Categoria: Cultura

  • L’arte torna a casa, Belmonte rivuole indietro i suoi tesori

    L’arte torna a casa, Belmonte rivuole indietro i suoi tesori

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    Belmonte Calabro, la patria dei prestigiosi pomodori che si tagliano e si mangiano come se fossero bistecche, rivuole indietro le sue opere d’arte. Per ragioni sconosciute le hanno portate a Cosenza tra gli anni Ottanta e Novanta. Forse per avviarne i restauri, che poi si sono rivelati infiniti, forse per motivi di sicurezza, oppure per entrambe le cose. Fatto sta che le chiese di Belmonte Calabro sono state spogliate e chiuse, eccetto le parrocchie più grandi.

    «L’idea è di far rientrare la cittadina negli itinerari artistico-religiosi», spiega Stefania Bosco, storica dell’arte e restauratrice diagnosta, che dirige il “progetto Belmonte”. «Speriamo di poter riaprire tutte le chiese e di poter restituire loro le opere sottratte». Dovrebbero essere una ventina in tutto, disseminate tra i magazzini della Soprintendenza e della Curia.
    A giorni è attesa un’Annunciazione che recenti studi attribuiscono ad Antonello da Messina, mentre nel duomo sono stati appena recuperati due dipinti del Settecento a spese di un gruppo di belmontesi. A pilotare l’operazione dal basso, con una raccolta di fondi, è stata l’associazione Arte e bellezza, presieduta da Filippo Verre, a lungo medico di famiglia.

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    L’associazione Arte e bellezza festeggia il restauro dei due dipinti del ‘700

    La tavola preziosa che torna dopo quarant’anni

    Il ritorno del dipinto dell’Annunciazione è previsto proprio in questi giorni. Dopo quarant’anni, la tavola del Quattrocento sta per lasciare la Soprintendenza di Cosenza per rientrare a casa. Come Ulisse ad Itaca, come una parente amatissima partita tempo fa e attesa in patria. Un’opera di originale stile compositivo e ricca di simbolismi.
    Quando è stata portata via dalla deliziosa chiesa della frazione dell’Annunziata, si pensava che il suo autore fosse Pietro Befulco. E invece no, non è più cosa certa. Potrebbe essere di Antonello da Messina, il maestro meridionale che ha fuso l’arte italiana con quella fiamminga e che ha creato dipinti mozzafiato reinventando spazio e luce, come la Crocifissione e San Girolamo nello studio conservati nella National Gallery di Londra.

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    L’Annunciazione di fine XV secolo a Belmonte Calabro

    «È un’opera bellissima, una delle più importanti che abbiamo in Calabria, di una fattura molto raffinata. Il supporto è assai povero, una tavoletta di pessima qualità, ma la preparazione della stessa è straordinaria», spiega Stefania Bosco. E come se l’autore avesse raccolto un pezzo di legno qualsiasi per dipingerci sopra. Un supporto di fortuna che nel tempo è stato attaccato dai parassiti e che, per via della fragilità, ha messo a dura prova i tecnici durante le fasi di recupero. «Ma si è capito da subito – aggiunge, – che la scuola e il livello dell’artista erano molto alti».

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    I restauratori al lavoro. In primo piano, Stefania Bosco

    Vuole questo regalo per Natale il sindaco Roberto Veltri. La Soprintendenza ha richiesto standard di qualità e sicurezza molto precisi per poter riconsegnare l’opera. Lui, con il suo staff, grazie a fondi comunali e alla donazione di un imprenditore locale, ha predisposto «una stanza del Comune, dotandola del sistema d’allarme richiesto e di un dispositivo di controllo di temperatura e umidità. Abbiamo reso adatto l’ambiente per la buona conservazione dell’opera al suo rientro».

    C’è fermento nel centro storico di Belmonte

    Anche don Giuseppe Belcastro, responsabile delle chiese della cittadina, si sta dando da fare per riportare l’arte sacra nel borgo. «Iniziamo a vedere qualche risultato con il restauro dei due dipinti e il ritorno della tavola. È un primo importante passo, poi bisognerà impegnarsi per riavere tutto il resto. Grazie all’impegno competente e appassionato di Stefania Bosco il progetto Belmonte ha avuto una accelerata».
    È candidata ad ospitare un piccolo museo la chiesa dell’Immacolata, all’ingresso del centro storico. Risale al 1622 e ha un affascinante portale tardo rinascimentale. È stata recuperata in parte, ma ha ancora bisogno di interventi.

    «Siamo riusciti a restaurare tutti gli affreschi dell’abside e l’altare maggiore, grazie a una fusione di forze tra l’università, il Comune, la Curia, la Soprintendenza di Cosenza e le associazioni culturali San Martino e Barrueco», racconta ancora la Bosco, che lavora al progetto da un po’ di anni. Ha diretto i lavori di recupero dei due dipinti del Settecento del duomo e ha restaurato l’interno dell’Immacolata. Insieme a lei, la collega Donatella Barca e studenti dell’Università della Calabria. La chiesa è diventata un cantiere didattico prima della pandemia. Sette studenti del corso di laurea in Conservazione e restauro dei beni culturali dell’Università della Calabria, hanno pulito le superfici decorate, hanno stuccato, integrato la pittura, rifinito con gli strati di protezione.

    Il duomo di Santa Maria Assunta è anche nel centro storico. Sta accogliendo gruppetti di viaggiatori dalla fine di novembre, da quando la pala d’altare e L’ultima cena sono tornati ad antico splendore. L’Assunzione, del 1795, è del pittore di Borgia Francesco Basile. L’ultima cena è un’opera del pugliese Nicola Menzele, formatosi nella bottega partenopea di Francesco De Mura.
    «Siamo rimasti molto soddisfatti, non soltanto noi dell’associazione ma anche la cittadinanza», dice il dottore Verre, che è uno dei duemila abitanti del borgo, dove è rimasto a vivere dopo il pensionamento.

    Non solo Belmonte: la regione delle “invasioni” artistiche

    Come tutta la Calabria, Belmonte ha ospitato artisti di diversa provenienza «Non esiste una scuola calabrese, i nostri artisti, come Mattia Preti, Pietro Negroni, Marco Cordisco, per formarsi sono andati in altre regioni», racconta ancora la direttrice del progetto. «La Calabria esprime un’arte contaminata da culture diverse, che abbiamo assorbito e fatto nostre. E questo può essere anche un punto di forza».

    Non desta quindi meraviglia un’apparizione del grande Antonello da Messina a Belmonte. Alla Pinacoteca comunale di Reggio Calabria, lo scorso anno, sono rientrate due tavolette a lui attribuite e che raffigurano San Girolamo penitente e La visita dei tre angeli ad Abramo .
    Che Antonello è ad Amantea, a pochi chilometri da Belmonte, nel 1460, è attestato da un documento. Quell’anno il padre Giovanni affitta un brigantino e si dirige proprio sulla costa tirrenica cosentina. Sul piccolo veliero salgono l’artista, sua moglie, i figli, la servitù. Un trasloco dopo un periodo trascorso in Calabria?
    La città di Belmonte non si pone domande. Aspetta la sua Annunciazione. Ci sarà tempo per i certificati di paternità, «l’importante – dice il primo cittadino – è che torni a casa».

  • Giovanni Parisi, il campione dimenticato

    Giovanni Parisi, il campione dimenticato

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    Siete mai stati terroni? Il vibonese Giovanni Parisi una volta sì, quando era povero. Poi, veloce come i suoi pugni, è diventato un campione, uno dei più grandi che lo sport italiano abbia mai avuto. E più veloce ci ha lasciati, schiacciato tra le lamiere lungo le strade di Voghera, la città che lo aveva adottato. Aveva 42 anni. Lassù, nella provincia pavese dove il piccolo emigrante calabrese aveva trovato in palestra il rifugio dalle frecciate degli altri ragazzi sulle sue origini, Giovanni Parisi è ancora un eroe.

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    Giovanni Parisi, oro olimpico a Seoul ’88 tra i pesi piuma

    Oggi invece, pochi giorni dopo quello che doveva essere il suo 55esimo compleanno, di lui nella sua Calabria, nella sua Vibo, non restano che qualche sparuta traccia e sbiaditi ricordi. Eppure di questa terra – che oggi prova con dubbia grazia a intestarsi un briciolo dei successi di Marcell Jacobs celebrandone le estati rosarnesi – Giovanni Parisi resta il solo ad aver vinto una medaglia d’oro alle Olimpiadi moderne. Non solo: insieme a Nino Benvenuti e Patrizio Oliva (trionfatore però nell’edizione “dimezzata” di Mosca ’80) è l’unico pugile italiano ad avere aggiunto nella propria bacheca anche la cintura di campione mondiale, una volta passato tra i professionisti. Parisi di titoli iridati ne ha conquistati due, in altrettante categorie di peso differenti.

    Un precedente illustre

    Già, le Olimpiadi moderne. In quelle antiche, infatti, la Calabria se la cavava alla grande, tanto da potersi vantare di aver dato i natali a Milone da Crotone, probabilmente il più grande lottatore della sua epoca. Un uomo dall’appetito leggendario, come Michael Phelps, e che proprio come il plurimedagliato nuotatore statunitense aveva fatto incetta di allori olimpici imponendosi in sette edizioni tra il 540 e il 512 avanti Cristo.

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    La statua di Milone da Crotone esposta al Louvre di Parigi

    Di omaggi a Milone, però, il mondo è pieno. La Coca Cola gli ha dedicato una cartolina inserendolo tra i grandi campioni della storia delle Olimpiadi. C’è una città nel Maine (USA) che porta il suo nome. Senza contare la statua di Puget al Louvre oppure quelle nello stadio di Olimpia e nello stadio dei Marmi a Roma. O, ancora, il fatto che a citarlo nelle loro opere ci siano autori del calibro di Shakespeare, Rabelais, Dumas padre e Balzac. E come si chiama uno dei principali appuntamenti per gli appassionati di lotta greco-romana? Trofeo Milone. Giovanni Parisi, invece, di tributi, specie in Calabria, non ne ha mai ricevuti abbastanza. Né dopo la morte, sic transit gloria mundi, né quando la sua stella brillava sotto i riflettori al centro del ring.

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    Un cartello di benvenuto a Milo (USA)

    Da Vibo a Voghera

    Giovanni Parisi nasce a Vibo il 2 dicembre del 1967 ma l’abbandona ancora bambino; sua madre Carmela vuole lasciarsi alle spalle un marito uccel di bosco e cercare fortuna al Nord. Ci prova prima a Pavia, poi a Voghera. Carmela non gode di buona salute ma si ammazza di lavoro, dovunque lo trovi, per sfamare i suoi tre figli. Gli anni ’70 passano e Giovanni ha sempre meno voglia di trascorrerli tra i banchi. Irrequieto, diffidente, non esattamente il beniamino di tutti a causa delle sue origini e delle ristrettezze economiche. Una volta salta fuori dalla finestra della scuola (per fortuna la classe è al pian terreno) per darsi alla fuga. Il modo di scappare da quella vita lo trova nella boxe, sport di poveri per poveri.

    È il 1980 quando in palestra arriva quel ragazzo mingherlino, meno di cinquanta chili su un corpo sempre pronto a scattare. L’allenatore Livio Locarno, che negli anni successivi diviene quasi il padre mai avuto prima, lo chiama “nano” per temprarlo. Ma capisce presto che ha davanti uno di quei treni che, se va bene, passano una volta sola nella carriera. Il “nano” in realtà è un gigante. Di più: un campione. È velocissimo, disposto al sacrificio, con tanta fame e nessuna paura. E ha qualcosa che non tutti i pugili, anche tra i migliori, hanno: un pugno da K.O.

    Lacrime e ananas

    L’unica cosa che sembra poter fermare il ragazzo è l’ansia, che gli manda lo stomaco in subbuglio a ridosso di ogni incontro. Risolverà tutto con un semplice cracker mandato giù negli spogliatoi prima di infilare i guantoni. Da quel momento la strada per Giovanni Parisi si mette in discesa. Nel 1985 è campione italiano tra i piuma, titolo bissato un anno dopo tra i leggeri. Quando le Olimpiadi di Seoul si avvicinano, però, si rompe il metacarpo di una mano. È fuori dalla selezione azzurra in partenza per la Corea del Sud.

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    La nazionale italiana di boxe in partenza per Seoul ’88

    Ritroverà un posto solo grazie a un infortunio identico al suo occorso al collega Cantarella. Ma Franco Falcinelli, il selezionatore della delegazione italiana, non vuole che partecipi nella sua categoria abituale. Per il c.t. la concorrenza lì è troppa, Giovanni Parisi deve dimagrire per tornare tra i pesi piuma, pena l’esclusione dalla squadra. Inizia una corsa contro il tempo: sacrifici, sudore e tonnellate di ananas per tenersi in forza ma perdere peso. Poi, improvvisa, la morte di mamma Carmela. Parisi, distrutto dal dolore, si mette in testa di dover vincere per lei, per restituirle tutto quello che gli ha dato. E si presenta puntuale e in forma smagliante all’appuntamento con la Storia.

