatti il nababbo della letteratura d’evasione del primo Novecento.

    In barca con Joseph Conrad

    Innamorato del mare e della navigazione a vela, nelle sue crociere verso il Sud, Crawford spesso si faceva accompagnare dalla bellissima moglie americana Elizabeth Berdan, da Sarah Bernhardt (per la quale aveva scritto nel 1902 il dramma Francesca da Rimini), dal pittore danese Henry Brokmann-Knudsen e da pochi altri amici scrittori della colonia britannica, come Norman Douglas, che ricorderà Crawford nei suoi Biglietti da visita. Qualche volta nelle crociere verso questi luoghi del Sud lo accompagnò anche Joseph Conrad, con il quale il nostro, che era capitano di lungo corso della marina americana, si alternava al timone del «The Alda», uno schooner a tre alberi, «grande e bello» che lo stesso scrittore, esperto navigatore, pilotava dall’Atlantico a Sorrento, e poi giù fino a San Nicola Arcella.

    Fu durante uno di questi lunghi detour nautici verso il Sud che Crawford scoprì l’estremo arco meridionale dell’ampia insenatura delimitata da un costone di roccia che si apre tra l’isola di Dino e il Golfo di Policastro, a San Nicola Arcella, in Calabria.

    La torre dello scrittore

    Una vecchia torre bastionata che «spunta isolata da un uncino di roccia», squadrata e tetra, affrontava il mare e le tempeste, dominando un tratto di costa a quel tempo deserta e solitaria, dove «nel raggio di tre miglia non si scorge una sola casa». Il paesaggio lo ammaliò, e Crawford trovò proprio in questo scorcio di costa selvatica e disabitata una straordinaria fonte di ispirazione. Così come aveva fatto a Sorrento, decise di prendere dimora a San Nicola per stabilirsi armi e bagagli proprio nella torre che, abbandonata e quasi ridotta a rudere, regnava sulla baia.

    Per un canone irrisorio prese in affitto da un proprietario del posto, un certo Alario, quella tetra e spettacolare torre costiera costruita dagli spagnoli nel ‘500 per tenere lontani i pirati, e la restaurò. E fu proprio in questa sua strana residenza di elezione che Crawford, anno dopo anno, si rifugiò per scrivere quasi tutti i suoi più noti capolavori letterari. Vi scrisse storie di fantasmi, misteri e vampiri come La strega di Praga, La cuccetta superiore e Il teschio che urla.

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    Lo scrittore Francis Mario Crawford nel suo studio all’interno della torre di San Nicola Arcella

    Se ne stava rinchiuso per mesi nello scenografico bastione, isolato in un piccolo studio con biblioteca, vivendo in solitudine nella torre, tra le mura spoglie, abbandonate dai tempi degli spagnoli ai venti e alle sinistre dicerie di luogo stregato. Un posto davvero perfetto per immaginare le trame dei suoi racconti horror e fantasy. Lo stesso Crawford nei suoi diari ricorda lo stupore provato nello scoprire una sorgente d’acqua limpida sullo scoglio, buona da bere, proprio a fianco alla torre, e i successivi lavori di costruzione di un pozzo che spaventarono molto la popolazione del villaggio, estremamente superstiziosa riguardo alla fama che la torre aveva come luogo di calamità e di disgrazie.
    Nel 1911, due anni dopo la morte di Crawford, si pubblica postuma una raccolta di racconti sul soprannaturale intitolata For the Blood is the Life and other Stories. Tra questi otto racconti di «wandering ghosts», Perché il sangue è la vita, che dà il titolo alla raccolta, è ambientato tra le mura di questo eremo stregato e remoto sulle coste della vecchia Calabria amata da Crawford.

    Uno dei migliori racconti horror secondo Lovecraft

    Perché il sangue è la vita fu considerato in assoluto da H.P. Lovercraft uno dei migliori racconti di vampiri mai scritti. La sua particolarità sta nel fatto che la storia, scritta da Crawford forse nel 1908, un anno prima della sua morte, si svolge praticamente in presa diretta, proprio tra le stanze della torre di San Nicola, dal calco di personaggi locali, tra gli scenari naturali affascinanti e stregati di quel fortilizio lungamente abitato dall’«americano», che attinse per questa sorta di «ghotic tale» alla calabrese, a quella che pare fosse un’accreditata superstizione popolare di San Nicola.

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    Lo scrittore americano H. P. Lovecraft

    Vampiri a San Nicola Arcella

    Per queste particolarità “Perché il sangue è la vita” è, nel suo genere, un capolavoro, «one of the absolute best tales of the folkloric vampire of tradition» (H.P. Lovercraft), in mezzo a decine di altri racconti di vampiri che nei primi decenni del Novecento ripetevano stancamente i temi del Dracula letterario di Stoker. Qui Crawford sfata tutti i luoghi comuni che vogliono questi esseri soprannaturali infestare unicamente le nebbiose brughiere dell’Inghilterra o le montagne nere della Transilvania. Il plot fu dettato dalle numerose conoscenze folkloriche dello scrittore americano, che saprà mescolare le atmosfere gotiche con le credenze popolari del luogo.

    Il vecchio Alario del racconto altri non era che il padrone della torre affittata da Crawford, la leggenda del fantasma di Cristina era una superstizione raccolta di prima mano nel villaggio, i personaggi realistici, mentre il sinistro bastione di Crawford era considerato un luogo interdetto dai tabù locali. Un terribile omicidio fa da sfondo a una storia di passioni morbose e denaro. Due ladri trafugano il baule con la fortuna accumulata all’estero dal vecchio Alario, lasciando in povertà il figlio Angelo. Per farlo, uccidono una serva, la zingara Cristina, una misteriosa ragazza che li aveva visti nascondere il tesoro.

    Dopo la morte di Alario, Angelo, umiliato e povero, viene attirato dal fantasma di Cristina, trasformata in vampiro, con cui si congiunge nel luogo in cui i ladri l’hanno sepolta. Da viva Cristina, creatura misteriosa e sensuale che ha il fascino maledetto della zingara fatale, è sempre stata innamorata di Angelo, che però non l’ha mai corrisposta. Da morta, come vampira, è irresistibile, e Angelo si lascia vampirizzare eroticamente da lei, finché Antonio, «una piccola creatura simile a uno gnomo», il bizzarro servitore del narratore della storia (lo stesso Crawford), con l’aiuto del vecchio prete del villaggio combatteranno contro il maleficio di Cristina, che viene infine sconfitta e uccisa con il solito paletto spaccacuore.

    San Nicola Arcella, la torre e lo scrittore

    Nella torre di San Nicola, Crawford scrisse, tra l’altro, anche i capitoli finali dell’ultimo libro, The diva’s ruby, uno dei suoi romanzi più belli. Quasi a testimoniare che il suo lavoro di scrittore di storie romantiche e gotiche fosse davvero ben concluso solo in quel luogo, in un’atmosfera così carica di suggestioni imperscrutabili. Il manoscritto di The diva’s ruby, conservato alla Houghton Library dell’Harvard College (dono della figlia «Countess Eleonora Marion Crawford Rocca»), suggella la circostanza. Con solennità Crawford alla fine dell’opera impugnò la penna e, testimoniando il profondo legame instaurato con la sua torre alchemica, con i personaggi e i luoghi circostanti, lasciò che l’inchiostro vergasse la chiusa: Francis Marion Crawford, San Nicola Arcella, 6 Settembre 1907.

    La passeggiata di Crawford a San Nicola Arcella

    Oggi resta ben poco del paesaggio e dei luoghi incantati che «l’americano», aveva scelto per vivere e scrivere. Qui un tempo il paesaggio era quello del magnifico e intoccato tratto di costa che va da Castrocucco, su cui scendono a picco i monti di Maratea, fino a San Nicola Arcella. Un mare azzurrissimo dominato dall’isola di Dino, punteggiato da isolotti e scogli, con splendide insenature e la piccola baie dell’Arco Magno, che sovrasta una piccola laguna dove il mare è raffreddato da polle sorgive di acqua dolce. Sull’arco di accesso alla grotta passava, dove oggi è franato, una stretta mulattiera. Era la passeggiata di Crawford, sulla vecchia strada di collegamento tra la Taverna dell’Orco e la Fonte del Tufo. Sui luoghi immortalati tra le pagine fantasy del magico Crawford si compie la nemesi del contemporaneo.

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    Spiaggia dell’Arco magno a San Nicola Arcella

    La torre assediata: ville, discoteche e movida

    La torre è ormai assediata dai vicini disco-bar, dai club e dai quartierini di villette estive affastellate in ogni angolo sulla marina di San Nicola Arcella. Tutto intorno il paesaggio sottosopra dei villaggi turistici e delle seconde e terze case per il mare. Compresi i famosi villoni esagerati con annessa caletta privata dei politici calabresi che qui tengono banco nella stagione estiva, e vicino alla torre di Crawford le discoteche pompano a tutto volume le notti della movida locale. Sullo sperone di San Nicola oggi c’è un belvedere ridotto in condizioni di degrado tristissime.

    Le piante della macchia mediterranea sono secche o bruciate. Al loro posto un mucchio di spazzature e bottiglie di plastica, cartacce e rifiuti di ogni genere. La superstrada tirrenica, la SS 18, giorno e notte scarica sulle marine affollate tra Praia a Mare e Diamante, il caos di un turismo mordi e fuggi, immemore e fracassone. Altri vampiri, sfuggiti dalle trame dei suoi esorcismi letterari, qui hanno fatto scempio di quello che fu il paradiso di Crawford.

  • Gli “ottantotto folli”: processo ai fascisti nella Calabria liberata

    Gli “ottantotto folli”: processo ai fascisti nella Calabria liberata

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    Parliamo pure di resistenza al Sud. Ma, almeno, diamole un colore più preciso: il nero. Che può non piacere, ma corrisponde alla realtà: la Calabria, che pure ebbe figure di prima grandezza dell’antifascismo (il ministro Fausto Gullo, Pietro Mancini e don Luigi Nicoletti) fu in realtà la culla del neofascismo.
    E lo fu, praticamente, da subito. Lo testimonia un processo particolare e bizzarro, che vanta almeno un record: fu il primo maxiprocesso calabrese del dopoguerra.
    Vi finirono in ottantotto alla sbarra. Non erano mafiosi né delinquenti. Ma solo fascisti, disposti a restare tali a tutti i costi. E qualcuno lo pagarono.

