Categoria: Cultura

  • Il Duomo di Cosenza e la sua storia in mostra a Villa Rendano

    Il Duomo di Cosenza e la sua storia in mostra a Villa Rendano

    Dalla Cattedrale a Villa Rendano è il titolo di un viaggio multimediale che unisce il fulcro simbolico della devozione cosentina allo storico palazzo che ospita la Fondazione Giuliani, la cattedrale come luogo sacro e l’antico edificio che fu dimora del celebre musicista come tempio laico e culturale. Un percorso virtuale, ovviamente, che si apre all’interno del Museo Multimediale Consentia Itinera di Villa Rendano. E la multimedialità che ne è la cifra caratterizzante non stempera le suggestioni anzi ne amplifica la portata.

    Identità oltre la fede

    Il percorso era stato già presentato in occasione dell’evento celebrativo degli ottocento anni della Cattedrale di Cosenza e inaugurato alla presenza del compianto monsignor Nolè, allora Vescovo della città. Adesso sarà nuovamente fruibile il 25 e 26 di Dicembre.
    Il museo è una delle tappe dell’impegno rivolto alla riscoperta e valorizzazione del centro storico di Cosenza attraverso percorsi immersivi che coniugano ricerche scientifiche e concettuali con il potenziamento del valore sociale e del senso identitario.
    Da questo punto di vista lo spazio dedicato al Duomo è potentemente significativo per il ruolo che il luogo rappresenta in termini di fede e di identità cittadina. Il Duomo, infatti, non è solo la chiesa principale del capoluogo, ma anche il centro, non solo simbolico ma quasi anche urbanistico, della città antica.

    Sette sale a Villa Rendano per raccontare il Duomo di Cosenza

    Nelle sette sale del Museo si troverà concentrata la storia pluricentenaria della Cattedrale e saranno raccontati gli sforzi compiuti per edificarla e nel tempo abbellirla, passando per tappe di straordinario significato come la donazione della Stauroteca da parte di Federico II, fino alla devozione speciale dedicata dalla popolazione cosentina all’icona duecentesca della Madonna del Pilerio, per arrivare ai monumenti funebri dedicati a Isabella d’Aragona e ad Enrico VII di Hohenstaufen, alle trasformazioni della facciata che l’edificio ha conosciuto nel corso del XIX e XX secolo, fino  le tombe dei martiri dei moti del 1843 presenti nella cappella del SS. Sacramento.

    Cosa fare per visitare la mostra

    In occasione del Natale questo viaggio nella storia e nella fede della città di Cosenza viene riproposto alla città dalla Fondazione Giuliani, a consolidare un impegno che lega quest’ultima al suo centro storico.
    Per informazioni e prenotazioni: prenotazionivillarendano@gmail.com

  • Un panettone di Amantea tra i migliori d’Italia

    Un panettone di Amantea tra i migliori d’Italia

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    Un piccolo primato di Natale tutto calabrese: Gambero Rosso ha premiato il panettone tradizionale dell’Antica Salumeria Mazzuca di Amantea.
    La notizia è fresca, fragrante come un dolce appena sfornato: la prestigiosa rivista, sinonimo da decenni di gastronomia di qualità, ha inserito il panettone artigianale amanteano tra i primi della sua selezione.
    La quale è avvenuta in maniera particolare, cioè attraverso un assaggio “alla cieca”. In pratica, i gourmet assaggiano i prodotti senza conoscerne la provenienza e li valutano.

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    L’assaggio del panettone

    Un’emozione dolce

    L’aspetto più particolare (un “primato nel primato”) è che questo panettone proviene da una città di mare.
    I segreti di questo piccolo successo? Gli ingredienti: «Abbiamo usato le bacche di vaniglia del Madagascar e il burro di Normandia, che è più gustoso perché ha un quantitativo di panna. E poi canditi di alta qualità», spiega Alfonso Mazzuca, che gestisce da anni l’esercizio di famiglia nella centralissima via Margherita.
    A dirla tutta, non è la prima volta che l’Antica Salumeria ha ottenuto riconoscimenti: «Produciamo panettoni da circa quattro anni e siamo stati premiati per quello al cioccolato».
    Il riconoscimento di quest’anno è arrivato a sorpresa: «Ho inviato le prime produzioni di novembre a vari amici in tutt’Italia, come faccio sempre», prosegue Mazzuca.

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    Il bancone dell’Antica Salumeria Mazzuca

    Poi la sorpresa: «Mi hanno contattato da Gambero Rosso per comunicarmi che avrebbero inserito il panettone nel loro test alla cieca». Ed ecco il bel risultato.

    Piccola tradizione, grandi soddisfazioni

    Iniziò tutto nel ’36, quando Alfonso Mazzuca, il nonno dell’attuale titolare, si spostò da Gallo, una frazione del vicino San Pietro in Amantea, per sposare un’amanteana.
    Fu allora che nacque la salumeria. Che, a partire dal ’92, si è specializzata nella gastronomia artigianale di alta qualità.
    Il riconoscimento di Gambero Rosso corona anni di sacrificio e dedizione. Per chi lavora tanto e duro, il miglior regalo di Natale.

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  • Borbone contro Massoni: una storia calabrese

    Borbone contro Massoni: una storia calabrese

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    Dell’arretratezza dei Borbone si parla spesso e troppo.
    Tuttavia, senza per questo voler dare ragione ai neoborbonici e ai revisionisti alla Pino Aprile, non sempre era così. Anzi, in alcune cose l’ex dinastia napoletana era piuttosto avanti. Ne citiamo due: le opere pubbliche in project financing e l’autocertificazione.
    Un esempio delle prime fu la ferrovia Napoli-Portici, realizzata col concorso di un imprenditore francese che sostenne buona parte delle spese.
    Ma questa non riguarda la Calabria.
    L’“autocertificazione”, invece, fu un’idea di Ferdinando I, ’o Re Nasone, per stanare massoni e carbonari dai ruoli di comando. E ci tocca da vicinissimo.

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    Ferdinando I di Borbone, ‘o Re Nasone

    Borbone e Massoni: lo strano rapporto

    È il caso di fare chiarezza su un punto: il rapporto tra i Borbone di Napoli e la massoneria non è mai stato chiaro e lineare, ma molto condizionato dalla politica pontificia.
    All’inizio, cioè sotto don Carlo, il primo, illuminato esponente della dinastia, c’è una certa tolleranza, come ovunque.
    Anzi, molti pezzi grossi della nobiltà napoletana si dilettano nelle logge. Come, ad esempio, Raimondo di Sangro, il principe di Sansevero, il quale prende piuttosto sul serio la “grembiulanza”, al punto di riempire la celebre cappella di famiglia di simboli esoterici.
    Certo, esistono già le prime bolle papali (In eminenti apostolatus specula, del 1738, e Providas romanorum, del 1751).
    Ma i regnanti (e le varie chiese nazionali) le interpretano con larghezza. Poi, a fine secolo, le cose cambiano.

    Una “catena d’unione” massonica

    La grande paranoia dei Borbone

    La rivoluzione francese, col suo carico di novità esplosive, è all’origine della rottura.
    I Borbone si adeguano, anche per via di uno choc familiare enorme: l’esecuzione di Maria Antonietta di Francia, sorella maggiore di Maria Carolina, moglie di Ferdinando e Regina di Napoli.
    I traumi successivi, cioè la Repubblica Partenopea e il decennio napoleonico, cementano un’equazione d’acciaio nella nobiltà lealista napoletana: massone uguale a giacobino e giacobino uguale a carbonaro.
    Dopo la repressione dei moti costituzionali del 1821, la situazione precipita del tutto: lo staff borbonico vede davvero massoni e carbonari ovunque. E quindi jacubbine.

    La “vendetta massonica”: un dettaglio del rito del Cavaliere Kadosh

    I Borbone alla riscossa: le Giunte di scrutino

    Una scoperta consente di ricostruire la persecuzione borbonica contro i grembiuli del Regno delle Due Sicilie.
    L’ha fatta Lorenzo Terzi, giornalista e funzionario dell’Archivio di Stato di Napoli. Terzi, noto al pubblico per varie ricerche specialistiche, ha trovato i documenti dell’attività delle cosiddette Giunte di scrutinio.
    Queste Giunte borboniche erano commissioni d’inchiesta istituite con un decreto del 12 maggio 1821.
    In origine erano quattro e avevano il compito di esaminare «la condotta degli ecclesiastici, pensionisti e funzionarj pubblici; come anche quella degli autori di opere stampate e le massime in esse insegnate».
    Ad esse se ne aggiunsero una quinta (decreto del 16 aprile 1821), che si occupava dei militari, e una sesta (decreto del 24 maggio successivo) destinata alla Marina.

