Categoria: Cultura

  • L’Acquario a secco: quale futuro per il teatro cosentino? [VIDEO]

    L’Acquario a secco: quale futuro per il teatro cosentino? [VIDEO]

    Cambiare, certe volte, vuol dire beffare la morte. È la partita cui è impegnata la Cooperativa del Centro Rat, anima del teatro dell’Acquario. Da tempo il teatro di via Galluppi fa i conti con difficoltà economiche ormai non più eludibili. E oggi si prepara al cambiamento che potrebbe risultare necessario per non chiudere bottega.

    Cosenza, via Galluppi: l’ingresso del Teatro dell’Acquario

    «Abbiamo un credito presso la Regione di circa centomila euro e debiti verso il proprietario dello spazio che ospita il teatro per quarantamila», spiega Carlo Antonante, annunciando diverse e fin qui promettenti interlocuzioni per ridare fiato alla quarantennale storia dell’Acquario. Se il denaro atteso dalla regione arrivasse, non solo si salderebbero i debiti, ma si potrebbe anche guardare al futuro, sia pure in maniera differente. Infatti sostenere i costi del teatro rimarrebbe difficile e urge trovare soluzioni alternative.

    [CLICCA SULL’IMMAGINE IN APERTURA PER VEDERE L’INTERVISTA]

    Il teatro dell’Acquario trasloca: ma dove?

    E qui entra in gioco il Comune, che ha promesso la disponibilità di altri spazi, come per esempio la Casa delle culture. «Lì ovviamente manca un palco, ma quegli spazi potrebbero ospitare i nostri progetti formativi, molto importanti sul piano economico». Sempre dal sindaco di Cosenza è giunta un’altra ipotesi che riguarda l’uso del Cinema Italia-Tieri. Il Tieri già da un anno è gestito da Pino Citrigno, che aveva vinto un bando proposto dalla passata amministrazione, ma un incontro tra le parti avrebbe aperto alla possibilità di far convivere le due esperienze. Né manca l’interessamento di privati. Assai recente è l’incontro tra i membri del Centro Rat e Bianca Rende ed Enzo Paolini, mirato alla ricerca di una soluzione.

    La Casa delle Culture a corso Telesio, sede storica del municipio di Cosenza prima del trasferimento in piazza dei Bruzi

    L’eredità di Antonello Antonante

    Insomma si cambia per non morire, ma non è detto che questo sia un male, forse perfino una opportunità per rilanciare una storia antica, nata oltre quaranta anni fa nella città vecchia, partorita da un gruppo di intellettuali che già all’epoca animavano la scena culturale della città, tra cui ovviamente il compianto Antonello Antonante.
    Fu lui assieme ad altri a trasformare quella esperienza prima in un teatro sotto una tenda e successivamente ad aprire l’Acquario di via Galluppi. Oggi ai suoi compagni di avventura il compito di affrontare l’ulteriore cambiamento. Perché certe eredità non sono fardelli, ma semi da coltivare.

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    Antonello Antonante (foto Alfonso Bombini 2020)
  • Operazione Alarico: il flop dei nazisti e il bis dei cosentini

    Operazione Alarico: il flop dei nazisti e il bis dei cosentini

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    Negli anni passati, sindaci, assessori e operatori culturali di destra e di sinistra, per certificare un glorioso passato di Cosenza, hanno pensato di rievocare con cortei storici, convegni e statue le figure di condottieri, re e imperatori: Alarico e il suo mitico tesoro, Federico II di Svevia Stupor mundi e Carlo V sul cui impero non tramontava mai il sole. Hanno pensato che, soprattutto il nome di Alarico, avrebbe funzionato da attrattore per i turisti e portato lustro e benefici alla città e ai suoi abitanti. Il biondo guerriero sepolto nello spazio magico alla confluenza tra Crati e Busento, più di ogni altro ricordava la grandezza della gloriosa città.

    Alarico innamorato di Cosenza

    Alarico è stato sottoposto a un processo di revisione storica, presentato come un re che  voleva unire i popoli europei, che predicava la pace e la convivenza civile, che aveva amato profondamente Cosenza tanto da volerla capitale di un nuovo regno. La rielaborazione «positiva» del re barbaro è avvenuta in tutti i campi: letteratura, cinema, fumetti, teatro, arte e poesia. Le scuole cittadine di ogni ordine e grado, sono state coinvolte in progetti imperniati sulla vita di Alarico.

    Il funerale di Alarico

    Ricordo che in una pubblicazione alcune insegnanti scrivevano entusiaste che il capo dei Visigoti, considerato erroneamente un rozzo e spietato invasore, era in realtà un uomo colto, fautore di una società multietnica e amante della cooperazione tra i popoli. Un sindaco recentemente è arrivato addirittura a proporre la costruzione di un grande museo dedicato al re barbaro e ai Goti. Molti ancora si chiedono con quali reperti o documenti lo avrebbe riempito.

    E Von Platen sparisce dalle celebrazioni

    Un ritratto di August Von Platen

    Come sempre accade, nel processo d’invenzione della storia, molte cose finiscono nel dimenticatoio. È interessante notare, ad esempio, che durante le celebrazioni dedicate ad Alarico, il poeta August von Platen  è stato completamente ignorato. Eppure, se la leggenda del re visigoto è nota in  tutta Europa, lo si deve a una sua bellissima poesia. Von Platen non era un uomo molto amato. Widmann lo aveva rimproverato di aver composto quei versi senza mai essere stato a Cosenza, altrimenti avrebbe visto che il Busento non era un fiume dalle acque vorticose ma un misero fiumicello! Heine accusò il poeta di essere un «immondo omosessuale».

    Forse per questo motivo Von Platen lasciò la Germania, considerata più matrigna che madre, per vagare senza meta in Italia. La speranza che un giorno le sue opere sarebbero state apprezzate e il suo nome sarebbe divenuto immortale mitigava le umiliazioni che era costretto a subire. Mussolini, in un saggio giovanile sul poeta, ne ricordò il valore definendolo un tedesco mediterraneo che amava profondamente l’Italia e in un’ode aveva scritto che la «rozza schiatta tedesca» aveva un tempo annientato la civiltà italiana.

    L’invenzione della tradizione

    La rielaborazione storica di Alarico fa parte di quel processo che Hobsbawn e Ranger hanno definito «invenzione della tradizione»: manipolare e appropriarsi di personaggi e tradizioni che diano lustro a una comunità. A questa esigenza rispondono le manifestazioni volte a narrare i fatti remoti, a celebrare i protagonisti di avvenimenti famosi, a far conoscere luoghi legati a eventi storici. Riprodurre e ricostruire il passato con mezzi e linguaggi immediatamente fruibili, ricreare situazioni emotive in cui ognuno si riconosce spontaneamente all’interno della comunità. L’obiettivo è quello di dare fondamento mitico alla storia della propria città, processo ideologico in cui storia e mito si confondono.

    Gli eventi celebrativi dedicati a re e imperatori contengono verità deliberatamente manipolate, come scrive Debord. Il falso forma il gusto e si rifà il vero per farlo assomigliare al falso. Gli operatori dell’industria dello spettacolo, convinti che gli spettatori non abbiano alcuna competenza, sono portati a falsificare la storia o a dare spiegazioni inverosimili.

    La passione bruzia per gli invasori

    Non sappiamo spiegare l’entusiasmo dei politici cosentini per popoli stranieri che in diverse epoche storiche hanno impoverito e umiliato la loro terra. Le manifestazioni dedicate a personaggi storici fanno comunque parte di una fabbrica del consenso che, come scrivevano Horkheimer e Adorno, liquida la funzione critica della cultura e favorisce l’inerzia intellettuale, una fabbrica di feticizzazione della cultura che a volte appare originale ma che, in realtà, elegge lo stereotipo a norma. L’obiettivo di questa strategia culturale caratterizzata da effimere iniziative, è offrire una fruizione dell’evento senza alcuno sforzo da parte del consumatore, mettere in scena sogni collettivi e forme archetipe dell’immaginario su cui gli uomini ordinano da sempre i propri sogni.

    Horkheimer e Adorno

    Il tentativo di restituire a Cosenza il primato che aveva un tempo ricorrendo all’invenzione della storia si è rivelato un insuccesso. Le celebrazioni dedicate a grandi personaggi come Alarico sono prive di valore sentimentale, prevale l’aspetto ludico e di consumo. I cittadini partecipano agli eventi culturali come ad una grande fiera. Non sono attratti dai contenuti che il più delle volte appaiono loro incomprensibili. Gli operatori culturali, volendo appagare i gusti e gli interessi di tutti, alla fine riescono a soddisfare solo quelli di pochi; pur se animati da nobili intenti, non riescono a rendere tali iniziative «tradizione».

    Una memoria ricostruita o inventata, per conquistare legittimità e consenso sociale, ha bisogno di contenuti condivisi. Per essere vitale occorre che i suoi sistemi rappresentativi convergano con l’universo culturale dei gruppi coinvolti. Feste, cerimonie e ritualità per affermarsi devono attivare un meccanismo spontaneo di identificazione che consenta alla collettività di riconoscersi in una storia comune.

    Operazione Alarico a Cosenza, la replica di un fallimento

    La statua equestre dedicata ad Alarico, alle spalle quel che resta dell’ex Hotel Jolly

    Richiamandosi all’invasione del re visigoto che nel 410 a. C. saccheggiò Roma, i nazisti hanno usato come nome in codice Unternehmen Alarich il piano militare elaborato per occupare l’Italia in caso di una resa agli Alleati. La Unternehmen Alarich degli amministratori cosentini si è rivelata un clamoroso fallimento. Il re visigoto che in una strana statua sta ritto sulla testa di un cavallo alla confluenza del Crati e del Busento, sembra tentenni a tuffarsi per ritornare sotto le acque putride dei fiumi coperti da una fitta boscaglia e pieni fino all’inverosimile di spazzatura. Alle sue spalle le macerie di un palazzo abbattuto e una città vecchia abbandonata che sta cadendo a pezzi.

     

     

     

     

     

     

     

  • Un po’ calabrese e cosmopolita: Scalfari, l’ultimo re della carta stampata

    Un po’ calabrese e cosmopolita: Scalfari, l’ultimo re della carta stampata

    Scalfari è morto: viva Scalfari.
    Quando se ne va l’ultimo illustre vegliardo del giornalismo italiano, l’estremo saluto dev’essere all’altezza. In questo caso, deve ricordare la formula funebre dell’Ancien Régime.
    Già: come tutti i direttori di giornale che si rispettino, Scalfari fu un monarca. E lo fu in maniera assoluta. Aggressivo nella sostanza ed elegante nelle forme, l’ex direttore e fondatore di Repubblica (e prima ancora de l’Espresso), aggiungeva ai difetti del giornalista una matrice particolare: la calabresità.