    Il bambino d’oro: Giovanni Parisi diventa Flash

    I Giochi dell’88 rappresentano una delle pagine più buie di quel grande romanzo sportivo che è la Boxe. Restano negli annali per l’oro scippato al leggendario Roy Jones Jr, che dopo aver massacrato per tutto l’incontro il suo avversario Park Si-Hun, vede i giudici assegnare il match all’incredulo e malmesso pugile di casa. Ma nessuno può battere Giovanni Parisi, non ancora ventunenne, in quei giorni.

    Il vibonese elimina gli avversari uno dopo l’altro. E quando sale per l’ultima volta sul ring gli bastano un minuto e 41 secondi per chiarire chi sia il campione. Il suo sinistro d’incontro si abbatte come un fulmine sul romeno Daniel Dumitrescu, che non riesce a rialzarsi. Con quel pugno a velocità supersonica Parisi fa suoi l’oro e un soprannome che si porterà appresso per il resto della carriera: Flash. Giovanni festeggia con una capriola poi le prime parole, i primi pensieri, sono per Carmela. E da quel giorno ogni volta che entrerà tra le sedici corde avrà al collo una mezzaluna d’oro su cui ha fatto incidere il nome della madre e la scritta “Seoul 88”.

    Flash in America

    È ora di passare tra i professionisti. E Parisi anche lì fa scintille. Il primo incontro senza caschetto lo disputa nel 1989 proprio in Calabria, nell’ex Cgr di Melito Portosalvo, a rimarcare il legame indissolubile con la sua terra natia. Tre riprese e l’americano Kenny Brown finisce K.O.
    Il titolo mondiale, invece, se lo aggiudica nella sua città d’adozione: il 25 settembre 1992 a Voghera manda a tappeto Francisco Javier Altamirano. La cintura di campione del mondo Wbo dei pesi leggeri è sua. La difende due volte, poi decide di lasciarla per passare tra i superleggeri.

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    Altamirano va giù e non si rialza, Parisi è campione mondiale

    Vuole l’America, si trasferisce lì, entra a far parte della scuderia di un altro mito della boxe (e della truffa): Don King. Il promoter dai capelli elettrici in quegli anni è il dominus della Noble art e gli organizza la sfida dei sogni: a Las Vegas Giovanni Parisi proverà a strappare la cintura Wbc nientepopodimeno che a Julio Cesar Chavez. Il Toro di Culiacàn si rivelerà un osso troppo duro per lui. Parisi resta in piedi fino all’ultimo, ma la sconfitta ai punti è l’unico verdetto possibile. L’appuntamento col secondo titolo mondiale, però, è solo rimandato.

    Giovanni Parisi torna in Calabria: la bomba a Vibo

    Parisi torna in Europa e nel 1996 a Milano si prende la cintura Wbo dei superleggeri sconfiggendo il portoricano Sammy Fuentes. Decide di difenderla nella sua Calabria, in quella Vibo che ha dovuto lasciare da piccolo. L’accoglienza non è esattamente quella che si riserva al figliol prodigo. Le operazioni di peso si svolgono nell’Hotel 501, ma pochi minuti dopo a due passi dalla hall scoppia una bomba. «È il racket, escluso dall’incontro, che ha voluto farsi sentire in maniera rumorosa? O una premessa estorsiva ai titolari del grande albergo?», chiede Pantalone Sergi dalle colonne di Repubblica. Domande che resteranno senza risposta.

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    Il manifesto dell’incontro, poi spostato, in piazza San Leoluca a Vibo

    Non è l’unico problema da affrontare per Parisi in quei giorni. Monsignor Onofrio Brindisi, parrocco del duomo cittadino, ha costretto gli organizzatori a spostare l’incontro da piazza San Leoluca alla periferia di Vibo. Secondo il prelato, disputarlo di fronte a una chiesa profanerebbe la sacralità del luogo. «Un’offesa alla cristianità? Spero – commenta Parisi – di far cambiare idea a monsignore. Vibo Valentia è la mia città natale e avevamo pensato di valorizzarla facendo ammirare in televisione le sue bellezze artistiche». Sarà per un’altra volta. Parisi sconfigge comunque l’inglese Nigel Wenton e festeggia tra i suoi corregionali. Sul ring dalle nostre parti, però, non risalirà più.

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    Giovanni Parisi festeggia la difesa del titolo sul ring di Vibo

    Il lungo addio

    Negli anni a seguire il pugile calabrese difende la cintura altre cinque volte, prima di doverla cedere al messicano Carlos Gonzalez. Prova a riprendersene una un paio d’anni dopo passando tra i welter, ma perde la sfida decisiva contro il portoricano Daniel Santos. Poi i problemi a quella mano che rischiavano di fargli perdere le Olimpiadi dell’88 ritornano, costringendolo a restare lontano dal ring per un paio d’anni. Annuncia più volte il ritiro, poi torna sempre, spinto dalla passione. Ha un’ultima grande chance, prendersi il titolo europeo dei welter contro il francese Frederic Klose. Subisce una batosta, le immagini di suo figlio che piange a bordo ring conquistano le pagine dei giornali. E lui, dicendo addio a quella boxe che gli aveva dato tutto strappandolo alla povertà, dedica al bambino una struggente lettera dalle colonne della Gazzetta dello Sport. È il 2006.

    Nemo propheta in patria: la Calabria e Giovanni Parisi

    Il 25 marzo del 2009 sulla circonvallazione di Voghera una BMW si schianta poco prima dell’ora di cena contro un furgone. Tra i rottami dell’auto c’è il corpo di Giovanni Parisi. Lì dov’era stato terrone, ora tutti piangono quello che considerano da tempo il loro campione. Danno il suo nome allo stadio e nel decennale della sua morte gli dedicano, col supporto della Rosea, una statua che lo ritrae mentre esce da una pagina del giornale per sferrare uno dei suoi formidabili pugni.

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    Voghera, la presentazione della statua dedicata a Giovanni Parisi

    Vibo, invece, fatica a ricordarlo. Ci provano i tifosi, che di recente hanno realizzato anche un bel documentario dal titolo Flash – La storia di Giovanni Parisi, un po’ meno le istituzioni locali. Certo, c’è ancora la decrepita targa che ricorda l’intitolazione di una struttura nel 2011 al pugile scomparso. Deserta la messa celebrata in suo onore nel 2016. A fine 2020 dal Comune arriva l’annuncio che, su proposta del pentastellato Marco Miceli accolta all’unanimità dagli altri consiglieri, una delle tredici “via Roma” presenti in città diventerà “via Giovanni Parisi”. Due anni dopo pare siano ancora tutte e tredici lì. Quella strada, dichiarava Miceli, avrebbe dovuto «essere da esempio e da stimolo per le nuove generazioni vibonesi, affinché credano nei propri sogni, trovando la forza di non mollare mai». Forse conviene la cerchino altrove, a Voghera magari.

  • C’era una volta la Sanità a Cariati [VIDEO]

    C’era una volta la Sanità a Cariati [VIDEO]

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    «Quando a Cariati hanno chiuso l’ospedale è stato come se avessero chiuso la Fiat». L’amarezza di Cataldo Curia, attivista del comitato Le Lampare Basso Jonio Cosentino, la dice tutta. Perché, oltre a garantire il diritto alla salute, il nosocomio del piccolo centro sulla SS 106 assicurava anche tanti posti di lavoro. Un presidio economico e sociale importante per molti medici, infermieri e personale sanitario della zona.

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    L’ingresso dell’ospedale di Cariati (foto Alfonso Bombini)

    Quando ha aperto, nel 1978, era una struttura così all’avanguardia che chi era già emigrato al nord decideva di tornare a Cariati per partorire “a casa”. «Mia madre abitava a Bolzano e decise di farmi nascere all’ospedale di Cariati perché all’epoca era una struttura all’avanguardia», rivendica emozionata una giovane donna, all’uscita dal cinema San Marco di Corigliano Rossano. È il 6 dicembre e ha appena visto la seconda anteprima nazionale del film documentario C’era una volta in Italia – Giacarta sta arrivando, dei registi Federico Greco e Mirko Melchiorre, prodotto da Studio Zabalik.

    C’era una volta l’ospedale a Cariati

    I due film-maker romani hanno scelto di iniziare proprio dalla punta dello Stivale, con tappe a Reggio e Rossano, il tour di questo “western” sulla distruzione della sanità pubblica in Italia. Un richiamo a Sergio Leone in salsa calabra, a partire dalla chiusura dell’ospedale di Cariati con la «resistenza epica» dei cittadini che lo hanno occupato durante la pandemia per chiederne la riapertura.
    C’era una volta in Italia è a tutti gli effetti il sequel di PIIGS, del 2017, film narrato da Claudio Santamaria, che racconta gli effetti nefasti delle politiche di austerity sul caso specifico del lavoro della Cooperativa sociale Il Pungiglione di Monterotondo (Rm).

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    Federico Greco durante le riprese a Cariati

    Stavolta Federico Greco torna alle origini. «Mio padre era di Crotone – ricorda il regista – e ho riscoperto questa terra filmandola». Si trovavano proprio nel capoluogo pitagorico, con il collega Melchiorre, e stavano facendo riprese per Emergency all’ospedale dove era appena arrivato Gino Strada per gestire il reparto covid.
    Lì vengono a sapere dell’occupazione dell’ospedale di Cariati e vanno subito a capire cosa stesse accadendo. «Non ricordo altre occupazioni di un ospedale prima d’ora – spiega Melchiorre – e ci ha colpiti il coraggio e la tenacia di questi cittadini, giovani e anziani insieme, che sono andati avanti a testa alta e con pazienza per rivendicare il diritto alla salute».

    Così è successo che il film è diventato parte integrante dell’occupazione. «Abbiamo seguito – spiega Greco – la lotta delle Lampare per molto tempo. Infatti abbiamo narrato sia i momenti duri, tristi, sia quelli molto entusiasmanti». Come l’appello di Roger Waters, proprio durante la loro intervista. «Le sue parole, come avete visto, sono finite su tutti i telegiornali e l’ospedale di Cariati è diventata una questione internazionale».
    Proprio come il documentario che, nel solco di PIIGS, segue il doppio binario glocal.

    Come distruggere la sanità pubblica

    Si parte dalla storia di un piccolo territorio e gli effetti delle politiche globali su di esso. La privatizzazione della sanità e il Washington Consensus, le dieci raccomandazioni dell’economista inglese John Williamson al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale e al Tesoro degli Stati Uniti, che puntavano alla liberalizzazione del commercio estero e del sistema finanziario, con l’obiettivo di attrarre capitali stranieri nei PVS (Paesi in Via di Sviluppo) per condizionare l’intervento statale nell’economia.
    Poi la riforma del Titolo V della Costituzione italiana, nel 2001, che di fatto trasforma il Sistema Sanitario Nazionale, in un sistema sanitario regionale, aggravando le grandi disparità economiche e sociali tra Nord e Sud Italia e la conseguente emigrazione sanitaria da quest’ultimo verso il centro-nord.

    Come risultato, documentato nel film, un’ambulanza privata della Misericordia, che si inerpica di corsa e a fatica sulle strade dissestate dell’entroterra jonico «che sembrano bombardate», fa notare Greco, per andare a prendere con la barella una persona nel paesino di Scala Coeli. «Abbiamo voluto mostrare, a chi calabrese non è, cosa significhi essere costretti a percorrere anche poche decine di chilometri dissestati in questi luoghi abbandonati, nella rincorsa al primo Pronto Soccorso vicino».

    Indonesia, Cile, Calabria: a ciascuno la sua Giacarta

    Il “metodo Giacarta” fu il massacro di comunisti nel genocidio in Indonesia deciso dal generale Suharto nell’ottobre 1965. Si replicò in Cile, quando per le strade di Santiago comparirono le scritte Ya viene Jacarta, un disegno mortale contro il presidente democratico Salvador Allende (e i suoi sostenitori), ucciso dal golpe militare di Pinochet l’11 novembre 1973.

    Giacarta, inteso come massacro dei diritti sociali, a partire dalla salute, è arrivata anche in Calabria. C’è una data precisa che lo testimonia e ringraziamo la collega giornalista Giulia Zanfino per averci concesso le immagini dell’intervista a Roberto Occhiuto, allora neoeletto deputato Udc, oggi presidente della Regione Calabria e commissario straordinario della Sanità calabrese.

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Il 9 ottobre 2010 sedeva in prima fila nel gremito Teatro Morelli di Cosenza, dove l’ex presidente Scopelliti presentava il piano di rientro dal debito sanitario. Occhiuto rivendicava la riforma e i tagli: «Oggi spieghiamo ai cittadini e agli operatori del settore che la sanità non può più essere un baraccone per alimentare clientele». E ancora: «Si possono tagliare i posti letto per impedire i ricoveri impropri e investire, allo stesso tempo, nella medicina territoriale, perché la qualità dei livelli essenziali di assistenza sia garantita a tutti».