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    Un interrogatorio della polizia borbonica (con relativa tortura)

    Grembiuli di Calabria

    Nel fondo del Ministero di Grazia e Giustizia custodito dall’Archivio di Stato di Napoli c’è un documento importante che riguarda la Calabria Citra, cioè il Cosentino.
    Contiene gli scrutini (cioè i controlli) della Camera notarile di Cosenza.
    I membri della Camera notarile setacciati dalla Giunta borbonica sono il presidente Pasquale Rossi, il cancelliere Tommaso Maria Adami, gli ufficiali di prima classe Giovan Battista Adami e Francesco Rossi, gli ufficiali di seconda classe Francesco Memmi e Giovanni Litrenta, i componenti Pasquale Gatti e Nicola Del Pezzo e il bidello Giuseppe Pettinati.

    L’autocertificazione

    Come funzionavano le Giunte di scrutinio? Nessun interrogatorio pesante né torture. Niente sbirri né inquisitori.
    Più semplicemente, la Giunta competente per territorio inviava dei questionari ai funzionari sotto scrutinio. Questi, a loro volta, dovevano rispondere entro un mese, pena la decadenza dal ruolo e la perdita di stipendio o pensione.
    Solo in caso di dichiarazioni false si passavano i guai, che potevano essere seri.
    In pratica un’autocertificazione.

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    Il verbale dell’interrogatorio di Pasquale Rossi

    Le domande dei Borbone

    Il questionario era composto da sei domande.
    In primo luogo, si chiedevano allo scrutinato informazioni sulla sua carriera. Poi si entrava più nel dettaglio: si chiedeva, quindi, al soggetto sotto esame se fosse o fosse stato massone o carbonaro e, se si, con che ruoli e quando.
    Ancora: gli si chiedeva se avesse fatto attività o propaganda sovversiva, dentro o fuori le logge (o, nel caso dei carbonari, le vendite).

    L’insidia massonica

    Tanta paura non era proprio immotivata. Durante il decennio francese, Gioacchino Murat aveva potenziato il Grande Oriente di Napoli e se ne era proclamato gran maestro.
    Murat, che di sicuro non era un intellettuale in vena di finezze esoteriche, usava la massoneria per raggruppare i liberali e fidelizzare quel po’ di borghesia che faceva carriera negli uffici pubblici. In pratica, aveva creato una specie di “Partito della Corona”.
    Tornato a Napoli, re Ferdinando evitò la ripetizione dei pogrom orribili seguiti alla caduta della Repubblica Partenopea e limitò le epurazioni.

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    Gioacchino Murat

    Al contrario, adottò nel Regno delle Due Sicilie il nuovo modello di amministrazione creato dai francesi, funzionari e impiegati inclusi.
    Ma ciò non risolveva, dal suo punto di vista, il problema della sicurezza, perché i ranghi della burocrazia e dell’esercito pullulavano di carbonari o massoni e il Regno borbonico era costretto a tenerseli in pancia, soprattutto per mancanza di alternative.

    Pochi massoni, molti carbonari

    In realtà, dopo la cacciata dei francesi i massoni non erano tantissimi. Il motivo è facile da intuire: le epurazioni e le repressioni, rafforzate dalle scomuniche, incutevano timore.
    Inoltre la massoneria non aveva scopi eversivi.
    Perciò, chi aveva voglia di trescare o menare le mani, preferiva la carboneria, che invece questi scopi li aveva. Rischio per rischio, tanto valeva osare sul serio.
    Non è il caso di approfondire troppo i rapporti tra carbonari e liberi muratori. Basta dire solo che la carboneria nacque come costola scissionista della Libera Muratoria e aveva strutture e riti simili. Direbbero quelli bravi: la stessa sociabilità.

    Una congiura carbonara

    E che i Borbone temessero i carbonari, lo prova un fatto curioso. Cioè la costituzione dei Calderari, una specie di carboneria reazionaria legata alla Corona e che, tra le varie cose, curava i rapporti con la parte filoborbonica della camorra.

    Massone a chi?

    Nel caso dei giuristi cosentini, è facile intuire che gli scrutinati fecero a gara a negare tutto.
    Anzi, Pasquale Rossi rivendicò di essere stato maltrattato dai Francesi quando faceva il magistrato a Lago. Discorso simile per Nicola Del Pezzo, che parlò del suo ruolo di consigliere giudiziario, ovviamente a favore della monarchia borbonica.
    Occorre notare un dettaglio: il Pasquale Rossi della Camera notarile di Cosenza non è antenato diretto dell’illustre intellettuale cosentino, sebbene la cronologia e l’omonimia gettino qualche suggestione.
    Il Pasquale Rossi “nonno” fu in effetti carbonaro, massone e, quindi cospiratore. Ma era di Tessano, mentre il presidente Rossi era di Cavallerizzo.

    Iniziazione massonica (scena tratta da “Un borghese piccolo piccolo, di Mario Monicelli)

    Repressione napuletana

    Non esistono dati precisi sulle epurazioni borboniche. Di sicuro, l’autocertificazione aveva uno scopo diverso dal punire massoni e carbonari.
    Semmai, l’obiettivo era tenere per le parti basse i presunti cospiratori, con dichiarazioni verificabili sulla base delle soffiate e dei metodi poco ortodossi dell’occhiuta polizia borbonica.
    In realtà le epurazioni furono poche. E poche pure le condanne. I Borbone usarono le Giunte di scrutinio per prevenire un pericolo potenziale, ma per il resto non avrebbero potuto fare a meno dei funzionari “impiantati” dai napoleonici.
    Una soluzione alla napoletana, insomma, con cui ’o re Nasone scaricò le grane sui suoi eredi. E che grane.

  • Meridiani d’Arbëria: il museo diventa comunità a Pallagorio

    Meridiani d’Arbëria: il museo diventa comunità a Pallagorio

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    Un cittadino dona una casa a un gruppo di ragazzi un po’ cresciuti e con la voglia di rischiare. La sistemano tra mille difficoltà e di tasca loro. Diventa un museo. Con questi pochi ed essenziali gesti nasce nel 2021 Muzé a Pallagorio, in provincia di Crotone. Una collina sullo Jonio, il mare che ha spinto e portato i greci ad occidente.

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    Una delle stanze del museo Muzè a Pallagorio, in provincia di Crotone

    Muzé: museo e comunità

    Muzé è un presidio di cultura e idee in terra arbëresh: un pezzo d’Europa, quella del margine, dell’entroterra, dell’osso. Nulla di statico. Migrazioni, spostamento e contaminazione si condensano nel cammino di tre paesi a pochi chilometri l’uno dall’altro: Carfizzi, Pallagorio, San Nicola dall’Alto. La bellezza fonetica e levantina dell’Arbëria crotonese contro il logorio della Calabria dei luoghi comuni: peperoncino in primis. Una specie di etichetta che ritrovi ovunque. Al di là della indiscutibile bontà a tavola, ha un po’ rotto le scatole.

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    Gruppo musicale arbëresh a San Nicola dall’Alto (foto pagina facebook Fili Meridiani)

    Immagini, abiti tradizionali, oggetti del quotidiano accompagnano il patrimonio immateriale e più importante di questo museo a Pallagorio: libri, idee, incontri, persone sedute in circolo, gente che si parla.
    Più che uno storytelling (parola accantonata pure da Christian Salmon, uno dei suoi primi utilizzatori) si tratta di viaggio rituale e visuale nel passato. La comunità torna al suo atto fondativo: nel XV secolo il condottiero dell’Albania ancora cristiana Giorgio Castriota Skanderbeg porta il suo popolo in salvo dalla furia ottomana. Elemento chiave della cultura arbëresh, celebrato ogni anno nelle danze circolari chiamate vallje.

    Fili meridiani: da Cambridge a Pallagorio

    L’idea di Fili Meridiani nasce in piena pandemia dopo una serie di incontri on line sulle piattaforme ormai entrate nel lessico famigliare di tutti. Ursula Basta è un architetto che, dopo gli studi a Firenze, ha vissuto e lavorato alcuni anni a Cambridge. Ha deciso di tornare nel paese dei genitori e dei nonni e lanciare insieme ad altri tre amici questo laboratorio di pensieri e innovazione. Lei ha già in mente il nome. Ispirato dal Pensiero meridiano del sociologo Franco Cassano.
    Fabio Spadafora ha frequentato Scienze politiche all’Unical. Si è occupato di comunicazione e analisi politica. Ma con una fidanzata di Pallagorio, non lontano dal paese dello scrittore Carmine Abate, non poteva che essere coinvolto nel progetto. Gli altri sono il videomaker e fotografo, Ettore Bonanno e la grafica Francesca Liuzzo. Dei tre solo Fabio non ha origini arbëresh: un cosentino con una madre presilana, cosa che rivendica con orgoglio. Ma la Calabria è una terra di mescolanze, di diversità intrecciate.