    Scalfari calabrese di ritorno…

    In Calabria, Scalfari visse pochino: giusto gli ultimi anni della Seconda guerra mondiale. E di sicuro non per sua volontà.
    L’occupazione angloamericana a Sud aveva senz’altro dato sollievo alle popolazioni. Ma aveva pure scatenato una crisi economica enorme. La cosiddetta “Am-Lire”, cioè la cartamoneta stampata a profusione dal governo militare alleato, aveva innescato un’inflazione spaventosa e bruciato tutti i risparmi. Specie quelli investiti in titoli di Stato.
    Come quelli di papà Pietro, originario di Vibo.

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    Il giovane Eugenio Scalfari

    La famiglia Scalfari fu quindi costretta a riparare in Calabria per sbarcare il lunario. Lo stesso giornalista rievoca quest’esperienza in Breve storia di un padre, un racconto biografico pubblicato su l’Espresso nel 2017.

    Scalfari fascista ma non troppo

    Gli Scalfari erano la classica famiglia “perbene” o, se si preferisce, notabile.
    Il nonno Eugenio fu professore al ginnasio e, guarda un po’, a sua volta giornalista. Il bisnonno Pietro Paolo fu una personalità di spicco del Risorgimento (aprì le porte della città a Garibaldi).
    Papà Pietro era un personaggissimo: eroe della Grande Guerra e poi legionario con D’Annunzio a Fiume, si barcamenò come direttore di Casinò.
    Ma era anche coltissimo e trasmise al figlio l’amore per i libri e la scrittura.
    Come tutti i giovani promettenti, Scalfari si iscrisse al Pnf e proprio negli organi di partito iniziò la gavetta giornalistica.
    Questa scelta, comune a tanti grandissimi giornalisti (Montanelli e Bocca su tutti) non deve meravigliare. Il fascismo, rispetto agli altri regimi autoritari, ebbe una sua particolarità: fu fondato da un giornalista. E, pur censurandola a botte di veline, mantenne una certa sensibilità verso la carta stampata, più per esigenze di propaganda che per (improbabile) amor di libertà.

    Giulio De Benedetti, direttore de La Stampa e suocero di Scalfari

    Eugenio liberale e poi radicale

    Finita la guerra e trasferitosi a Roma, il giovane Eugenio entrò in banca. Ma, tra un deposito e un assegno, scriveva. Eccome, complice anche il matrimonio azzeccato con Simonetta De Benedetti, figlia di Giulio, celebre direttore de La Stampa.
    Aderì prima al Pli e poi partecipò alla fondazione del Partito radicale. Ma per lui la politica era soprattutto una questione di comunicazione. Infatti, la fece sui giornali che diresse, a partire da l’Espresso.

    Scalfari e i golpisti

    Con l’Espresso, Scalfari ebbe la sua prima medaglia: una condanna a quattordici mesi per aver diffamato il generale Giovanni de Lorenzo. La condanna resta tuttora controversa, visto che fu emessa a dispetto della richiesta di assoluzione avanzata dal pm, il celebre Vittorio Occorsio.
    Ci riferiamo, va da sé, al dossierone sul Sifar e sul Piano Solo, un mega sputtanamento confezionato da Lino Jannuzzi.

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    Il generale Giovanni de Lorenzo

    Allora la galera i giornalisti la facevano per davvero (ne sapevano qualcosa Giovannino Guareschi e Giorgio Pisanò). Ma a favore di Scalfari e Jannuzzi intervenne il Psi, che portò i due in Parlamento, dotandoli dell’immunità.

    Repubblica

    La Repubblica di Scalfari è una delle più geniali intuizioni del giornalismo italiano. Fondato nel 1976, fu il primo grande quotidiano della sinistra.
    In questo caso, si parla di quotidiano indipendente, cioè non subordinato al Pci e ai suoi satelliti. Fu una botta di fortuna, propiziata anche dal grande fiuto del fondatore.
    Scalfari, infatti, capì che mancava un organo a una fetta vasta di opinione pubblica, di sicuro sinistrorsa ma non disposta a prendere l’Unità per Vangelo.

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    Eugenio Scalfari negli anni d’oro di Repubblica

    Complice una grande squadra di cronisti giudiziari e di notisti politici, il nuovo quotidiano prese il volo. La formula era semplice ma efficace: Scalfari e i suoi riprendevano le inchieste dei giornali d’assalto (Paese Sera e L’Ora di Palermo, per capirci) ma senza l’ombra del comitato centrale comunista.
    Repubblica dialogò con un pubblico enorme, che andava dalla sinistra liberale a quell’area filocomunista che considerava Berlinguer un messia. E sfondò.

    Il giornale chiesa

    Secondo molti, Repubblica fu un giornale-partito. Ma questa definizione è sbagliata per difetto: Scalfari, in realtà, aveva fondato una Chiesa.
    Laica, a tratti atea come si dichiarava il suo fondatore, ma pur sempre chiesa. Sulle colonne di questo giornale prese forma il sinistrese politicamente corretto, che sopravvisse a tutti i traumi della sinistra.
    Grazie a questa formula, Scalfari si prese il lusso di dichiarare prima guerra a Craxi e poi a Berlusconi, per esempio. E di vincerla sempre.
    Tangentopoli non sarebbe stata Tangentopoli se prima non ci fosse stato il lungo lavorio di Repubblica, che fece scuola anche tra molti giornalisti che a Repubblica non misero mai piede. Idem per Berlusconi, che pure riusciva a parare i colpi col suo impero editoriale.

    L’anti giornalista

    Fazioso ma non per conto terzi, autoreferenziale e un po’ arrogante, Scalfari per molti versi può essere definito un anti giornalista.
    Fanno fede, al riguardo, gli articoli lunghissimi, i periodoni un po’ manzoniani e un po’ barocchi e l’autocompiacimento, che arrivava alla scrittura in prima persona. Roba che per molto meno Montanelli avrebbe sparato.
    Eppure Scalfari, nonostante ciò, ebbe un successo smodato e divenne un riferimento. Tant’è che i lettori di giornali si possono dividere in tre categorie: quelli che riuscivano a capire Scalfari, quelli che lo leggevano comunque e quelli che lo detestavano.
    Anche in età da pensione il Nostro si tolse una soddisfazione per cui dozzine di giovani, anche più atei di lui, venderebbero l’anima: un dialogo privilegiato con papa Francesco.

    Papa Francesco, l’ultimo illustre intervistato (e un po’ vittima) di Scalfari

    Un dialogo strano, fatto di smentite vaticane e di abbracci pontifici. Scalfari veniva accusato di mettere in bocca al papa cose mai dette e ciononostante, continuava a intervistare Bergoglio come se nulla fosse.
    Scriveva come gli pareva (benissimo per un intellettuale, non troppo per un giornalista) e faceva comunque opinione. Insomma, essere Scalfari è il secondo desiderio di un giornalista ambizioso (il primo è avere un articolo 1 al Corriere della Sera).
    E allora che dire? Scalfari è vivo e lotta con noi. E tutto il resto è fuffa.

  • Il martirio e l’esempio: cosa resta dei fratelli Bandiera?

    Il martirio e l’esempio: cosa resta dei fratelli Bandiera?

    All’alba del 15 marzo 1844, un centinaio di patrioti cosentini attraversò in armi le vie del centro al grido di «Viva la libertà!». Sventolavano con orgoglio una bandiera tricolore attaccata a una canna.
    Giunsero al palazzo dell’Intendenza e cercarono di abbatterne il portone con accette. A questo punto intervenne un reparto di soldati a cavallo e vi fu un aspro conflitto a fuoco. Caddero alcuni soldati, tra cui il capitano della gendarmeria Vincenzo Galluppi, e, fra i sovversivi, Francesco Salfi, Michele Musacchio, Giuseppe Filippo e Francesco Coscarella.

    Qualche tempo dopo, il 16 giugno, i fratelli Bandiera e altri rivoltosi, sbarcarono nei pressi della foce del Neto. Ma furono accerchiati e fatti prigionieri sulla via verso Cosenza.
    Il 25 luglio Nicola Ricciotti, Domenico Moro, Anacarsi Nardi, Giovanni Venerucci, Giacomo Rocca, Francesco Berti, Domenico Lupatelli, Attilio ed Emilio Bandiera furono fucilati nel Vallone di Rovito. L’11 luglio erano stati condannati a morte i patrioti cosentini Pietro Villacci, Giuseppe Franzese, Nicola Corigliano, Sante Cesareo e Raffaele Camodeca.

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    Da sinistra: i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera

    Mazzini celebra i fratelli Bandiera

    Giuseppe Mazzini dedico all’episodio una pagina importante, scritta a caldo: «Molti fra voi vi diranno, lamentando ipocritamente il fato dei Bandiera e dei loro compagni alla bella morte, che il martirio è sterile, anzi dannoso, che la morte dei buoni senza frutto di vittoria immediata incuora i tristi e sconforta più sempre le moltitudini … Non date orecchio, o giovani, a quelle parole … Il martirio non è sterile mai».

    Già, proseguiva il rivoluzionario genovese: «Il martirio per una Idea è la più alta formula che l’Io umano possa raggiungere ad esprimere la propria missione; e quando un Giusto sorge di mezzo a’ suoi fratelli giacenti ed esclama: ecco, questo è il Vero, ed io, morendo, l’adoro, uno spirito di nuova vita si trasfonde per tutta quanta l’Umanità, perché ogni uomo legge sulla fronte del martire una linea de’ proprj doveri e quanta potenza Dio abbia dato per adempierli alla sua creatura. I sacrificati di Cosenza hanno insegnato a noi tutti che l’Uomo deve vivere e morire per le proprie credenze: hanno provato al mondo che gl’Italiani sanno morire … Io vi chiamo a combattere e vincere: vi chiamo a imparare il disprezzo della morte e a venerare chi coll’esempio ha voluto insegnarvelo, perché so che senza quello voi non potrete conquistar mai la vittoria».

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    Giuseppe Mazzini, l’apostolo del Risorgimento

    Eroi tragici

    I patrioti giustiziati a Cosenza sono diventati eroi tragici: uomini che si erano battuti contro forze soverchianti per una causa giusta fino alla fine.
    Senza chiedere nulla in cambio, avevano ingaggiato una lotta disperata per la patria e la libertà contro un potente nemico. La loro morte era una vergogna per l’umanità. I loro corpi non vennero adagiati su un letto funebre, ma su una carretta. Non vennero lavati ma rimasero sporchi di sangue. Né vennero offerti al compianto dei loro familiari ma nascosti dal nemico. Non ebbero solennità, ma furono sepolti in una fossa comune.

