Categoria: Cultura

  • Bonnie e Clyde alla calabrese: Ciccilla e Pietro Monaco, briganti

    Bonnie e Clyde alla calabrese: Ciccilla e Pietro Monaco, briganti

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    Una copia della foto che immortala Ciccilla è conservata nei documenti di Cesare Lombroso.
    Il papà dell’antropologia criminale è stato di sicuro incuriosito dalla brigantessa che, grazie al racconto di Alexandre Dumas, è entrata nelle cronache dell’Italia postunitaria da protagonista assoluta.
    La calabrese Maria Oliverio, alias Ciccilla (appunto…) vanta un primato: è l’unica donna che può vantare un ruolo di leader nel brigantaggio. Anche più, forse, della campana Michelina De Cesare.

    L’esordio splatter di Ciccilla

    È la sera del 27 maggio 1862. Maria Oliverio è uscita da poco dal carcere provvisorio, istituito nell’ex Convento di San Domenico a Celico, dov’è stata reclusa per oltre quaranta giorni assieme a Teresa, sua sorella maggiore.

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    Ruderi del Convento di San Domenico, il carcere di Ciccilla

    Maria, originaria di Casole Bruzio, cerca di rivedere suo marito Pietro Monaco, latitante da mesi. Lo incontra poco fuori Macchia di Spezzano, dove vive da quando è sposata. Lui non sembra affatto contento di vederla: prima prova a spararle con un fucile, poi di accoltellarla. La giovane fugge e, non potendo rientrare a casa (dove convive anche con la suocera e la cognata), si rifugia da Teresa.
    E lì succede l’irreparabile: le due sorelle litigano. Vengono alle mani e poi passano alle armi bianche. Maria ha la meglio: afferra un’accetta e colpisce Teresa 48 volte. Poi prende i nipoti, li affida a sua suocera e si dà alla macchia.

    Il retroscena passionale

    Perché Pietro tenta di uccidere Maria? E perché Maria uccide sua sorella, dalla quale si era rifugiata? Gli atti processuali, ricostruiti con precisione maniacale da Peppino Curcio nel suo Ciccilla (Pellegrini, Cosenza 2013) rivelano una realtà piuttosto torbida: Pietro è l’amante di Teresa.
    Quest’ultima, inoltre, avrebbe diffamato la sorella con Pietro: Maria, a sentir lei, si sarebbe concessa alle guardie durante la detenzione a Celico. Basta questo per scatenare tanta furia omicida? In quel tipo di società, povera e violenta, sì. Ma c’è anche dell’altro.

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    Scultura che ritrae Pietro Monaco “conteso” da Marie Oliverio e sua sorella Teresa

    Il retroscena politico

    Pietro nel 1862 non è ancora ufficialmente brigante, anche se scorre già la campagna nella banda di Domenico Straface di Longobucco, detto Palma.
    È ricercato perché ha disertato dall’ex esercito delle Due Sicilie per unirsi a Garibaldi e la sua situazione giuridica con gli obblighi di leva non è chiarita.

    Il motivo reale della carriera brigantesca di Monaco è la delusione: la distribuzione delle terre, promessa dal Generale, è rimasta sulla carta.
    Ciononostante, Monaco avrebbe mantenuto rapporti con Donato Morelli, notabile di Rogliano ed ex cospiratore filogaribaldino. A questo punto, entra in scena un altro personaggio: Pietro Fumel.

    Fumel l’ammazzatutti

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    Pietro Fumel

    Bestia nera dei revisionisti antirisorgimentali, il piemontese Pietro Fumel si è guadagnato una fama postuma di macellaio, a volte non immeritata. Militare di carriera e protagonista delle prime due guerre d’Indipendenza nell’Esercito sabaudo, arriva a Cosenza come braccio destro del prefetto Francesco Guicciardi, per conto del quale inizia una lotta spietata ai briganti.

    Lo fa con metodi spicci e non ortodossi: dà un’organizzazione militare ai reparti della Guardia Nazionale e mette a ferro e fuoco le campagne, anche con esecuzioni sommarie. I risultati arrivano, ma i mezzi sono discutibili, anche nella mentalità dell’epoca.
    È Fumel che fa arrestare Maria e Teresa e le tiene in carcere, per fare pressione su Pietro Monaco. Perché?