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    I calanchi del Marchesato

    Instaruga

    Instaruga è un progetto di promozione turistica del Marchesato crotonese. Unisce associazioni, guide e cittadini. Ed è pure una piattaforma digitale. Il nome fa pensare subito a Instagram. Ma non è così. C’è altro. «In‘sta ruga significa “in questa ruga”, dentro il vicinato, dentro i paesi, dentro la Calabria». Così si legge sul portale web di Fili meridiani. Che passano con estrema facilità dalle gjitonie agli algoritmi della comunicazione social.

    Alternano escursioni nei calanchi di Cutro oppure scorribande tra le vigne del Cirò. Piccole meraviglie del Crotonese per chi vuole uscire fuori dai percorsi turistici troppo noti e battuti. Alla ricerca di tanti piccoli fili meridiani disseminati nelle calabrie nascoste.

  • Strina, presepe e comete: che fine ha fatto Natale?

    Strina, presepe e comete: che fine ha fatto Natale?

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    Arrivano i giorni del Natale con i suoi preparativi, i giorni delle tradizioni popolari, delle riunioni di famiglia, del cibo cucinato con cura e consumato allegramente in comune. E c’è, o c’era, anche la preparazione del presepe, quello immortalato in commedia. Molti ricordano Natale in Casa Cupiello per quella domanda, un vero tormentone, Te piace ‘o presepe, che Luca ripete più volte al figlio (ad essere precisi, la domanda è Te piace ‘o Presebbio), che si ripete fino all’ultima scena, quando per l’ennesima e ultima volta, Luca Cupiello domanda -fiducioso e sconfortato- al figlio che non ne capisce il fascino: «Te piace ‘o presepe?».

    Il presepe al centro della casa era anche il fulcro delle celebrazioni della fede popolare del Natale calabrese. La sua realizzazione era un rito fondamentale, ora è calante. Il presepe era un vero e proprio atto di creazione, un tentativo di riproduzione figurata dell’ordine del mondo, in cui il paese e la casa, macrocosmo e microcosmo, coincidono e diventano spazio domestico e sacro. Le rappresentazioni tradizionali parlano così attraverso le figure del presepe e della sua geografia, naturale e celeste, mettendo al centro il trionfo dei simboli della luce che risorge e prepara l’avvento.

    L’angelo e Giampietru

    Il presepe, una volta ultimato, doveva essere illuminato dalla luce della stella cometa.
    La stella fissata sopra il cielo sulla capanna della nascita era il segno luminoso che avrebbe indicato ai magi il cammino che li avrebbe condotti la notte di Natale al cospetto della grotta e davanti alla nascita di Gesù, annunciata da un’altra creatura celeste, l’Arcangelo Gabriele, e da un’altra statuina, sempre presente tra le figurine dei pastori che popolavano il presepe, il Pastore delle Meraviglie, detto confidenzialmente Giamiupetru (Giovanni-Pietro). L’arcangelo e Giampietru, avvistatori di luce e stelle, contro le tenebre, annunciano l’avvento del il figlio di Dio, che adulto, nelle scritture rivelerà: «Io sono la luce del Mondo, chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Giov., 8,12), «Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo» (Giov. 9,5).

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    Da anni a Cosenza nel periodo di Natale un misterioso appassionato realizza un presepe all’interno di un albero

    Il Natale della tradizione popolare avvolgeva quindi con la sua luce ingenua e fidente un mondo naturale e storico che mutuava ed assorbiva dalla natura i suoi significati più profondi e le sue più oscure fragilità, miscelandoli con riti e culture provenienti da più lontane latitudini.

    Natale (e non solo) con le strine

    Erano anche, questi, i giorni del suono festoso e dei canti popolari della strina e degli zampognari. Nei paesi del cosentino la strina (dal latino arcaico strēna, “auspicio, omaggio di buon augurio”, coincidente con il periodo dell’anno in cui gli astri risalivano il cielo nel corso del periodo dicembre-gennaio) è un canto in versi e in rima accompagnato da strumenti popolari, spesso ricavati da oggetti e attrezzi di lavoro della tradizione contadina. È il caso dei sazeri” conosciuti anche come “murtari” o “ammaccasali. Si tratta dell’antico mortaio in legno o in metallo usato per “ammaccare” il sale grosso delle conserve. Spesso al suono di uno o più di questi strumenti improvvisati si accompagnava una semplice chitarra, un mandolino, un tamburello ed una fisarmonica, a seconda del numero dei “cantori”.

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    Tamburello e fisarmonica sono due classici strumenti utilizzati per la strina

    Il gruppo di suonatori e cantori si recava casa per casa a portare la “buona novella” della nascita del Cristo, ottenendo in cambio un donativo a ringraziamento della visita. Alimenti come uova, formaggio, olio, vino e salumi. La “strina” veniva solitamente cantata nel periodo dell’avvento, che nel calendario tradizionale iniziava con la festa della Immacolata Concezione l’8 dicembre, e durava sino alla sera dell’Epifania il 6 di gennaio. Questa bella e conviviale tradizione è andata via via scomparendo anche dai paesi, anche se i canti della Strina sono diventati nel frattempo oggetto di studio e di raccolta degli etno-musicologi.

    Canti a dispetto a chi rifiuta di aprire la porta

    Come si svolgeva la strina? I cantori iniziavano augurando a tutta la famiglia ospite gioie e benedizioni, per passare poi agli auguri singoli ad ogni componente del nucleo familiare che viene chiamato per nome nella cantata, e al nome si legava un particolare augurio in rima. Si passa alla richiesta dei doni, al “fammi la strina”. A chi non avesse voluto accogliere i cantori e aprire loro la porta di casa, rifiutando l’ospitalità (rara circostanza), i “cantaturi” avrebbero rivolto stornelli “a dispetto”, una sorta di apologo improntato allo sdegno e a profezie di malesorte, che pur di non fatale entità, non suonavano certo liete come ad esempio: “Ammienzu sta casa ci penda nu lazzu, quanno ti lavi mu ti ruppi nu vrazzu”.

    Senza essere chiamati

    Ma quasi sempre la musica era festosa e la “cantata”, accompagnata dalla musica festosa che annunciava per le strade dei paesi una richiesta d’accoglienza e di offerta, era solitamente bene accetta e accolta con fervore come una questua votiva e un dono fatto al Bambino Gesù: «Senza essere chiamati simu vinuti/ oi simu vinuti/ ari patruni avia i bonu truvati/ chini di gintilizza e curtisia; Sentu lu strusciu di lu tavulinu/ è u patruni ca pripara u vinu; Sento lu strusciu di la tavulata/ è a signora ca porta a suprissata/; Sento lu strusciu di la cascitella/ chisti su i guagliuni ca piglianu a custatella/; Nun è vrigogna si purtamu a’ strina/ a’ strina l’ha lassata nostru Signuri/ la strina l’ha lassata a nua nostru Signuri”.

    Natale era dunque la festa più grande della devozione popolare, il cuore di un mondo contadino calabrese che evocava nei simboli luminosi degli astri e delle stelle che comparivano nella geografia del cielo e nel piccolo mondo dei presepi con l’augurio del rinnovarsi divino della luce dell’avvento. Era la favola, il ricordo, l’incanto di un mistero di fede e di luce celeste. Vincenzo Padula, scrive nel 1864 ne La notte di Natale: “Pe’ lu cielu, a milli a milli/, a ‘na botta, s’appicciaru/, s’allumarunu li stilli/, cumu torci de ‘n ataru:/ e si ‘n acu ti cadia/, tu l’ajjavi mmienzu ‘a via/».

    Natale al Cancello

    Nella celebrazione domestica del Natale, il momento più bello era quando la “stella cometa” si tirava fuori dalla paglia, l’ultimo pezzo della cassetta dei pastori, per addobbarla come una corona luccicante sopra la grotta del presepe. Succedeva poco prima della notte di Natale. Le lustravamo col fiato incantato dei sogni le stelle del presepio. Comete dei sogni che restano ingenui.
    Andavo a dormire a casa di mia nonna in certe notti freddissime di inverni della fine degli anni Sessanta. Uscivamo imbacuccati e infreddoliti per andare verso casa sua, a piedi, dalla casa di Via Cancello dove abitavo, fino in cima alla Motta di Paola, vicino al castello, quasi fuori dal paese. Niente macchine in giro allora. La statale 18 non l’avevano ancora costruita. Mia nonna era una donna energica, allegra e dal passo svelto, mi portava in salita e mi reggeva per mano.