    Don Chisciotte e Sancio Panza

    Quella drammatica spedizione ha comunque reso immortali i fratelli Bandiera e i loro seguaci. Gli studiosi collocano la loro vita nella storia e la interpretano con la ragione.
    Gli uomini, invece, la collocano nel mito e la interpretano tramite l’amore.
    I martiri cosentini sono più vicini agli uomini di quanto si pensa. A volte siamo spinti a credere che nel mondo vi siano dei don Chisciotte o Sancio Panza. I primi sono prigionieri dei loro sogni e si sacrificano per affermarli, i secondi sono prigionieri della felicità materiale e vivono per soddisfarla. I primi sono mossi da una natura spirituale che li spinge all’azione e al sacrificio, i secondi da un empirismo animale che li spinge all’ozio e ai piaceri.

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    Don Chisciotte e Sancho Panza

    Rivoluzione vs (auto)conservazione?

    Forza attiva e rivoluzionaria quella dei primi, forza passiva e conservatrice quella dei secondi. In realtà nessun uomo si riconosce completamente in Don Chisciotte o in Sancio Panza. Tutti, invece, si aggrappano sia alla poesia sia alla materia, impulsi naturali che esistono indipendentemente dalla loro volontà.
    Gli uomini si commuovono pensando ai patrioti caduti a Cosenza nel 1844 perché avevano combattuto per quell’amore di giustizia che il più delle volte rimane nascosto perché non si ha il coraggio di mostrarlo nell’agire.
    Gli storici hanno scritto che la spedizione dei fratelli Bandiera e dei loro compagni era votata a una inevitabile sconfitta. Inoltre, hanno detto che erano degli esaltati, isolati dalle masse e senza alcuna possibilità di successo.

    Due testimoni d’eccezione

    Un importante commento a caldo proviene dall’intendente De Sangro, recatosi a San Giovanni in Fiore Il 29 agosto 1844 per distribuire le ricompense di Ferdinando II ai catturatori.
    De Sangro disse che fra gli attentati strani e audaci della storia umana nessuno per follia era comparabile a quello compiuto dagli esuli di Corfù. Già: quei fuggiaschi giunti per sollevare la popolazione contro il Re erano in preda al delirio e al disordine mentale.

    Il secondo commento è di Cesare Marini, difensore dei patrioti. Marini disse nella sua arringa al processo: «Si vuol rovesciare un governo costituito, in estranea contrada, e lo si tenta con 21 esuli mancanti di tutto! Si vuol combattere il forte esercito del nostro re, che sorpassa i sessanta mila uomini, e s’impiegano non più che 21 fucili! Si vuol creare un nuovo politico reggimento che assicurasse di tutta Italia le sorti, senz’altri mezzi pecuniari che poche migliaia di ducati, senz’altra forza che 21 uomini privi di notizie, di rapporti, di aderenze e di nome in contrade ad essi sconosciute!».

    Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie

    Quasi ironica la conclusione: «Signori, questo folle tentativo non diversifica punto dall’impresa ridicola di quel fanciullo che, con una ciotola attingendo acqua nel mare, intendeva ottenere il prosciugamento dell’Oceano, o dall’intrapresa di quel fanatico il quale, per via di alcune erbe abbruciate in sulla vetta dei monti del Peloponneso e di alcuni esorcismi, intendeva produrre la peste in Atene!».

    Non visionari ma eroi

    Marini era un avvocato e il suo compito era difendere gli imputati, anche invocando una specie di “semiinfermità”.
    Tuttavia, i fratelli Bandiera non erano dei visionari, non erano fuori dalla storia, non piegavano la realtà ai loro sogni. Soprattutto, non credevano che i mulini a vento fossero giganti o le mule dei frati dromedari.
    Un eroe, uomo diverso dagli altri per le sue qualità non comuni, diventa tale solo se rientra nei sentimenti e nella mentalità della sua epoca.
    I fratelli Bandiera e compagni erano espressione delle aspirazioni sociali, politiche e intellettuali del loro tempo. L’eroe realizza nella forma più nobile le virtù ideali di un’intera nazione. E concretizza con l’agire ciò che nella gente è solo un’idea, con le sue imprese memorabili, nutre e arricchisce il suo popolo.

    Il sacrificio e l’esempio

    Il dramma dei patrioti cosentini ha commosso l’intera Europa.
    La sincerità delle intenzioni si rivela nei fatti: le parole, quando non si traducono in azioni, sono sempre ipocrite. Molti patrioti predicavano bene e razzolavano male: facevano grandi discorsi, ma quando dovevano scendere in campo, trovavano mille scuse.
    I patrioti di Cosenza erano diversi: predicavano la necessità di combattere e impugnarono il fucile nonostante gli ostacoli insormontabili e la soverchiante nemica.
    Quei sentimenti patriottici che avevano spinto migliaia di uomini e donne a combattere per nobili ideali non ci sono più.

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    L’ara dei Fratelli Bandiera a Cosenza

    C’è chi preferisce i barbari

    L’Unità d’Italia si è realizzata ma vasti settori dell’opinione pubblica del Nord e del Sud maledicono l’unificazione nazionale. E c’è chi sostiene che si stava meglio quando il Paese era diviso in tanti Stati. Ricordo che alle scuole elementari la maestra ci portava ogni anno nel Vallone di Rovito per raccontarci la storia di quei giovani che avevano sacrificato le loro vite per la nostra libertà. Da molti anni, invece, amministratori di destra e di sinistra preferiscono innalzare statue e organizzare eventi per esaltare e glorificare la figura di Alarico che era giunto in città per saccheggiarla. Che tristezza.

    Cosa resta del Risorgimento?

    Il Risorgimento rimane una delle pagine più belle della storia di Cosenza.
    Nella Calabria Citeriore migliaia di cittadini finirono a processo e i più subirono condanne enormi. In un verbale di polizia si legge che tra i patrioti del 1844, coinvolti nell’attacco al palazzo dell’Intendenza del capoluogo, ce n’erano alcuni vestiti da ricchi galantuomini e altri da umili contadini.
    Giovani di condizione sociale, cultura e paesi diversi si trovarono uno accanto all’altro per combattere in nome della libertà. L’amore per la patria, vaga aspirazione sentimentale, si tradusse nell’azione politica e non si arrestò davanti all’esilio, la prigione e il patibolo.

  • Bisturi, cotone e chimica: il lifting del Duomo di Cosenza

    Bisturi, cotone e chimica: il lifting del Duomo di Cosenza

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    La cattedrale di Cosenza è una signora di 800 anni, un poco austera ma accogliente. La storia scorre tra le sue pietre rosa di Mendicino, coi suoi inevitabili scompigli.
    Un terremoto distrusse nel 1184 l’antica chiesa paleocristiana e la cattedrale fu ricostruita sui resti della precedente. Al riguardo, non tutte le fonti coincidono: secondo alcune ipotesi, la cattedrale sarebbe stata spostata per un certo periodo ai piedi del castello svevo. Tuttavia, non si hanno notizie certe. Poi arrivarono i restauri e alcuni rifacimenti irrispettosi dello stile originario, romanico-cistercense con innesti gotici. Di tutto ciò la Signora porta i segni con orgoglio. Senza cicatrici nessuna vita può dirsi davvero tale. Con un bagaglio di memorie, identità e qualche mistero, la cattedrale di Cosenza quest’anno festeggia l’ottavo centenario e continua a vivere nelle storie che la abitano.

    Cotone e bisturi per recuperare gli affreschi

    Queste storie sono il prodotto di mani laboriose. Quelle di Isabella Valente cercano di riportare alla luce alcuni affreschi che un tempo abbellivano le pareti del Duomo e che poi furono ricoperti. Un lavoro delicato, con cui la studentessa si laureerà in Conservazione e restauro dei beni culturali all’Università della Calabria.
    Isabella, 27 anni, di Crotone, usa un bisturi per rimuovere l’intonaco, dopo averlo ammorbidito con un batuffolo di cotone imbevuto d’acqua. Già s’intravedono due figure di santi ma per identificarli servono tempo e pazienza. «È l’aspetto archeologico a rendere il lavoro interessante, e la pulitura permette di riconoscere le figure». Questo lavoro le è stato assegnato perché è precisa e minuta. Il cantiere, alla fine della navata sinistra, è piccolino.
    Isabella (una dei primi laureati del corso di laurea, istituito sei anni fa e coordinato dalla professoressa Donatella Barca) alterna giornate di lavoro in cantiere a momenti di studio all’università, quando c’è da attendere i risultati di laboratorio.

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    Angelo dell’Annunciazione, altro affresco recuperato grazie ai restauratori

    Lifiting a regola d’arte

    «Prima c’è la fase diagnostica: attraverso raggi X e infrarossi si cerca di capire com’è composto il dipinto. Poi si applicano i reagenti chimici. Innanzitutto per la pulitura, dove la pittura presenta strati che non consentono la lettura. E poi per il consolidamento dove la materia pittorica è indebolita dal passare del tempo», spiega Raffaella Greca, docente di Restauro, una dei relatori della tesi di laurea.
    «I reagenti chimici cambiano a seconda della composizione del colore, per bilanciarne il Ph. Si lavora affinché i materiali siano compatibili con quelli storici e per la reversibilità dei trattamenti». Le restauratrici spesso lavorano accompagnate dal suono dell’organo Mascioni. Anche l’organo, uno dei più grandi al Sud, è un’attrazione: gli studenti del conservatorio vanno spesso ad esercitarsi in cattedrale.

    Stile su stile

    Il ciclo pittorico risale probabilmente al 1300, ma la datazione è ancora incerta.
    Stesso discorso per gli altri due affreschi visibili su alcuni pilastri della navata destra: un Cristo e l’Angelo dell’Annunciazione.
    Furono ricoperti di intonaci e stucchi barocchi durante la più imponente trasformazione della cattedrale, avvenuta nel ’700 per volontà dell’arcivescovo Capece Galeota. «Quando si voleva rinnovare la diocesi, si modificava la cattedrale come segno di cambiamento», spiega suor Valentina.

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    Un affresco di Gesù recuperato grazie al restauro

    Di Milano, 40 anni, è a Cosenza quasi da due, dopo essere stata formata come educatrice. Lavora coi bambini e i ragazzi dei quartieri Santa Lucia e Spirito Santo, insieme alle associazioni S. Lucia e San Pancrazio, per contrastare l’abbandono scolastico.
    Con alcuni di loro porta avanti il progetto “Pietre vive”. Ai ragazzi insegna a fare le guide, dopo una formazione storico-artistica e degli aspetti liturgici legati all’architettura. «Per esempio, l’arco della navata centrale del duomo non è perfettamente centrato perché simboleggia il Cristo in croce con la testa reclinata da un lato. Un simbolismo proprio dell’architettura cistercense».