    Le due facce di Pietro Monaco

    Durante il processo del 1864, Ciccilla dichiara di essere stata incarcerata assieme alla sorella per costringere Pietro a costituirsi.
    Ma forse la verità è un’altra: Fumel e chi per lui (Morelli) vogliono usare la banda di Pietro, che in quel momento non ha una linea politica, per eliminare alcuni briganti filoborbonici. Tra questi, Leonardo Bonaro, che ha avuto contatti con il generale legittimista spagnolo José Borjes, e Pietro Santo Peluso, detto Tabacchera.
    A favore di questa tesi c’è un dato: i due vengono ammazzati poco prima della liberazione delle sorelle Oliverio. Che tornano libere senza che Monaco si sia costituito.

    Crimini in gonnella

    La carriera di Ciccilla inizia il 28 maggio del 1862 e termina nel febbraio del 1864, quando i bersaglieri la catturano a Caccuri, nel Crotonese, dopo due giorni di assedio, in cui perdono la vita due militari e un guardiaboschi del barone Barracco.
    In questi due anni, Maria accumula un curriculum spaventoso: trentadue capi d’imputazione per omicidio, violenze varie, rapine, estorsioni, danneggiamento ed uccisione di animali domestici.

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    Il castello di Caccuri sotto la neve

    La giovane (20 anni appena nel 1864), riconosce a suo carico solo il brutale omicidio della sorella. Per il resto afferma di essere stata costretta a delinquere dal marito e dagli altri briganti.
    Nessuno può smentirla: a partire da Pietro Monaco, sono tutti morti o in galera.

    Il colpo di Santo Stefano

    Facciamo un passo indietro. Anzi due. Il primo risale al 18 giugno 1863, quando la banda Monaco rapisce due cugini “che contano” a Santo Stefano di Rogliano: Achille Mazzei, ricco possidente e patriota vicino a Donato Morelli, e Antonio Parisio, sindaco di Santo Stefano e nobiluomo (tra l’altro discendente dell’umanista Aulo Giano Parrasio).

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    I due vengono liberati dopo il pagamento di 20mila ducati, una somma enorme per l’epoca (oltre i 200mila euro attuali). Cosa curiosa, Ciccilla non finisce sotto processo per questo rapimento. Ma dal dibattimento, a carico di altri superstiti della banda Monaco, emergono alcune ambiguità. Monaco, secondo alcuni pentiti, ha rapporti con Mazzei, che lo incarica di altri sequestri.
    Non solo: avrebbe colpito, parrebbe su commissione, la famiglia Spadafora, notoriamente filoborbonica

    Il rapimento del vescovo

    Il 31 agosto 1863, Pietro Monaco alza il tiro e, con un blitz spettacolare rapisce nove notabili ad Acri. Tra questi, Michele e Angelo Falcone, cioè il fratello e il papà dell’eroe di Sapri Giovan Battista e di Raffaele, maggiore della Guardia Nazionale.
    Ma il nome che spicca è un altro: Filippo Maria De Simone, il vescovo di Tropea, a domicilio coatto ad Acri perché antigovernativo. Ovvero, filoborbonico…
    Con vescovo sono rapiti due sacerdoti, i fratelli Francesco e Saverio Benvenuto. Ma, quel che è peggio, ci scappa il morto: Ferdinando Spezzano, eliminato subito dopo il sequestro. La misura è colma. Anche per i notabili che proteggono Monaco.

    Morte del boss

    Pietro muore la notte del 23 dicembre 1863, per mano del suo luogotenente Salvatore De Marco, alias Marchetta.
    Marchetta agisce con la complicità di Salvatore Celestino, detto Jurillu (fiorellino) e di Salvatore Marrazzo detto Diavolo. Quest’ultimo, c’è da dire, aveva tentato di avvelenare la banda due giorni prima…
    Il tradimento avviene in un essiccatoio per castagne di Jumicella, contrada di Serra Pedace, dove Monaco e Ciccilla si sono appisolati dopo il cenone. La dinamica è semplice e cruda: protetto dai compari, Marchetta spara al cuore del capo e colpisce anche Maria al polso.

    Il processo

    Le ambiguità del processo sono tantissime. Tra queste, la protezione del generale Giuseppe Sirtori e del giudice di Corte d’Appello Nicola Parisio.
    Attenzione ai dettagli. Sirtori, che guida la repressione del brigantaggio in Calabria, è stato un alto ufficiale garibaldino. In tale ruolo, ha guidato Pietro Monaco durante la battaglia del Volturno.
    Parisio, invece, è lo zio di Antonio, il sindaco rapito a Santo Stefano.