    Su la testa

    Ma Giacarta arriva e non perdona. Solo che, anche in un territorio spopolato e spolpato come la Calabria, c’è chi non ci sta e si mobilita. E richiama l’attenzione di chi calabrese non è, ma coglie l’importanza di certe storie e decide di raccontarle, «anche se rischiano di vendere poco», spiega Alessandro Pezza, di Studio Zabalik, produttore del film. «A noi – precisa – piace il cinema scelto dagli spettatori e non imposto dalle case di produzioni. Ci siamo innamorati di questa storia perché i ragazzi dell’ospedale di Cariati hanno alzato la testa contro le ingiustizie e sono un esempio da seguire. Con questo film speriamo di farci anche portavoce dei diritti dei calabresi. Del resto, ormai ci sentiamo un po’ calabresi anche noi».

    Nell’attesa che arrivino risposte certe sulla riapertura completa dell’ospedale, continuano le proiezioni del film con la lotta delle Lampare del Basso Jonio Cosentino contro Giacarta “mani di forbice”. Le prossime?  Il 12 dicembre al cinema San Nicola di Cosenza alle 20 e al Nuovo Olimpia di Roma alle 21. Il 13 dicembre, sempre a Roma, ore 21, cinema Giulio Cesare.

  • Gigi Marulla, monaci e utopie: benvenuti a Stilo

    Gigi Marulla, monaci e utopie: benvenuti a Stilo

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    I viaggiatori politicamente corretti si riconoscono subito, fanno tenerezza. Ricordano Silvio Orlando in Ferie d’agosto, quando cerca vanamente di isolarsi dai rumori, dalla cafonaggine e dall’invadenza dei suoi vicini. Tenta inutilmente di arginare il mondo reale, rifugiandosi in un paradiso naturale, senza acqua corrente né elettricità, che rivelerà, però, tutti i suoi limiti.

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    Silvio Orlando in Ferie d’agosto (Paolo Virzì, 1996)

     

    I viaggiatori motivati, informati, consapevoli non li incroci nei luoghi più affollati. Se anche dovessero transitare su un lungomare, o in un centro commerciale, non si farebbero notare. Vestono in modo sobrio, quasi dimesso. Non ostentano videocamere e altre apparecchiature elettroniche. Non si espongono neanche troppo agli sguardi, dato che il più delle volte sono pallidi per le ore trascorse sui libri più in voga, nei musei e nei teatri.
    In un posto come Stilo, in provincia di Reggio Calabria, li individui subito, invece, perché spiccano in mezzo agli abitanti del borgo che ha dato i natali a Tommaso Campanella.

    Stilo, la terra dell’utopia

    Come accade in ogni paese del Sud, anzi in ogni meridione, i nativi osservano con sguardo compassionevole e divertito i viaggiatori che ammirano il paesaggio, rapiti dallo spettacolo. Per un nativo di Stilo quello è il panorama quotidiano, abituale, delle faccende di ogni giorno, lavoro, spesa, scuola, chiacchiere. Per un viaggiatore colto e curioso sbarcare a Stilo significa calpestare la terra dell’utopia, dove è nata la trama de La Città del Sole, la comunità perfetta immaginata dal filosofo.

    La Città del Sole, l’opera più famosa del filosofo Tommaso Campanella

    Non per caso ha scelto di chiamarsi Città del Sole anche l’albergo che affaccia sul corso del paese, ricavato da un immobile sequestrato alla criminalità. Un posto confortevole, funzionale, di misurata eleganza, con un bel terrazzo a disposizione degli ospiti, che riposando lì possono rielaborare i pensieri affiorati alla mente durante le passeggiate tra le chiese e le case di Stilo. Tommaso Campanella fu rinchiuso per quasi trent’anni in un carcere dagli spagnoli, per aver organizzato una congiura contro il dominio straniero, da queste parti. A quei tempi spagnoli e baroni, oggi la ‘ndrangheta e i suoi legami con la politica.

    Marulla e granite nel silenzio

    Il luogo di maggior richiamo ovviamente è la Cattolica; oggi la piccola chiesa bizantina è inserita in un percorso che segnala eremi e chiese rupestri, per viaggiatori che amano muoversi a piedi o in bicicletta, un turismo lento e rispettoso dei luoghi e del silenzio che regna, un bene prezioso da tutelare.
    Infatti intorno alla Cattolica i visitatori sono decisamente à la Silvio Orlando, ammiriamo la bellezza del sito e scrutiamo le pietre e le colonne, alla ricerca di una rivelazione misterica. Individuato come cosentino dal vigilante, vengo informato che il grande Gigi Marulla è nato a Stilo, il mio interlocutore è suo cugino. Non è proprio una rivelazione trascendentale, ma mi accontento. Sul calcio sono sprovveduto, devo compiere un percorso di iniziazione.

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    Il ricordo di Gigi Marulla all’ingresso della scuola calcio che aveva fondato

    Unica concessione al consumismo, davanti all’ingresso dell’area della Cattolica, un piccolo chiosco di bibite e gelati, segnalato in rete per la bontà delle granite artigianali. Mi concedo pure io la granita, anche se sono arrivato in macchina. Cerco di essere un viaggiatore politicamente corretto, ma subisco tutto il fascino del turismo becero. Poi col caldo di fine estate non sarei mai arrivato vivo a Stilo, marciando attraverso la montagna, con le provviste in spalla, come i fieri escursionisti che mi circondano, sudati e soddisfatti.

    L’eremo a Pazzano

    Il direttore dell’albergo Città del Sole insiste, dobbiamo assolutamente visitare l’eremo di Santa Maria della Stella, a Pazzano, comune confinante con Stilo. Così lasciando Stilo elaboro un breve itinerario mistico-montano e ci avviamo.
    Dopo pochi chilometri e tante curve arriviamo all’eremo, in una posizione meravigliosa, con una vista splendida sullo Ionio. Naturalmente arrivano alla spicciolata altri viaggiatori consapevoli, alcuni con bambini al seguito, che per ora subiscono i viaggi culturali imposti da mamma e papà, in attesa di diventare grandi e fuggire verso le discoteche dello sballo.
    Cerchiamo di capire come accedere alla grotta, è stato organizzato un sistema di apertura con moneta, un euro a persona, come contributo per l’illuminazione e le pulizie del luogo.

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    L’eremo di Santa Maria della Stella

    Una signora piuttosto scorbutica non si degna di rispondere alle educate richieste di spiegazioni. Temiamo di rimanere rinchiusi per sempre nell’eremo, una volta entrati. Potrebbe essere pure una soluzione a tanti problemi della vita che tentiamo di lasciarci alle spalle andando per eremi bizantini. Vedo inconsapevoli bambini seguire fiduciosi i genitori nella grotta, quando capiranno i rischi a cui sono stati esposti saranno dolori.

    Un viaggio nel tempo fino a… Bivongi

    Ultima tappa a San Giovanni Theristis, nel comune di Bivongi. Un monastero bizantino riportato in vita da un monaco greco, partito dal Monte Athos per recuperare questo angolo di Medioevo dimenticato dai calabresi. Solita strada orrenda, soliti viaggiatori pazienti alla ricerca del sacro. Sembra davvero di viaggiare nel tempo, qui. I monaci non ci degnano, passano silenziosi attraverso il prato, immersi nelle proprie faccende. Caprette e galline negli spazi riservati alla vita quotidiana.

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    Bivongi, il monastero di San Giovanni Theristis

    I monaci non colgono gli sguardi desiderosi di ascesi e incuriositi dei turisti pellegrini dello spirito. Si comportano sempre così, forse la loro regola li obbliga a mantenere le distanze. Non si coinvolgono come i sacerdoti cattolici, sempre in mezzo alla gente, a sbracciarsi nell’accoglienza e nell’inclusione delle pecorelle smarrite (sennò papa Francesco li rimprovera), a mostrarsi comprensivi e indulgenti verso le magagne dei peccatori. I monaci ortodossi, mi pare, non si fidano dei cattolici, custodiscono ancora la memoria della crociata del 1204, quando i cavalieri con la croce, anziché attaccare i musulmani, saccheggiarono Costantinopoli e le sue chiese. Certo che dopo ottocento anni potrebbero pure metterci una pietra sopra. Poi non credo ci siano molti cattolici praticanti tra i visitatori degli eremi sperduti.

    Via dal paradiso

    Andiamo via consapevoli che il paradiso terrestre per ora non possiamo permettercelo, ci tocca tornare nella vita quotidiana. Sosta a Monasterace Marina per qualche conforto materiale. Spiagge affollate, musica ad alto volume, corpi abbronzati ed esposti impudicamente, pure quando le pance e i culi cascanti richiederebbero veli pietosi. Sempre il solito dilemma, godersi i beni terreni più immediati o faticare per distaccarsi dalle miserie del mondo? Ci vorrebbe un consiglio bibliografico di Tommaso Campanella. Durante i trent’anni di carcere avrà avuto modo di chiarirsi tante questioni per noi ancora irrisolte.
    Intanto ci tocca la statale 106, un purgatorio moderno.

  • Cuddrurìaddri, il buco (fritto) con Cosenza intorno

    Cuddrurìaddri, il buco (fritto) con Cosenza intorno

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    Che poi è facile friggere i cuddrurìaddri a dicembre, quando lo fanno praticamente tutti: è facile come dire che la statua di Mancini non gli somiglia, che i lavori di viale Parco non finiranno mai e che davanti al bar Continental c’è sempre una macchina in doppia fila almeno due di questi tre assiomi cosentini sono assolutamente veri, peraltro. 

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    Anche Telesio sul web si unisce al rito dei cuddrurìeddri

    Eppure ci sono almeno tre posti di Cosenza (li sveleremo alla fine così siete obbligati a leggere fino in fondo) in cui il nostro fritto tipico fa durare le vigilie non un mese (7, 24 e 31 dicembre, ben più raramente il 5 gennaio) ma dodici mesi, o quasi.
    Forse non tutti sanno che anche da febbraio a novembre, in un giorno della settimana fissato solitamente nel venerdì – momento votato al pesce o comunque negato alla carne, di qui forse lo scivolamento semantico alle ricette di mare natalizie e di lì a tutto il resto, fritti compresi – su fogli di carta ‘nzivàti vengono annunciati in vetrina, spesso in incerto lettering tracciato rigorosamente a pennarello, banchetti e pentoloni d’olio che vanno in ferie solo quando il caldo si fa insopportabile anche per i forzati dell’unto e della frissùra.

    La stessa cosa accade con le frìttule e gli scarafùagli, in poche e selezionatissime macellerie tipo Pilerio – nomen omen – su via Nicola Serra, zona Loreto, una di quelle botteghe dove al posto dell’insegna c’è una minuscola targhetta di latta con la licenza risalente agli anni ‘50/60. Ma non divaghiamo ché la faccenda è seria.  

    Il mistero della vecchiaréddra

    A Cosenza esiste una vecchietta natalizia più iconica della Befana. Sarebbe stato bello, infatti, se il senso di questo articolo fosse stato “Alla ricerca della vecchiaréddra perduta”: o meglio, bisognerebbe risalire alla sua escalation – da circoscrivere al massimo all’ultimo ventennio – e soprattutto alla ricetta originale.
    In assenza di fonti, nel range bibliografico che va da La cucina calabrese in 300 ricette tradizionali di Ottavio Cavalcanti (Newton&Compton, 2003) al formidabile e forse sottovalutato Calabria in cucina di Valentina Oliveri (Sime Books, 2014), abbiamo trovato una flebile traccia della dicotomia forma circolare vs. forma allungata soltanto in un remoto volumetto sulle grandi cucine regionali edito dal Corriere della Sera nel 2006.

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    Crispeddi appena fritte

    Ebbene, in un glossario in appendice, alla voce Crispeddi ecco, pur senza menzione della versione con G iniziale, una distinzione di massima: «Due le versioni di questa preparazione: una salata, fatta con pasta da pane lavorata con strutto fino a ottenere panini allungati, farciti con acciuga dissalata e origano, quindi fritti; e una dolce, preparata con ricotta zuccherata e, una volta fritta, servita cosparsa di zucchero».

    Niente di più sulla versione circolare e salata né, soprattutto, sulla genderizzazione – come direbbe Michela Murgia – e sulla connotazione anagrafica imposte a Cosenza alla versione salata e allungata con acciuga. Insomma, per ora la genesi anche etimologica della vecchiaréddra resta avvolta nel mistero, oltre che nell’alone di frittura. 

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    Acciughe in una vecchiaréddra

    Qualcosa di erotico

    Senza avventurarci nella infinita e periodica disputa sulla corretta grafia/dizione del termine maschile (doppia D o doppia L? Serve qualche H?), ma non dopo aver preso posizione optando per la forma basic, diciamo anzitutto che la pronuncia è quella dell’inglese children.

    Poi chiariamo una cosa: il cuddrurìaddru – prima ancora della variante vecchiaréddra che è comunque successiva, in virtù di un imprinting tipicamente patriarcale vigente nel mondo bruzio – non è da considerarsi una “devozione” nell’accezione partenopea o comunque meridionale del termine; laddove per “devozione” lì s’intende una tipicità del Natale, ciò che al contrario risulta impossibile nella città blasfema e sboccata dove «rompere la devozione» significa tutto tranne che «rompere una ricetta tradizionale natalizia» (sulla “divozione” nel senso di organo riproduttivo maschile manca un solido corredo filologico, persino nel fondamentale dizionario di Gerhard Rohlfs, il quale su cuddrurìaddru spiegò invece il legame con il greco kollùra = ciambella, nelle varie forme dialettali calabresi che abbracciano diversi cibi a forma circolare, dal pane ai biscotti ai fichi alle focacce e persino ad anelli vegetali o di vimini). 