    Psicoterapia di gruppo in cattedrale

    Nella cattedrale di Cosenza si può imparare anche ad ascoltare sé stessi.
    Da novembre 2021 lo psicologo Domenico Mastroscusa incontra i genitori dei ragazzi impegnati col catechismo per un percorso (gratuito) di psicoterapia di gruppo.
    Una volta al mese si ritrovano nella sala capitolare, una sala riunioni realizzata nel 1950. «Molti genitori lamentano problemi nel rapporto coi figli, così è nata l’idea di fare questi incontri».
    Ma non è una passeggiata. «Siamo partiti con 5 papà e ora sono rimaste solo le mamme. C’è ancora un pregiudizio sull’educazione dei figli che si considera prerogativa femminile», dice lo psicologo.

    Lo psicologo Domenico Mastroscusa durante una seduta coi genitori

    Una mamma separata, che vuole restare anonima, ne sa qualcosa. «Con mio figlio di 13 anni siamo riusciti a creare un rapporto col padre solo grazie allo sport».
    Caterina Paletta, invece, grazie a questo percorso ha messo in discussione l’educazione che aveva ricevuto. «Ho avuto una madre rigida e mi comportavo allo stesso modo con mia figlia. Ora lei mi racconta il suo mondo».

    Il lavoro nei quartieri

    Don Luca Perri con i ragazzi del catechismo

    La cattedrale di Cosenza è anche un punto d’osservazione privilegiato del centro storico e dei suoi problemi sociali e strutturali.
    «Organizziamo la recita del rosario nei quartieri, ogni primo venerdì del mese portiamo la comunione a casa dei malati, poi c’è la benedizione delle case: questo è anche un modo per monitorare la situazione. Quando è critica, come nel quartiere di Santa Lucia, tentiamo di dialogare coi servizi sociali», racconta don Luca Perri, rettore della cattedrale dal 2016, dopo essere stato il vice del suo predecessore, don Giacomo Tuoto (a lui si deve una guida approfondita sulla cattedrale di Cosenza edita da Pellegrini e ristampata quest’anno).

    Aria d’Europa: da Isabella d’Aragona allo Stupor Mundi

    Don Luca è anche socio fondatore dell’associazione 8centoCosenza, che cura le celebrazioni per l’ottavo centenario della cattedrale.
    Lo storico dell’arte Tomaso Montanari ha tenuto una lectio magistralis sul Duomo di Cosenza, elogiandone il meticciato artistico-culturale, a cominciare dal monumento funebre a Isabella d’Aragona, del 1275 circa, di ignoto artista francese.

    Il mausoleo funebre di Isabella d’Aragona

    La spagnola regina di Francia era incinta di sei mesi quando cadde da cavallo attraversando il fiume Savuto, di rientro dall’ottava crociata. Secondo alcune ipotesi, le parti deteriorabili del suo corpo, compreso il feto, furono seppellite al Castello Svevo, mentre lo scheletro fu trasferito in Francia.
    Nel duomo rimane il mausoleo che per lo storico dell’arte Cesare Brandi vale da solo una visita a Cosenza. Il monumento fu nascosto nel ‘500, poi riposizionato dove doveva trovarsi in origine, nel transetto, sul lato sinistro. La storia della cattedrale s’intreccia con la storia della città e quella europea anche in altre occasioni. Quando l’imperatore Federico II venne a Cosenza per la consacrazione del duomo, il 30 gennaio 1222, probabilmente per la prima volta la città dei bruzi adottò il gonfalone coi sette colli.

    Piccole storie importanti

    Ma le piccole storie tengono in vita la cattedrale. Maria Anna Marrello ne custodisce le chiavi dal 1997, apre e chiude la chiesa tutti i giorni da allora. «All’inizio non volevo questa responsabilità, anche la famiglia era contraria». Poi la fede ha preso il sopravvento.
    La signora Annamaria, come la chiamano tutti, ha 73 anni ed è l’assistente del parroco. Dal suo mazzo di chiavi estrae quella che apre la grande porta di legno intagliato della sagrestia. Poi apre i bellissimi armadi all’interno (tutti opera di artigiani roglianesi del 1700, come il coro ligneo nell’abside), per mostrare le tende che ha cucito per il tabernacolo e le tovaglie con cui prepara l’altare prima delle funzioni religiose.

    Maria Anna Marrello e Giovanna Brescia, le “tutrici” della cattedrale

    La signora Giovanna Brescia, 80 anni, la aiuta di tanto in tanto con le pulizie, lavando a mano la biancheria più delicata.
    Ad esempio, i due corporali in lino, le tovaglie che si mettono sotto il calice, ricamati a punto a giorno, con le spighe e l’uva, da donna Rachele Andreotti Loria in occasione della visita del cardinale Parolin. La signora è una professoressa in pensione del liceo classico Telesio, discende da antica famiglia nobiliare della città ed ha ereditato il palazzo Giannuzzi Savelli.

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    L’ingresso della cappella dei nobili

    Il mistero della cappella dei nobili

    Proprio il barone Domenico Giannuzzi Savelli fece restaurare, alla fine del ’700, la cappella dei nobili.
    Quest’antica chiesetta del ’400 sorge nel giardino, sull’antico cimitero della cattedrale, ricoperto dopo che l’editto di Saint-Cloud nel 1804 vietò le sepolture entro le mura cittadine. Vi si accede dall’interno, dal corridoio della sagrestia del duomo, e versa in stato d’abbandono.

    Fossa funebre della Cappella dei nobili

    Sul pavimento della chiesa si vedono le fosse tombali in cui venivano sistemati i cadaveri in posizione seduta per far confluire gli umori della decomposizione in un canale di scolo sottostante. I corpi subivano così una mummificazione naturale. La congregazione dei nobili della città, cui era stata ceduta la chiesa, si occupava infatti di dare sepoltura ai condannati a morte.
    Chissà se i 2 milioni di euro stanziati dal ministero per la cattedrale si potranno usare, tra le altre cose, anche per restaurare la cappella dei nobili.

    Simona Negrelli

  • Donna Pupetta e il triathlon dei cosentini

    Donna Pupetta e il triathlon dei cosentini

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    Non si può parlare solo delle strade extraurbane, e si deve parlare anche delle persone che le percorrono. Cosenza offre un magnifico teatro umano di strada, ad esempio. E non mi riferisco soltanto al centro storico. Anzi, tutt’altro. Lo dico da anni, Cosenza e la cosentinità mi ricordano sempre un set di Scorsese.

    La locandina di Quei bravi ragazzi (Goodfellas)

    L’homo consentinus, quello medio, non ha nulla da invidiare al carisma – per usare un eufemismo – di certi personaggi da Goodfellas o da Casinò. Paul Sorvino andrebbe benissimo come politicante bruzio. Joe Pesci me lo vedo come penalista agguerrito o come medio imprenditore locale… tutta roba fatta di sguardi di tre quarti, frase dette a mezza bocca, allusioni che è bene capire al volo.

    I cosentini e la supponenza

    Saranno i negozianti annoiati, che fumano mille sigarette davanti al proprio esercizio e poi lanciano la cicca con maestria, sicuri di sé, attenti a farla cadere al di là del marciapiede. Sarà il libero professionista con lo smanicato, l’uomo attempato con aria da usuraio che – a detta sua – te ne potrebbe raccontare mille ma non lo farà mai. Sarà l’anziano che passeggia su via Roma, di ritorno dalla spesa, e sputa gusci di lupini con aria disinvolta… O sarà la comica – involontariamente comica – prosopopea cosentina: l’homo consentinus conosce ogni cosa meglio, prima e più di te.

    Uno scontro tra titani, se due cosentini dovessero sfidarsi su una primogenitura del genere: non vale la pena, se non per divertimento. Ecco, potrebbe nascere semmai una nuova disciplina olimpionica: una sorta di triathlon retorico bruzio, oppure non so, di “supponenza bruzia”.

    Provate a dire ad un cosentino d’aver appreso la notizia della tale rapina in banca… bene, comincerà a dirvi che lui l’ha saputo prima. Sfidatelo, ditegli che voi passavate proprio per quella strada, in quel momento. Vi dirà che lui era dentro la banca. Ditegli che voi eravate appena usciti e avete visto in faccia i rapinatori. Vi dirà, stremato ma non finito, che non li avete visti tutti, perché uno dei rapinatori era proprio lui. Gioco-partita-incontro.

    Mansplaining nel ‘500: Aulo Giano Parrasio

    Non ci crederete ma questa sorta di mansplaining bruzio o bruziosplaining ce la portiamo dietro da secoli. Ne ho scovato una traccia nel Cinquecento: avete presente Aulo Giano Parrasio, “quello” al quale, per intenderci, è intitolata la piazza alle spalle del Duomo? Bene: al secolo Giovanni Paolo Parisio, Parrasio (1470-1522), era un umanista eccelso e insegnò a Cosenza, Napoli, Vicenza, Padova, Venezia, Roma e Milano, e sposò la figlia di un altro grande umanista, il greco Demetrio Calcondila (1423-1511). Questa Teodora non era né bella né ricca ma era “figlia del padre” (è Parrasio stesso a esprimersi così, cazzu cazzu iu iu).

    Aulo Giano Parrasio

    Ma non è finita qui: le fonti narrano che Parrasio era particolarmente pratico di greco e, soprattutto, di latino. Tanto pratico da scrivere a Basilio Calcondila, fratello di sua moglie, una frasetta che è un capolavoro di protervia cosentina: «In graecis ad patrem refers, in latinis ad me». Me lo vedo. E me lo vedo dirglielo in dialetto («fin a qquannu parram’i greco…») magari con una Marlboro tenuta in punta di pollice e indice.

    Demetrio Calcondila

    Donna Pupetta e la Cosenza borghese

    Ma, in realtà, il personaggio più tipico della Cosenza borghese è lei: Donna Pupetta. Saprete senz’altro chi fosse la Donna Brettia (forse più per le polemiche recenti, in merito alla statua che tenta, molto maldestramente, di darne una rappresentazione) mentre non potete sapere chi è Donna Pupetta, in quanto è inventata di sana pianta (quindi ogni riferimento ecc. ecc…). Eppure ne avrete conosciuta più di una.

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    La statua di Donna Brettia donata a Palazzo dei Bruzi e ancora in attesa di collocazione

    Donna Pupetta non è una persona, è un modus vivendi, è una genìa, un concetto. Al tempo stesso non esiste e ne esistono tante. Ognuno di voi potrà identificarla con qualcuno. Riconoscerete in lei una vostra suocera, cognata, zia, cugina, nonna, collega o vicina di casa (mai la propria mamma: nessuno di noi avrebbe la franchezza di doverlo eventualmente ammettere). Donna Pupetta può risultare detestabile, oppure straordinariamente simpatica. Ma chi è? Vediamola da vicino.