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    Quel che resta del Castello di Paola

    Mi ricordo il buio e il cielo immenso, nerissimo, come un velluto impuntato di stelle tremanti. Tremavo anch’io per il gelo, e alzavo il naso nella notte per guardarle, inciampando sui gradoni ripidi tra i vicoli che portavano a casa della nonna Maria, in cima al paese. Le costellazioni rilucevano e sfioccavano nel buio siderale di quelle notti lontane come lampadine in un presepio agitato dal vento. Ero attratto dal buio, dalla luna, dalla vastità siderale. Tentavo di fissarle quelle stelle, e piangevo. Ero già miope, e senza occhiali, tentando di metterle a fuoco, lo splendore di quelle lucine remote nel cielo limpidissimo e nero si allargava sotto un velo di lacrime fredde che mi bagnava gli occhi.

    Le stelle comete puzzano

    E oggi? Le stelle, le comete? Anche quelle, hanno perso il loro incanto sotto le luci sempre accese dei consumi. Poi c’è la scienza, che scruta il cielo e fa la sua parte per distoglierci definitivamente dai miti dell’infanzia. Le stelle comete puzzano, pare, di uova marce e di zolfo. Qualche anno fa ne hanno sondato una – la “67P/Churyumov-Gerasimenko” con un coso supertecnologico costruito dall’Ente Spaziale Europeo, che l’ha fotografata. Ci si è piantato sopra, l’ha sfriculiata in vario modo la cometa e se n’è persino ciucciata un po’. Un assaggio di eternità.

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    La cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko

    Il risultato è che queste schegge di universo primordiale sono impastate di ghiaccio puzzolente e di polvere gelata, guasta, freddissima e piena di gas fiammeggianti. Corpi celesti andati a male, freddi, desolati. Puzzolenti. E ruotano inutilmente nel buio tra le costellazioni, sino a consumarsi come un mozzicone di sigaretta gettato per strada e spento dalla pioggia di un acquazzone. E ancora non lo sapevamo. Così sin dai tempi della creazione. Una scoperta che ci mancava. Che sarà molto utile agli scienziati che studiano i misteri della cosmologia. Microcosmo e macrocosmo corrispondono, sempre. Sappiamo anche questo adesso. Che le comete, anche quelle dei presepi, altro non sono che secchi asteroidi di ghiaccio sporco e fetido come il fondo dei frigoriferi a pozzetto di una cucina maltenuta.

    Natale senza desideri

    E adesso che è caduto pure il cielo dei presepi che ci resta? Anche i desideri (dall’etimo latino del termine de, origine, e sidus, stella, letteralmente, “contemplare le stelle a scopo augurale”, nel senso di trarne auspici e quindi bramare qualcosa-qualcuno), ormai non alludono più alla distanza tra il soggetto e l’oggetto di ogni desiderio, tra noi e le cose, al legame arcano tra l’anima e ciò che ci lega alla natura e agli oggetti stessi. Quello che una volta veniva dalle stelle oggi si compra o si scambia con il denaro e le merci della società turbocapitalista. E si scopre che le comete, quelle vere, sono pezzi di ghiaccio andati a male che girano a vuoto tra il buio delle galassie. A Natale pure le comete esplorate dagli scienziati non danno ali a nessuna fantasia, e sono imbrattate dal caos che avvolge i nostri giorni.

    E senza presepe

    Non ci piacciono più le stelle comete, e non ci piace più neanche il presepe. Il Natale è oggetto degli interdetti del politicamente corretto. E quel «Te piace ‘o Presepio?» di eduardiana memoria, suona oggi quasi come una domanda senza senso. La stella cometa, l’arcangelo Gabriele, i Re Magi, il pastore delle meraviglie. Le strine. Forse tra poco non sapremo più neanche cosa significano. Come nella commedia di Eduardo, Nennillo tace, si risente e alla fine sbotta: «No!».

    Pure la moglie Concetta ha da ridire sul presepe; dopo aver mandato “a quel paese” il presepio nel silenzio della primissima scena, Concetta punzecchia ripetutamente Luca: «Non capisco che lo fai a fare»; «pare che stai facendo la Cupola di San Pietro! Ma vuttace quattro pastori: Vedete se è possibile che un uomo alla sua età si mette a fare il presepio. S’juta pe’ le dicere:-Ma che ‘o ffaie a fa’?-Sapete che mi ha risposto: -O faccio pe’ me, ci voglio scherzare io!-». Eppure Marcel Mauss ha scritto suo tempo che «l’uomo è stato capace di costruire il proprio spirito con tutti i mezzi». E le stelle e il cielo di Natale sono ancora lì, se guardassimo meglio.

  • Luci e periferie: così Cauteruccio racconta Pasolini

    Luci e periferie: così Cauteruccio racconta Pasolini

    Siamo quasi giunti alla fine di questo lungo anno in cui, in occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, si sono moltiplicate le più disparate iniziative per celebrarne la figura. Tra i maggiori intellettuali del secolo scorso, è stato capace con la sua opera di suscitare ampi dibattiti nell’Italia edonista del boom economico. Leonardo Sciascia lo definì «personaggio fuori dal tempo». E Rossana Rossanda scrisse, all’indomani della sua morte: «Detestato da tutti in vita quanto ipocritamente compianto da morto, pronto a essere strumentalizzato da più parti».

    È stato scoperto dalle nuove generazioni e riscoperto da chi, insieme con lui, aveva vissuto quegli anni di forti mutamenti antropologici, ma non era stato in grado di comprenderne completamente il messaggio.

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    Giancarlo Cauteruccio, attore e autore teatrale

    L’omaggio del regista, scenografo e attore Giancarlo Cauteruccio per Pasolini è qualcosa di veramente sconfinato, intendendo questo termine nella sua accezione letterale di “penetrazione nel territorio altrui”, perché le periferie nell’immaginario comune sono considerate spazio “altro” e separato dal resto della città.
    Cauteruccio, approda – traforando con effetti di luci, musica e parole – nei sobborghi, considerati corpi estranei rispetto ai più decorosi e curati centri urbani. Delle periferie, Cauteruccio, secondo una sua concezione artistica d’avanguardia, vuole evidenziare il cuore pulsante, spesso nascosto tra il degrado di un’edilizia che si allontana da ogni ideale di bellezza.

    Un Cauteruccio “de borgata”

    Pasolini ha saputo raccontare le periferie come nessun altro, trasformando i “borgatari” nei protagonisti dei sui racconti e dei suoi film. L’operazione di Giancarlo Cauteruccio si colloca da un punto di vista artistico-intellettuale in linea con il pensiero pasoliniano, con la differenza che il ruolo dei protagonisti è assegnato alle facciate fatiscenti dei caseggiati periferici, immagine di un sottoproletariato urbano che racconta sempre una storia di emarginazione. Il regista mette in scena un’operazione di teatro-architettura, un’estetica rappresentativa legata alle nuove tecnologie delle arti sceniche, capace di trovare nei luoghi urbani e naturali, quindi sconfinando rispetto agli spazi tradizionalmente intesi come aree delle rappresentazioni sceniche, i suoi palcoscenici ideali.

    Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini

    Cauteruccio, calabrese di Marano Marchesato, è uno dei registi più innovativi nell’area della seconda avanguardia teatrale italiana. Esplora nuove specificità linguistiche nella relazione con le moderne tecnologie, crea nuovi processi artistici in un confronto costante con lo spazio, il corpo e la parola. Quella di Cauteruccio è una poetica che si basa sulla commistione tra arte e tecnologie, riuscendo, grazie ai media digitali contemporanei, a intaccare l’esperienza della percezione sensibile. Si tratta di una sperimentazione avviata fin dagli anni ’70 del secolo scorso, con performance artistiche che hanno raggiunto New York e Mosca. E tuttora Cauteruccio mantiene un ruolo da protagonista nel campo del rinnovamento del teatro contemporaneo.

    Teatro Studio Krypton

    Per più di tre decenni ha diretto il Teatro Studio di Scandicci e nel 1982 a Firenze, con Pina Izzi, ha fondato Teatro Studio Krypton ancora oggi attivo e apprezzato a livello internazionale. Il regista è stato un pioniere del videomapping, attraverso il quale è riuscito a trasformare le superfici, sulle quali sono proiettate le immagini, in nuovi palcoscenici in cui nascono e si sviluppano nuove forme drammaturgiche, modificando la concezione dello spazio, rendendolo, grazie alla luce, plastico, una sorta di tela da dipingere con pennellate leggere.