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    Le truppe britanniche sbarcano a Reggio Calabria

    Bombe e volantini

    È la mattina del 28 ottobre 1943 e in Calabria la guerra è – più o meno – finita. Se ci fosse ancora il fascismo, anche i calabresi celebrerebbero il ventennale della marcia su Roma.
    Ma, sebbene il regime sia finito, c’è chi non si dà per vinto.
    Ad esempio, a Nicastro, dove gli abitanti trovano, al loro risveglio, parecchi volantini per strada. Contengono slogan inneggianti al duce, anzi Duce, e al fascismo.
    Un mese dopo capita di peggio. È la sera del 28 novembre ’43: due bombe ad alto potenziale devastano, sempre a Nicastro, le tipografie di Era Nuova e Nuova Calabria, due riviste antifasciste.
    Non finisce qui: nella stessa notte, un’altra bomba esplode contro l’ingresso della casa di Marcello Nicotera, ingegnere e tipografo e antifascista.
    Ma i bombaroli alzano il tiro: un altro ordigno finisce contro l’ufficio di stazione dei carabinieri.
    Il 1943 dei nicastresi termina con un’altra bomba, stavolta contro la caserma dei carabinieri.

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    Un giornale d’epoca racconta il processo agli ottantotto

    Fiori per concludere

    Anche i primi mesi del ’44 sono piuttosto animati, almeno nel Lametino. Tre attentati dinamitardi, per fortuna senza grosse conseguenze, colpiscono il Liceo e la sezione del Pci di Nicastro e il municipio di Sambiase.
    Tutto termina con episodio gentile: la notte del 23 marzo mani ignote depongono fiori sulle tombe dei soldati tedeschi seppelliti nel cimitero di Nicastro. Forse le stesse mani, qualche ora prima, hanno strappato i manifesti dell’Amgot, l’autorità di occupazione alleata.
    Neppure questa seconda data è un caso: il 23 marzo è l’anniversario della fondazione dei Fasci da combattimento.

    Allarmi son fascisti…

    I carabinieri non hanno quasi dubbi. Anzi, hanno un teorema. Intendiamoci: non ci vuol molto a capire che gli autori di quelle bravate sono fascisti irriducibili.
    Occorre solo capire quali.
    Forse con l’aiuto dei servizi segreti della Regia marina (e di alcuni settori dell’Oss, l’antenato della Cia), i militari ipotizzano due teste pensanti, una a Crotone l’altra a Cosenza.
    La prima appartiene al marchese Gaetano Morelli, che a dire il vero qualche indizio di troppo lo ha seminato.
    Infatti, gli uomini della Benemerita trovano in un fondo silano del nobiluomo un arsenale coi controfiocchi: undici moschetti calibro 91, caricatori più che in proporzione e due casse di bombe a mano. Tutte armi militari, trafugate da ufficiali dell’esercito.
    La seconda testa è particolare: quella di Luigi Filosa. Una testa così calda da meritare un approfondimento a sé.

    Il camerata rosso

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    Luigi Filosa. il fascista “rosso”

    Classe 1897 e longevo come tanti folli (è morto nel 1981) il cosentino Luigi Filosa resta tuttora un rebus politico.
    Repubblicano di matrice liberal-progressista, Filosa incontra il fascismo nel segno dell’eresia politica. Amico e sodale di Michele Bianchi, porta assieme a lui i fasci a Cosenza, poco meno di un anno dopo la nascita del partito.
    L’avvocato indossa la camicia nera, ma pensa in rosso: attacca i latifondisti e non risparmia critiche allo stesso Mussolini.
    È scettico persino sulle possibilità di prendere il potere a breve. Tuttavia, si adegua e guida le squadre cosentine durante la marcia su Roma e poi diventa federale di Cosenza.
    Viene silurato per le sue frequentazioni antifasciste (in particolare, col repubblicano Federico Adami e i comunisti Giulio Cesare Curcio e Salvatore Tancredi).
    Espulso dal partito, subisce prima l’ammonizione (1926) e poi, nel 1931, il confino, da cui torna l’anno successivo grazie all’amnistia concessa per il decennale della rivoluzione fascista.
    Per lui il crepuscolo mussoliniano è un ritorno di fiamma bizzarro: perché rischiare per un regime da cui si è subito tanto nel momento in cui questo non conta più? Perché mettersi in gioco quando le sanzioni ricevute potrebbero essere un salvacondotto per l’Italia del futuro?

    Il principe e la marchesa

    Gli organizzatori veri sono due aristocratici calabresi: il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara e sua moglie, la marchesa Maria de Seta, sposata in seconde nozze ed ex amante di Michele Bianchi.
    I due ricevono l’ordine da Carlo Scorza, il segretario del Pnf, su iniziativa di Mussolini in persona. Devono creare le Guardie ai Labari, un’organizzazione a metà tra la brigata partigiana e la Stay Behind, per dar fastidio agli Alleati nelle retrovie.
    I Pignatelli gestiscono la rete da Napoli, dove si dedicano allo spionaggio più spregiudicato. E imbastiscono un triplo gioco con i tedeschi, coi repubblichini e con l’Oss.
    Ma questa è un’altra storia.

    La retata dei big

    Oltre Filosa e Pignatelli, finiscono nella retata ottantotto persone. Tra queste, si segnalano alcuni notabili del fascismo cosentino.
    Sono Orazio Carratelli, ex direttore di Calabria Fascista e Rosario Macrì, sciarpa littorio e fiduciario del gruppo “Carmelo Rende”. Un paradosso riguarda Pietro Morrone, già federale di Cosenza dal ’30 al ’36 e fresco reduce di guerra: la cronologia fa di lui un “persecutore” di Filosa.
    Non si può proprio non menzionare, tra i big, una figura chiave della vita cosentina, anche durante la Prima Repubblica: Orlando Mazzotta.

    Un ricordo di don Orlando

    Orlando Mazzotta

    Nato a Lago nel 1916 da famiglia umile, Orlando Mazzotta è il classico self made man. Si diploma prima al Magistrale e poi, da privatista, al Classico, unica via di accesso per l’epoca alla facoltà di Giurisprudenza.
    La sua carriera è fatta di sacrifici e borse di studio. Aderisce al fascismo sin dall’Università (diventa, infatti, vicesegretario del Guf di Cosenza) e vi fa strada.
    All’arrivo degli Alleati, Mazzotta è capo ufficio stampa del partito a Cosenza e volontario della Milizia, cioè squadrista.
    Nel dopoguerra, diventa un avvocato di grido, è dirigente del Msi ed è tra gli animatori dell’Accademia Cosentina. Nella sua storia familiare c’è una piccola nemesi: suo figlio, Giuseppe, anche lui avvocato, è stato candidato sindaco di Cosenza nel ’93 da Rifondazione Comunista…

    La retata dei giovani

    In questa singolare operazione dei Carabinieri, vi sono molti giovani. Alcuni di loro diventeranno volti noti.
    È il caso, a Cosenza, di Teodoro Pastore, Beniamino Micciché ed Emilio Perfetti. Con loro, finisce in gattabuia Vittorio Bruni, sottotenente del 16esimo Reggimento di fanteria di stanza a Cosenza. Per i quattro l’accusa è di traffico d’armi.
    Ma, al di là dei fatti specifici, occorre ricordare un paradosso di questo primo maxiprocesso della Calabria del dopoguerra: i fascisti sperimentarono sulla propria pelle le leggi fascistissime di pubblica sicurezza e il Codice Rocco non ancora emendato.

    Un processo bizzarro ai fascisti

    Celebrato nella primavera del ’45, quando Mussolini si avvia alla sua tragica fine, il processo a carico degli ottantotto è pieno di stranezze e bizzarrie.
    Alcune di queste, forse, sono dovute alla scarsa volontà di condannare per davvero i reprobi.
    Molto si gioca sull’insufficienza di prove, che impedisce di ricostruire, ad esempio, i rapporti tra i Pignatelli e gli altri imputati. Altro, invece, è affidato all’estro dei difensori e degli imputati stessi, soccorsi a un certo punto, dagli antifascisti.

    Lo show di Filosa

    don Luigi Nicoletti

    Luigi Filosa, ad esempio, combina una delle sue guasconate: rinuncia alla difesa di Cribari, Fagiani e Goffredo (tre “principi del foro”) e decide di far da sé.
    La sua trovata non è proprio disprezzabile: riesuma il Filosa antifascista ed esibisce il casellario penale come un medagliere.
    La strategia riesce, anche perché intervengono a favore dell’avvocato tre big dell’antifascismo: Fortunato La Camera, leader regionale del Pci, Luigi Pappacorda, segretario provinciale del Partito d’Azione, e don Luigi Nicoletti, sacerdote e segretario della Dc. Un soccorso “rosso”, ma pure bianco, con tutti i crismi.

    La furbata di Morelli

    Gaetano Morelli, invece, se la prende coi carabinieri: lo avrebbero bastonato, dice, per farlo “cantare”.
    In pratica, avrebbe subitolo stesso trattamento che, fino a poco prima, gli squadristi riservavano a oppositori e dissidenti. Con una sola differenza: nessuno gli ha somministrato l’olio di ricino.
    I quattro giovani cosentini, invece, si accusano a vicenda: Perfetti accusa Pastore e quest’ultimo nega. Bruni, invece, ammette di aver rubacchiato delle pallottole, ma solo per andare a caccia. In questo caso, è evidente il tentativo della difesa di far saltare l’accusa di associazione a delinquere.