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    A Cosenza Vecchia si venerano i cuddrurìaddri

    Piuttosto, antropologi del cibo dovrebbero chiarire il capovolgimento concettuale nonché formale in base al quale la versione maschile della ricetta (cuddrurìaddru, di qui in poi solo C, per una questione di comodità) abbia forma circolare mentre quella femminile (vecchiaréddra, V) sia allungata: una specie di teoria lgbtqi+ adattata alla gastronomia, notata anche quando si parla di fico, frutto-non-frutto e per di più transgender (noi dicendo «ficu» bypassiamo eventuali dibattiti colti su fica, fic* o addirittura ficə). 

    E dunque ritorniamo alla disfida della frissùra, che ne contiene altre minori al suo interno, a partire dall’olio da usare: proviamo a fare un po’ di chiarenza (cit.).

    Olio, ingredienti, ripieni

    Essendo la cucina e in generale “il mangiare” qualcosa di sacro alle nostre latitudini (un infinito per definire al contrario quanto di più concreto esista, per un cosentino: «Hai portato il mangiare?»), tutto ciò che è contenuto in questo perimetro diventa oltremodo serio, appena un gradino sotto il Cosenza ma uno sopra tutto il resto (donne, famiglia, soldi etc.).

    Capitolo olio: l’attualità di questo strano 2022 ci fa impattare purtroppo su prezzi altissimi per gli oli di semi (girasole, arachidi, misti), un tempo considerati “poveri” e oggi con prezzi da Brunello di Montalcino. E allora, con un colpo di reni autarchico-sovranista possiamo optare anche per un extravergine (evo) locale, come giustamente suggerisce Dino Briglio Nigro, vigneron dalla barba marxista famoso per le sue magnum, non nel senso di armi ma di bottiglie di vino: «Olio d’oliva, sempre, almeno a Cleto dove il più povero ha 50 ulivi». Dunque, chi può lo faccia, magari mettendo da parte gli onanismi cerebrali sul celeberrimo e temutissimo “punto di fumo”. 

     

    Altro argomento su cui non esistono disciplinari o ricette depositate – se non nelle agende delle cuciniere cosentine, patrimonio (im)materiale Unesco – è il giusto dosaggio di patate, farina/e, lievito, nonché sui ripieni delle V, e quindi alici, ‘nduja o sardella con relative varianti da bancone dai nomi improponibili tipo “pesciolini piccanti”; ci avventureremmo in un campo più minato della carbonara o dello spritz perfetti. Una cosa è certa: meno patate significa spesa più bassa dunque meno materia prima e più farina insomma qualità più scarsa. 

    A proposito, le patate: ancora ieri un fruttivendolo (zona Sopraelevata) consigliava con sicumera quelle a pasta gialla di Parenti, sfuse, rispetto a più anonimi ed economici sacchetti. Naturalmente la Ipg silana, forte anche del battage pubblicitario nazionale e della massiccia presenza nella grande distribuzione, la fa da padrona. 

    Su una cosa si può essere invece d’accordo: in fatto di accompagnamento musicale a tema ci sentiamo di consigliare la bossanova di Enrico Granafei, un must che per i cosentini social è paragonabile soltanto al video virale e poeticissimo “pàranu piume” quando si deve commentare l’arrivo della prima neve, magari con tanto di hastag #jarammalidìtta.

    Ma ora è il momento di allargare la visuale, fare un passo indietro e alzare un altro po’ la musica, e soprattutto la fiamma.  

    Cuddrurìaddri per Carlo V

    Il panzerotto è il generico del C come la brioscia con la palla lo è del maritozzo. Non solo: visto che il fritto è qualcosa di ancestrale, a Cosenza il tempio del freet (perché non chiamare con questa crasi lo street food fritto? mah) per eccellenza si trova alla confluenza tra Crati e Busento: luogo germinale della città. In principio fu la friggitoria Sasà, tra l’altro uno dei pochi luoghi o forse l’unico dove potete trovare le birre artigianali sanlucidane Gio Bi, si trova nel punto esatto da cui Federico II passò 800 anni fa imboccando il futuro corso Telesio per andare a inaugurare il Duomo, la porta dell’entrata solenne, tre secoli dopo, di Carlo V al quale magari fu offerto un embrionale C (la V ancora non esisteva…) in segno di ospitalità.

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    Il Duomo di Cosenza

    Poco lontano, su via Sertorio Quattromani, le narici di un piccolo Stefano Rodotà venivano sopraffatte dalle invadenze olfattive di una arcaica friggitoria sotto il livello della strada, dove anni dopo avrà sede Reda, meta prediletta dei panzerotti-addicted di tutte le età soprattutto a cavallo tra gli ’80 e i ‘90. 

    Sì, perché i cosentini raramente rinunciano allo spracchio (sottocategoria culinaria del chiurito) del panzerotto: sostituisce in un certo senso la michetta al prosciutto del centro-nord Italia ma anche il morzeddu (letteralmente piccolo boccone) dei catanzaresi, i quali ci scusino anche loro per la forma scelta, con S e senza H. 

    Una short list minima (10 posti)

    Si può alimentare questa dipendenza tutto l’anno in altri luoghi simbolo di Cosenza come La Rotonda sul sagrato di piazza Loreto, mentre simili stand in legno vengono montati nel periodo pre-natalizio come emanazione di pizzerie o bar aperti tutto l’anno (vedi Totò pizza su viale Mancini in zona carcere), U paisanu (via XXIV Maggio) in questi giorni parcheggia un’Ape Piaggio dovutamente carenata in versione friggitrice mobile ma in realtà immobile, e con la fila. Poi meritano una menzione la pasticceria Orrico su viale Cosmai (solo su prenotazione, e quest’anno anche con C e V “sospesi” per l’associazione di volontariato Home odv), l’Arte del pane (via Monte San Michele), il Bronx (via Caloprese – piazza Loreto), Pasti e impasti (ex Pizzami, piazza Europa), Comalpi (via Panebianco).

    Covid o non covid, a Cosenza si frigge in uno dei chioschi aperti per le festività natalizie (foto Alfonso Bombini)

    Infine tra gli eventi interessanti in ambiente mixology si segnala, sabato 10 dicembre dalle 18,30 alle 22, un aperitivo a base di C e V con i distillati dell’Opificio artigianale degli spiriti (via Rivocati) e le creazioni artistiche di Toni Annunziata (La Sal De Color); l’8, il 24 e il 31 dicembre tornano al Gizmo di via Quasimodo a Rende gli Spritzurìaddri (gradita la prenotazione). 

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    L’adesivo che omaggia i cuddrurìaddri apparso in questi giorni sui muri della città

    Fuori da questa lista, che poteva arrivare tranquillamente a 100, sia chiaro, restano fuori decine di locali e soprattutto uno che il “freet food” ce l’ha nell’insegna: se Siamo Fritti (via Roma) non sforna né CV lo fa per una scelta di campo, quasi filologica, una citazione uguale e contraria che rende un tributo al compianto Tonino Napoli: al tempo del Pantagruel di Rende, proponeva anzi imponeva ai clienti i turdiddri come dolce fuori dal periodo canonico. «Perché dobbiamo mangiarli solo a Natale?». Un concetto espresso bene in un adesivo che da qualche giorno inizia a occhieggiare sui muri della città: “Cuddruriaddru everywhere”.

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    Tonino Napoli

    Dove trovarlə sempre

    Il bar 667 (via Nicola Serra lato piazza Zumbini) è stato tra i primi a sfruttare l’onda lunga, e oleosa, della frittura natalizia sdoganandola presso i fautori del C o della V senza legacci festivi comandati. Alla vecchia scuola appartiene anche il Bar del Moschettiere, mitologico locale in zona autostazione dove potete trovare una delle ultime zuccheriere con doppio cucchiaino e coperchio automatico rimaste in città, o forse in Calabria o Italia (in Europa sarà già intervenuta l’Ue).

    Altro luogo dove si pratica il “freet” è all’inizio di via degli Stadi (angolo Città 2000 / San Vito alto) al minimarket Gran Risparmio, uno di quei posti che mantengono il fascino vintage nonostante il recente cappello della Gdo, in questo caso Carrefour Express. Queste segnalazioni risalgono al periodo pre-Covid quindi forse hanno subìto un rallentamento nell’ultimo triennio, ma basta attendere il passaggio della Befana per verificare il primo venerdì possibile se la tradizione continua. Speriamo di sì. 

    Vecchiaréddre worldwide

    Infine, tornando a cosa bere, per fare i toghi potremmo consigliare un pairing con una bollicina (ormai non ne mancano di ottime anche calabresi) che notoriamente «sgrassa», invece optiamo per una birra artigianale o un vino casarùlo mediamente forte e capace di creare un tappeto alcolemico adeguato per i volumi dicembrini, quando un hang-over lungo un mese (7 dicembre / 7 gennaio, quando il mantra al bar torna a essere “Uvucafé?”) vi renderà all’altezza di una sfida con quelle nonnette di Dublino che nel tardo pomeriggio al pub alternano i bicchierini di whisky con le pinte di Guinness. Ma quelle, benché altrettanto meritevoli di rispetto, ci mancherebbe, appartengono a un altro genere di Vecchiareddre.

  • Golpe Borghese: massoni, Servizi e ‘ndrangheta nella notte della Repubblica

    Golpe Borghese: massoni, Servizi e ‘ndrangheta nella notte della Repubblica

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    Per qualcuno, una delle pagine più oscure della storia della Repubblica. Per altri, invece, un’adunanza di nostalgici, che mai avrebbe potuto prendere il potere. Si dibatte ancora, a distanza di 52 anni, sul tentato golpe Borghese. E tante sono, ancora oggi, le zone d’ombra su un’azione che aveva come proprio centro nevralgico la Calabria.

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    Il “Principe Nero” Junio Valerio Borghese molti anni prima del tentato golpe

    Il Golpe dell’Immacolata

    Un ex gerarca fascista, pezzi di destra eversiva, la P2 di Licio Gelli, pezzi di ‘ndrangheta. Una commistione di realtà e di interessi che, a metà tra storia e mito, rende il racconto ancor più inquietante. Quel progetto eversivo sarebbe dovuto scattare nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970. E si incastra in un momento di enorme cambiamento nelle dinamiche della ‘ndrangheta.

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    Ciccio Franco, uno dei protagonisti della Rivolta di Reggio

    Il primo triennio del 1970 è quindi decisivo, perché, con la rivolta di Reggio Calabria, nata, in maniera del tutto naturale, a causa della decisione politica di assegnare il capoluogo della regione a Catanzaro, le cosche riescono a entrare in contatto anche con diversi membri della Destra eversiva. Secondo molti collaboratori di giustizia, infatti, al fallito golpe, messo in atto da Junio Valerio Borghese, nel dicembre 1970, avrebbero preso parte anche centinaia di affiliati alle cosche.

    Un uomo da romanzo, il “principe nero”. Ex comandante della Decima Mas, fiero e carismatico avrebbe tentato di mettere in atto l’ultimo colpo d’ala di una vita avventurosa. Sfruttando, peraltro, il periodo che viveva la Calabria. Esattamente in quegli anni, infatti nasce la Santa, la ’ndrangheta lega il proprio destino alla massoneria. Un legame che è proseguito negli anni e che è ben stretto ancora oggi.

    Un sentiero che porta a Montalto, nel cuore dell’Aspromonte

    Il summit di Montalto

    Tutto affonda nel summit di Montalto del 26 ottobre 1969. In quell’incontro, nel cuore dell’Aspromonte, l’anziano patriarca Peppe Zappia ammonisce sulla necessità della ‘ndrangheta di organizzarsi, di essere unita. «Non c’è ’ndrangheta di Mico Tripodo, non c’è ’ndrangheta di ’Ntoni Macrì, non c’è ’ndrangheta di Peppe Nirta», dovrà tuonare nel corso della riunione. Si discute di strategie, si discute di equilibri, si discute dell’alleanza con la Destra eversiva. Quella di Junio Valerio Borghese. Ma anche di Stefano Delle Chiaie, uomo forte di Avanguardia Nazionale. Legami, quelli tra le cosche calabresi e la destra eversiva, che si protrarranno per anni, fino ai rapporti tra la cosca De Stefano e Franco Freda.

    Stefano Delle Chiaie in un’aula di tribunale durante uno dei tanti processi che lo hanno visto coinvolto

    Le divergenze tra i clan scaturiranno, invece, negli anni Settanta, nella prima guerra di mafia, in cui cadranno, tra gli altri, don ’Ntoni Macrì, e don Mico Tripodo (ucciso nel carcere di Poggioreale), oltre ai fratelli Giovanni e Giorgio De Stefano, che fanno parte, però, della “nuova mafia”. Del nuovo che avanza, appunto.