    Cauteruccio e Pasolini eretico

    Dalla Calabria a Firenze, le facciate dei palazzi sono illuminate nel nome di Pasolini. Proiezioni di luci compongono parole che diventano “corpo gettato nella lotta” di nuove percezioni emotive. Una messinscena che non ha nulla a che fare con l’idea di teatro di Pasolini perché, come afferma lo stesso Cauteruccio, «Io non affronto Pasolini nella sua specificità teatrale, quanto nella sua condizione di “sconfinamento”. Pasolini sconfina nelle espressioni, nelle arti e nella sua visione complessiva della comunicazione. Affronta condizione estreme, radicalizzando il linguaggio. Dal cinema alla poesia, al suo rapporto con il dialetto, con la pittura, con la musica, con la politica, è tutto un rapporto di sconfinamento rispetto ai canoni tradizionali».

    Il non-teatro di Pasolini

    Sulla produzione teatrale pasoliniana Cauteruccio ha una visione in linea con una concezione di non rappresentabilità: «Il suo teatro, dal mio punto di vista, non si trasforma mai in una scrittura scenica, riuscendo a concretizzarsi, di fatto, solo da un punto di vista del puro esercizio di lettura. La scrittura rimane nel libro non riuscendo mai a confluire in quei nuovi concetti d’avanguardia degli anni ’60 e ’70». Il regista non porta in scena né Pasolini né le sue tragedie, ma “teatralizza” il suo concetto di Pasolini: «Affronto Pasolini dal punto di vista delle sue tematiche generali: lui ha una grande visione delle arti e della periferia e riesce a creare continue immagini, ma nel teatro la parola rimane ancorata a se stessa. Il suo modello è la tragedia antica, ma nel dialogo nega l’immagine ed io non mi riconosco in questo».

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    Cauteruccio proietta Pasolini sulla facciata del teatro Politeama a Catanzaro

    Luoghi sconfinati: da Catanzaro a Firenze

    Realizzare l’idea dello “sconfinamento” per Cauteruccio è un’azione artistica fatta di effetti luminosi proiettati, un omaggio che si concretizza attraverso un’estetica estrema e, proprio per questo, in grado di raccontare la visione poetica, ma anche quella più strettamente intellettuale di Pasolini. «L’operazione “Luoghi Sconfinati” – afferma il regista calabrese – è partita nel mese di settembre da Catanzaro, ed è stata fatta come omaggio estetico. Si tratta d’immagini proiettate sulla facciata del teatro Politeama, un progetto di teatro-architettura che vede scenari visuali ed elaborazioni video proiettate sulla facciata del principale teatro cittadino. Una performance che, insieme ai testi e alle musiche, trasforma ogni passante in uno spettatore di un’opera immersiva».

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    La locandina di “Luoghi sconfinati”

    Dopo Catanzaro il progetto si è trasferito a Firenze, sviluppandosi nei quartieri periferici della città. Le periferie vivono le contraddizioni dei luoghi estremi: gli assembramenti di una gioventù problematica e l’accavallamento di architetture prive di poesia. La criticità delle periferie risiede nell’assenza di bellezza, ma proprio grazie al teatro-architettura si può mettere in relazione l’aspetto materiale della periferia con quello visionario della poesia.

    Ragazzi di vita

    La periferia per Pasolini è un luogo poetico e, allo stesso modo, nelle nostre periferie possiamo riconoscere i “ragazzi di vita”, grazie alla multietnicità incontrare un qualche “Alì dagli occhi azzurri”. Lo stesso che Pasolini profetizzava nel 1962, anticipando gli sbarchi sulle spiagge di Palmi, Crotone e più in generale su tutte le coste che si affacciano sul Mediterraneo.
    A distanza di mezzo secolo dalla sua morte possiamo affermare che la più grande eredità lasciataci da Pasolini è la sua straordinaria attualità. Era un uomo che aveva piena coscienza dei processi sociali in atto, capace di una visione profetica sul futuro. Ed è proprio questo che ci consente di mantenere con lui un dibattito aperto, vivo e non privo di contraddizioni.

  • Quadara, una lingua di rame a Dipignano

    Quadara, una lingua di rame a Dipignano

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    La quadara (il calderone) è una questione da prendere sul serio a Dipignano e in Calabria. Se non altro perché ospita la cottura di parti molto saporite del maiale, quadrupede culto e prelibatezza immancabile nella cucina e nell’immaginario dei suoi abitanti.
    Dipignano è sempre stato, nei secoli dei secoli, il paese dei quadarari, i calderai, maestri abilissimi nella lavorazione del rame. Probabilmente sin dal 1300.

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    Calderoni nella bottega-officina di Roberto Farno a Dipignano

    Roberto Farno: ultimo dei calderai di Dipignano

    Oggi cosa resta di questa antica tradizione? Non poco, nemmeno tanto. Innanzitutto le mani grandi e callose di Roberto Farno, ultimo superstite di un mestiere in estinzione. La sua bottega è a Motta, parte bassa del comune a pochi chilometri da Cosenza. Abbastanza lontano dalla città per raggiungere e superare i 700 metri di altitudine. Roberto si cimenta anche con il ferro, che gli è «costato tre ernie». I cancelli li fabbrica e poi li prende di peso. Alla lunga persino Ercole avrebbe qualche problema alla schiena.

    Suo padre è il “mitico” Franchino Farno. È stato calderaio, comunista e uomo incline all’ironia. Roberto ha appreso questa arte come i suoi fratelli più grandi, oggi «radiatoristi e meccanici alla Riforma», storico quartiere di Cosenza.
    Rame e stagno, eccoli i due metalli intrecciati in una lunga storia di fatica e passione. Roberto racconta l’apprendistato iniziato a 16 anni e le prime tappe. In giro per i paesi il padre e i fratelli preparavano un piccolo fuoco per fondere lo stagno in piazza. E lui richiamava l’attenzione «iettannu ‘u bannu», diffondendo la voce per le viuzze.

    Nell’economia domestica, fino a qualche decennio fa, non poteva mancare una quota da destinare all’involucro interno di pentole e calderoni. Oggi è tutto cambiato. In cucina il rame è utilizzato dai grandi chef. Il calore si diffonde in maniera uniforme a tutto vantaggio di una buona cottura. I costi, però, sono elevati. Roberto Farno ci parla del listino prezzi dei calderoni: per 80 cm di diametro in rame si spendono fino a 600 euro, in acciaio 250 e in alluminio appena 60. Ci sarà una ragione se il prezzo varia così tanto. Qualche commessa arriva da proprietari di ville e da chi ama creazioni uniche. Poca cosa ormai.

    Il museo del Rame

    Un pezzo di storia di Dipignano e dei suoi calderai vive ancora nel Museo del rame e degli antichi mestieri. È un viaggio a ritroso tra utensili e strumenti della bottega artigiana, fatiche e vita grama, oggetti quotidiani e libri. Compresi quelli scritti da Franco Michele Greco che ha ricostruito il cammino di una comunità.

    Il tempo dei calderai nel Museo del Rame e degli antichi mestieri a Dipignano (foto Alfonso Bombini)

    Ammascante, la lingua dei calderai

    I calderai erano un po’ alchimisti, custodivano gelosamente i segreti del mestiere. A tal punto da inventare una lingua, l’ammascante. Che significa, appunto: parlata mascherata. E i calderai erano mascheri, varvottari, erbari, mussi tinti. Tutti sinonimi.

    Esiste pure un vocabolario grazie alle ricerche del glottologo John Trumper e della linguista Marta Maddalon, entrambi professori dell’Università della Calabria. Oltre 400 lemmi catalogati e spiegati con tutta la ricchezza di idee che solo due studiosi così attenti potevano restituire e donare alla memoria collettiva. Parole di questa lingua hanno contaminato il gergo dei calderai sardi a Isili. E altrove. Segno che gli artigiani di Dipignano hanno girato in lungo e in largo per l’Italia nei secoli passati.

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    Franco Araniti, poeta che scrive pure in Ammascanti (foto Alfonso Bombini)

    Franco Araniti, poeta e scrittore di Gallico (Reggio Calabria), ha fatto tesoro di questo vocabolario. Arrivato a Dipignano per amore, non è più andato via. Uno “straniero” che scrive versi anche in ammascanti. Parole poi musicate dal Collettivo Dedalus in un album valso al gruppo musicale il secondo posto al prestigioso Premio Tenco.