    Cantando Giovinezza

    L’8 aprile 1945 arriva il verdetto. Qualcuno la fa franca per non aver commesso il fatto. È il caso di Mazzotta, Carratelli, Macrì e Morrone.
    Altri le prendono. Come Luigi Filosa, che da neofascista riceve una condanna più pesante di quelle subite da antifascista: otto anni.
    La maggior parte degli accusati busca pene che vanno dai quattro ai dodici anni.
    Ma, notano i cronisti dell’epoca, tutti accolgono la sentenza con un’ennesima guasconata: non appena il presidente smette di leggere, cantano Giovinezza, l’inno del Ventennio ormai alle spalle.

    Togliatti libera tutti

    Ma un virtuosismo della difesa azzera tutto. Gli avvocati scovano un po’ di cavilli e vanno in Cassazione.
    Quest’ultima annulla e fa ripartire il processo. Che non si svolgerà mai, perché nel frattempo Togliatti ha lanciato la sua amnistia.
    La quale resta un esempio morale di pacificazione nazionale, non ci piove.
    Tuttavia, è anche un esempio di lottizzazione dei fascisti. La Dc, infatti, mira a burocrati e dirigenti che avevano fatto carriera nel Ventennio. Il Pci fa incetta di intellettuali e sindacalisti. Per gli altri ci sarà il Msi, nato come “casa rifugio” per gli impresentabili e, quindi, irriciclabili.
    Ma tant’è: anche questi compromessi sono alla base della nostra democrazia.

  • Il Venerdì nero e il miracolo di Taurianova

    Il Venerdì nero e il miracolo di Taurianova

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    «Mio fratello aveva vinto un viaggio-premio con la Findus, disse: vieni, mia moglie rinuncia, dobbiamo tirarci su. Andammo dunque a Rio de Janeiro: stavamo salendo verso il Cristo del Corcovado quando sentimmo alla radio la parola “Taurianova” E io mi sentii piccolo così».
    Negli anni ’90 la frase «Tanto si ammazzano fra loro» non prevedeva la presenza di innocenti.

    Il paese di don Ciccio Macrì detto Mazzetta, della sua Mercedes e dell’ospedale che sistemava tutti. Pertini che lo caccia via con un provvedimento senza precedenti, il consiglio comunale sciolto per mafia. E poi la faida, la Calabria buia, perduta, tribale. Oltre trent’anni dopo, è successo che alcuni parenti delle vittime – delle une e delle altre famiglie – hanno ideato e partecipato a un docufilm, presentato nella chiesa del Rosario. Persone da ascoltare – gente come noi, con gli occhiali, con i figli, ma bollati a vita – perché questo è un piccolo miracolo. Un segno di futuro, che va oltre la paura e il risentimento.

    Così hanno salvato i bambini delle faide 

    C’è una storia di quegli anni, rivenuta fuori da poco e raccontata anche da don Luigi Ciotti: a quel tempo, i bambini delle faide calabresi furono nascosti a casa di famiglie che si offrirono di crescerli, a rischio della vita. Quei bambini oggi sono uomini e donne salvate, magari hanno un altro nome, uno fa il musicista. Il male ha un appeal commerciale, il bene stufa: chi ha mai raccontato questa storia? Del resto viviamo in un paese in cui i libri noir sono più degli omicidi.

    Quel romanzo e la distruzione di una comunità

    Patria di Fernando Aramburu non è un noir ma una storia vera: letta, riletta, regalata. Parla del terrorismo dell’Eta nei Paesi Baschi, di innocenti ammazzati, di esistenze al buio e morti che camminano, di un sentimento che non è mai perdono, forse rimorso. Di posti chiusi, silenzi e omertà. Aramburu racconta la distruzione di una comunità, che è poi quello che accadde a Taurianova e ad altri paesi della Calabria. Con una rinascita che arriva all’ultima riga.
    Quindi, ecco il docufilm Il Venerdì nero: dopo trent’anni di silenzio che non sono passati invano. Insolita la location per la presentazione, ma girando per la Calabria, scoprirete che moltissime esperienze di riscatto, di lavoro e di resistenza partono da una molla, la fede. Non ci sono state solo processioni fermate sotto il balcone del boss, ma preti e, meno spesso, vescovi che si sono ribellati.

    Fu una faida feroce, i particolari macabri stanno dentro la letteratura della ‘ndrangheta e ne parlarono anche a Rio, come racconta il figlio e nipote di due vittime, oggi assessore. Ci furono decine di morti, fu colpita una ragazzina. La vendetta doveva arrivare ai figli dei figli, ai padri dei padri. Taurianova è più grande di Locri, ha il colore delle campagne. In certe strade senza nome ci si perde, ogni tanto il cippo di una Madonna e fiori finti, confini invisibili, e una varietà incredibile di case: esagerate, non-finite, dignitose. Ci sono tornato di recente per Agrifest, su invito di un gruppo di ragazzi conosciuti in un centro civico dove si fa formazione e accoglienza: lavorano per la buona e sostenibile agricoltura, prezzo giusto, salario giusto.
    Ma quanti anni sono passati, Taurianova? Nel ’91 per la mattanza scattò il coprifuoco.

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    L’articolo della Gazzetta del Sud sulla terribile strage di Taurianova, nota come il “Venerdì nero”

    Tutto quello che è rimosso, prima o poi riaffiora

    Il sociologo Mimmo Petullà, figlio di una vittima, dice nel film: tutto ciò che è rimosso, prima o poi riaffiora. «E non bisogna scadere nella commemorazione, lo scopo è quello di ricostruire una memoria collettiva. La ‘ndrangheta ha paura della memoria, ha bisogno di persone che non pensano». Dietro di lui, la foto del padre. I ragazzi del Pci appena diventato Pds scesero allora in piazza per dire basta, Giovanni Accardi dice: «Volevamo occupare il nostro spazio di giovani, non potevamo mettere la testa sotto la sabbia». Il Partito comunista aveva già i suoi martiri: Rocco Gatto, Giuseppe Valarioti, Giannino Losardo.

    «Noi non ci vendicheremo»

    Il Venerdì Nero, un anno di lavoro, è firmato da Nadia Macrì, che è direttrice di Taurianova Talk, e dal cugino Filippo Andreacchio. Il loro nonno si chiamava Antonio Alampi e fu colpito alle spalle, nella campagna verso Polistena. «La sua storia ha segnato la nostra famiglia: era tornato a piedi a casa dalla guerra, aveva visto l’orrore. Non sopportava le armi. Due settimane dopo uccisero nello stesso luogo un’altra persona, ci è rimasta sempre in testa l’ipotesi che nonno Antonio fosse stato colpito per sbaglio». In chiesa, Vincenzo “Cecé” Alampi, suo figlio, si alzò in piedi per dire che no, loro non avrebbero reagito. «Andiamo avanti, non ci vendichiamo» disse. Poi è diventato direttore della Caritas diocesana. Oggi aggiunge: «Non siamo rimasti intrappolati dalle ragioni del passato».

    Nadia Macrì era bimba a quei funerali e da allora le ronza in testa quella frase di Peppino Impastato: «La mafia è una montagna di merda». Forse questo film è una forma di perdono? «Nessuno ce lo ha mai chiesto. Più che perdonare, mi viene in mente il verbo ricominciare».
    La voce della cronaca nera è di un carabiniere, il maresciallo maggiore Salvatore Barranco, che guida la caserma della cittadina. L’elenco dei morti è speculare a quello di chi è finito in carcere, di chi si è pentito. «Nessuno ci ha detto no» – commenta Nadia Macrì: «Si sono fidati tutti».
    Angela Napoli, parlamentare del centrodestra che finì sotto scorta per le sue denunce, ricorda che allora non si parlava di criminalità nelle scuole: la consapevolezza arrivò dopo le stragi del ’92. Ma Taurianova è stata più lenta di altri paesi.

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    Angela Napoli, ex parlamentare del centrodestra e membro della Commissione Antimafia

    Quel giorno mio padre doveva andare dai professori

    Massimo Grimaldi, assessore alla Legalità e allo spettacolo di una giunta in teoria leghista – per l’influenza dell’ex presidente regionale facente funzione Nino Spirlì – in pratica ormai civica, non trattiene le lacrime. «Fecero uscire mio padre e mio zio dal negozio, fu un’esecuzione. Quel giorno papà doveva andare al colloquio con i professori. Se sai che ha sbagliato, pensi: se l’è cercata. Non ho nemmeno questa consolazione».
    C’è il viceparroco di Rosarno, don Giovanni Rigoli, che ha fatto la tesi sullo scioglimento dei comuni per mafia. Ricorda l’arciprete Muscari-Tomaioli, che stampò un manifesto dirompente e coraggioso: «Fermatevi e siate maledetti da Dio. Io non vi conosco, ma con quale coraggio vi dichiarate fedeli della Madonna della Montagna, se non risparmiate nemmeno una bambina di tredici anni». La Madonna di Polsi, la devozione e “Il Crimine”, citata in mille ordinanze.

    Alla proiezione mancava il sindaco

    Alla proiezione non c’era proprio tutto il paese, ma quasi: mancava il sindaco, c’erano tutti gli assessori, maggioranza e opposizione, le associazioni, di sicuro qualcuno non è venuto perché ha già versato troppe lacrime, il vescovo ha mandato un messaggio. Ma la chiesa del Rosario era piena, Nadia è stata felice di vedere tanta gente. In molti non avranno dormito, una carrellata di facce sarebbe stata una bella scena per il film, che presto sarà disponibile su YouTube. Merita di finire in qualche Festival, non è solo la storia di Taurianova ma di anni dominati dalla paura e dal dolore, di certi nostri fantasmi. E di una nuova generazione che non ne vuole avere più.