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    Il re Vittorio Emanuele II

    I due pezzi grossi chiedono la grazia per Ciccilla, condannata a morte dal Tribunale, e la ottengono dal re in persona. Quasi a voler completare un disegno tra notabili.

    La fine di Ciccilla

    Fin qui la storia della banda Monaco e di Ciccilla.
    Maria scampa il patibolo ma deve scontare l’ergastolo. Finisce in carcere a Torino, secondo alcuni nel forte di Fenestrelle, il presunto lager in cui i Savoia avrebbero internato (e, secondo alcuni, sterminato) molti soldati borbonici.
    In realtà, l’ipotesi di Fenestrelle come ultima dimora di Ciccilla non regge. Il forte, infatti, non era un carcere, ma un centro di raccolta per militari a cui far terminare la leva nel Regno d’Italia e sede di un corpo “disciplinare”, i Cacciatori Franchi, destinato ai militari più riottosi, anche piemontesi. Non un luogo adatto alla detenzione di donne.

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    Una scalinata nel forte di Fenestrelle

    Comunque sia, le tracce di Ciccilla si perdono dopo il processo. L’anno della morte presunta è il 1879.
    Maria porta nella tomba i tanti segreti e le ambiguità di due anni terribili, in cui da popolana è diventata, forse suo malgrado, protagonista.

  • La “scomunica” del papas: «Quel panino offende gli arbëreshë»

    La “scomunica” del papas: «Quel panino offende gli arbëreshë»

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    Quel panino ghiegghiu è indigesto, il capo della comunità religiosa arbëreshe chiama a raccolta i fedeli e li invita a protestare. La questione riguarda il nome dato dalla catena di fast food calabrese Mi ‘Ndujo a un nuovo prodotto presentato alcuni giorni fa e che ha ricevuto formalmente il plauso degli amministratori di molti comuni dell’Arbëria. Il progetto nasce con la nobile premessa di voler valorizzare «questa preziosa e importantissima minoranza linguistica – spiegano i soci della catena – che arricchisce ancora di più la capacità attrattiva e l’immagine esperenziale della Calabria che l’Italia e il mondo non si aspettano».

    ‘U ghiegghiu

    Fin qui tutto bene, se non fosse per il nome che – «simbolicamente e scherzosamente», sottolineano gli ideatori – è stato dato al panino: ‘u ghiegghiu. Ossia il non sempre affettuoso nomignolo affibbiato da secoli agli arbëreshë dai litìri (letteralmente latini, nello specifico i calabresi non albanofoni).
    «Eleviamo la nostra protesta e chiediamo a chi ha avuto l’infelice idea di ritirarla» è il monito di Papàs Pietro Lanza. «La nostra identità non si può racchiudere in un panino e in un termine ancor oggi usato in modo dispregiativo».

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    “L’anatema” dal profilo Fb Papas Pietro Lanza contro il panino Ghiegghiu

    Ironia o “cattivo gusto”?

    Il religioso arbëresh, attraverso la sua pagina Facebook, condanna la scelta di un termine che ricondurrebbe a stereotipi che da sempre hanno un peso sull’immaginario legato al suo popolo e quindi chiede che il nome del panino venga modificato. «Non possiamo avere un panino denominato ‘u ghiegghiu che si prefigge di rappresentare il patrimonio identitario e la presenza Arbëreshe in Calabria. È semplicemente offensivo». Molti fedeli sono già pronti ad aderire alla protesta.

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    Papas Pietro Lanza chiama i fedeli alla protesta contro il panino ‘U ghiegghiu

    Ma c’è anche qualcuno che, in controtendenza, invita il papàs a cogliere l’ironia di questa scelta. Qualcun altro, addirittura, la vede come un’occasione da sfruttare anche per una sana autocritica: «Magari di fronte a un bel panino può nascere una discussione proficua. Chiediamoci piuttosto cosa stiamo facendo noi arbëreshë per preservare e promuovere il nostro patrimonio».