    Anatomia di un personaggio

    Si tratta in genere della moglie-tipo dell’attempato libero professionista cosentino (o burocrate, o dirigente). Di solito è nata tra la seconda metà degli anni ’30 e la prima metà dei ’40. Oggi la si riconosce per le misure abbondanti, il caftano estivo, il doppio mento, la sigaretta sottile sempre accesa, vistose collane a pallettoni in simil-ambra o simil-oro, occhiali con grandi lenti scure, stile Sandra Mondaini, acquistati tra la fine dei ’70 e i primissimi ’80, e spesso le sopracciglia inesistenti e soltanto disegnate.

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    Sandra Mondaini

    Altra caratteristica immancabile è la voce rauca, molto rauca, intervallata troppo spesso da roboanti colpi di tosse molto eloquenti in fatto di quantità di nicotina assorbita negli anni.

    Donna Pupetta e la scalata alla Cosenza bene

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    Cosenza, via Alimena negli anni ’50

    In realtà, Donna Pupetta ha origini modeste, a volte modestissime. Ma a cavallo tra gli anni ’50 e i primi ’60 era una bella ragazza. Ovviamente era una moda, all’epoca, farsi chiamare “Pupetta”, o “Pupa”: a qualcuna, il nomignolo è rimasto appiccicato a vita (né sono rare le cene in cui le Pupette sono anche più di due, ma purtroppo è una razza in via d’estinzione. Anzi, no: a pensarci bene, vedo che nuove future Pupette si fanno strada, Pupetta non morirà mai). Il vero nome che le si può attribuire è certamente un qualsiasi nome molto popolare, magari composto.

    Frequentava le cerchie ‘bene’, con grandi sacrifici della sua famiglia, in ossequio al detto «mischiati con i migliori e fanne le spese». Non parla dialetto (se non di nascosto, con la “donna” – ci tiene a chiamarla così – che le fa le pulizie a casa) ma parla un italiano con fortissimo accento dialettale. La povera madre la spingeva a sedurre qualche rampollo altolocato. E, non si sa come o forse sì, le Pupette ci sono sempre riuscite. Mediamente hanno sposato uomini di cultura molto buona, se non addirittura brillanti. Il marito – dicevo – può essere un medico, un avvocato, di solito figlio d’arte, se non nipote d’arte. Un grande, incomprensibile amore.

    Natale in pelliccia

    Pupetta, ovviamente, non è mai stata vista benissimo dal suocero, figuriamoci dall’altezzosa suocera. Ma ha raggiunto l’obiettivo. La Cosenza bene è sua. Sua la messa di Natale in pelliccia, al Duomo. E può chiamare per nome i gioiellieri e i gestori dei negozi storici di abbigliamento. Di solito ha dato alla luce 3 figli, mai tutti dello stesso sesso, entro la fine degli anni ‘60. Almeno uno sarà obbligatoriamente un primario ospedaliero, per diritto antico, una sorta di investitura di sangue. Una figlia si sarà certamente ficcata in qualche Ministero, a Roma. Oggi è solitamente già divorziata e/o già riaccompagnata.

    Vita mondana e venerabili

    Ma torniamo a Pupetta. La sua cultura è sempre piuttosto bassa o perlopiù assorbita per osmosi. La sua indaffarata vita mondana le ha impedito, tra gli anni ’70 e gli ’80, anche di ascoltare un telegiornale. Il suo svago preferito: il tavolo da gioco, baccarà o burraco. Il marito la tollera. Tolleranza è la parola giusta: resta sprofondato nella sua poltrona a leggere l’ultima pubblicazione del Rotary, di cui si onora di far parte, o a correggere le ultime “tavole” del fraterno amico assurto al “settimo scalino” perché, come “un mezzo toscano e una croce di cavaliere”, anche un temporaneo venerabilato non si nega a nessuno. Il tutto con buona pace della scetticissima moglie che non perde occasione di apostrofare gli amici del marito quali persone noiosissime e dai discorsi difficili.

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    Piazza Fera in una cartolina d’epoca

    Il mondo di Donna Pupetta: Cosenza, Camigliatello, Sangineto

    Donna Pupetta a Cosenza non è mai salita su un autobus. O è condizionata ai passaggi di marito, figli, nuore, cognate e amiche o, al limite, guida un’auto sproporzionata alle sue capacità di condurla. Ma non è poi un problema, perché abita in pieno centro. Via Alimena, Piazza Fera o giù di lì. E che interesse può avere ad andare lontano? Cosa c’è mai fuori Cosenza?

    Le “Costellazioni” di Sangineto in un vecchio depliant

    Per lei, solo due posti: Camigliatello (o Lorica) e Sangineto. Solo che il villone sanginetese è perlopiù assediato dai nipotini romani, dalle nuore usurpatrici del territorio domestico, dal caldo e dai rumori della ferrovia (nota bene: nel qual caso i nipotini romani fossero figli di un suo figlio e non di una sua figlia, allora vuolsi che la nuora sia necessariamente bionda naturale. E anche ciascun pargolo. Misteri della genetica, che ai piccoli Dudo, Taio e Attilio porge la nobile chioma alla faccia dei geni recessivi).

    Vacanza o trasferimento?

    Pupetta nemmeno nuota, sta in piedi sul bagnasciuga con i polsi appena poggiati ai fianchi e un brutto cappello di paglia a falde larghe calato sul davanti in malo modo. Con il caldo, poi, la pressione bassa non le fa gustare le sue sigarette, perciò finisce che al mare va sempre a malincuore, certamente nostalgica delle cene a villa Mancini e dei manicaretti preparati dalla cuoca di questi, per fare un esempio. Preferisce la Sila, senz’altro. Dove potrà beatamente condurre la stessa vita cosentina. Più o meno con le stesse persone. Non una vacanza: un trasferimento. Giusto un materasso diverso. Se potesse, si porterebbe dietro pure quello.

  • Federico, il Duomo e i carnefici di Cristo

    Federico, il Duomo e i carnefici di Cristo

    Le manifestazioni per gli ottocento anni della ricostruzione della cattedrale di Cosenza hanno offerto diverse occasioni per ripercorrere la storia della città e della sua vasta diocesi.
    Da qualche giorno è stata inaugurata una mostra presso le Sale espositive della Provincia di Cosenza, in corso Telesio: 1222-2022 Tam Antiqua, quam Nova. La Cattedrale si racconta.

    La Cattedrale perduta

    L’ingresso è gratuito e l’esposizione resterà aperta fino al 30 settembre. Nella sezione La cattedrale prima della Cattedrale sono esposti reperti emersi durante le campagne di scavo. E ci sono immagini relative alla Cattedrale perduta, cioè il rifacimento di epoca barocca rimosso con l’importante restauro di fine Ottocento, che ha ripristinato l’originario edificio romanico.
    Le cattedrali nel corso dei secoli rispecchiano gli orientamenti artistici dominanti e solo di recente si è affermato il principio di non snaturare gli edifici, di non alterarne le linee.

    Il monumento nascosto

    Torniamo al Duomo: sotto gli stucchi barocchi era occultato anche il monumento funebre alla regina Isabella d’Aragona, che oggi si mostra in tutta la sua eleganza.
    Una sala video consente di immaginare come fosse l’edifico barocco. Un percorso efficace, coinvolgente.
    Forse qualche pannello storico avrebbe agevolato l’approccio: sarebbe bastato un semplice elenco dei vescovi attestati dalla tradizione per evidenziare l’antichità delle vicende.

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    Il monumento funebre di Isabella d’Aragona

    La leggenda nera: i bruzi carnefici di Gesù

    La storia religiosa si intreccia con l’antropologia, con l’arte e la vita quotidiana. Un insieme di dati, devozioni, leggende che si possono essere avvicinate con rispetto o rifiutate in blocco, come un peso fastidioso di un passato ormai sepolto.
    Tra le leggende, quella che vuole i carnefici di Gesù sul Golgota reclutati tra gli antichi bruzi è antica e di complessa lettura.
    Il grande storico Augusto Placanica l’ha analizzata in profondità, a proposito dell’immagine della Calabria, degli stereotipi sui calabresi e sulla loro indole. È una leggenda che inizia a circolare nei primi secoli dell’era cristiana, poi rinvigorita durante la dominazione spagnola, che ha contribuito a creare un alone negativo sulla Calabria in epoca moderna.

    Arriva l’imperatore

    Difficile dire cosa ne pensasse il clero cosentino durante il Medioevo, data la scarsa documentazione. Gli ecclesiastici di allora erano diversi, per cultura e stile di vita. Solo alcuni compivano un corso di studi regolari e approfonditi.
    L’imperatore Federico II fece il suo ingresso solenne a Cosenza, il 30 gennaio 1222, accompagnato dai suoi cavalieri e dall’abituale seguito di dame, concubine, animali esotici, nani e ballerine, sapienti ebrei e arabi. La città, ancora raccolta sulle alture tra i due fiumi, lo accolse con entusiasmo. Proprio per l’occasione, i cosentini ricostruirono la cattedrale, distrutta dal terremoto del 1184, e la riconsacrarono alla presenza dell’imperatore.

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    Federico II di Svevia

    Il vescovo che ricostruì il Duomo

    Luca Campano, l’arcivescovo artefice della riedificazione, non poteva essere più soddisfatto. D’altronde, seguire per anni quel cantiere era faticoso: occorreva sorvegliare i conti e dare indicazioni precise alle maestranze affinché non travisassero i simboli e le proporzioni delle parti.
    Completata l’opera, già pregustava di poter tornare ai suoi amati studi. In particolare, alle opere del suo maestro, Gioacchino da Fiore, di cui era stato il fedele scrivano fino alla morte.
    Cercò forse di nascondere il suo turbamento quando, durante la messa, l’imperatore si fece avanti con il suo dono per la nuova cattedrale? Una preziosa croce reliquiario, raffinata, con diverse pietre preziose incastonate e smaltata a colori vivaci. Una croce. Perché non una coppa, una pisside, un prezioso bastone pastorale, una mitra riccamente decorata?

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    Luca Campano, il vescovo che ricostruì il Duomo di Cosenza

    Una croce in dono

    Perché proprio una croce, qui, nella terra dei bruzi, carnefici di Gesù?
    Il suo maestro Gioacchino amava i simboli, ne aveva immaginati e disegnati tanti, affidati poi ai miniatori più abili per i preziosi manoscritti delle sue visioni. Eppure anche lui aveva evitato di usare come simbolo la croce.
    A Luca Campano quella preziosa croce reliquiario ricordava certe visioni apocalittiche del suo maestro, che tanta inquietudine suscitavano nei lettori e nelle gerarchie ecclesiastiche? Dodici secoli erano trascorsi dai fatti del Golgota e i fedeli della sua grande diocesi non gli sembravano migliori o peggiori degli altri cristiani dei suoi tempi.
    Ignoranti, rissosi, ubriaconi, violenti e grossolani nel linguaggio e nei pensieri. Ma allo stesso modo dei Lombardi, dei Franchi e dei Germani. Allora, perché ricordargli quella colpa così lontana nel tempo?