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    La proiezione del docufilm nella chiesa del Rosario a Taurianova
  • Parchi di Calabria: quei tre paradisi a un passo dal cielo

    Parchi di Calabria: quei tre paradisi a un passo dal cielo

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    Il Piano di Gaudolino è una prateria chiusa tra Serra del Prete e il monte Pollino. Norman Douglas la percorse sul dorso di un mulo per giungere a Morano. Probabilmente attraversò la via dei Moranesi, ripido sentiero tracciato tra le rocce, in passato – ma ancora oggi – usato per trasferire il bestiame dai pascoli bassi a quelli di alta quota. Oggi quel tracciato resta uno tra i più impegnativi tra quelli affrontati dagli escursionisti. Nemmeno per Douglas deve essere stato comodo restare saldamente sulla groppa del mulo scendendo da lì. Tuttavia il viaggiatore inglese nelle sue pagine parla di un «senso di pace» attraversando quello che oggi è il parco più grande d’Italia.

    Piano di Gaudolino, escursionisti nella neve

    Il turismo calabrese è turismo di mare, dato inevitabile considerati gli ottocento chilometri di costa. Ma nelle aree interne si cela un’anima all’insegna della wilderness. Il termine inglese dovrebbe indicare un’area selvaggia, ma non rappresenta autenticamente quei luoghi, che sarebbe forse più opportuno definire “arcaici”.
    Oggi questa residua arcaicità è sotto la tutela di tre parchi, quello del Pollino, della Sila e dell’Aspromonte.

    Aspromonte, le cascate del Maesano

    Parchi di Calabria: il più antico

    Quello più antico è quello della Sila, le cui radici affondano nel lontanissimo 1923. Un anno dopo l’avvento del Fascismo qualcuno aveva guardato alla Calabria come un’area ricca di biodiversità. Quelli erano tempi in cui forse quel concetto non era nemmeno stato pensato, né si parlava di tutela ambientale. Anzi, la Sila conosceva un saccheggio boschivo intenso. Eppure Francesco Curcio, presidente del Parco della Sila ed ex ufficiale del Corpo Forestale, racconta che storia parte da lì. Era evidente che l’ambiente non fosse una priorità del regime e infatti di quel proposito non si fece nulla. Ma poi fu ripreso «nel 1968, quando nasce il Parco della Calabria, rappresentato da tre aree protette, una per la provincia di Cosenza, una di Catanzaro e infine quella di Reggio».

    Sila, il lago Arvo

    Queste aree solo successivamente assunsero il ruolo di parchi dell’Aspromonte e della Sila. «Oggi il parco si estende per circa 74 mila ettari, prevalentemente boschivi e riconosciuti come area protetta inclusa dall’Unesco tra quelle classificate “Mab” (Man and biosfhere). Al suo interno sono stati classificate ben 175 specie di invertebrati autoctone» spiega l’ex colonello della Forestale.

    La Sila innevata

    Dei tre parchi quello silano è forse quello maggiormente antropizzato. Le ragioni vanno dalla caratteristiche orografiche, che lo rendono più facile sul piano escursionistico, a una maggiore e più frequentata rete stradale. Questo per un verso è un potenziale vantaggio, portando maggiore afflusso turistico. Ma pone anche il problema di coniugare la massiccia presenza dell’uomo con la tutela dei territori. Curcio ne è consapevole e spiega come soltanto con la vigilanza e l’educazione del turista si possa promuovere un turismo sostenibile.

    I boschi assediati dalla processionaria

    A minacciare i boschi della Sila però non è solo il turismo selvaggio, ma anche la presenza significativa della processionaria. Curcio prova a stemperare la preoccupazione, limitandosi a citare i potenziali pericoli per chi toccasse le larve dell’insetto che si nutre degli aghi dei pini. Ma aggiunge di aver sollecitato la Regione a prendere provvedimenti. E in effetti l’assessore Gallo conferma un massiccio impegno di «ben 4 milioni di euro per un piano concordato con le università e gli agronomi, affidato alle maestranze di Calabria Verde che sono state adeguatamente formate». Il piano d’attacco per adesso prevede delle «trappole poste alla base dei pini per raccogliere le larve e nei mesi successivi l’impiego di un prodotto biologico da spargere con le autobotti o gli elicotteri». Lo stesso Gallo, però, cautamente ammette che per vedere risultati ci vorrà parecchio tempo.

    Processionaria in Sila

    Parchi di Calabria: il presidente più longevo

    Domenico Pappaterra è il presidente del parco del Pollino. Guida l’ente sin da 2007 e questo fa di lui il presidente più “vecchio” delle aree protette calabresi. Il Pollino è il parco più grande d’Italia, con 56 comuni, tre province e due regioni: la Basilicata e la Calabria. E Pappaterra rivendica d’essere riuscito a costruire nel tempo una identità unica del parco, «superando le mille difficoltà derivanti dalla sovrapposizioni di competenze di enti differenti». L’area si stende dalle potenti montagne dell’Orsomarso, che si affacciano sul Tirreno, fino alle gole che sfiorano lo Ionio. Il parco è patrimonio Unesco per quanto riguarda le faggete vetuste e al suo interno comprende cinque cime oltre i duemila metri.

    Pini loricati “a guardia” del Pollino innevato

    Il Pollino ha una sua sacralità, fatta di silenzi e luoghi nei quali puoi camminare per una intera giornata senza incontrare altre persone. I pini loricati che si ergono come sentinelle sui crinali imbiancati d’inverno, oppure si stagliano contro al sole come fossili testimoni di epoche lontane. Pappaterra orgogliosamente ricorda che il parco è incluso nella Carta del turismo sostenibile, certificazione rilasciata a dall’Europark federation, ente che rappresenta tutti i parchi europei. Il futuro, spiega, si gioca sulla formazione degli operatori che potranno poi offrire un servizio di guida ai visitatori, mentre ultimamente «il presidente Draghi ha portato alla conferenza dei parchi di Glasgow l’esperienza virtuosa del Pollino».

    La natura ai piedi del Pollino

    Dove osano le aquile

    La pista da sci di Gambarie è breve, ma così ripida che pare che alla fine ti tuffi nello Stretto. L’Aspromonte è un parco difficile, di quelli che esigono buone gambe e ottimo fiato, ma visitarlo significa immergersi in un luogo separato dal tempo, con gole profonde, fiumare antiche e cascate impetuose. Il presidente è Leo Autelitano, che ricorda le faggete vetuste, patrimonio Unesco, gli 89 siti di interesse geologico e naturalistico, l’impegno profuso nel riaprire i centri di accoglienza e il patrimonio faunistico del parco, con l’aquila del Bonelli «che del Parco è il simbolo», il lupo, il capriolo.

    Aspromonte, fiumara Amendolea

    Al fuoco, al fuoco

    L’estate è la stagione del fuoco, dei boschi dati alle fiamme. La Sila forse è l’area boschiva meno interessata, ma Pollino e Aspromonte fanno i conti ogni anno con questo appuntamento. L’opera di spegnimento degli incendi è competenza regionale e specificamente di Calabria Verde. I parchi, però, si sono organizzati in modo omogeneo con squadre di volontari che hanno il compito segnalare tempestivamente gli inneschi.

    Quel che resta degli alberi bruciati in Aspromonte nell’estate 2021

    Sul Pollino le squadre sono 22, dotate di furgoni utilizzabili per un primo intervento, mentre diverse telecamere sono piazzate per tenere sotto controllo le aree a maggiore rischio. Lo stesso accade negli altri parchi, impiegando risorse destinate alle associazioni che con il loro impegno svolgono il compito di vigilanza. In Sila nel 2021 ci sono stati 16 inneschi, 15 dei quali soffocati sul nascere, mentre sul Pollino da quest’anno saranno usati anche velivoli ultraleggeri per monitorare le aree.

    Le guide nei parchi della Calabria

    Chi condusse Douglas attraverso il suo viaggio calabrese oggi sarebbe una guida. Qualcuno, cioè, in grado di muoversi in sicurezza tra i terreni impervi e raccontare al viaggiatore le storie e i costumi del luogo. Oggi i parchi hanno le loro guide e Ivan Vigna, ex coordinatore delle guide della Sila spiega che il primo corso di formazione risale al 2009. Una guida deve conoscere tutti gli aspetti del territorio, quelli naturalistici ma anche relativi alle tradizioni popolari. Dai loro racconti emerge una potenzialità trascurata, quella del turismo montano, figlio meno coccolato delle località marine.

    Rafting sul fiume Lao

    Eppure «la montagna sarebbe in grado di andare oltre il limite dell’alta stagione, vivificando attività nel corso dell’intero anno», spiega Luca Lombardi, coordinatore guide dell’Aspromonte. Una posizione non diversa da quella rappresentata da Andrea Vacchiano, guida del Pollino, per il quale è necessario potenziare le infrastrutture, garantire la praticabilità delle strade anche d’inverno, per dare impulso al turismo invernale, che sul Pollino fin qui è stato penalizzato. Lombardi si spinge oltre, lamentando l’assenza di una reale interlocuzione con le istituzioni regionali, così come di una legge regionale a tutela della professione delle guide. Ma, soprattutto, Lombardi suggerisce un diverso punto di vista. Per lui «parlare di turismo delle aree montane vuol dire parlare dei servizi essenziali, di strade, scuole, uffici postali, altrimenti i paesi si svuoteranno e noi faremo turismo tra case fantasma». Perché una montagna spopolata è una montagna che muore.

    Cavalli nel Parco nazionale del Pollino
  • Sognando la Calabrifornia: l’esercito del surf sulle onde di Jonio e Tirreno

    Sognando la Calabrifornia: l’esercito del surf sulle onde di Jonio e Tirreno

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    Ne ha fatta di strada quest’onda. È nata sulle coste africane e ha viaggiato per migliaia di chilometri prima di arrivare con tutta la sua potenza ad impattare qui, sul litorale calabrese, e farsi cavalcare dalle tavole dei surfisti che l’hanno attesa e sognata per giorni.
    Sono circa trecento i surfisti in Calabria. Impossibile però contarli uno ad uno, lasciano le loro tracce solo nei gruppi whatsapp e sulle pagine social che documentano memorabili giornate in mare. È risaputa la ritrosia a rivelare coordinate precise riguardo alle spiagge su cui arrivano le onde buone, per salvaguardarle dal sovraffollamento. Perché se si è in troppi a lanciarsi in acqua non ci si diverte, o peggio, si rischia di farsi male.