    La ‘ndrangheta e le mafie in generale sarebbero dovute essere l’esercito di Borghese. Di contatti fra elementi mafiosi ed emissari di Junio Valerio Borghese parla anche il boss siciliano Luciano Liggio nel corso di una udienza svoltasi il 21 aprile 1986 dinanzi alla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria. Liggio racconterà di una riunione che si era tenuta a Catania con la presenza di Salvatore Greco, Tommaso Buscetta e dello stesso Liggio per discutere in merito all’adesione al golpe.

    Il piano per il Golpe Borghese

    Proprio i De Stefano e i Piromalli – le due cosche che, più delle altre, sarebbero artefici dell’ingresso della ‘ndrangheta nella massoneria – sarebbero state le famiglie calabresi più impegnate a favore del progetto di Borghese. A un nucleo speciale coordinato da Gelli sarebbe stato affidato il compito di rapire il Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat.

    Il particolare emerge dalla sentenza-ordinanza emessa dal giudice di Milano, Guido Salvini. «Si trattava di un compito primario sul piano operativo e istituzionale nell’ambito del progetto di golpe e non è un caso che tale incarico fosse affidato ad un uomo del livello di Gelli, che godeva di molteplici, e allora ancora nascosti, contatti con i Servizi Segreti, l’Esercito, l’Arma dei Carabinieri e forse con Centrali internazionali» – si legge nel documento.

    La presa del potere

    «Italiani, l’auspicata svolta politica, il lungamente atteso colpo di stato ha avuto luogo. La formula politica che per un venticinquennio ci ha governato, e ha portato l’Italia sull’orlo dello sfacelo economico e morale ha cessato di esistere. Nelle prossime ore, con successivi bollettini, vi saranno indicati i provvedimenti più importanti ed idonei a fronteggiare gli attuali squilibri della Nazione. Le forze armate, le forze dell’ordine, gli uomini più competenti e rappresentativi della nazione sono con noi; mentre, d’altro canto, possiamo assicurarvi che gli avversari più pericolosi, quelli che per intendersi, volevano asservire la patria allo straniero, sono stati resi inoffensivi. Italiani, lo stato che creeremo sarà un’Italia senza aggettivi né colori politici. Essa avrà una sola bandiera. Il nostro glorioso tricolore! Soldati di terra, di mare e dell’aria, Forze dell’Ordine, a voi affidiamo la difesa della Patria e il ristabilimento dell’ordine interno. Non saranno promulgate leggi speciali né verranno istituiti tribunali speciali, vi chiediamo solo di far rispettare le leggi vigenti. Da questo momento nessuno potrà impunemente deridervi, offendervi, ferirvi nello spirito e nel corpo, uccidervi. Nel riconsegnare nelle vostre mani il glorioso tricolore, vi invitiamo a gridare il nostro prorompente inno all’amore: Italia, Italia, viva l’Italia!»

    Con queste parole, l’ex comandante della X Mas avrebbe dovuto salutare la presa del potere. Non un progetto fantasioso di arzilli nostalgici del Ventennio, ma un piano studiato nei minimi particolari in accordo con diversi vertici militari e membri dei Ministeri. Il golpe del Principe nero prevedeva l’occupazione del Ministero dell’Interno, del Ministero della Difesa, delle sedi Rai e dei mezzi di telecomunicazione (radio e telefoni) e la deportazione degli oppositori presenti nel Parlamento.

    Le dichiarazioni dei pentiti

    Tra i primi a riferire, nel 1992, dei legami tra ’ndrangheta e Destra eversiva per il tentato golpe Borghese è il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro. Dichiara anche che nell’estate del 1970 avvenne un incontro a Reggio Calabria tra i capibastone dei De Stefano (Paolo e Giorgio) e il principe Borghese attraverso l’avvocato ed ex parlamentare Paolo Romeo (secondo il collaboratore, ’ndranghetista ed esponente di Avanguardia Nazionale) per discutere sul colpo di stato.

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    Paolo De Stefano, boss della omonima famiglia prima di essere ucciso nel 1985

    Le sue dichiarazioni sono contenute nella sentenza-ordinanza del giudice istruttore di Milano, Guido Salvini, sulle attività della Destra eversiva. Nello stesso procedimento figuravano, tra gli altri, proprio Stefano Delle Chiaie e Licio Gelli: «[…] Più volte alla ’ndrangheta fu richiesto di aiutare i disegni eversivi portati avanti da ambienti della Destra extraparlamentare fra cui Junio Valerio Borghese; il tramite di queste proposte era sempre l’avvocato Paolo Romeo. I De Stefano erano favorevoli a questo disegno e in particolare al programmato golpe Borghese».

    A parlarne è anche l’ex estremista nero, Vincenzo Vinciguerra: «La mobilitazione avvenne nella provincia di Reggio Calabria e si trattava di un gran numero di uomini armati. Anche in Calabria venne fatto riferimento, da persona che non intendo nominare, alla possibilità di mobilitare 4000 uomini sempre appartenenti alla ’ndrangheta ove la situazione politica lo richiedesse».

    Gli appartenenti alla ’ndrangheta, armati e mobilitati per l’occasione sull’Aspromonte, erano stati messi a disposizione dal vecchio boss Giuseppe Nirta, estimatore di Stefano Delle Chiaie il quale era in grado, secondo lui, di «ristabilire l’ordine nel Paese». Sul punto, anche il collaboratore Serpa ricorda come il summit di Montalto, dell’ottobre del 1969, dovesse servire per trovare un accordo tra i clan e il principe Borghese: «A Montalto doveva essere sancita l’alleanza tra l’organizzazione mafiosa calabrese e il gruppo eversivo di destra presente allo stesso summit e guidato dal principe Borghese».

    Golpe Borghese, salta tutto

    Il golpe sarà però annullato per motivi ancora oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, oscuri. Con l’avvio delle indagini Borghese fuggirà in Spagna, dove morirà nel 1974. I procedimenti imbastiti, tuttavia, finiranno con un nulla di fatto. Piuttosto accreditati, ma non provati, i coinvolgimenti sia dei Servizi segreti italiani, in particolare il Sid (Servizio Informazioni Difesa), sia della Cia americana. Un progetto che avrebbe visto un inquietante connubio tra destra eversiva, Servizi segreti, massoneria deviata (la P2 di Licio Gelli) e criminalità organizzata.

    Paolo De Stefano, boss della omonima famiglia prima di essere ucciso nel 1985
    Licio Gelli, è stato il capo della P2

    Da ultimo, sul punto, il racconto di Carmine Dominici, ex appartenente ad Avanguardia Nazionale e in quegli anni molto vicino proprio a Delle Chiaie. Quando decide di collaborare con la giustizia, Dominici parla del ruolo che l’organizzazione estremista avrebbe avuto in alcune delle vicende più oscure della storia d’Italia, tra cui la strage di piazza Fontana. Parla anche del golpe progettato da Junio Valerio Borghese. E racconta delle grandi manovre gestite, in quel periodo, dal marchese Fefè Genoese Zerbi, che era il referente di Avanguardia Nazionale sul territorio:

    «[…] Anche a Reggio Calabria eravamo in piedi tutti pronti per dare il nostro contributo. Zerbi disse che aveva ricevuto delle divise dei Carabinieri e che saremmo intervenuti in pattuglia con loro, anche in relazione alla necessità di arrestare avversari politici che facevano parte di certe liste che erano state preparate. Restammo mobilitati fin quasi alle due di notte, ma poi ci dissero di andare tutti a casa. Il contrordine a livello di Reggio Calabria venne da Zerbi».

  • Maoisti su Paola: Bellocchio e la Calabria del ’69

    Maoisti su Paola: Bellocchio e la Calabria del ’69

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    Non si sono ancora spente le polemiche per Marco Bellocchio, autore della dibattuta serie Tv Esterno notte che ha toccato un nervo scoperto della recente storia d’Italia come il “caso Moro”. Bellocchio, originale e sempre controverso cineasta, oggi è per tutti l’autore della pellicola sull’oscuro rapimento e la morte di Moro, ribadito nella sequela ipnotica e spiazzante della recente serie TV.

    Quasi nessuno, invece, ricorda un suo lontano film politico, documento dal vero su povertà e sottosviluppo del “popolo meridionale”.
    Eppure si tratta di un film di Bellocchio appena consecutivo al suo esordio di successo nel grande cinema, che riporta alla vicenda giovanile del cineasta e ad un periodo – mai rinnegato – di impegno politico militante e fortemente ideologizzato, in cui egli incontrava la realtà marginale del Sud e della Calabria, a Paola.

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    Fabrizio Gifuni interpreta Aldo Moro nella serie tv “Esterno notte”

    Bellocchio e la rivoluzione

    Accadde quando Bellocchio era già al suo terzo film, dopo gli anni da studente del Centro Sperimentale di Cinematografia. In questo film-documento girato in Calabria, a Paola e a Cetraro, con mezzi di fortuna, emergono l’impegno politico e la vena sociale di Bellocchio. Da militante rivoluzionario maoista, racconta con il suo occhio di cineasta e in presa diretta, il Sud arretrato e povero e le lotte per l’occupazione delle case popolari nella Calabria di fine anni ‘60.  Il lungometraggio Paola, il popolo calabrese ha rialzato la testa, girato nel 1969, arriva quattro anni dopo I pugni in tasca e appena due anni dopo La Cina è vicina del 1967.

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    La proiezione di un film durante una delle ultime edizioni del Locarno Film Festival

    Il lungometraggio fu ideato e realizzato con le finalità di un prodotto di propaganda e di azione della “Associazione Marxisti Leninisti Italiani”, meglio conosciuta come Servire il popolo. Dopo un lungo  periodo passato nel dimenticatoio, la pellicola è stata ripresentato per la prima volta al Festival di Locarno del 1998, all’interno di una retrospettiva dedicata al cinema di Bellocchio. La fine del Sessantotto vide Bellocchio impegnato in prima persona nel movimento di estrema sinistra della Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti). Testimonianza di questo periodo di militanza rivoluzionaria fu la sua diretta partecipazione nel 1969 alle azioni per l’occupazione di case popolari organizzata dai militanti di Servire il Popolo, che in quegli anni aveva una sua forte base politica e organizzativa proprio nella cittadina calabrese. 

    Un manifesto politico con lo stile di sempre

    Anche in questa pellicola “meridionalista” con un’impronta da manifesto politico, pesantemente forzata da vincoli ideologici, si intravedono nel suo linguaggio scarno e minimalista, nel girato di un livido e scialbo bianco e nero, le tracce di quello stile filmico e narrativo che renderà sempre riconoscibile la cifra tematica e compositiva del cinema di Bellocchio: l’attenzione insistita per i temi della famiglia, gli spazi chiusi della casa in cui regna il disagio e la miseria morale e sentimentale, l’ombra e la malattia, l’uso della camera che indaga come un occhio acceso che sembra frugare tra le pieghe i volti per scorgervi i segni del tempo e della storia, un linguaggio spesso divagante, astratto, avvitato su sé stesso, e soprattutto l’accamparsi dei corpi nella precarietà dell’esistenza, che riempie l’inquadratura del suo enigma.

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    Una scena de “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Anche Lou Castel con Bellocchio a Paola

    La pellicola maoista girata da Bellocchio in mezzo ai miseri sottoproletari calabresi e tra i tuguri del rione “Motta” di Paola, ben oltra la retorica ideologica e la verbosità che la pervade, è piana zeppa di questi segni e di questo e del suo modo di raccontare per immagini. Non è infatti un caso che a seguire Bellocchio anche in questa sua immersione politica e nella vicenda rivoluzionaria della frazione maoista che ebbe vita nella realtà calabrese, fu, in primo luogo, quello in quegli anni divenne l’alter ego cinematografico di Bellocchio, l’attore svedese Lou Castel, l’indimenticabile Ale de I pugni in tasca.

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    Lou Castel e Paola Pitagora ne I pugni in tasca

    Castel, di fatto, di quel film divenne insieme a Bellocchio, il finanziatore. E in quel periodo di impegno di lotta e frequentazione politica della realtà calabrese, divenne anch’egli un volto noto per le stradine del paese, dove era arrivato la prima volta da Roma a bordo della sua Mini Morris scassata.

    I pedinamenti dei carabinieri

    Anche Lou Castel nel 1969, tra i fuoriusciti dal Movimento studentesco, aderisce convintamente alla formazione maoista di Servire il popolo. «Sono stato militante per dieci anni, questo resta il mio orgoglio», ha dichiarato di recente. Spintosi anche lui sino a Paola per cercare di sovvertire con la rivoluzione marxista-leninista la Democrazia (Cristiana, che quella sì in quegli anni a Paola comandava tutto), dalla sua partecipazione ai moti maoisti di Paola partì una parabola che porterà poi alla sua espulsione.

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    Un agente della municipale precede il corteo maoista tra i vicoli di Paola (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Castel fu dichiarato indesiderabile e messo su un aereo per Stoccolma, lontano dall’Italia. Il duo Castel-Bellocchio a Paola era sempre pedinato dai carabinieri, che ne seguivano ogni movimento, sin dalla partenza da Roma. Castel all’arrivo veniva fotografato nel sottopassaggio ferroviario della stazione di Paola e seguito negli spostamenti di Cosenza, Cetraro e San Giovanni in Fiore, che pure in quegli anni furono mete di sortite maoiste.