    Ma Federico sapeva?

    La croce reliquiario venne riposta nel tesoro della Cattedrale, dove è tuttora custodita.
    Sono previste altre manifestazioni per gli 800 anni della ricostruzione che portò a Cosenza l’imperatore Federico II e il suo dono. L’imperatore era un uomo colto, cosa rara per un sovrano medievale. La sua corte contava numerosi intellettuali, di solida cultura. Federico aveva avuto notizia della leggenda? E Luca Campano aveva mostrato turbamento per quel richiamo implicito al supplizio?

    La stauroteca donata da Federico II

    Vescovi bruzi alle crociate

    O forse non ebbe alcun turbamento perché, come tutti i vescovi medievali, aveva altre gatte da pelare. Già: i presuli dell’epoca gestivano delle mansioni oggi inimmaginabili.
    Il grande scrittore cosentino Nicola Misasi racconta in un reportage sulla sua città che «i suoi presuli od arcivescovi, ebbero titolo di conte e giurisdizione sulle terre di San Lucido, e di Rende. Con Pietro, Presule e perciò conte di Rende e di San Lucido, mandò nella prima crociata mille soldati in Terrasanta, tutti cittadini di Cosenza che combatterono assai valorosamente».
    Poi aggiunge: «il Tasso ne fa menzione nel canto VII della Gerusalemme Liberata; … questo loco non è il terzo giorno/ Tolse ai pagani di Cosenza il Conte».

    Il supplizio di Gesù, fotogramma da “The Passion” di Mel Gibson (2004)

    Vescovi guerrieri

    Evidentemente, alcuni arcivescovi di Cosenza dovevano avere un certo piglio guerriero. Al riguardo, Misasi cita un altro episodio, avvenuto durante le lotte tra gli Svevi e la Chiesa. Nel 1260, durante la battaglia di Benevento, Manfredi, figlio naturale ed erede politico di Federico II, perse la vita e il regno. E l’arcivescovo Pignatelli, «pastor di Cosenza», gli negò la sepoltura cristiana, dato che era un nemico della Chiesa.
    L’episodio è citato da Dante nel Canto III del Purgatorio: «Se il pastor di Cosenza che alla caccia/ Di me fu messo per Clemente allora/ avesse in Dio ben letta questa faccia».
    Altri tempi. Oggi non capita di vedere arcivescovi armati di tutto punto che dirigono operazioni militari o fanno disseppellire e abbandonare ai cani i resti di un principe caduto in battaglia.
    Siamo anche consapevoli della differenza tra leggenda e storia. Tuttavia, le leggende che pesano ancora sull’immagine di questa terra periferica sembrano non finire. Infatti, ci sono anche quelle sui calabresi ribelli per natura e incapaci di vivere secondo le regole. Briganti per vocazione.

    Mario De Filippis

  • Cedro: il frutto sacro che porta i rabbini in Riviera

    Cedro: il frutto sacro che porta i rabbini in Riviera

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    Per chi arriva in Calabria da nord, in treno o in auto sulla trafficatissima Statale 18, l’estate si annuncia con il paesaggio maestoso del Tirreno.
    Le montagne precipitose e la costa alta e luminosa del golfo di Policastro, che si apre subito dopo Maratea e si allarga ad arco verso sud per 150 km fino a Capo Vaticano. Oggi questa è la geografia di una affollatissima striscia continua di marine, villette standardizzate, alberghi e villaggi turistici.
    Tutto cresciuto a dismisura e incastrato tra le spiagge, la ferrovia e la statale lungo la costa tra Praia a Mare, Scalea, Diamante, Santa Maria del Cedro: la Riviera dei Cedri, questo dicono i depliant.

    Ma i cedri dove sono?

    Sì, ma i cedri? Si fa fatica a credere che tra queste zolle di cemento addossate alle spiagge congestionate riesca ancora a crescere qualcosa.Dove crescono i cedri? Dov’è la terra per coltivarli?
    Poco sopra il caos delle marine, sopravvive un po’ della antica campagna assolata.
    Una terra di muretti a secco e fiumare, un tempo costellata di ulivi, agrumeti e vigneti, di villaggi rurali e borghi aggrappati alle creste appenniniche.
    Il paesaggio è bello e fragile, rotto in modo irreparabile dalla modernità distruttrice. Rimangono i paesini e le frazioni rurali della costiera più alta, spopolati e inariditi dall’abbandono e dagli incendi di stagione appiccati per far posto al pascolo e alla speculazione.

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    Rabbini durante i festeggiamenti della Sukkoth

    La bellezza tra il cemento

    Da queste parti si costruiscono ancora seconde e terze case a frotte. Ma incredibilmente qui resta ancora qualcosa dell’antica bellezza, della natura benigna. E c’è quello che resta del retaggio di una storia e di una cultura insieme antica e modernissima.
    A ben guardare qualcosa si è salvato e ancora dura. Anzi prospera, in pochi anfratti e fazzoletti di terra, irrorati da pochi rigagnoli e da qualche residua fiumara, come il Corvino, che scende al mare fino a Diamante.

    I paesi del cedro

    A Diamante, Buonvicino, Santa Maria del Cedro si coltivano i cedri. Proprio le cedriere, colture agrumicole specializzatissime, sono un ponte tra due mondi.
    Già: qui, per qualche settimana all’anno, oltre al dialetto locale si parla l’ebraico.
    Quasi tutta la produzione italiana del “Citrus Medica”, e dei suoi derivati (compresa la materia prima della celebre Cedrata Tassoni dei caroselli di Mina), si concentrava nei recessi più riparati di questa zona fino agli anni 60-70. Per la precisione, lungo il tratto di costa tirrenica che va da Santa Maria del Cedro sino a Cetraro.
    La Riviera dei Cedri, appunto. Ma quest’area oggi significa turismo di massa, cemento spalmato ovunque, casino estivo.

    Il cedro: in Calabria meglio che in Asia

    Si ritiene che il cedro provenisse dall’India, e che da lì avesse raggiunto il Mediterraneo in seguito all’invasione della Persia di Alessandro il Grande (325 a.C.). Proprio in Calabria, l’agrume ha trovato un microclima stabile: sole tutto l’anno, acqua abbondante e terreni terrazzati dove crescere al riparo dei venti.
    Ma c’è da dire che forse le piante di cedro hanno radici ancora più antiche, in Calabria. Infatti, la cultivar autoctona del “Cedro Diamante” corrisponde esattamente alle caratteristiche del frutto rituale degli ebrei, l’etrog. In questo caso, l’agrume deve essere di un verde puro, sodo, liscio e lustro.

    Alessandro Magno: si deve a lui l’arrivo dei cedri nel Mediterraneo

    Il cedro di Calabria a misura di ebrei

    Il frutto deve essere spiccato dal ramo all’altezza del peduncolo, e deve provenire esclusivamente da piante allevate per talea. Al contrario, quelli cresciuti direttamente dalla terra, sarebbero considerati impuri.
    Per gli ebrei ortodossi di tutto il mondo il cedro Diamante è lo stesso descritto nella Thora (Lev., XXIII – 39). L’etrog è il frutto “dell’albero più bello”, necessario agli israeliti – insieme alla palma, al mirto, al salice – per celebrare Sukkoth, la Festa dei Tabernacoli, la festa del raccolto e della gioia, secondo quanto Dio prescrisse a Mosè durante l’Esodo.

    Una coltura antichissima

    Nell’alto Tirreno cosentino la coltura del cedro risale alla presenza in zona di comunità ebraiche sin dai primi secoli dell’era cristiana.
    Gli ebrei della diaspora tornarono periodicamente in Calabria nel corso del medioevo. Furono definitivamente cacciati, o costretti all’abiura e alla conversione, durante l’età di Filippo II. La loro espulsione definitiva risale al 1541.
    Per questo i contadini calabresi che hanno ereditato il cedro agli ebrei, dedicano alla crescita delle piccole piante di agrumi lunghe cure e sacrifici quasi religiosi.

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    Un rabbino impegnato nella raccolta dei cedri

    Come si produce

    Nelle cedriere servono quattro anni di laboriose potature, a partire dalla talea, per portare il fragile fusto del cedro a fruttificare.
    Si lavora solo a mano, tra le piante basse e profumate. Si sta carponi e si ripulisce periodicamente il terreno dalle zizzanie.
    D’inverno le piante che soffrono il freddo trovano riparo dietro i cannicci. Una pianta di cedro, anche se bene accudita, vive al massimo 20 anni e ogni anno produce non più di 60-80 frutti.
    Lo sforzo, tuttavia, è ripagato dal raccolto: il cedro di Diamante è il migliore del mondo e fa della sua rarità (non più di 6.000 quintali nelle annate migliori) e della qualità originaria un alto valore aggiunto. Coi suoi scarti e i derivati si preparano ancora oggi liquori, bibite e canditi artigianali di primissima scelta.

    L’arte del candito

    Anche la canditura tradizionale del cedro, divisa tra la macerazione in salamoia per due mesi nelle botti di gelso e la successiva canditura delle scorze asciutte con sciroppo di zucchero, si svolge ancora secondo le regole d’arte ebraiche. Questa lavorazione è detta “messinese” o “livornese”.
    Fino agli anni ‘70 il prodotto locale dopo il raccolto veniva commercializzato solo da pochi incettatori e grossisti. Nelle tasche dei produttori locali restava ben poco.

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    Una cedriera in tutta la sua bellezza

    Gli anni del boom: meglio che in Israele

    Poi dopo gli anni ’70, con la rinascita di Israele, la produzione calabrese di cedro fu “riscoperta” dalle comunità di ebrei ortodossi di tutto il mondo, che abbandonarono la qualità più scadente e commerciale del cedro di Portorico, coltivato intensivamente anche in California con abbondante uso di pesticidi.
    E c’è da dire che neppure in Israele riescono a ottenere un prodotto di qualità così elevata.
    Negli ultimi anni in questa zona la coltivazione del cedro rituale ha stimolato un commercio “transculturale” che in tempi di globalizzazione selvaggia e di turismo aggressivo è un esempio di economia sostenibile. Ciò accade quando, assieme ai prodotti, si scambiano anche valori e tradizioni di culture differenti e complementari.