    Il sogno di essere parte della natura

    «Ci studiamo le previsioni del tempo, cerchiamo di conoscere con largo anticipo l’arrivo della mareggiata e una volta individuata ci prepariamo a raggiungerla”. Antonio Ciliberto, più noto come Tony Cili, 34enne di Crotone, è un vero waterman, un appassionato di sport acquatici. Lo si può vedere su Instagram planare sulle onde, felice come un bambino, perché il surfista più bravo è quello che si diverte di più.

    «Da piccolo vedevo nei film i surfisti e sognavo di diventare uno di loro. Adoro le emozioni che questo sport riesce a darmi, adoro sentirmi parte della natura». Ci vuole il fisico, certo, ma questa è un’attività che aiuta a mantenersi in forma. Fino a quando si può praticare? «Spero di poter continuare a surfare fino a 100 anni», scherza Tony. «Del resto in altri paesi mi è capitato di vedere 85enni ancora energici».

    Sport, ma anche stile di vita

    Per entrare nel mondo del surf bisogna familiarizzare con lo slang e comprendere i riti e i tempi di una passione che non è semplicemente sport, ma stile di vita. La Calabria, con i suoi 800 km di coste bagnate dal mar Ionio e dal mar Tirreno offre “spot” con onde di qualità da est a ovest e una gamma inesauribile di scorci da scoprire. Bovalino, Copanello, Squillace, Gizzeria, Roseto Capo Spulico sono solo alcune delle località predilette da chi fa surf. E ogni spiaggia ha un nome in codice a prova di intercettazione: Munnizza, Madami, Certi campetti, Lavazza, La torre, Le serre, Lo scoglio, Zinno point, Copa, Il traliccio, Il parcheggio e molti altri.

    Le stagioni del surf in Calabria

    Da ottobre ai primi di aprile – proprio mentre le mareggiate minacciano le linee ferroviarie e i centri abitati – i surfisti s’infilano le loro mute e si lanciano sulle onde. Si ritrovano dalla sera prima, dormono nei pressi della spiaggia in macchina, nei camper, nei furgoni, aspettano l’alba per scrutare l’orizzonte, pronti a tuffarsi. Da maggio lo Jonio va “in letargo”, mentre il Tirreno riceve mareggiate anche nei mesi estivi.

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    Mimmo Gaglianese, uno dei pionieri del surf in Calabria

    In Calabria il surf è arrivato in ritardo rispetto a quanto accaduto nel resto d’Italia. Le prime tavole sono comparse negli anni ’90 e oggi in acqua cominciano ad entrare le seconde generazioni. Come nel caso di Mimmo Gaglianese, uno dei pionieri, che ha trasmesso al figlio la sua grande passione. Molto è cambiato in questi anni in cui le spiagge più ambite sono state “colonizzate” da surfisti che arrivano da altre regioni, in particolare Lazio, Campania e Puglia.

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    La passione di suo padre Mimmo ha contagiato anche Marco Gaglianese, qui in azione

    Un’opportunità per il turismo

    Dietro il surf c’è un potenziale turistico che per il momento in Calabria viene ignorato. «Potrebbe essere strategico per allungare la stagione da ottobre ai primi di maggio: praticamente dove finisce l’interesse del turista tradizionale comincia quello del surfista». A spiegarlo è Gianpaolo De Paola, cosentino, in arte Gizmo. «Ma bisognerebbe preservare i punti costieri dove riceviamo onde di qualità. Servirebbe quindi un cambio di passo rispetto a quello che la politica ha fatto fino ad oggi». I pennelli, le famigerate T, spezzano il moto ondoso oltre a creare danni alle spiagge. «Se non ci fossero interessi che evidentemente remano contro, le barriere sommerse potrebbero rappresentare un’alternativa rispettosa della linea costiera. Noi ci spostiamo. Viaggiamo – continua De Paola – e constatiamo come le altre regioni portino avanti esperienze virtuose che risolvono il problema dell’erosione costiera ma hanno un impatto positivo sul turismo».

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    Guerino “Papà” Preite osserva le onde prima di entrare in acqua

    La grande famiglia del surf in Calabria

    Con gli anni la “comunità” dei surfisti calabresi ha imparato a condividere informazioni, esperienza e – vincendo la tradizionale diffidenza – persino le spiagge. «Siamo una grande famiglia. Rimaniamo in contatto attraverso i social e ci aggiorniamo sulle previsioni del tempo. Al momento giusto ci diamo appuntamento e in attesa che arrivi la mareggiata trascorriamo le notti insieme, parcheggiamo vicini i nostri camper o i furgoni e magari accendiamo il barbecue», racconta Gianpaolo.

    All’appuntamento con le onde bisogna arrivare preparati, non basta la prestanza fisica, la caratteristica fondamentale da possedere si chiama acquaticità. E poi bisogna conoscere le correnti e imparare a gestire la paura che in certi momenti – quando ti trovi nel mezzo di onde alte due metri – toglie il fiato. «Sottostimare le dimensioni di una mareggiata o sovrastimare le proprie capacità può mettere a rischio la vita», chiarisce De Paola.

    L’adrenalina vince la paura

    A lui è successo. «Mi trovavo a Guardia Piemontese, un’onda anomala alta circa quattro o forse cinque metri mi ha seppellito. Quando sono riuscito a risalire per prendere fiato ho visto arrivare un treno di altre onde che mi hanno di nuovo mandato giù. Mi ci è voluto parecchio per riprendermi. Sono esperienze di puro terrore che chi pratica surf conosce bene, ma è l’adrenalina che ti fa amare questo sport e ti fa pensare: bene, non sono morto. Voglio rimettermi alla prova». Dopo esperienze di questo tipo si esce dal mare un po’ ammaccati, ma spesso ad avere la peggio sono le tavole che si lesionano a contatto con il fondale.

    Gianpaolo “Gizmo” De Paola

    Tavole da surf made in Calabria

    Francesco Cerra vive a Catanzaro ed è uno shaper, ovvero realizza artigianalmente tavole da surf ed è l’unico in Calabria. «Ho cominciato nel 2017. Avevo voglia di riprodurre una tavola a cui ero molto affezionato – spiega – e che si era rotta. Ho imparato a farlo da me, da autodidatta». È il fondatore dell’associazione Copa Bay Surf di Squillace che oltre a riunire un nutrito gruppo di surfisti, organizza corsi e promuove attività sociali e ambientali come la pulizia delle spiagge e della pineta. «Costruisco e riparo le tavole per i miei amici. È un modo per sentirmi ancora di più parte di questa comunità di surfisti».

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    Francesco Cerra è l’unico in Calabria a realizzare tavole da surf

    I prezzi? Modici: “Non è il mio lavoro principale per cui l’obiettivo non è certo guadagnare tanto, ma rientrare nelle spese per l’acquisto dei materiali: si aggirano tra 350 e 400 euro. Nei negozi specializzati le tavole arrivano a costare da 500 fino a 900 euro». Anche Cerra s’interroga spesso sulle potenzialità del surf in Calabria. «Siamo una regione baciata da mari diversi e onde di qualità che ormai già da anni attirano appassionati da altre parti d’Italia. Sarebbe bello riuscire a rendere tutto questo una opportunità di sviluppo turistico».

    La lezione delle mareggiate

    Dall’album dei ricordi escono le foto più belle degli ultimi anni, giornate indimenticabili che hanno sempre lo sfondo blu del mare in tempesta. «Il 2014 è stato un anno perfetto – racconta emozionato – con tante mareggiate sullo Ionio provenienti da sud-est. Ricordo una giornata a Bova, era Pasquetta, in modo del tutto inatteso ci siamo ritrovati in tanti a surfare e poi a festeggiare assieme». Questa dimensione della socialità è certamente tra le cose da preservare, nello sport e nella vita. Che si rincorrono sempre, proprio come le onde migliori.
    Perché il surf è una grande metafora: attendi il momento giusto, cavalca l’onda, prendi con filosofia anche le sconfitte. Sembrava solo una mareggiata e invece era una lezione di vita.

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    Antonio “Tony Cili” Ciliberto
  • Rendano torna a casa: un festival per omaggiare la sua musica

    Rendano torna a casa: un festival per omaggiare la sua musica

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    Al via la seconda edizione del Festival internazionale “Alfonso Rendano”, tre serate di musica che si svolgeranno a Cosenza, a Villa Rendano, dal 20 al 22 giugno.
    L’iniziativa, ideata e promossa dalla Fondazione Attilio e Elena Giuliani, è diretta da Daniela Roma, musicista calabrese residente negli Usa e massima interprete mondiale della musica di Rendano.

    Perchè un festival dedicato ad Alfonso Rendano

    Alfonso Rendano è stato il musicista calabrese più influente di tutti i tempi. Pianista di enorme talento e di grandi capacità tecniche, è il protagonista di una vicenda artistica di livello mondiale.

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    Alfonso Rendano

    Al riguardo, anche i non esperti di musica classica, legano il suo nome almeno a un’innovazione tecnica importantissima: il terzo pedale del pianoforte.
    L’avventura artistica di Rendano inizia precocemente a Carolei, il paese alle porte di Cosenza, dove nasce nel 1855.
    Nono di dodici figli, il piccolo Alfonso stupisce i compaesani coi primi brani suonati “a orecchio” sulla spinetta della chiesa. Da qui allo studio vero e proprio della musica, il passo è stato breve.

    Da Cosenza a Napoli

    A soli nove anni, il piccolo Alfonso sostiene brillantemente l’esame di ammissione al Regio collegio musicale di San Pietro A Maiella (Napoli).
    Lì si fa stimare dal direttore Saverio Mercadante e diventa allievo di Sigismund Thalberg, che lo presenta a uno dei massimi compositori europei dell’epoca: Gioacchino Rossini. Quest’ultimo gli fa ottenere una borsa di studio governativa, che apre al giovane pianista le porte dell’Europa che conta. A partire da Parigi.