    Araniti, da attento osservatore, ha notato come questa lingua sia sopravvissuta pure nelle comunità dipignanesi in Canada. Dove, prima dell’avvento di Watt’s up, si scambiavano sms farciti di ammascanti. Un piccolo matrimonio tra nostalgia del paese natale e tecnologia. Manca solo una quadara sul fuoco. Magari a Montreal o Toronto qualcuno in giardino non rinuncia al suo pezzo di Calabria. Alla sua porzione di frittole.

  • Animal Party: orge e riti sul Monte Cocuzzo

    Animal Party: orge e riti sul Monte Cocuzzo

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    Una citazione colta per iniziare: Orazio, riferendosi a certe abitudini dei Bruzi, parlava di «amores insanes caprini», cioè amori insani con le capre.
    Segno che lo sfottò terribile, «noi avevamo le terme quando voi vi accoppiavate con le bestie», non era solo un modo di dire.
    Anzi, certe forme di zoofilia sarebbero sopravvissute all’antichità e alle proibizioni del cristianesimo fino a poco tempo fa.

    Lo scrittore e i pastori

    Il protagonista di questa vicenda, che risale a una fredda serata d’inverno di fine’800, è Giovanni de Giacomo, scrittore originario di Cetraro e pioniere degli studi sul folklore.
    Lo studioso, vissuto a cavallo tra XIX e XX secolo fu forse tra gli ultimi testimoni oculari di una farchinoria, ovvero di un’orgia tra i pastori e le loro pecore. Un nome bizzarro per una pratica bizzarra: parrebbe che farchinoria derivi dal latino farcino, riempire.

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    Percore al pascolo (olio su tela, XIX sec)

    Ma in che modo de Giacomo apprese di questa strana abitudine? Lo scrittore cita le testimonianze di Domenico Bascio e Nicola Svago, due anziani pastori che vivevano sulle pendici del Monte Cocuzzo. I due, in una serata di novembre 1891, gli avrebbero raccontato, anche con una certa nostalgia, dei loro svaghi di gioventù. Soprattutto della farchinoria…

    Monte Cocuzzo

    Coi suoi 1.541 metri, il Monte Cocuzzo è la vetta più elevata della Catena Paolana, la prima fascia dell’Appennino Calabro.
    È una montagna dalla classica forma di cono, che fa pensare a un’origine vulcanica. Per gli antichi, il Cocuzzo, coi suoi boschi fitti e oscuri, non era un luogo rassicurante. Lo fa capire lo stesso nome, che deriverebbe dal greco kakos kytos, pietra cattiva.
    Ma per i pastori calabresi di fine ’800 quei boschi erano un rifugio, dove agivano indisturbati.
    Al riparo di quelle stesse fronde, si sarebbe appostato anche de Giacomo, per spiare una farchinoria, nella notte di un 6 gennaio agli albori del ’900.

    Il festino

    I pastori riuniti attorno al fuoco cenano con una pecora arrostita, che hanno macellato in maniera a dir poco particolare.
    Le hanno infilato un palo nel retto e le hanno dilaniato le viscere per simulare un incidente. Così potranno dare una spiegazione al padrone, quando gli restituiranno la pelle dell’animale.
    Finito il pasto, innaffiato da abbondanti bevute, quattro giovani vestiti di pelli bianche e nere danno il via al festino, che comincia con una specie di corrida.

    Il dio Pan e la capra (gruppo marmoreo esposto nel Museo Nazionale di Napoli)

    I pastori fanno entrare un montone che, spaventato e infuriato, inizia a caricare i giovani. Stavolta non c’è nulla di cruento: i quattro provocano la povera bestia e ne schivano le cornate. Poi l’animale crolla sfinito e il gioco finisce.
    Anzi no: entra nel vivo.

    Amplessi bestiali sul Monte Cocuzzo

    A questo punto iniziano a suonare le zampogne e un pastore fa entrare sette pecore, agghindate con nastri e fiori.
    Alla corrida segue una specie di maratona: i quattro giovani possiedono ripetutamente le povere bestie. Come tutte le maratone, anche questa è una gara di resistenza: vince l’ultimo che cede. Per citare Highlander, ne resterà solo uno.
    Anche il pubblico, più che avvinazzato, si scatena. Alcuni si lasciano andare con le proprie compagne, altri fanno da sé.
    Infine, dopo tanta “fatica”, la stanchezza prende il sopravvento, protagonisti e spettatori si addormentano e la festa termina.

    Un giallo letterario

    Fin qui, la vicenda di cui Giovanni de Giacomo asserisce di essere stato testimone.
    Tuttavia, il pubblico ha appreso questa storia molti anni dopo.

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    Giovanni de Giacomo

    Infatti, risale al 1972 La Farchinoria. Eros e magia in Calabria, il libro in cui lo studioso racconta la sua esperienza di voyeur per amor di scienza. Intendiamoci: il Nostro aveva finito il manoscritto nel 1914, cioè quindici anni prima della morte (1929).
    Quindi parliamo di un testo rimasto inedito per 43 anni, che è riuscito a vedere la luce solo grazie all’interessamento di Paride de Giacomo, figlio di Giovanni e generale dei carabinieri, il quale consegnò il testo a un altro studioso, Raffaele Sirri.

    Come mai questo ritardo nella pubblicazione di una storia così interessante?
    A pensar male, si potrebbe ipotizzare che la farchinoria sia in buona parte una fake d’epoca. Oppure, con più credibilità, si può ritenere che forse gli ambienti scientifici dell’epoca non fossero pronti per questa scoperta.
    Ma quest’ultima ipotesi è davvero difficile: parliamo degli stessi anni in cui Lombroso teorizzava il delinquente e la prostituta per nascita e in cui la psicanalisi freudiana, piena di sesso fino all’orlo, si faceva strada nel dibattito scientifico.
    Oppure, più semplicemente, l’autore ha lasciato questo manoscritto nel classico cassetto per il timore di non essere creduto.

    Solo per amore

    Delle farchinorie, che si svolgevano tutti gli anni tra l’Epifania e la Quaresima, oggi si parla poco. Al riguardo, c’è chi si rifà al mondo arcaico. E c’è chi, invece, richiama le vecchie letture gramsciane, in una sorta di marxismo pecoreccio. Non mancano, ovviamente, i riferimenti alla psicanalisi.
    Ma forse la verità è più semplice: i pastori calabresi amavano il loro duro lavoro. Molto e intensamente, più di quanto non si creda.

  • Daniel Cundari, quel “ragazzo dell’Europa” tra poesia e politica

    Daniel Cundari, quel “ragazzo dell’Europa” tra poesia e politica

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    Daniel Cundari si muove con la stessa disinvoltura tra i locali del Barrio Gotico a Barcellona oppure tra i vicoli della sua Cuti, contrada di Rogliano. E legge ad alta voce Jorge Luis Borges così come recita Duonnu Pantu, il monaco di Aprigliano autore di rime «controverse e lascive». Sopratutto «in privato», confessa, omettendo particolari da censura.

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    Daniel Cundari a Cuti, sotto il murales di Alice Pasquini in via Pietro Nicoletti (foto Alfonso Bombini 2022)

    Non solo Daniel Cundari: la strada degli artisti

    Poeta, performer, autore teatrale. È difficile inquadrare Daniel. Vive nella sua personale Macondo in Via Pietro Nicoletti proprio a Cuti, nota anche per il suo pane prelibato. Sulla destra abita e lavora Sandro Sottile, liutaio e polistrumentista. A due passi si sente il rumore degli attrezzi di Ferdinando Gatto, scultore di legno e pietra. Bastano poche centinaia di metri per raggiungere il ceramista Telemaco Tucci, la talentuosa artista del trucco Ilenia Tucci e la street artist Alice Pasquini. Daniel ci tiene a citarli tutti. Come parte di un’unica comunità.

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    Daniel Cundari tiene molto al progetto della Piccola biblioteca di Cuti (foto Alfonso Bombini 2022)

    La piccola biblioteca di Cuti

    È una comunità che adesso ha pure una casa dei libri. La piccola biblioteca di Cuti, esempio in controtendenza rispetto a una Calabria che legge pochissimo. Un progetto a cui tiene molto. Non una semplice collezioni di testi.

    Molte rarità letterarie (compresi grandi classici sudamericani in lingua originale e autografati) hanno messo radici tra le mensole di quella che è stata per lungo tempo pure una vineria.

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    Il celeberrimo vino Savuto “Succo di Pietra” bevuto dallo scrittore Mario Soldati (foto Alfonso Bombini 2022)

    E conserva una bottiglia di Succo di Pietra del 1973, una delle ultime rimaste di quel Savuto “Britto” bevuto e lodato dallo scrittore Mario Soldati nel suo celebre Vino al vino. Una targa ne ricorda il passaggio a Rogliano.