    Un’occupazione in 100 minuti

    Per me che ero ragazzino negli anni in cui questo accadeva nel mio paese (sono nato a Paola e lì, in quegli stessi luoghi e tra quelle persone, ho vissuto i mei anni più giovani), quella stagione rappresenta i ricordi di una realtà umanamente complessa, fonte di incontri e di conoscenze successive, e di un insieme di riflessioni politiche e sociali che non hanno smesso ancora, a distanza di anni, di interrogarmi e di farmi problema. 

    Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Bellocchio è in fondo la storia in 100 minuti, esemplarmente triste ed esaltante, di un’occupazione di case organizzata e guidata da un gruppetto di militanti dell’allora “partito maoista”, una formazione politica rivoluzionaria che ebbe in quegli anni forti basi organizzative e individualità costitutive del movimento in questa piccola città calabrese.

    Triste perché negli occhi della gente poverissima filmata da Bellocchio rivedo più che la comprensione delle ragioni di una lotta, lo stigma di una sfiducia atavica, un fatalismo disperato, una scarsa o nulla coscienza politica, piccoli compiacimenti regressivi, piccoli e supplicanti infingimenti tattici, la necessità di affidarsi all’avucatu del popolo, colui che sa, il tribuno autoproclamato che si incarica per loro di rappresentarne le ragioni e di fare di quei disperati uno strumento attivo “per la rivoluzione proletaria”.

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    Compagni e compagne di ogni età discutono della rivoluzione in un salottino di Paola. Mao osserva dalla parete (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Ma, detto questo: in quelle condizioni poteva andare diversamente? Ciò che a distanza di tempo mi colpisce di più nelle immagini tramandate dal film calabrese di Bellocchio, è l’entità del cambiamento, la metemorfosi pasoliniana, che, comunque, dopo, è avvenuta. Senza però davvero liberare il “popolo” da altre, più nuove e persino più insidiose sottomissioni e miserie.

    Paola, 1969

    C’erano in quelle immagini e tutto intorno a quel mondo i segni di una povertà disperata e assoluta: bambini immersi nel fango, vecchi marcescenti, stradine da terzo mondo, l’ospedale cittadino già in rovina prima di essere inaugurato, una catasta di catapecchie in cima al paese vecchio. I vecchi quartieri medievali della Port’a Macchia e del Rione Motta, intorno al castello, dove abitava pure mia nonna e dove anch’io sono cresciuto quando stavo con lei. Recessi marginali che erano buche spaventose, tuguri invivibili.

    Io la gente di quel film di Bellocchio sulle lotte per la casa a Paola la conoscevo bene. Ero tra loro, bambino, proprio lì dove fu girato. Forse sono uno di quegli scugnizzi che in un contropiano compaiono anonimi in mezzo alle scene del girato per strada, sulla Motta, tra gli altri bambini che giocano ad aggrapparsi alla rete di ferro sopra il cavalcavia della nuova statale.

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    1969, l’ospedale non ancora inaugurato e già circondato dalle erbacce ne “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Il Boom si è fermato ad Eboli

    Erano già gli anni del Boom. Ma quasi non si riesce a credere che gli abitanti, i cittadini più poveri e abbandonati di un paese, i proletari e i sottoproletari di quella Paola del 1969, italiani del sud, possano aver vissuto in quelle condizioni mentre altrove e al nord si viveva già, chi più chi meno, in condizioni più dignitose. Ci viene presentata in quel film una realtà durissima, che non ci pare vera, e che adesso risuona così lontana. E invece era verissima, disperata, disperatissima e persino allegra nella sua indecente, scandalosa e misera normalità.
    Oggi al Sud e in Calabria, anche i paesi sono un’altra cosa, quando va bene e non sono del tutto spolpati dall’emigrazione e dall’abbandono. Oggi posti così li chiamiamo “borghi”, e i vecchi paesi del Sud li candidiamo a mete turistiche, a rappresentare i cosiddetti “marcatori identitari”.

    Il sogno della rivoluzione? Una guerra tra poveri

    Certo, anche a Paola nel frattempo qualcosa del vecchio centro storico e del cuore antico del paese è stato risanato, ma non per effetto della rivoluzione maoista o per mano pubblica. E persino qualcuna di quelle vecchie catapecchie malsane della Motta, ora restaurata, è stata trasformata in graziosi B&B per turisti. Nel 1969, a chi ci abitava “a forza” pur d’avere un tetto e un ricovero per le famiglie numerose e poverissime (e spesso in qualche casupola ci si contendeva lo spazio col maiale o col ciuccio), i maoisti di quel film proponevano di abbattere con la società borghese anche quel residuo fatiscente di storia millenaria e di occupare le “case nuove”, le case popolari, destinate altrimenti “ai borghesi, ai servi dei capitalisti”, ovvero impiegati e dipendenti statali: altri poveri.

    Il sogno della rivoluzione maoista in fondo era tutto lì, in quella rivendicativa e accanita pretesa di metamorfosi pauperistica. Le palazzine IACP appena costruite sul bordo anonimo della Statale 18, non ancora finita. Le case del paese vecchio da buttare giù, contro le case nuove, anguste, brutte e squatrate, ugualmente prive di servizi e dignità sociale, da destinare a un popolo di disoccupati e lavoratori sottoproletari. Era quello il sogno della “rivoluzione maoista”: la casa popolare. Il Sud ribelle trasformato tutto in una Matera di palazzine popolari e senza più i Sassi.  

    I poveri e l’avvocato del popolo

    La cosa che forse resta cinematograficamente più vera di questo film calabrese di Bellocchio, è invece l’uso potente, politico, del montaggio. Un montaggio essenziale, mimetico. Povero, povero come la gente che abitava quei tuguri e quelle stanze senza mobilia vicino al castello. I pezzi di girato sono messi lì in sequenza per esteso, l’inquadratura è fissa e sosta, uno ad uno, su tutti quei volti abbattuti. La scena si riempie dei corpi smunti e sofferenti, istupiditi dalla presenza della camera, agiti da pochi gesti ripetuti, dalle parole che escono come un bolo indigerito dalle loro bocche, lamentele e ridomandate articolate a fatica in un dialetto appesantito da inflessioni ormai inaudite – quando tutto era ancora pre-televisivo.

    Il popolo che parla smozzica una lingua dolente e torbida, che si incide sull’audio delle pellicola come un anatema inascoltato. Credo siano questi, non gli slogan, le improvvisate “guardie rosse” o le “marce rosse” paesane, non lo spesso e fastidioso strato retorico, fitto di frasi fatte e invettive politiche, la consegna più toccante del film.

    Invece fanno spessore allo scheletro minimalista della narrativa di Bellocchio, proprio i momenti in cui c’è il voice over dell’avvocato del popolo, l’intellettuale-commissario che deve mimare la voce anonima di partito, e incarnare l’esigenza dura di spersonalizzazione che richiede la lotta antiborghese, a cui si ispiravano quei militanti di Servire il popolo paolano. Un frasario ruvido e privo di echi sentimentali, sempre in bilico tra demagogia e schematismo: «Gli operai fanno tutto, ma non hanno nulla». L’imperativo rivoluzionario prevaleva sul ragionamento politico, sempre schematico, dogmatico, goffo.

    Nel film si assiste da spettatori alla preparazione della manifestazione generale, il clou della lotta, la scena finale, nella sala pubblica, tutta piena dei codici tipici delle riunioni politiche rivoluzionarie, che sembrano riproporre con in scena le plebi irredente del Sud, un parallelo con La Cina è vicina. Un finale illusoriamente trionfale e speranzoso, col corteo che parte dai vecchi quartieri poveri alla volta di quelli più ricchi, il paese dei borghesi. La gente dei quartieri poveri scende per le strade a manifestare e ritorna vittoriosa.

    Non solo Bellocchio: maoisti e celebrità

    Lo stesso Marco Bellocchio, che immortalò quelle vicende di lotta per la casa e l’ospedale, ad un certo punto prende la parola (o era invece il leader Aldo Brandirali, secondo quanto ricorda qualcun altro dei testimoni dell’epoca) in mezzo a un affollato comizio finale nello sgangherato cinema Cilea. Finì così che l’azione dei maoisti si risolse in una sorta di happening politico. Un “grande raduno popolare e di lotta” dentro uno dei cinema cittadini, concluso con la liturgia consolidata del messianismo comunista alla cinese: “Lunga vita al compagno Aldo Brandirali, ai compagno Todeschini, a Marx, Stalin, Lenin e al compagno Mao Zedong”.

    Sulla scia di quel film politico a Paola passarono tutti i leader di “Servire il popolo”. E dopo quel film di Bellocchio, ai maoisti di casa nostra si avvicinarono, per un brevissimo periodo, anche personalità intellettuali come Umberto Eco, e anche altri cineasti impegnati come Bertolucci, Scola, Monicelli, Antonioni e persino Tinto Brass, ma anche pittori come Mario Schifano e Franco Angeli. L’esperienza maoista del gruppetto di attivisti paolani durò quanto l’alba di un mattino. I maoisti a Paola toccarono il vertice della loro azione politica occupando con le bandiere rosse e scritte inneggianti la rivoluzione proletaria il vecchio cinema Cilea (o era anche il Samà?) sul corso principale del paese.

    Il ricordo di Bellocchio

    Resta quel film, il racconto per immagini di Bellocchio. «Finanziai in prima persona e girai Il Popolo calabrese ha rialzato la testa, il film sulla rivolta dei braccianti di Paola e partecipai a Viva il primo maggio rosso e proletario, per la festa dei lavoro 1969. A Paola vidi gente che viveva ancora in una povertà spaventosa. Nei tuguri con il braciere al centro». Un’esperienza sul campo che segnò l’uomo e il cineasta.

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    Donne in nero e bandiere rosse ne “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Bellocchio ricorda così quella sua esperienza militante calabrese: «Aderire ai maoisti fu un riflesso della mia primissima adolescenza. Il mio cortocircuito verso Servire il popolo era tenuto in piedi da un’infatuazione per qualcosa che pretendeva immedesimazione assoluta, nel quadro di una liturgia di integrazione quasi religiosa. Per i maoisti, cambiare abito, significava necessariamente stravolgere vita e costumi precedenti. Il partito lo chiedeva e per alcuni iscritti questa dedizione alla causa fu veramente totale. Non per me. Volevo ingenuamente che con l’esperienza maoista cambiasse ogni cosa, d’incanto, anche la mia arte. Non volevo più parlare del mio mondo. Niente più drammi borghesi. Tentai anche di fare una sceneggiatura ispirata a modelli marxisti, ma fu un lampo che si spense subito».

    Da comunisti a borghesi

    L’incontro con la gente di Paola per Bellocchio fu questo: «L’idea di partire dal basso, dagli sfruttati, per riscrivere la storia riconsegnando a loro ciò che era stato tolto dagli sfruttatori capitalisti aveva qualcosa di affascinante per me piccolo borghese dilaniato dai sensi di colpa. Di coerente». Coerenza che man mano venne poi meno anche ad altri esponenti di quel gruppetto di ferventi maoisti calabresi, alcuni imboccarono infine la via delle detestate carriere borghesi.

    I ricordi e le avventure di quegli anni, divennero poi le rievocazioni estive di una combriccola di ex e di post comunisti – e qualcuno alle Poste poi c’era poi finito davvero. Le promesse rivoluzionarie non trovarono seguito, e le gesta esemplari degli occupanti le case popolari non guadagnarono altri proseliti agli ideali rivoluzionari di Mao.

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    Una riunione di Servire il Popolo nella Paola del ’69 (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Il popolo di Paola non andò mai al di là della curiosità. I “rivoluzionari” che intanto avevano preso in fitto un locale sotto una strada al Cancello, (un ex forno dismesso), promossero una fitta azione di propaganda, durante la quale dichiararono di voler «colpire i borghesi, perché solo così si poteva servire il popolo». Negarono che il capo di loro fosse il celebre attore Lou Castel (che intanto parlava poco e male l’italiano) o l’intellettuale e cineasta Bellocchio. Che a Paola, entrambi, dopo quel film non tornarono mai più.

    Un libro per capire meglio

    Su questa vicenda è uscito da poco un bel libro, ricchissimo di documenti e di testimonianze, dettagliato di riferimenti culturali e politici che riportano al clima dell’epoca, anche per mezzo di un ricco corredo fotografico. Il titolo è Maoisti in Calabria (Ed. Etabeta, 2022, pp. 280), lo ha scritto Alfonso Perrotta, testimone partecipe di quelle lotte e di quel clima rivoluzionario che animò un paese, Paola, che in breve divenne «una base rossa per la lunga marcia delle masse meridionali», senza nascondere «i limiti e le contraddizioni che portarono anche quel movimento al suo rapido dissolvimento».
    La Calabria non è stata il «nostro Vietnam». O forse lo è ancora.