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    Daniela Roma in azione al pianoforte

    Un virtuoso in giro per l’Europa

    Nella capitale francese il giovane pianista si specializza con Georges Mathias, allievo a sua volta di Fryderyk Chopin.
    Fa il pieno di successi e parte per una tournée in Inghilterra, dove resta per tutto il 1870.
    Poi torna nel Continente, per la precisione a Lipsia, dove continua a specializzarsi.
    Rientra in Italia nel 1874 e si dedica ai concerti. Fa frequenti puntate all’estero, soprattutto a Vienna, dove fa amicizia con Franz Listz. Proprio assieme a Listz, Rendano esegue alla Corte granducale di Weimar il suo Concerto per pianoforte.

    In Italia e poi in Calabria

    Nel 1880, Rendano sposa la pianista milanese Antonietta Trucco, da cui ha tre figli.
    Si dedica ai concerti e all’insegnamento. E, nel 1886, ottiene la cattedra al Conservatorio di Napoli, che abbandona poco dopo in polemica con l’estabilishment dell’epoca.
    Nel 1892 rientra a Cosenza per risolvere i problemi economici della sua famiglia e si dedica alla composizione. Risale a questo periodo Consuelo, la sua opera lirica tratta da un romanzo di George Sand su libretto di Francesco Cimmino.
    Poi, nel 1901 si sposta a Napoli e, da lì, nella Capitale, dove risiede stabilmente fino alla morte, avvenuta nel 1931.
    Tiene il suo ultimo concerto al Teatro Valle di Roma nel 1925.

    Festival Rendano: apre Leslie Howard

    La seconda edizione del Festival internazionale “Alfonso Rendano” inizia il 20 giugno alle 20 con il concerto di Leslie Howard, pianista, compositore e musicologo australiano.
    Howard è famoso per essere l’unico pianista ad aver inciso tutta la produzione di Franz Listz. Questo progetto musicale ha avuto finora trecento anteprime mondiali.

    Parla il pronipote, suona il Duo Resonance

    La serata del 21 giugno è dedicata ai compositori calabresi. Si inizia alle 19 con un dialogo tra Marco Ruffolo, giornalista di Repubblica e pronipote di Alfonso Rendano, e Daniela Roma, la quale suonerà alcuni brani del celebre artta.
    Seguirà, alle 20, il concerto del Duo Resonance, composto dal soprano Teresa Cardace e dalla pianista Angela Floccari.

    Festival Rendano: chiude il Trio Dmitrij

    Protagonista della serata conclusiva (22 giugno), il Trio Dmitrij, composto da Henry Domenico Durante (violino), Francesco Alessandro De Felice (violoncello) e Michele Sampaolesi (pianoforte).
    Tutti gli artisti eseguiranno, nei loro repertori, dei brani di Alfonso Rendano, in omaggio al padrone di casa.

    È possibile acquistare i biglietti presso Inprimafila o direttamente a Villa Rendano.

  • L’artista e il calciatore: la cultura che fa rete a Cosenza

    L’artista e il calciatore: la cultura che fa rete a Cosenza

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    L’artista e il calciatore. Potrebbe essere il titolo di una canzone di De Gregori ma lui ci avrebbe stracciati con la fantasia.
    La coppia mica tanto per caso è composta da Adele Ceraudo e Franco Florio. Lei performer che ha fatto del disegno con la Bic e dell’uso espressivo del corpo una cifra stilistica unica. Lui ex giocatore prima del Cosenza, poi del Monza e del Treviso, e ora allenatore e imprenditore.
    Entrambi cosentini, li ha fatti incontrare la passione per l’arte. Insieme hanno creato un nuovo spazio nella città dei bruzi: Ac, galleria e laboratorio dell’artista (unici nel Mezzogiorno) con l’ambizione di diventare anche centro culturale e punto di riferimento per artisti che vivono, operano o transitano all’ombra dell’elmo.

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    Opere di Adele Ceraudo in mostra nella galleria Ac

    Florio: allenatore e collezionista

    La loro amicizia è nata sulla scorta della bellezza. «Mi sono innamorato delle opere di Adele, sono davvero potenti», racconta Florio, che ha da poco concluso l’esperienza di coach del Miami United Fc.

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    Franco Florio (primo da sinistra) con la maglia del Cosenza sfida la Lazio di Pavel Nedved in Coppa Italia

    Ora è vice allenatore del Crotone e gestisce un’impresa di costruzioni. Così innamorato che è diventato un collezionista dell’artista che vive e lavora a Milano.
    Alcuni dei disegni di “Lady Bic” hanno arricchito la collezione privata dell’atleta, che ha ricavato una galleria-atelier nel magazzino di un palazzo di famiglia, su corso Umberto, parallelo a via Rivocati. «Fin da bambino adoro andare nei musei e alle mostre, vedere opere d’arte, conoscere artisti. Ho una passione per le cose belle. Mi piace conoscere gli artisti e parlare d’arte con loro. Questo ti dà la possibilità di vedere le cose dal suo punto di vista e questo mi emoziona».

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    Adele Ceraudo e Franco Florio

    I corpi femminili e la censura

    Il punto di vista di Adele Ceraudo è estremamente femminile. Modella di sé stessa, il suo corpo è la matrice su cui compone opere di grande espressività. «Il corpo è il luogo della memoria, delle nostre cicatrici. Per me è il vero specchio dell’anima, dice esattamente chi siamo. Credo che il corpo sia non solo un tempio ma anche una forma di racconto». Così prosegue Ceraudo, che è stata ambasciatrice dell’arte italiana a Melbourne e ha esposto all’estero, oltre che in Australia, in Turchia, Giappone e Spagna.
    Al centro della sua arte sono la bellezza, appunto, e la forza femminile, che approdano su diversi supporti partendo dalle foto (di cui Ceraudo è interprete), passando per il disegno a inchiostro e poi attraverso la stampa digitale.

    Un nudo di Adele Ceraudo

    I soggetti sono spesso reinterpretazioni in chiave femminile di opere famose, molte rinascimentali (La David o La Donna vitruviana), anche d’ispirazione biblica (La Crista).
    Corpi molto realistici e potenti, spesso incappati nelle maglie della censura. «A Roma ho dovuto rinunciare ad una mostra importante perché la Crista non era gradita. In una mostra a Napoli mi hanno censurato alcune opere di natura biblica, oltre alla Crista, la Pìetas. Poi la censura sui social network è abbastanza talebana: io faccio nudi e mi bloccano continuamente per i capezzoli. Devo sempre metterci sopra le crocine».

    Ceraudo: l’arte come medicina

    «La mia arte è un modo per dire che le donne sono forti, che i loro corpi sono sacri», spiega Ceraudo, che usa la sua arte non solo come mezzo di comunicazione ma soprattutto come terapia.
    Disegnare è stato il suo modo per trasformare il dolore. Abusata da bambina, bullizzata a scuola, ha fatto entrare la droga nella sua vita. Impugnare la Bic e diventare artista è stata la sua rivincita sulla vita. Adele non ha dubbi: «L’arte è stata la mia medicina». Ma anche un atto di fiducia verso sé stessa: «In comunità, dopo l’ennesima ricaduta, circondata da uno staff di medici molto bravi, mi sono detta: sono un’artista e sono brava».

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    Adele Ceraudo in azione con la sua Bic

    La fiducia si è nutrita dell’inchiostro più pop che esista. La scelta della Bic è avvenuta un po’ per caso, un po’ per necessità. «Ho iniziato a usarla perché era in casa. Ma anche perché l’inchiostro è sempre stata la mia passione, infatti adoro i fumetti. E poi la penna Bic è versatilissima: a seconda di come la inclini fa delle sfumature belle e delicate o dei segni incisivi, marcati e potenti». Poi è arrivato l’uso della fotografia: «Un giorno ho chiesto a una mia amica fotografa, Ivana Russo, di farmi delle foto. Mi piaceva l’idea di trarre un disegno da una foto, non mi piace avere il modello dal vivo, mi piace poter vedere le ciglia, i pori della pelle, dettagli che si possono vedere solo con una fotografia». Così, nel 2007 è nata la sua prima collezione: L’anima del corpo.

    Un centro culturale per i Rivocati

    Nello Spazio Ac di Cosenza campeggia un’enorme Paolina Borghese col corpo di Adele e altre opere celebri dell’artista, esposte nella sala mostre e acquistabili.
    Sul retro, il laboratorio dell’artista con tele in lavorazione (a luglio esporrà a Palermo alcune opere inedite nate durante il lockdown).
    Il centro, nel mese di giugno aprirà solo su appuntamento. In seguito (ancora non c’è un calendario definito) vi si svolgerà una serie di iniziative. «Una o due volte al mese organizzeremo eventi come presentazioni di libri, mostre fotografiche», spiega Florio, che ha già qualcosa e qualcuno in mente.

    La sede di Ac

    Il fotografo Francesco Bozzo, per esempio, cosentino che vive e lavora da 27 anni in Australia, sta per ultimare un libro fotografico sul centro storico di Cosenza. Ma i costi della stampa sono troppo gravosi e la casa editrice indipendente Coessenza (che ha da poco aperto una sede nello stesso quartiere dei Rivocati) a breve lancerà una campagna di crowdfunding. Poi si vedrà.

    In zona c’è anche l’artista Andrea Gallo, con la sua Officina Ovo, scuola d’arte e centro indipendente di promozione delle arti visive. Poco distante i gemelli Tucci, musicisti dei Lumpen, gestiscono un’osteria. «Vogliamo fare rete con altri artisti, vorremmo che Spazio Ac diventasse anche un punto di incontro». Sempre con un occhio al quartiere, che ospita anche l’atelier di un’altra artista, Luigia Granata e la sede di Tecne, studio musicale di Costantino Rizzuti. «È una zona bellissima, ormai considerata periferica eppure centralissima. Qui è cresciuto mio padre, ci sono molto legato», racconta Florio. Il quartiere dei Rivocati vuole rinascere. Bello che sia, anche, nel nome dell’arte e della cultura.