    Un paese, almeno per poterci restare

    Fa freschetto a 650 metri, ma il sole si fa sentire ancora. Daniel si ferma a parlare con un barbiere d’eccezione, Pino alias Pippos Orlandos. Una vecchia gloria dei concerti alternativi. Sui muri sciarpe e immagini di Bob Marley. Pino, però, ammette di essersi perso l’unica tappa italiana del re del Reggae a Milano. Correva l’anno 1980. In paese si dice che abbia persino tagliato i capelli a Vinicio Capossela mentre si esibiva sul palco. Di queste piccole mitologie si nutre una parte del suo immaginario.

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    Pino, alias Pippos Orlandos, barbiere “reggae” di Rogliano (foto Alfonso Bombini 2022)

    Repentismo cutise

    Nei sei anni trascorsi nel quartiere gitano di Granada, Daniel ha appreso le tecniche del flamenco. Da qui nasce l’amore per il repentismo. Che ha declinato in salsa cutise, colorandolo della sua cultura: con le sue contraddizioni, le sue ricchezze, i suoi personaggi. Un concentrato di differenze molto apprezzato anche fuori dal vecchio continente. Cuba in primis. Cundari è di casa in terra caraibica. E in Messico tra rime e Tequila y Mezcal.

    Daniel Cundari, ragazzo dell’Europa

    Ma la seconda patria di Daniel è la Spagna. Lì ha iniziato a collaborare con la prestigiosa rivista letteraria Quimera. Tra i fondatori c’è lo scrittore Mario Vargas Llosa. A Barcellona confessa di essere stato stregato dall’anarchismo catalano. E nella città blaugrana ha conosciuto Gianna Nannini. «Le serviva un tecnico del suono in tutta fretta, ha chiesto a un mio amico – ricorda Daniel – e io ho le ho risolto il problema». Nel suo studio di registrazione la rocker senese ha poi ascoltato per caso il poeta di Cuti impegnato a declamare qualche suo verso. Da lì è scattata la scintilla. Gianna capisce la forza dirompente di quel calabrese che poi si esibirà sul palco con la star italiana. Fino a gridargli, sottolinea sorridendo Cundari: «Daniel, ragazzo dell’Europa».

    Due raccolte di poesie di Daniel Cundari (foto Alfonso Bombini 2022)

    Il poeta pluripremiato

    Scrive in italiano, spagnolo e nella sua lingua d’infanzia, quella dei padri e dei nonni, il dialetto definito «strumento musicale». Grazie a Geografia Feroz Daniel ha vinto il Premio Genil de Literatura nel 2011. Nello stesso anno ha collezionato il prestigioso Lerici Pea. Tra gli ultimi riconoscimenti compare il Premio Ischitella. Autore di numerose pubblicazioni come Cacagliùsi (2006), Il dolore dell’acqua (2007), Istruzioni per distruggere il vento (2013), Poesie contro me stesso (2014), Nell’incendio e oltre (2016) ‘Ngilla orba (2017), Il silenzio dopo l’amore (2019).

    La Calabria di Daniel Cundari tra poesia e politica

    Nella Calabria di Daniel Cundari scrittura e impegno civile si danno appuntamento. Non è un caso se chiama in causa spesso Franco Costabile e il suo Canto dei nuovi migranti. Lo ha persino recitato alla sua maniera in un comizio durante le ultime elezioni regionali. Le ha affrontate da candidato con Luigi De Magistris. Buoni risultati nel suo territorio e tanta voglia di continuare la strada intrapresa.

    Oggi la luna di miele con l’ex sindaco di Napoli è finita. È tempo di guardare oltre. In cantiere un movimento politico con radici nel suo Savuto e la voglia di conquistare spazio e idee altrove. Si chiamerà Calabria giovane dentro. E promette pure di ripristinare le vecchie sezioni. Al suono di un suo vecchio mantra: la poesia è l’ultimo partito che rimane.

  • I cento anni di Luciano Bianciardi, Galluppi e la maestrina di Catanzaro

    I cento anni di Luciano Bianciardi, Galluppi e la maestrina di Catanzaro

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    «Chi si firma è perduto» (sulle lusinghe del lavoro giornalistico)

    «Il successo è soltanto il passato remoto del verbo succedere»

    ALCOL

    «Sopportatemi, duro ancora poco»: la frase che Luciano Bianciardi (Grosseto, 14 dicembre 1922 – Milano, 14 novembre 1971) rivolgeva a chi gli stava vicino mentre l’autodistruzione da alcol stava per compiersi.

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    Luciano Bianciardi nel suo letto

    • AVANTI/1

    Di Bianciardi si citano sempre l’attualità, la “visione”. «Ha vissuto in un’epoca che non era la sua», come ha raccontato la figlia Luciana a Simonetta Fiori (Robinson n. 311): «Era contrario al divorzio perché prima ancora avremmo dovuto lottare per abolire il matrimonio. E nel giorno dell’allunaggio ci invitò a pensare alla luna di Leopardi, perché quella conquistata da Neil Armstrong non sarebbe servita a niente (…). Sapeva guardare molto lontano, ma non fu compreso dai suoi contemporanei. Era avanti di una cinquantina d’anni».

    • AVANTI/2

    In una lettera del 13 luglio 1970 alla figlia rivela di aver scritto «un racconto di fantasport, in cui immagino cosa sarebbe successo se l’Italia avesse vinto ai campionati mondiali» (accadrà 12 anni e 3 mondiali dopo).

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    Dino Zoff alza la coppa, L’Italia si è appena aggiudicata i Mondiali dell’82

    • AVANTI/3

    Giacomo Papi (la Repubblica, 18/11/2022) ha ricordato che in un pezzo del 28 luglio 1959 uscito sull’Avanti!, Bianciardi anticipò di due anni Umberto Eco e la sua “Fenomenologia di Mike Bongiorno” e di undici l’intuizione di Andy Warhol: ogni italiano aspetta il suo «quarto d’ora di celebrità e di fortuna» (bisogna aggiungere che, forse non per caso, “quartodorista” è un neologismo di incerta attribuzione – Gadda o Manganelli – per definire i frequentatori di case d’appuntamento).

     

    • BANCHE

    «Se vogliamo che le cose cambino, inutile occupare le università, occorre occupare le banche e far saltare le televisioni» (1968).

    • CALABRIA

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    Tropea, un particolare del monumento a Pasquale Galluppi

    Ha senza dubbio avuto meno fortuna della casalinga di Voghera di Alberto Arbasino, ma ha una sua dignità letteraria la «maestrina di Catanzaro» con cui Bianciardi identifica l’insegnante-tipo in viaggio d’istruzione in Svezia, dove “il Nostro Giovane Lettore”, protagonista di un suo articolo per il settimanale ABC, si è recato in vacanza; qualche rigo prima, il pensiero filosofico del tropeano Pasquale Galluppi è preso ad esempio come materia su cui sgobbano i «colleghi diligenti e secchioni» del giovane.

    • CALVINO

    «Son riuscito a scrivere un libro, che ritengo la mia cosa migliore. Calvino ne è entusiasta, e lo pubblicherebbe anche subito. Si intitola La vita agra, ed è la storia di una solenne incazzatura, scritta in prima persona singolare» (secondo alcuni la trama fu “rubata” da Bianciardi a un ignoto scrittore irlandese da lui stesso tradotto).

    • COMUNISMO

    Un giorno, mentre Giangiacomo Feltrinelli parlava di comunismo, si alzò e uscì, dopo avere preso dall’attaccapanni il cappotto di cammello del padrone (Papi, cit.).

    • CRITICA

    «Solitamente i critici da noi parlano poco del libro o spettacolo o dipinto che dovrebbero recensire. Più che altro parlano di sé» (da Non leggete i libri, fateveli raccontare, ed. Stampa Alternativa 2008, testo apparso in origine nel 1967 in 6 puntate su ABC).

    • DRAMMA

    «Il vero dramma di Luciano Bianciardi è di essere più commentato che letto. Ancora oggi molti conoscono La vita agra, ma ben pochi l’hanno letto davvero. (…) Conosceva bene, forse, l’origine della parola “applauso”: l’applauso era l’invenzione che gli antichi usavano per coprile le grida dei lapidati a morte. Bianciardi venne sepolto da decine di migliaia di applausi. Morì a 49 anni. Da solo. (…) Al suo funerale ci saranno soltanto quattro persone. Dimenticato da tutti. Rimosso. Anche dagli stessi che lo avevano incensato in vita» (Gian Paolo Serino, Luciano Bianciardi. Il precario esistenziale, ed. Clichy, 2015).