  • ‘O gerarca ‘nnammurato: Michele Bianchi e le lettere a Maria de Seta

    ‘O gerarca ‘nnammurato: Michele Bianchi e le lettere a Maria de Seta

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    Chi l’avrebbe mai detto che a un uomo tutto di un pezzo, il quadrunviro col frustino, potesse battere così forte il cuore, innamorato come un ragazzino di una donna che era già, e lo sarebbe stata ancor di più anni dopo, protagonista non certo occulta delle vicende italiane.
    La storia d’amore tra Michele Bianchi e Maria de Seta Pignatelli, nata Elia, sta tutta lì, in quel mazzo di lettere che Francesca Simmons, una nipote della marchesa, ha rintracciato nelle carte di famiglia, Anna De Fazio e Antonio Vescio hanno commentato e uno storico del calibro di Giuseppe Parlato ha introdotto e annotato, in un volume di quasi 200 pagine pubblicato da Brenner che avrebbe meritato, proprio per l’argomento e i protagonisti una veste editoriale migliore.

    Michele Bianchi e Maria de Seta: cronaca di un amore (e dell’Italia)

    Ma non è questo che conta. Contano i contenuti delle lettere finora sconosciuti. Lettere che come scrive Parlato nella sua introduzione «costituiscono non soltanto un significativo documento epistolare che segna un momento importante nel rapporto tra due personaggi pubblici, quali allora erano, ma soprattutto uno degli esempi nei quali la cronaca quasi quotidiana di un amore si intreccia con la storia italiana».

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    Maria Elia de Seta Pignatelli

    È un epistolario a senso unico, in verità, quindi parziale per scrutare a fondo in un rapporto a due. Sono soltanto le lettere d’amore e non solo che Michele inviava a Maria e che questa ha conservato quasi a “futura memoria”. Ora è vero che molto spesso Michele si dilunga a raccontare la propria giornata di lavoro come ministro, una specie di diario che affidava all’amante. Ma è altrettanto vero che intestando le lettere inizialmente con “mia preziosa amica”, “amica sempre più cara”, “amica cara e gentile”, e poi “gioia mia incomparabile”, innamorata mia”, “ti soffocherei di baci”, “mia fiamma ardente”, “tuo, tuo, tuo”, “amore mio bello” “baci e baci”, “morsi e morsi” e altre espressioni analoghe, ci dà l’idea della cotta di un collegiale più che di un uomo maturo, ministro del regime fascista che uno si immagina tutto di un pezzo come ho detto prima, parco di sentimenti, severo.

    «Mio tutto»

    Sono 77 lettere che il gerarca fascista Michele Bianchi, a quel tempo ministro dei Lavori Pubblici, tra il 5 agosto 1927 e il 19 settembre 1929, inviò alla marchesa Maria Elia de Seta Pignatelli. Se lette in sequenza esse danno anche il senso di un rapporto in crescendo, anche per l’intimità del linguaggio usato da Bianchi che da un asettico “amica mia sempre più cara” della prima lettera dell’agosto 1927, da “gentile marchesa” e “gentile amica”, passa ben presto (ottobre successivo) a “mia gioia divina” e poi “anima mia”, “mia tutto”, “vita mia”.
    Non fu un amore clandestino quello tra Michele e Maria perché in tanti sapevano. Fu in un certo senso un amore prudente, anche perché Maria aveva ben quattro figli. Si vedevano ma con discrezione anche se, come una qualsiasi coppia, facevano anche dei viaggi e si facevano vedere in pubblico assieme.

    Michele Bianchi pazzo di Maria de Seta. E lei di lui?

    Se dalle lettere appare chiaro che Michele si era “perso” per Maria, lei che sentimenti nutriva nei confronti di Michele? Dalle stesse lettere, indirettamente, è evidente che Maria provava gli stessi sentimenti di Michele. Era innamorata e anche gelosa. In una sua lettera, una letteraccia come Michele la definisce, lo accusava di tradimento. E lui come in una qualsiasi coppia di innamorati risponde con una tenerezza «che avalla un po’ gli aculei della passione», dando spiegazioni: «Dov’ero quando tu, alle 6,30 del 14, telefonasti per la prima volta? Presso quale donna? Presso nessuna donna. Ero presso un uomo: S.E. Grandi. È perché? Perché pochi momenti prima avevo ricevuto l’acclusa lettera della tua “Bonne”».

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    Michele Bianchi con Mussolini

    Pubblico e privato

    È un epistolario, insomma, che vale la pena di leggere perché consegna, se non alla storia almeno alla memoria, l’altra faccia, quella privata, di un uomo pubblico che uno si immagina senza passioni, di un sindacalista rivoluzionario, di un uomo di lotta, di un interventista della prima ora, del fondatore dei Fasci di azione rivoluzionaria, di un Sansepolcrista fondatore dei Fasci di combattimento che trasformò il movimento in Partito Nazionale Fascista di cui fu il primo segretario, di un uomo di governo, di un uomo la cui immagine pubblica stride con il contenuto delle lettere d’amore inviate alla marchesa.

    Pantaleone Sergi

  • Mike Porco, il calabrese che adottò Bob Dylan

    Mike Porco, il calabrese che adottò Bob Dylan

    Nel primo volume della sua autobiografia, Chronicles (Feltrinelli, 2005), Bob Dylan ricorda con riconoscente affetto Mike Porco, colui che gli spianò la strada del debutto fino alle porte del successo. «Mike was the sicilian father – scrive – that I never had», Mike è stato il padre siciliano che non ho mai avuto. In realtà Michele “Mike” Porco, non era siciliano, come il senso comune americano definiva l’italiano meridionale. Era calabrese, cosentino di Domanico, figlio d’un emigrato in America, preso dal sogno del ricongiungimento della famiglia a New York, dove faceva il muratore.

    Dalle Serre cosentine a New York

    Quando cominciò a profilarsi la ripresa delle attività edilizie, che la Grande depressione del 1929 aveva bloccato, Michele s’imbarcò a Napoli per raggiungere il padre e aiutarlo a realizzare, prima possibile, la trepida aspirazione familiare. Dopo tre settimane di viaggio, l’approdo ad Ellis Island, nell’incanto della Statua della Libertà, all’accesso del nuovo mondo, aperto alla speranza di una nuova vita.

    Sulla banchina, ad attenderlo, c’era un gruppo di compaesani. Ma non il padre. La morte lo aveva stroncato, all’improvviso, qualche giorno prima. Mike, disperato, si sentì perso. Trovò per sua fortuna ospitalità da alcuni parenti, che lo avviarono al lavoro in uno dei loro ristoranti, il Gerde’s club, al centro del Greenwich Village, quartiere in crescita nel cuore della Grande Mela. Da lavapiatti a cameriere, a gestore di fiducia, Mike riuscì, gruzzolo su gruzzolo, ad acquistare il locale.

    Il Village e la Beat generation

    Il Village era un borgo di irresistibile richiamo per intellettuali e bohémien, un composito microcosmo di cultura alternativa, sintesi newyorchese tra Montmartre e Montparnasse, pullulante di pub e bistrot. Era la meta preferita dei folksinger, pionieri del movimento beat. Li ispiravano il romanzo autobiografico On the road di Jack Kerouac, le opere letterarie di Allen Ginsberg, che ne era il guru, e le canzoni di Woody Guthrie, mito del nuovo corso musicale, rivoluzionario cantore dell’Altra America, poeta della protesta sociale radicalizzato nel comunismo, un hobo solitario monumentato in vita dal suo popoloso seguito.

    Kerouac, nel suo girovagare, elesse il Village, come luogo congeniale alla sua filosofia e al proprio coerente modo di vivere. Qui conobbe Neal Cassady, scrittore, che, come lui, in sregolatezza esistenziale, ispirò la figura del coprotagonista del suo romanzo autobiografico per la comune vana ricerca di un indistinto padre perduto, patiti com’erano, il primo, per la morte del genitore naturale, l’altro, per averlo avuto alcolizzato cronico, motivi questi, per loro, di squilibrio interiore e di crisi esistenziale. Qui, nel Village, Woody, anche lui orfano di padre, in fuga dalla sua sventurata adolescenza, trovò la destinazione ideale del suo inquieto nomadismo, l’atmosfera giusta per fissare il suo definitivo domicilio lungo la Hudson Street, un vialone alberato tra l’omonimo fiume e la centralissima Washington Square.

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    Woody Guthrie e un giovane Bob Dylan

    Sospinto dal coinvolgente messaggio di Kerouac, dagli impulsi poetici di Ginsberg e – di più, molto di più – dalla irrefrenabile voglia di incontrare il suo idolo Woody, Bob Dylan (nato nel 1941), non ancora ventenne, regolarmente squattrinato, chitarra in spalla – suo unico capitale disponibile con qualche brano da lui composto – abbandonò, in rotta col padre, la famiglia per raggiungere, on the road, il mitico Village, alla ricerca del padre della propria formazione artistica e della temperie adatta ai suoi versamenti culturali, affinati dai romanzi di Edgar Allan Poe e di Mark Twain, scrittori di rottura nei loro generi e messaggi letterari.

    Il Gerde’s Folk City

    Mike, oramai addestrato all’arte del ristoratore, fiutò l’emersione del genere folk nei gusti, sì, dei giovani, ma anche di quegli intellettuali, di quegli imprenditori e dei tanti newyorchesi, che, danarosi, si riversavano, in evasione dal tran tran metropolitano, nel quartiere per viverne il clima e, preferibilmente, la vita notturna. La sua intuizione lo portò a rinnovare il locale, dove allestì un palchetto al posto del vecchio pianobar per offrire alla clientela un tono musicale, d’accompagnamento alle cene, diverso dal solito.

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    L’ingresso del Gerde’s Folk City su 4th Street. Negli anni ’70 il locale si trasferirà al 130 West di 3rd Street, per poi chiudere nel 1987. Mike Porco lo aveva ceduto sette anni prima a Robbie Woliver, Marilyn Lash e Joseph Hillesum

    Il Gerde’s diventò Gerde’s Folk City. Egli stesso si convertì da ristoratore – ruolo che affidò al fratello Giovanni che, intanto, lo aveva raggiunto – a talent scout di band e cantanti solisti, che, per sbarcare il lunario, di giorno, si esibivano per strada, confidando nelle offerte dei passanti, e, a sera, facevano il giro dei locali che li sfruttavano, volta per volta, per un dollaro più una bevuta al bar. Lui prima li faceva provare, poi li selezionava sulla base del gradimento della clientela. Se funzionavano, li faceva ruotare a turno, raddoppiando la paga con consumazione e cena.

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    Il Gerde’s gremito durante un concerto

    Bob Dylan e Mike Porco

    Gli capitò Bob Dylan. Gli concesse la ribalta per una sera. Il pubblico applaudì. Lui, invece, fu sul punto di bocciarlo: «Ha la voce di una cornacchia», disse agli amici al suo tavolo – nientemeno che Ginsberg e Robert Shelton, primo critico musicale del New York Times – che, da habitué del locale, non gli risparmiavano giuste imbeccate. I due gli certificarono il talento del ragazzo. E dovettero insistere per convincerlo ad inserire Bob nel programma delle serate hootenanny del lunedì. Fu un boom.

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    Settembre 1961, Bob Dylan sul palco del Gerde’s nel concerto che lo consacrerà, ancora giovanissimo, lanciandolo verso un successo che lo porterà fino al Premio Nobel. Incollata alla chitarra, la scaletta delle canzoni di quella sera

    Bob Dylan diventò il pupillo di Mike Porco, che, a quel punto, gli propose un contratto. Essendo ancora minorenne, Bob avrebbe dovuto avere il nulla osta del sindacato. L’impiegato della Musicians Union, cui si rivolse, gli oppose la necessità della firma consensuale di uno dei genitori. Inutilmente, Bob, che non aveva più contatti con la sua famiglia in Minnesota, replicò d’essere orfano e solo al mondo. A risolvergli il problema fu Mike, che firmò come tutore.

    https://youtu.be/A8pqKnZshpw

    Alcuni spezzoni tratti da “Positively Porco”, docufilm su Mike e il suo locale: al minuto 4’05” è lui stesso a raccontare come abbia fatto da garante per Bob Dylan

    Da allora in poi, il rapporto tra i due fu quello di padre e figlio. Padre premuroso e figlio riconoscente, non più ribelle come lo era stato con il suo genitore vero. Bob trovò il padre che cercava, al contrario dei suoi idoli che, non rinvenendo il senso della vita nella umanità circostante, rincorsero la beatitudine consumandosi nella droga e nell’alcol. Bob Dylan non ne ebbe bisogno, sia pure dopo averne provato il rischio. Prese la sua strada, per farne tanta, come si era ripromesso in Song to Woody.

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    La recensione con cui Robert Shelton esalta il giovane Dylan sul prestigioso New York Times: è nata una stella

    Shelton gli dedicò una esaltante recensione. John Hammond, leggendario produttore discografico, se lo accaparrò alla Columbia Records. Di qui il volo verso la celebrità, dopo aver fatto la fortuna dell’emigrato calabrese. Che, negli ultimi anni della sua vita, era solito raccontare ai suoi figli come la sua tenacia fosse valsa a riunire la famiglia nel benessere del nuovo mondo e a coronare, così, il sogno paterno.