    Simona Negrelli

  • Calabria da cinema: Anita Ekberg e quel processo a Castrovillari

    Calabria da cinema: Anita Ekberg e quel processo a Castrovillari

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    Negli anni Cinquanta si assiste in Calabria a un grande successo del cinema. Già durante il fascismo i calabresi andavano in massa a vedere i film che si proiettavano nelle piazze: gli operatori dell’Istituto Luce arrivavano con un furgone, sistemavano un telone bianco sulla facciata di una casa e proiettavano pellicole di propaganda del regime. Nel dopoguerra le sale cinematografiche erano sempre affollate e molti spettatori, a volte costretti a stare in piedi, visionavano una pellicola anche due o tre volte.

    Il cinema sbarca in Calabria

    Nell’inverno del 1949 a San Giovanni in Fiore fu girato Il lupo della Sila e per diversi giorni gli abitanti ebbero occasione di vedere attrici e attori famosi come Vittorio Gassman, Amedeo Nazzari e Jaques Sernas. La simpatia e le attenzioni dei giovani sangiovannesi era tuttavia rivolta alla bellissima Silvana Mangano, la star reduce dallo straordinario successo di Riso amaro. Il film, diretto da Coletti, su soggetto di Steno e Monicelli, voleva avere una impronta realista e una sensibilità etnografica. In realtà, però, si tratta di un cupo melodramma che ripropone l’immagine del calabrese geloso e vendicativo e tradizioni popolari inventate come la gara del taglio degli alberi.

    Dalla Sila all’Apromonte

    Il lungometraggio ebbe un discreto successo e l’anno seguente Ponti e De Laurentiis producono Il brigante Musolino. Dalla Sila si passa all’Aspromonte ma i temi che caratterizzano la nuova pellicola sono gli stessi della precedente. Il protagonista personifica i caratteri stereotipati del calabrese: forte, spietato, violento, vendicativo e sanguinario. I delitti del romantico giustiziere si susseguono, lo scenario sociale è assente e il brigante si pone al di fuori della sua comunità, vittima di stato, mafia e chiesa. Calabresella viene cantata sia al matrimonio che durante la vendemmia.

    I calabresi come barbari

    Il lupo della Sila e Il brigante Musolino fornivano un’immagine negativa dei calabresi: genitori che per interesse sacrificano le figlie, gente che tradisce per paura e interesse, giovani irruenti, passionali e pronti a prendere il fucile per qualsiasi controversia e difendere l’onore della famiglia. I film, tuttavia, non suscitarono proteste e solo alcuni cortometraggi come Calabria segreta di Vincenzo Nasso furono aspramente criticati. Giornalisti e intellettuali calabresi rimproverarono al regista di avere rappresentato una immagine falsa della regione.

    Miceli scriveva che, dopo aver visto il documentario prodotto dalla Rai, era rimasto molto deluso e amareggiato. Si trattava di un film di «pessimo gusto» che rivelava una spaventosa ignoranza della regione. Il regista «supercivile», con duelli feroci e balenio di coltelli, presentava i calabresi come barbari, ignorando che la Calabria non era stata patria del banditismo e che il popolo era buono e laborioso, semplice e onesto, amante della famiglia, della casa e della patria. Anche la “Baronessa scalza” criticava su un giornale cosentino il cortometraggio definendolo una produzione cinematografica «nauseante» per aver presentato i calabresi come feroci e primitivi.

    L’altro cinema in Calabria

    Non tutti i cineasti condivisero le scelte dei grandi produttori cinematografici. Negli anni Cinquanta alcuni registi realizzarono documentari sulla realtà economica, sociale e culturale della regione. I calabresi e la Calabria si prestavano bene a tradursi in forme artistiche e alla sperimentazione cinematografica. Pescatori che cacciavano il pescespada con tecniche millenarie in un mare azzurro e trasparente, fedeli che si flagellavano con pezzi di vetro spargendo sangue lungo i vicoli dei paesi e donne che raccoglievano olive ai piedi di alberi secolari avvolti dalla nebbia, erano soggetti e luoghi ideali per girare un film.

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    Roma, l’ingresso degli studios di Cinecittà

    I contadini segnati dalla fatica e ammantati con panni consumati dal tempo, apparivano più interessanti di attori del grande cinema dalle facce regolari e vestiti con abiti inamidati provenienti da atelier; i paesi e le case abbarbicati su luoghi aspri e inospitali, le campagne arse dal sole, le montagne coperte da boschi impenetrabili erano più avvincenti dei paesaggi freddi e irreali costruiti negli studios di Cinecittà.

    I documentari e la cura per le immagini

    Alcuni registi erano affascinati da quella regione che ai loro occhi appariva come un luogo mitico, dove la natura era incontaminata e dove gli uomini vivevano in maniera semplice. Erano attratti da quella terra arcaica e spesso eliminavano ogni riferimento al reale che potesse inquinare il pathos della pellicola. A volte ricostruivano i rituali con attori di strada per renderli più spettacolari e drammatici. Lo stesso De Seta, il più bravo e originale tra i documentaristi, nel cortometraggio I dimenticati, per riprendere la festa dell’albero ad Alessandria del Carretto, chiese ai paesani di ricostruire alcuni momenti del rito.

    Gli autori dei documentari filmavano la Calabria che avevano già in mente. Puntavano su immagini suggestive che suscitassero meraviglia e catturassero l’attenzione degli spettatori. Accompagnavano le sequenze con voci declamatorie. Utilizzavano colonne sonore per drammatizzare le scene. Davano al montaggio un senso di ansioso reportage. Eliminavano tutto ciò che era ritenuto scarsamente cinematografico. Erano particolarmente attenti alle inquadrature e alla cura della fotografia. Le immagini “dovevano parlare da sole”. In un fotogramma o in una sequenza dovevano essere rappresentati cultura, passioni e lavoro di un popolo.

    La Calabria onirica al cinema corto

    Spesso finivano per creare un’atmosfera onirica, fatta di volti e gesti antichi, sguardi immobili, luoghi irreali e selvaggi. Immagini belle sul piano filmico ma inventate e astoriche. I registi del “cinema corto” documentavano il reale ma al tempo stesso ne offrivano una visione lirica, cinematografica nel senso classico. Esigenze estetiche li spingevano a vedere solo la parte arcaica della Calabria e a ignorare quella che si stava trasformando per effetto della modernizzazione. Preoccupazioni stilistiche li spingevano a disinteressarsi dei forti cambiamenti che si verificavano nelle campagne, a non tenere conto del fatto che la logica del profitto stesse annullando le diversità culturali, a sottovalutare il senso di sradicamento presente in larghi strati della popolazione, a non vedere che la cultura dei calabresi si stava trasformando.

    Qualcuno criticò tali documentari ricordando che la Calabria non era una terra semplice in cui gli uomini si accontentavano di mangiare e dormire, dove vigeva la logica della sopravvivenza, dove non c’erano momenti in cui il superfluo vinceva sul necessario, dove c’era una cultura collettiva fissata nel tempo a cui tutti si omologavano.
    I registi di documentari e cortometraggi ebbero comunque il merito di rifiutare trionfalismo, conformismo ed etnocentrismo con cui i colleghi del grande cinema avevano ripreso e riprendevano la Calabria.

    Antico vs Moderno

    Nelle loro pellicole non si vedono i volti felici di contadini che mietono il grano dei cinegiornali, ma visi scavati dalla fatica e dal sole; non più campagne ridenti e fertili, ma terre spaccate dall’arsura e allagate dai fiumi; non più paesi pittoreschi abbarbicati su incantevoli paesaggi, ma centri urbani fatiscenti e abbandonati all’incuria del tempo. Contadini, pescatori, pastori e artigiani, nei loro filmati appartengono a un mondo millenario dove l’agire quotidiano è fatto di gesti uguali e ripetitivi, gente anonima che lavora silenziosamente nella lotta per l’esistenza in una natura straordinariamente bella, ma spesso aspra e violenta, amara e ingrata.

    Raccoglitrici di olive negli anni ’50 (immagine tratta dalla pagina Facebook “Calabria Fotografia Sociale”)

    Nei cortometraggi i registi riconoscevano alle classi subalterne una dignità culturale che veniva denigrata da un vecchio meridionalismo e ignorata da un modernismo imperante. Scarsamente attratti dalla religione del progresso, si schieravano con la gente povera del Sud che pagava più di ogni altro il processo di modernizzazione. Proponevano col loro cinema una lettura etica e umanista della Calabria e dei calabresi, una visione che si contrapponeva a quella di intellettuali e politici che pensavano ad una rinascita della regione attraverso la distruzione della mentalità arcaica e retriva dei suoi abitanti.

    Pasolini e le critiche

    Nel dopoguerra tra molti calabresi si avvertiva una forte insofferenza nei confronti di una parte dell’opinione pubblica italiana che tendeva a presentare la regione come una terra arretrata. Nel 1959, in occasione di alcune dichiarazioni di Pier Paolo Pasolini sui calabresi, molti insorsero con commenti durissimi. Un giornalista scriveva che avrebbe voluto «sputare» sul volto dello scrittore il più profondo rancore e risentimento per le «espressioni bassissime» da lui rivolte alla sua gente.

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    Pasolini a Crotone

    La sua «sfacciataggine» era odiosa e, più che una risposta polemica, avrebbe meritato quattro poderosi calci «con le scarpe chiodate» di quei robusti boscaioli della Sila che «stillavano sudore e sangue per la quotidiana lotta di un tozzo di pane nerissimo». Il popolo calabrese era il più educato e il più generoso dei popoli, «ma guai a chi avesse cercato di calpestargli i calli!». Un altro periodico pubblicava la lettera aperta di un lettore che accusava Pasolini di avere usato nei confronti della Calabria le solite frasi «trite e ritrite» di chi è prevenuto: gli uomini della regione erano sani e belli e le donne erano abbronzate, efebiche, belle e affascinanti! .