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    Luciano Bianciardi e Ugo Tognazzi sul set del film tratto da La vita agra

    • ENDECASILLABI

    «Alcune pagine (de La vita agra, ndr) sono scritte in perfetti endecasillabi» (Luciana Bianciardi, traduttrice a sua volta, oggi editrice in ExCogita).

    • FELTRINELLI

    Dalla Feltrinelli fu licenziato «per scarso rendimento», lui commenterà: «Soltanto per via di questo fatto che strascico i piedi, mi muovo piano, mi guardo intorno anche quando non è indispensabile. (…) La verità è che le case editrici sono piene di fannulloni frenetici: gente che non combina una madonna dalla mattina alla sera, e riesce, non so come, a dare l’impressione, fallace, di star lavorando. Si prendono persino l’esaurimento nervoso».

    • GIORNALISMO/1

    Negli anni ’60 Indro Montanelli propose a Bianciardi una collaborazione al Corriere della Sera e uno stipendio di 300mila lire (circa 5mila euro di oggi) per due pezzi al mese, lui – a differenza di quanto fece Pasolini – rifiutò perché non si sarebbe sentito abbastanza libero come su Le Ore e Playmen, Kent ed Executive, ABC e il Guerin Sportivo ai tempi della direzione di Gianni Brera; però accettò di scrivere per il Giorno: «Sto lavorando, ma per la pagnotta (…) Tutta roba che non mi piace molto, ma che altro vuoi fare? Leggo parecchio, la sera, un po’ di tutto… E facciamoci coraggio».

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    Indro Montanelli

    • GIORNALISMO/2

    Prima di Michele Masneri (estate 2015 in Audi per il Foglio) e Michele Serra (per l’Unità su una Panda 4×4, trent’anni prima), a sperimentare il format del reportage in auto furono proprio Pasolini (periplo d’Italia in 1100, nel 1959) e Bianciardi; ma l’inventore assoluto del genere fu Luigi Barzini: Parigi-Pechino su una Itala con il principe Scipione Borghese (10 agosto 1907).

    • HOTEL

    No, Bianciardi era piuttosto tipo da pensione: una di quelle in cui abitò a Milano era in via Solferino, la strada del Corsera.

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    La sede del Corriere della Sera in via Solferino a Milano

    • INCIPIT

    «Tutto sommato io darei ragione all’Adelung, perché se partiamo dall’alto-tedesco Breite il passaggio a Braida è facile, e anche il resto: il dittongo che si contrae in una e apertissima, e poi la rotacizzazione della vocale interdentalica, che oggi grazie al cielo non è più un mistero per nessuno» (La vita agra comincia in modo non proprio agevole…).

    • LIBRI/1

    Da direttore della biblioteca di Arezzo inventò il Bibliobus, un furgone con cui distribuire libri a contadini e minatori.

    • LIBRI/2

    «Proverò a scrivere tutta la vita non dico lo stesso libro, ma la stessa pagina, scavando come un tarlo scava una zampa di tavolino».

    • MAESTRI

    «I miei maestri si chiamano così: Giovanni Verga, catanese. Seguo invano le sue tracce fin da quando avevo diciotto anni. Carlo Emilio Gadda, milanese […] tuttora insuperato. Henry Miller, detto Enrico Molinari, da New York, che ebbi la fortuna di tradurre e conoscere personalmente. Ora abita a Big Sur, e qualche volta mi manda una cartolina firmando col suo nome italiano di mia invenzione».

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    Henry Miller nel suo studio a Big Sur alla fine degli anni Quaranta

    • NATALE

    Quel giorno che regalò Il piccolo chimico al figlio Ettore e passò una notte intera a tradurre il manualetto dall’inglese (amore paterno + deformazione professionale)

    • OPERAIO

    «È comprensibile che quest’uomo, ubriaco di pagine tradotte, senta ribollire la propria vicenda attraverso parole e linguaggi altrui, come l’operaio del film di Charlot che, pur staccato dalla catena di montaggio, continua meccanicamente ad avvitare bulloni» (Michele Rago sul linguaggio de La vita agra).

    • POLITICA

    «La bontà di un uomo politico non si misura sul bene che egli riesce a fare agli altri, ma sulla rapidità con cui arriva al vertice e sul tempo con cui vi si mantiene».

    • QUALITÀ

    «Non rinunciava a qualità, cura, rigore. Come se nella scrittura riuscisse a trovare la misura e l’equilibrio che non trovava nella vita» (Luciana Bianciardi).

    • REPRESSIONE

    «Mi pare che la vita, purtroppo, sia fatta di esami e di processi, che son poi la stessa cosa, due facce della stessa società autoritaria e repressiva che ci siamo costruiti intorno per non so quale follia» (lettera del 13 luglio 1970 alla figlia Luciana).

    • STIPENDIO

    «L’aggettivo “agro” sta diventando di moda, lo usano giornalisti e architetti di fama nazionale. Finirà che mi daranno uno stipendio solo per fare la parte dell’arrabbiato italiano. Anziché mandarmi via da Milano a calci nel culo, come meritavo, mi invitano a casa loro e magari vorrebbero… Ma io non mi concedo» (lettera all’amico Mario Terrosi, 30/12/1962).

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    Un’altra immagine di Luciano Bianciardi

    • SUBITO

    «Il guaio di finire un libro (da tradurre, ndr) sai qual è? Che subito dopo ti tocca attaccarne un altro» (lettera del 13 luglio 1970 alla figlia Luciana, che ne ricorda «la disciplina ferrea» da traduttore: «Fissava un numero di cartelle al giorno, e non andava a letto prima di aver finito l’ultima pagina. Era la lezione di sua mamma, nonna Adele. […] L’eccellenza è stata per lui un obbligo»).

    • TALK

    «È stato uno dei primi critici televisivi, uno dei primi opinionisti. Fosse ancora vivo, come si dice sempre del suo coetaneo Pasolini, quel che ne pensa del mondo andrebbe a dirlo in un talk becero di Rete4, pure a “Ballando con le stelle” se pagano qualcosa» (Alberto Piccinini, il Venerdì, 2/12/2022).

    Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini

    • TELEVISIONE

    «La televisione non uccide, certo, ma può fare di peggio. Può imbottire teste, indurre ai consumi e formare opinioni. Perché l’uso della televisione è gratuito. Non si paga, però si sconta» (1965).

    • TOUR

    «Oramai sto girando come un rappresentante di commercio» (in tournée per La vita agra)

    • TORRACCHIONE/1

    Il Luciano protagonista del capolavoro assoluto di Bianciardi arriva a Milano per vendicarsi facendo saltare il «torracchione», che non è il Pirellone, come qualcuno potrebbe pensare, bensì la sede della Montecatini Edison (poi Montedison), società responsabile della tragedia raccontata da Bianciardi e Carlo Cassola ne I minatori della Maremma; «Se si guarda Milano oggi, hanno stravinto i torracchioni» (Francesco Piccolo, prefazione a Trilogia della rabbia, Feltrinelli, 432 pp., 16 euro, un’ottima idea regalo per Natale ma non solo)

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    Luciano Bianciardi a Milano (foto Ugo Mulas)

    • TORRACCHIONE/2

    «Ma lui non voleva mettere nessuna bomba: la bomba era quel libro là, che diceva che il miracolo economico era una fregatura. Però la bomba non esplose, anzi l’autore fu corteggiato dai salotti e dalla tv, un giullare che invece di essere combattuto viene integrato dal sistema» (Luciana Bianciardi).

    • UTOPIA

    «Aveva scritto un romanzo contro la borghesia culturale milanese, ed era invitato come una star a tutti gli appuntamenti mondani. Si struggeva e beveva e si chiedeva dove aveva sbagliato; ma intanto ci andava, e chissà quanto si rendeva conto di somigliare ancora di più al protagonista del suo libro. (…) Viene accolto con clamore, e viene amato da coloro contro cui si scaglia» (Piccolo, cit.); sembra l’effetto contrario di quello ottenuto da Tom Wolfe dopo la celebre descrizione dei radical chic newyorkesi.

    • VOGUE

    Per celebrare il successo de La vita agra su Vogue America esce una sua foto accanto ai simboli della Milano del boom e dei consumi, una città che raccontò con sguardo lunghissimo attraverso i suoi cambiamenti: la moda del cibo giapponese e la mania delle diete, i calciatori dalle facce «sempre meno di braccianti e manovali, sempre più di assennati ragionieri», persino ciò che saranno i selfie, gli autoscatti sintomo di un allora incipiente esibizionismo di massa.

    • ZUPPA

    Per il racconto La solita zuppa, un mondo al rovescio nel quale s’insegna l’ora di masturbazione a scuola, nel 1965 fu denunciato per oscenità e vilipendio della religione.