    Culture a confronto

    Le ricadute economiche e antropologiche di questo fenomeno sono curiose ed evidenti. Tra luglio e agosto la Riviera dei cedri sembra un pezzo del quartiere Lubavitch trapiantato nel caos strombazzante delle vacanze all’italiana di Diamante e Santa Maria del Cedro.
    Arrivano i rabbini ortodossi. Sono i Rodal, i Lazar, i Peres, i Maghyar, i Levy, gli Havinery, i Basherijevitch di Amburgo, Londra, Odessa, New York, Tel Aviv, Buenos Aires. Barbe lunghe, cappelli a falda, peyot (i lunghi riccioloni che cadono dalle tempie) e soprabiti neri, nonostante il caldo.
    I volti sembrano usciti da una galleria di ritratti di Robert Visnjach, facce da Khassidim e da kibbutzim. Arrivano qui per acquistare e controllare di persona la raccolta dei piccoli cedri che sono indispensabili agli ebrei ortodossi per celebrare degnamente Sukkoth, che cade a settembre.

    Rabbini in posa a Santa Maria del Cedro

    I rabbini nelle cedriere

    I rabbini vanno nelle cedriere al mattino presto assieme ai contadini. Cominciano a lavorare all’alba in religioso silenzio.
    Il sacerdote va avanti lentamente e con cura scrupolosa ispeziona le piante una per una. Anche gli attrezzi devono essere puri.
    Il coltivatore lo segue con in mano una forbice da potatura, che servirà solo per quello scopo, e una cassetta di legno foderata di paglia. Ci si intende senza parlare.
    Il sacerdote si ferma a guardare i frutti da vicino, uno per volta. Ispeziona anche il tronco del l’alberello: il fusto deve essere sempre dritto e liscio, privo di segni e di insetti. Se li avesse, la pianta sarebbe impura e i frutti inservibili.

    Passato l’esame del fusto si possono raccogliere i cedri tra i rami bassi e le lunghe spine lanceolate. I frutti sono selezionati rigorosamente: non ci possono essere scarti. A questo punto il rabbino si sdraia per terra e guarda i frutti dal basso, scrutandoli tra le foglie senza mai toccarli prima della valutazione definitiva.
    Se infine decide di coglierli li indica al contadino, che li spicca con la forbice.
    Poi, più da vicino ma senza mai toccare il frutto, esamina ancora la buccia liscia e verde: la forma deve risultare perfettamente ovoidale a imitazione del cuore.

    Dopo la scelta

    Solo dopo questo vaglio, il piccolo agrume – non più di 300 grammi, il peso di un cuore umano – è avvolto nella stoppa ed è riposto nella cassetta di legno. Il coltivatore per ogni cedro buono scelto dal rabbino otterrà la somma stabilita.
    Il prezzo è sempre alto, perché dal rischio stagionale dipende anche la qualità e la quantità del prodotto scelto dai rabbini.
    Ci si saluta contenti con un arrivederci. Con la lunga consuetudine e la fiducia, si diventa amici.
    Infatti, molti rabbini dopo anni portano anche le famiglie in vacanza qui. Tra queste famiglie ebraiche e i coltivatori della Riviera dei cedri si è formato una sorta di intenso comparaggio interculturale.

    Una fase della raccolta dei cedri

    Fine del raccolto

    Quando la raccolta si è conclusa le cassette contenenti i cedri avvolti nella paglia e sigillati uno per uno da un coperchio prendono immediatamente la strada dell’aeroporto di Lamezia.
    Quindi i jet riportano a casa i rabbini e, nelle stive, le cassette di legno con i piccoli cedri.
    Gli agrumi dorati si risveglieranno solo un mese dopo, ancora lustri e profumati. E brilleranno per la festa degli ebrei della diaspora, forse già nel freddo di un altro continente, in una metropoli lontana.
    Qui restano gli alberelli, assediati dal cemento, tra gli abusi e i condoni edilizi mentre il traffico dell’estate scorre indifferente sulla vena pulsante della Statale.
    A noi resta un mondo che non sa più riconoscere la sacralità della natura e i frutti più antichi del lavoro dell’uomo.

  • Vergini: un rifugio per donne e bimbi nel cuore antico di Cosenza

    Vergini: un rifugio per donne e bimbi nel cuore antico di Cosenza

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    «Sei stata al mare?». «Sì, quello!». Fabiana punta il ditino contro una parete. Ti avvicini e capisci cosa indica. Un paesaggio marino in una cornice di legno. Ha appena due anni ed è una delle piccole inquiline della casa famiglia, per minori e donne in difficoltà, che ha sede nel complesso delle Vergini di Cosenza.

    Venti ospiti in tutto, stanze al completo. Eppure c’è un silenzio irreale tra il chiostro quadrangolare, il cortile e la chiesa, edificati nei primi decenni del Cinquecento, progettati dal capomastro della Valle del Crati Domenico La Cava. Fabiana ha i capelli lunghi e lisci e un visino mariano.
    Questo luogo ha una storia tutta al femminile. Il suo simbolo potrebbe essere la “Madonna della tenerezza”, esposta su un altare minore della chiesa. È una delle opere più antiche di tutta la città, un’icona di stile bizantino di fine Duecento, probabilmente realizzata da Giovanni da Taranto, simile e diversa dalla Madonna del Pilerio del Duomo Bruzio, detta galactrofusa, perché allattante.

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    La madonna Odigitria, l’icona bizantina della chiesa delle Vergini

    Questa Vergine Odigitria invece non allatta il suo bambino, lo presenta al mondo indicandolo con una mano e appoggia la guancia sul suo capo. Un dipinto ingiustamente meno noto e che da solo basterebbe ad attirare viaggiatori e turisti in quantità.

    Calata della corda: fuga d’amore 

    Un altro simbolo del posto è il coro ligneo settecentesco delle suore di clausura cistercensi. Un balconcino decorato con teste d’angelo, sostenuto da una volta di stucchi dorati. Dal 1811 il monastero ha ospitato fanciulle orfane, che quando si innamoravano, tentavano la fuga calandosi da una finestra, dando così il nome a uno dei luoghi mitici della toponomastica popolare: la zona della Calata della corda, tra via Liceo e Piazza dei Follari, dove un tempo c’era il mercato dei bozzoli della seta.

    Monastero di clausura e orfanotrofio

    Il complesso e articolato edificio è stato monastero di clausura, orfanatrofio, istituto educativo femminile. Oggi fa capo alla Fondazione di diritto privato Santa Maria delle Vergini, presieduta da Alessandra De Rosa. Oltre alla casa famiglia, c’è un asilo Montessori, gestito dall’associazione PappaMusic. I bambini del nido e dell’asilo bilingue giocano nel chiostro insieme con i piccoli ospiti della casa famiglia.
    Del complesso fa parte il Palazzo Sersale, costruito alla fine del 1400, grande protagonista della storia cittadina, perché ospitò l’imperatore Carlo V.

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    Il largo Vergini

    L’arte del cucito con la prof ucraina

    Destini cuciti e intrecciati. In questa cornice di narrazioni, appare ancora più significativo il laboratorio “L’arte del cucito”, ospitato nel vecchio refettorio dell’istituto. Le lezioni sono terminate a giugno e adesso si sta preparando una mostra. A guidare le corsiste, di diverse nazionalità ed età, dai venti ai settanta anni, è la costumista ucraina Natalia Kotsinska. Le associazioni “Maschere e volto”, che si occupa di teatro, e “Anteas”, attiva nel volontariato, coordinano il progetto. «Nonostante il bacino di utenza fosse vario, le corsiste si sono perfettamente integrate», spiega Imma Guarasci, direttore artistico di “Maschere e volto”.
    «Ha trovato il modo di integrarsi pure chi ha avuto inizialmente difficoltà nel comunicare per via della lingua, come nel caso di due giovani siriane. Una cosa bella è che nella scelta delle stoffe e dei colori per la realizzazione degli abiti, ognuna di loro è riuscita a recuperare elementi della tradizione della propria terra d’origine», spiega ancora Imma Guarasci, soddisfatta di un’esperienza nata sia per fornire competenze professionali, sia per far incontrare donne dal vissuto difficile.

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    La costumista Natalia Kotsinska dirige il corso di cucito

    Non ci sono più suore alle Vergini. Le “figlie di Sant’Anna” arrivarono nel 1887, dopo che erano andate via le monache di clausura cistercensi. Le ultime due sorelle hanno abitato qui fino allo scorso settembre. Hanno portato con sé tanti ricordi, nomi e vicende di ragazze cresciute tra queste mura.

    Un rifugio per mamme e bambini 

    Gina Nudo le ha conosciute bene. Lei è la decana delle educatrici. È qui da vent’anni.
    «Quando accogliamo le donne assegnate alla casa famiglia, cerchiamo innanzitutto di tranquillizzarle. Sono di varia nazionalità, sono tutte spaventate quando arrivano. Il nostro è un lavoro difficile, ma bisogna usare ogni giorno il cuore e le regole in giusta misura. Fare famiglia, appunto. Io e la mia collega, Giovanna Maio, ci occupiamo della vita quotidiana, intratteniamo i piccoli, ascoltiamo le vicende drammatiche, guidiamo mamme e bambini in un percorso di rinascita. A volte ritornano negli ambienti dai quali erano scappate ed è una grande tristezza».

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    L’educatrice Gina Nudo

    In molti casi però, continua Gina, e il suo viso si illumina, trovano la propria strada. «Spesso, quando termina il periodo di assegnazione da parte del tribunale, vogliono tornare da noi. Significa che siamo riusciti a costruire una rete di protezione e affetto».
    Sonia, 40 anni, è qui con sua figlia adolescente. Nella loro stanza ci sono libri, qualche ricordo, nessuna fotografia. «Quando siamo scappate da casa nostra non ho pensato agli oggetti, l’importante era salvare noi stesse».

    Fabiana torna a sorridere

    La madre della piccola Fabiana, una giovanissima donna originaria di un paese dell’est europeo, è in un angolo della stanza, ascolta e annuisce. «Da quando sono qui sono tornata a sorridere – sta raccontando Sonia, – perché ho ripreso a fidarmi di chi mi sta accanto».
    «Posso dire la stessa cosa», interviene la madre di Fabiana: «In questo luogo ho conosciuto mia figlia per la prima volta, mi dedico a lei, la vedo rinascere, gioca, ride, parla, mangia le polpette, mentre prima si rifiutava di masticare».

    I tricicli dei piccoli ospiti che frequentano l’asilo

    Il soggiorno è in una nuvola di profumi speziati. Afia, donna africana, sta cucinando per sé. Fa concorrenza alle cuoche storiche della casa famiglia, le sorelle Spadafora, Rosanna e Beatrice, che nutrono con amore.