    Il Rally del cinema: la Calabria sulla stampa nazionale

    Nello stesso anno, un fatto accaduto a Castrovillari suscitò un vivace dibattito sul “carattere” dei calabresi. Il 25 giugno, in occasione del Rally del cinema (gara automobilistica definita Mille miglia delle stelle), il marchese Gerini, con a bordo Anita Ekberg, durante una sosta presso un distributore di benzina, infastidito dalla folla che faceva ressa per ammirare da vicino la “Venere di ghiaccio”, ripartiva a forte velocità travolgendo venti persone. Secondo la stampa nazionale, il marchese, impaurito dai giovani che avevano perso letteralmente la testa per la diva svedese, partì con la Lancia Flaminia cercando di farsi largo tra la folla e mettersi in salvo. In una corrispondenza di Paese Sera si legge che, in ogni paesino della Calabria, folle di giovani assalivano puntualmente le macchine del rally prendendo gli equipaggi «a pacche, pizzicotti e sganassoni».

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    Eleonora Ruffo in posa sul balcone della sua casa romana (foto Archivio Istituto Luce)

    Si trattava di gente analfabeta e ignorante che perdevano la ragione di fronte a bellissime bionde come Eleonora Ruffo, che per il caldo sollevava le gonne ad altezze vertiginose! In realtà, secondo alcuni giornali locali, i giovani avevano mostrato solo un eccessivo entusiasmo per la Ekberg e qualcuno di loro aveva sputato e urlato contro Gerini dopo che questi li aveva insultati con gesti volgari e parole offensive. I castrovillaresi non erano selvaggi assatanati ma gente civile e ospitale: ragazze in costume tradizionale avevano accolto gli equipaggi con fiori e sorrisi e l’amministrazione comunale aveva offerto un pranzo a base di pollo arrosto e ottimo vino.

    Anita Ekberg e il processo a Castrovillari

    L’anno seguente, il 12 maggio 1960, Anita Ekberg, la celebre diva del cinema «dai capelli biondo-cenere e dalla pelle madreperlacea» che «camminava quasi sempre a piedi nudi e usava il reggiseno solo quando andava a cavallo», giunse in Calabria per testimoniare al processo contro Gerini. Quando scese dalla macchina davanti al tribunale di Castrovillari una folla di gente, in attesa da ore, l’accolse con un forte applauso. L’attrice, vestita elegantemente nella sua princesse nera con stola di visone selvaggio scuro, fu circondata da decine di fotografi e giornalisti.

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    Anita Ekberg in aula nel Tribunale di Castrovillari

    In aula, alla richiesta del Presidente della Corte di dichiarare la sua età, l’attrice rispose che quella non era una domanda da rivolgere a una donna. E, nella deposizione, scagionò il marchese dichiarando che i giovani erano diventati così invadenti da sedersi sul cofano della macchina. Disse, inoltre, che alla sua camicetta non mancava alcun bottone e che quel giorno era vestita come una collegiale: gonna e camiciola a maniche lunghe. Durante il processo, il presidente della corte fu costretto a far sgomberare l’aula per il clima esagitato. La deposizione della Ekberg fu persino oggetto di una interrogazione dell’onorevole Migliori al ministro di Grazia e Giustizia nella quale si chiedeva se, come attestato da foto comparse su giornali e rotocalchi, l’attrice si fosse presentata con abiti e pose in contrasto col decoro delle aule giudiziarie: gambe accavallate, décolleté a vista e braccia scoperte!

  • Quando le lucciole si presero Cosenza

    Quando le lucciole si presero Cosenza

    Una macchina del tempo speciale, la stampa d’epoca, restituisce un’immagine originale della storia e del costume della Cosenza ottocentesca.
    Entrambi rivisti da un’ottica particolare: la prostituzione. Un’attività che la dice lunga sulle abitudini dei cosentini.
    I protagonisti di questa storia, in cui le lucciole stanno in primo piano, sono Francesco Martire, avvocato di grido e sindaco, e Luigi Miceli, deputato radicale allora all’apice del potere.
    Le voci narranti appartengono, invece, ai giornali Il Fanfullino e La Tribuna.

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    Una lucciola d’epoca

    Una città noiosa

    La Cosenza degli anni ’70 del XIX secolo è una città piccola (quindicimila anime circa) e noiosa.
    Quel po’ di borghesia che vi resiste si ritrova al Gran Caffè o al Baraccone, un teatro ligneo che l’amministrazione comunale demolisce per far posto all’ara dei fratelli Bandiera.
    L’opera, che tuttora incide nell’immaginario cosentino, è commissionata allo scultore bolognese Giuseppe Pacchioni, già sodale dei fratelli veneziani e scampato per un soffio al disastro della loro spedizione.

    Lucciole e tariffe

    Tolti questi due locali, ridotti a uno, resta un’alternativa per gli uomini che possono permettersela: le casupole di via Sant’Agostino, piccoli lupanari dove circa cinquanta lucciole esercitano il mestiere più antico del mondo. I più esigenti, invece, possono rivolgersi al bordello vicino a piazza Carmine.

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    La targa di un bordello d’epoca

    È solo una questione di tariffe, che comunque non sono alla portata di tutti: una “marchetta” a Sant’Agostino costa due lire, a piazza Carmine si sale a cinque.
    Per capire meglio, si pensi che le leggi dell’epoca davano il diritto al voto ai maschi venticinquenni che si dimostravano in grado di pagare 40 lire di imposta all’anno.
    Ad ogni buon conto, le casupole di Sant’Agostino restano frequentatissime fino al 1876, quando Francesco Martire le sgombera.

    Via le lucciole da Sant’Agostino

    La morale pubblica non c’entra, perché la prostituzione è legale, grazie ai decreti Cavour che ne regolano l’esercizio sin dal 1861.
    Lo sgombero di via Sant’Agostino è dovuto ai lavori di rifacimento della zona, in particolare all’allargamento della strada che deve collegarsi all’ara dei fratelli Bandiera.
    Questi lavori, che fanno parte di un pacchetto cospicuo di interventi, implicano la demolizione delle casupole.

    Il ribaltone e il sindaco

    A monte di queste iniziative, c’è un ribaltone di palazzo, che avviene proprio nel 1876, quando il sindaco Raffaele Conte, avvocato e patriota risorgimentale moderato, è costretto alle dimissioni.

     

    Luigi Miceli

    Conte, che ha programmato quasi tutte le opere allora in realizzazione, è gradito a quell’élite (poco più del 2% della popolazione) che determina col voto il destino della città. Infatti, la sua lista rivince.
    A questo punto interviene Luigi Miceli, il deputato di Longobardi, prossimo a una carriera ministeriale importante nei governi della Sinistra e uomo forte della Provincia. Miceli impone un suo uomo, Francesco Martire, approfittando del fatto che i sindaci sono nominati direttamente dal re.
    L’escamotage è un inciucio di rara raffinatezza: Martire diventa sindaco ma gli uomini di Conte entrano in giunta.

    Il giornalista e le lucciole

    E le lucicole? Per loro non cambia nulla: lo sgombero previsto da Conte lo farà Martire.
    L’onere (e il piacere) del racconto spettano a una penna di rara efficacia: quella di Alessandro Lupinacci.
    Scrittore, poeta e giornalista, Lupinacci è un moderato dall’ironia graffiante. Editorialista della Tribuna di Roma, fonda a Cosenza, nei primi ’70 dell’Ottocento, Il Fanfullino, un periodico di satira e cronaca che gli somiglia tantissimo.
    Sarebbe improprio definire Lupinacci un conservatore (come appare agli occhi di chi lo legge oggi): secondo i criteri dell’epoca, sarebbe un riformista.
    I passaggi che, con lo pseudonimo di Sandor, dedica allo sgombero sono gustosissimi.

    Il racconto

    «La strada che si sta costruendo lungo il quartiere di S. Agostino e la demolizione di quelle casupole, albergo infelice delle infelicissime generose, ha ricacciato molto più in dentro alla città quelle vittime della prostituzione con grave scandalo della onesta gente che abita in quella contrada, e della morale pubblica».
    Così, il 17 giugno del 1876, Sandor tira la sua brava staffilata sulla situazione.
    Non senza un sottinteso: prima, quando c’erano le casupole, si sapeva anche dove stavano le lucciole. Ora, dopo lo sgombero non lo si sa più.

    Il complesso monumentale di Sant’Agostino

    Ma tutto lascia pensare che la “colonizzazione” di Santa Lucia, che per decenni è stato il “cordone sanitario” della città (e tale è rimasto, anche dopo la legge Merlin) sia iniziato proprio allora.

    Le lamentele

    Dopodiché, Lupinacci si fa carico di una lamentela: «Io vorrei (per essere appagati i giusti reclami che mi giungono), dalla Pubblica Sicurezza, o da chi deve occuparsi di questo ramo di pubblico servizio, che si provvedesse opportunamente e con sollecitudine», prosegue l’articolo del Fanfullino.
    Ma anche il quartiere, dopo lo sgombero, non è messo bene, perché una cosa è demolire le casupole, un’altra bonificare la zona.

    L’Avanguardia, uno dei giornali che raccontarono la vicenda delle lucciole

    Infatti, denuncia ancora Lupinacci: «Nello stesso quartiere vi è dell’acqua stagnante che non trova scolo a causa del materiale gittato dalle demolizioni, acqua che nuoce colle sue fetide esalazioni alla salute degli abitanti».
    Il destinatario delle lamentele (e delle relative esortazioni) è Martire: «Giro questo reclamo all’onorevole sindaco».

    Un esercito di “laide Circi”

    Un anno dopo, la situazione non è risolta. Stavolta lo denuncia L’Avanguardia, il settimanale fondato dal giornalista e scrittore Mario Bianchi proprio nel 1877.
    Già, le lucciole si sono “disperse” in città e alcune di loro sono approdate a Santa Lucia. Ma altre sono tornate nel quartiere, dove danno un po’ troppo nell’occhio.
    Non a caso, L’Avanguardia del 17 giugno 1877 parla di «un esercito di laide Circi» che avrebbe invaso Sant’Agostino.
    Alla faccia della riqualifica…