    Un locale di culto

    Trent’anni fa, il 13 marzo 1992, dava l’addio al mondo Mike Porco, il calabrese che, negli anni Trenta, da Domanico, borgo rurale delle Serre cosentine, emigrò in America. E a New York fondò il Gerde’s Folk City – uno dei tre migliori locali musicali del mondo, secondo la rivista Rolling Stone, insieme al beatlesiano The Cavern di Liverpool e al newyorkese CBGB – e centro propulsore sempre all’avanguardia del folk, del rock, del folk rock e ritrovo degli intellettuali della controcultura in fermento nel Village.
    Alla sua scena si legano gli esordi e le carriere di innumerevoli celebrità: dal già citato Bob Dylan a Joan Baez, da Dave Van Ronk a Richie Havens, da John Lee Hooker a Jimi Hendrix, da Simon & Garfunkel a José Feliciano. Una vera e propria pista di lancio per tanti musicisti destinati ad entrare nella storia della musica.

    L’anniversario in mondovisione

    Sulla ribalta dei Newport Folk Festival, ciclicamente organizzati negli anniversari del locale, gli artisti promossi dal Gerde’s si esibivano in massa, in dichiarato omaggio al loro scopritore. In occasione del 25mo anniversario del Folk City, il concerto fu trasmesso in tutto il mondo dalla Pbs e dalla Bbc Tv. In quello del 1979, il sindaco di New York, Edward Koch, indirizzò al titolare del Gerde’s una lettera di calorose congratulazioni per la sua “benemerita attività”.

    Spesso, i media americani si occuparono di Mike Porco. Lui era pronto a narrare aneddoti inediti sulla sua singolare esperienza e sugli artisti di cui, pur senza capire un accidente di musica, aveva istintivamente colto il valore. Era diventato un personaggio gradito al grande pubblico, che lo aveva in simpatia anche per il suo inglese maccheronico. Gli stessi artisti parlavano di lui come una gran brava persona, una figura familiare, certo scaltrita dal fiuto per gli affari, ma sempre disponibile ad aiutare il prossimo.

    Non solo Bob Dylan: gli artisti come figli

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    Mike Porco insieme al cantautore Cisco Houston

    In un’intervista per il libro Conclusions on the wall: new essays on Bob Dylan della esperta musicale del New York Times Magazine, Elizabeth Thomson (Thin man, 1980), Mike Porco raccontò la sua vicenda di emigrato, di proprietario del Gerde’s, di paterno sostenitore di Bob Dylan, in modo speciale, ma anche degli artisti che egli incamminò sulla strada del successo. «Sento come se questi ragazzi siano stati tutti miei figli. Li ho visti crescere – disse – come persone e come artisti. Tanti di loro sono andati avanti sino a diventare delle vere e proprie star. Vorrei che potessero tornare quei tempi, con Bobby, Janis Joplin, Steve Goodman, Phil Ochs. In occasione del mio sessantunesimo compleanno, li vidi arrivare un po’ tutti, Bobby con Joan Baez, Allen Ginsberg, Phil, Bobby Neuwirth, Roger MacGuinn, tutta la mia vecchia gente».

    Mike Porco, un affabile calabrese

    Robert Shelton nel suo libro biografico su Bob Dylan descrisse così Mike Porco: «Un affabile calabrese, con baffetti sottili, lenti spesse e un accento ancora più spesso delle lenti. A malapena distingueva una ballata da una mortadella. Ammassava profitti sulle consumazioni. Si affidava alle reazioni del pubblico per scegliere i cantanti, spesso ascoltando non la musica, ma gli applausi. La simpatia che Mike suscitava era dovuta anche al fatto che non aveva mai imparato bene l’inglese.

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    Michele “Mike” Porco

    Chiamava il suo club “a Folk a City”. Una volta dettò al telefono un annuncio pubblicitario al Village Voice, che fu ripetuto per due settimane di fila, presentando Anita Sheer come una cantante di flamingo (l’equivalente inglese dell’italiano “fenicottero”, ndr), invece che di flamenco. Di un altro che cantava in diverse lingue disse che si trattava di un cantante linguistico. Era, però, molto ben disposto verso i nuovi talenti. “Diamogli una possibilità”, era il suo motto, mentre la sua politica gestionale si basava sul “più è nuovo e meno costa”».

    Un cappotto che non si dimentica

    José Feliciano dichiarò: «Mike fu per me come un secondo padre. Mi ha aiutato in ogni modo a superare i momenti di difficoltà, facendomi guadagnare. Da uomo buono e generoso qual era, visto che non lo avevo, mi regalò un cappotto nuovo, perché il freddo a New York si sente, eccome. Io non ne avevo uno che potesse definirsi tale. Sono cose che non potrò mai dimenticare». Dello stesso tono riconoscente, decine e decine di altre testimonianze su un uomo che, evidentemente, non dimenticò mai le sue origini e il senso dei suoi sacrifici.

    1962, Suze Rotolo e José Feliciano al Gerde’s Folk City

    All’America seppe restituire il capitale che gli aveva dato in banconote con il capitale invisibile, eppure concreto, del suo altruismo e della sua intelligenza intuitiva. Se New York non è stata la capitale dell’America, lo è diventata del mondo per quella ribalta musicale nata nel Village e ideata – chi l’avrebbe mai immaginato – da un calabrese.

  • Sant’Agata: la montagna dove la musica è cambiata

    Sant’Agata: la montagna dove la musica è cambiata

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    Sarà capitato anche a voi: si va, si torna da un posto dove si è stati in pace e improvvisamente torna a fuoco, magari in dormiveglia, una collina che andava esplorata, l’acqua di una fontana che andava bevuta, due parole buttate lì che valevano un discorso, e invece non c’è stato tempo. Come una nostalgia recente. E quindi verrebbe voglia di risalire subito verso Sant’Agata del Bianco, lasciandosi alle spalle le vertigini del mare aperto, le nuove coltivazioni di bergamotto, le vigne del Mantonico, alzando gli occhi verso la montagna da dove arriva la musica. Verso uno dei cento e cento paesi della Calabria interna, senza sapere quanto lo troverai deserto: ma Sant’Agata no, non è deserta come Ferruzzano che sta a portata di sguardo. Quantomeno, non lo è di pensieri, azione e idee.

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    Rocce e murales nel centro storico di Sant’Agata del Bianco

    Sant’Agata del Bianco: il paese di Saverio Strati

    E quindi, in attesa di tornarci, questa è la sua storia e la sua acqua: il paese dello scrittore Saverio Strati e dei diciotto murales, del centro rimesso a nuovo, di un contadino-scultore di nome Vincenzo Baldissarro, di un monolite scolpito tra agli ulivi, perché si sa che l’Aspromonte è anche il posto delle grandi pietre. Di Totò Scarfone che raccoglie gli oggetti del Museo delle Cose Perdute e vuole allargarsi, di musicanti e film. Il degno seguito di una visita alla Villa Romana di Casignana, che sta a 13 chilometri, sulla Jonica reggina.

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    L’interno della casa dello scrittore Saverio Strati

    «Questi artisti c’erano già tutti, ma prima erano soli», dice il sindaco Domenico Stranieri, insegnante di filosofia al Nord in aspettativa non retribuita (e per scelta, senza indennità di missione).
    «Abbiamo cominciato a dare un nome ai luoghi, si era persa l’identità del paese», aggiunge. «In certi punti, dobbiamo riconquistare il panorama: il cemento senza nessuna regola lo ha cancellato».

    La casa di Strati era chiusa, ristrutturata così così, dentro trovarono un materasso. Oggi è un murale a due piani. «Il Comune era messo male, i regolamenti risalivano agli anni ’90. Siamo partiti dalle rovine, abbiamo cercato di coprire i debiti prima di tutto. Poi ho pensato che il paese avesse bisogno di socialità, è nata una piccola scuola calcio. Un paese dove si potesse vivere anche a piedi, senza andare a cercare tutti i servizi nei posti vicini».

    Il campione di cricket venuto dalla Spagna

    Domenico Stranieri ha conosciuto Jaime Gonzalez Molina, uno spagnolo arrivato qui per amore. Ex campione di cricket, Jaime è entrato nella lista per le elezioni, poi è diventato assessore: la carta in più per Sant’Agata e altri paesi ai bandi Ue (dove la Calabria brilla spesso per non partecipazione), magari per dare una migliore illuminazione ai centri abitati. «E qualche volta la maggioranza fa festa con la paella invece che con la capra».

    Ma potete trovarlo a piantare i cartelli stradali insieme al sindaco (Sant’Agata sembrava irraggiungibile), a pulire il percorso dei palmenti scavati nella roccia: capita che i due si diano il cambio per andare a fare una doccia. Perché chi governa il paese (in Giunta c’è anche Gina Mesiano, vicesindaca, sempre in prima fila) non ha tempo da perdere: troverete loro a spostar le sedie, a montare i palchi, a recuperare la storia dei palazzi: come quello di “Don Michelino”, che nel romanzo di Strati Tibi e Tascia dà al ragazzo l’opportunità di studiare.

    E qui tocca rivedere la vita dello scrittore, che fa tutti i mestieri fino a 21 anni, poi grazie a un parente che si è fatto ricco in America riesce a diplomarsi, trasferirsi nel Fiorentino e scrivere come se fosse una malattia, fino a vincere il Premio Campiello: ora Rubbettino ha acquisito i diritti di tutti i suoi romanzi e li sta pubblicando.

    Sant’Agata del Bianco, il paese dei poeti contadini

    Ma ogni casa ha una storia nel paese, lo scrittore santagatese Giuseppe Melina ha sempre sostenuto che qui c’è un gene che emerge «dal fondo greco della nostra cultura». Stranieri mostra la copertina di Vie Nuove, rivista-rotocalco del Pci: nel 1953 dedicò una copertina ai poeti contadini di Sant’Agata (ecco il gene) che recitavano a memoria la Divina Commedia.

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    Murales che rievoca i poeti contadini (foto pagina fb Insieme per Sant’Agata)

    La sua squadra, che ha molti giovani, è riuscita così a fermare il tempo prima che tutto questo andasse perduto: «E ora non ci si vergogna di recitare poesie». Prima che Sant’Agata si trasformasse in un non-paese, con le case sbarrate e indivise, che non interessano più ai figli dei figli che sono partiti, il silenzio. Invece qui si torna, anche con il cuore: mesi fa il sindaco ha ricevuto una grande busta piena di cd e di ritagli stampa. Gliel’ha spedita Salvatore Barbagallo, in arte Mauro Giordani, che è stato autore per Celentano e cantante. Partì a tredici anni con la famiglia per Milano, è stato contento di rivedere Sant’Agata (600 abitanti) sui giornali, e vuole far parte dell’orchestra.

    Da Voltarelli allo Stato Sociale

    Come se questo paese avesse una sua colonna sonora. Da qui passano e tornano i migliori interpreti del folk e della canzone d’autore, Mimmo Cavallaro, Ettore Castagna, Peppe Voltarelli. Qui hanno amici e legami star come Calcutta, qui ogni estate torna Lo Stato Sociale per il Festival Stratificazioni (direttore artistico Fabio Nirta).

    L’edizione 2020 del festival Stratificazioni

    Ma qui bisogna fermarsi e tornare purtroppo a parlare di politica. Perché la Regione – per la precisione il Dipartimento al Turismo – ha scritto che sosterrà i paesi al di sotto dei 5.000 abitanti che possono offrire almeno 500 posti letto. Neppure consorziandosi con altri, Sant’Agata ce la farebbe. Stranieri ha scritto una lettera molto dura al presidente della Regione Roberto Occhiuto, e aspetta una risposta.

    Stratificazioni si farà lo stesso, gli artisti verranno anche gratis, anche per ammirare la strepitosa location: le rocce di Campolico, con vista sull’immenso letto della fiumara La Verde e sul mare, ospitano ogni estate concerti, presentazioni, happening teatrali e film. C’è solo una musica non gradita qui, quella dei neomelodici: «Ma io – dice il sindaco – sono come un buon padre di famiglia, e mai spenderò soldi pubblici per cantanti che inneggiano alla mafia». Il paesaggio è quello ritratto da Edward Lear, l’intenzione è quella di recuperare il Belvedere di Contrada Cola, dove Strati si rifugiava a scrivere.

    Aspettando le foto di Steve McCurry

    Questa è dunque la storia di Sant’Agata, che rinasce dalle case diroccate per diventare un paese moderno, dove si parlano le lingue e la tradizione non è una catena, c’è il wi-fi comunale e un punto di incontro che si chiama Il giardino del pensiero, dove arrivano scuole da Calabria e Sicilia, con il passaparola. Dove le finestre sono narranti, e le sculture nella roccia vanno viste al tramonto.

    Un paese che rischiava di essere cancellato dalla nostra memoria e invece sta su YouTube e in tante kermesse, e prossimamente nelle foto scattate da Steve McCurry. Dove passano artisti e poeti, superando chilometri, stereotipi e mancanza di cachet. E qualche volta c’è una visita più speciale di altre: a Sant’Agata è arrivata anche quella che è stata la prof d’italiano di Domenico Stranieri al liceo di Locri. Rita Incorpora, figlia di uno storico dell’Arte, ha voluto fare i complimenti al sindaco. Li merita anche lei, chi siamo noi se non il frutto dei nostri maestri?