    Fede, bellezza e solidarietà

    L’antica storia di questo luogo continua, in chiave multietnica, il suo secolare inno alla Madonna, testimoniato dalle preziose opere conservate nella chiesa a navata unica. La pala che decora l’altare principale racchiude in una ricca cornice dorata una doppia raffigurazione: una rara immagine di Maria morente e la sua assunzione in cielo. Un’opera cinquecentesca probabilmente sconosciuta a molti cosentini, come l’icona bizantina della tenerezza. Il portale di legno della chiesa, in stile barocco, è ricco di figure intarsiate dagli scalpellini di Rogliano di fine Seicento. Il chiostro, dove oggi sono sparsi i giochi di crescita di scuola Montessori, oltre quindici anni fa è stato set del film “Giuseppe Moscati. L’amore che guarisce”, di Giacomo Campiotti, con Beppe Fiorello e Kasia Smutniak.

    Una rara opera d’arte: l’assunzione della Vergine

    Tante vite sono passate da qua, eppure resta uno scrigno di misticismo e silenzio. Nessuno parla a voce alta, una volta varcata la soglia.
    Da qui si va via con un proposito: tornare. Sul portale di pietra che affaccia su Largo Vergini, sotto l’immagine di San Bernardo di Chiaravalle, l’educatrice Gina Nudo saluta e sembra leggere nel pensiero: «Tornate presto».

  • Polpo porcone: viagra dei mari

    Polpo porcone: viagra dei mari

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    Il polpo è una prelibatezza. In Calabria lo si prepara soprattutto ad insalata. Prima si eliminano occhi, becco e vescichetta, poi lo si cuoce in acqua bollente leggermente salata a fuoco molto basso. Non appena diventa tenero, si serve tagliato a tocchetti, con capperi, olive, pomodorini, foglie di basilico e peperoncino.

    Una cattiva fama

    Nel corso dei secoli, tuttavia, il cefalopode non ha goduto di buona fama. Anzi, era considerato di non facile assimilazione.
    Ad esempio, Galeno e i medici della scuola salernitana scrivevano che non bisognava mangiare polpi perché le loro carni legnose e fibrose, resistevano alla digestione e avvelenavano il sangue.
    Nei trattati di cucina in cui si davano consigli per vivere bene, si legge che i polpi incitassero alla incontinenza, erano poco nutrienti e particolarmente dannosi per lo stomaco.

    Pareri contrastanti

    Il polpo ha sempre affascinato gli uomini, che hanno espresso giudizi contrastanti. Aristotele e Plinio sostenevano che fosse un animale sciocco perché per curiosità si attaccava alle gambe del pescatore e si lasciava catturare.
    Era talmente tonto e avido da avvinghiarsi a una frasca d’ulivo trascinata dal fondo del mare fino a farsi tirare fuori dall’acqua.
    Eliano, invece, affermava che i polpi fossero animali intelligenti perché si acquattavano sotto le rocce, assumendone i colori per afferrare le prede. Giovio osservava che fossero talmente ingegnosi da mettere tra le valve delle ostriche una pietra per impedirne la chiusura.

    Un busto di Aristotele

    Il polpo fifone

    Secondo alcuni esperti il polpo era un animale vigliacco, che scappava di fronte alla minaccia, mimetizzandosi o spruzzando un liquido nero per intorbidire l’acqua. Serpetro scriveva che, essendo privo di vertebre, sangue e squame, fosse pavido e fuggisse dinnanzi ai nemici, rifugiandosi nella tana e alimentandosi dei suoi stessi tentacoli.
    Teofrasto aggiungeva che la sua pelle spugnosa e piena di fori cambiasse colore come quella di un camaleonte per la paura.

    Invece no: è tosto

    Per altri studiosi il polpo era, invece, un animale coraggioso e, quando raggiungeva una certa grandezza, conseguiva una forza tale da essere considerato una «tigre del mare». L’arcivescovo Olao Magno Gotho raccontava che fosse feroce, crudele, aggressivo e preferisse affrontare il nemico piuttosto che rinunciare al combattimento. Perciò aggrediva grandi pesci e spesso anche marinai, pescatori e palombari.
    Maier sosteneva che il polpo era il simbolo del coraggio: infatti era raffigurato nelle monete di alcune città della Magna Grecia per esprimere la forza e il carattere guerriero degli abitanti.

    Spendaccione o risparmiatore?

    Giovanni Fiore, ha interpretato una moneta di Thurio sui cui lati erano raffigurati un delfino e un polpo.
    Secondo lui il primo simboleggiava la volontà di girare per il mondo come un pellegrino. Al contrario, il secondo, attaccato tenacemente agli scogli, esprimeva la sedentarietà e la cura per i beni.
    Altri autori, invece, affermavano che il polpo fosse un dissipatore di sostanze e un divoratore senza ragione. Gli Egiziani, ad esempio, lo utilizzavano nei geroglifici per indicare chi era incapace di mantenere il frutto della propria potenza.
    Erasmo da Rotterdam sosteneva che la capacità del polpo di mimetizzarsi era un monito a non mettere al centro la propria cultura e a non disprezzare le altre.

    Erasmo da Rotterdam

    Il polpo secondo i santi

    San Paolo si era comportato come un polpo per evangelizzare e convertire gli ebrei, accettandone leggi e tradizioni.
    Per sant’Ambrogio, san Gregorio, san Basilio e altri santi predicatori, l’octopus era invece da disprezzare: un pesce molle senza fede e senza cuore, simile a quegli ignobili adulatori senza scrupoli, sempre pronti a mutar atteggiamento per compiere nefandezze e soddisfare i loro interessi venali.

    E secondo i saggi

    Eliano e Picinelli asserivano che il polpo fosse così avido e ingordo da non disdegnare gli esseri della sua specie e che mangiasse volentieri i suoi stessi tentacoli in mancanza d’altro cibo.
    Invece per Ateneo e Plinio le mutilazioni dei polpi erano dovute ai denti aguzzi di gronghi e murene che, grazie alla loro vischiosità delle membra, sfuggivano i tentacoli. Mirabella pensava che il polpo stampato sulle monete di Siracusa rappresentasse l’eterna lotta tra tirannia e repubblica.

    Bronzetti siracusani raffiguranti un polpo

    Il cefalopode simboleggiava, infatti, avarizia, ingordigia e superbia. Insomma, i vizi riscontrabili nel tiranno Dionigi che per anni aveva angariato i Siracusani.
    D’altro parere lo studioso Testa, secondo cui il polpo incarnava l’immagine della città siciliana. Era infatti immortalato assieme a una stella marina in alcuni piombi di navi mercantili, per simboleggiare che Siracusa fosse stata edificata su uno scoglio ove dimoravano i polpi.

    Il mollusco “porcone”

    Il polpo era considerato un animale “impuro” perché lascivo e libidinoso.
    Secondo gli Egiziani indicava un uomo incapace di staccarsi da una donna. E, secondo loro, solo l’erba pulicaria riusciva a farlo desistere dal coito.
    Si diceva che la bramosia sessuale spingesse i polpi ad accoppiarsi ripetutamente. Di più: erano così insaziabili che, anche dopo la cottura, rimanevano ben eretti sulla propria corona di tentacoli.

    Il polpo? Meglio del Viagra

    Chi mangiava polpi diventava più potente sessualmente. Giovio scriveva che questi molluschi si digerivano con difficoltà, creavano sangue impuro e tormentavano il fegato ma il loro «salsume» svegliava l’appetito di Venere. Il sugo e la carne dei polpi dissalati e bolliti gonfiavano il membro virile e ravvivavano la voglia sessuale persino tra i deboli.
    A Venezia i vecchi languidi e «mezzi morti» che desideravano procreare, acquistavano a caro prezzo i polpi essiccati o «invecchiati» dal sale che arrivavano da diversi porti del Mediterraneo.
    Anche le donne, per favorire il concepimento, inghiottivano pezzi di polpo ben caldi insieme a pastiglie composte di nitro, coriandolo e cumino.
    Le proprietà afrodisiache dei polpi spingevano i sacerdoti a considerarne le carni una minaccia per la salute di corpo e anima: la continua copulazione portava l’uomo alla rovina fisica e morale, così come accorciava la vita agli stessi cefalopodi.

    Troppo sesso fa male, anche ai polpi

    Plinio e altri scrittori affermavano che vivevano non più di due anni e che le femmine morivano di consunzione dopo la riproduzione.
    Il naturalista calabrese Minasi confermava che fosse proprio la brama sessuale a condurre alla morte i polpi prima del compimento di due anni.
    Per condannare la diffusa carnalità tra i fedeli, i predicatori cristiani usavano sempre la metafora del polpo che, spossato dai continui rapporti sessuali e senza forze, era preda dei nemici.
    Il citato Olao Magno Gotho scriveva che i polpi, per il veemente coito, si debilitavano al punto di farsi portar via dalle loro tane e divorare da fragili pesciolini.

    Pitagora proibiva ai suoi allievi di mangiare il polpo perché le sue carni spingevano alla copula. Come se non bastasse, vietava anche il consumo d’ortiche marine perché, bollite o fritte, anch’esse afrodisiache.
    I polpi a causa dei continui rapporti sessuali perdevano ogni forza e diventavano pavidi, mentre quando non copulavano erano dotati di vigore e coraggio al punto da assalire gli uomini.
    La brama sessuale portava alla morte e il polpo era catturato dai marinai sfruttandone la lascivia. In alcuni villaggi i pescatori calavano in acqua un polpo femmina attaccato a una corda, il maschio si avvicinava per congiungersi e i due cefalopodi, avvinghiati l’uno all’altro, erano tirati sulla barca.

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    Il polpo era addirittura additato come simbolo del demonio

    Polpo, padre dei vizi?

    Nel mondo antico il polpo incarnava le cattive abitudini degli uomini e i predicatori cristiani lo additavano come simbolo del demonio. Al contrario, in alcune città marinare era considerato una divinità e, presso alcuni popoli, alla nascita di un bambino per augurio si regalava un polpo alla puerpera.
    I polpi erano animali «doppi»: generatori e annientatori, pavidi e coraggiosi, fedeli e traditori, buoni e cattivi.
    Un proverbio antico diceva polypi caput per indicare quelle cose e quelle persone che non erano né tutte buone e né tutte cattive.

    Il polpo bifronte

    Il pensiero mitico va oltre il pensiero concettuale, gli opposti coesistono senza contrastarsi: sono aspetti complementari di una realtà unica.
    Il polpo indicava una zona di confine tra due mondi, il naturale e il soprannaturale, e tra due nature, la terrestre e la marina. Proprio questa convivenza degli opposti alimentava il suo mito. Era un ossimoro in cui i contrari si contrapponevano e si compenetravano: caos e ordine, visibile e invisibile vivevano l’uno accanto all’altro.