  • Lombroso: il meridionalista che non t’aspetti

    Lombroso: il meridionalista che non t’aspetti

    È un pamphlet dal titolo secco ed evocativo, In Calabria, scritto da Cesare Lombroso nel 1897. Il libretto è stato riedito nel 2009 da Rubbettino e riproposto, in ristampa anastatica (cioè tal quale all’originale ottocentesco) da Local Genius alcuni mesi fa.
    Come mai ancora tanto interesse per uno studioso superato, che, al massimo, può sollevare qualche curiosità come pioniere della criminologia e poco nulla più?
    Soprattutto, come mai tanto interesse per Lombroso in Calabria e da parte di editori calabresi?

    Il precursore del meridionalismo

    La risposta è semplice ma non banale: In Calabria è l’edizione in libro del diario tenuto da Lombroso nel 1862, quando per alcuni mesi il papà dell’antropologia criminale visitò il Reggino.

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    Cesare Lombroso nel suo studio in una stampa d’epoca

    Il Lombroso dell’epoca è un medico di 28 anni specializzato in igiene e aggregato al Regio Esercito durante i primi anni di occupazione dell’ex Regno delle Due Sicilie. È inoltre un laico di orientamento socialista con una spiccata sensibilità sociale.
    Prima di arrivare in Calabria, il giovane studioso si era occupato dellapellagra, che tormentava i contadini del Nord. Anche da noi si sofferma tantissimo sulle condizioni della popolazione. Con un risultato: anticipa di almeno dieci anni la questione meridionale.

    Questione di date

    Un problema dei meridionali è non saper dare un nome ai propri guai.
    Infatti, l’espressione Questione Meridionale è stata coniata da Antonio Billia, giornalista e deputato lombardo, nel 1873.
    Invece, il rapporto con cui Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti inaugurano il filone classico del meridionalismo risale al 1876.
    Lombroso, che pubblica una prima versione dei suoi diari nel 1863 come reportage per Rivista Contemporanea, li precede di un bel po’: denuncia la pessima situazione degli strati bassi del Sud, l’abbandono dei territori e gli abusi delle classi dominanti.
    Niente più e niente meno di quel che avrebbe fatto Gaetano Salvemini più di cinquant’anni dopo.

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    Sidney Sonnino (a sinistra nella foto)

    L’indice puntato

    Il Lombroso del 1862 ancora non si occupa di criminali. Né coltiva pregiudizi contro i meridionali. Ma c’è da dire che neppure il Lombroso di dopo li avrebbe coltivati.
    Allora, di cosa parla il celebre scienziato veronese nel suo pamphlet?
    In pratica, denuncia l’arretratezza delle popolazioni, la forte disparità nella distribuzione delle ricchezze, la miseria e l’ignoranza diffusa. E dice e scrive tutto ciò che può scrivere un intellettuale progressista dell’epoca. Ma lo fa prima degli altri.
    Tuttavia, in Lombroso l’antropologo convive col medico. Perciò una buona fetta del suo diario è dedicata all’elogio della creatività dei calabresi e delle loro culture particolari, in particolare quella grecanica e quella albanese.

    Lombroso razzista?

    Pazienza se, qui e lì, ci scappa qualche espressione oggi politicamente scorretta (la vecchia contrapposizione, per capirci, tra “africani”, “ariani” e “semiti”): era la cultura dell’epoca, diffusa tra tutti gli antropologi.
    Ma una cosa è sicura: Lombroso (che tra l’altro era di origine ebrea) non è un razzista né, tantomeno, ha tentato di fornire basi scientifiche al pregiudizio antimeridionale.
    Questo esisteva già. E, per quel che riguarda il razzismo scientifico, bisogna cercare altrove.

    Ufficiali del Terzo Bersaglieri di stanza in Calabria nel 1

    L’equivoco

    Come ha chiarito l’antropologa Maria Teresa Milicia nel suo Lombroso e il brigante (Roma, Salerno 2014), il papà del razzismo antimeridionale con pretese scientifiche è il siciliano Alfredo Niceforo che, suggestionato dalla teoria lombrosiana, ne tenta una lettura in chiave “razziale”.
    Per Lombroso gli uomini possono essere delinquenti per nascita, a prescindere dall’etnia di appartenenza. Niceforo va oltre: secondo lui ci sono popoli geneticamente delinquenti: gli italiani del Sud e i sardi, per esempio.

    Un cranio made in Calabria per Lombroso

    È noto che Lombroso elaborò la propria teoria dopo aver esaminato il cranio di un pastore calabrese: Giuseppe Villella, morto di malattia nel carcere di Pavia, dov’era recluso in seguito a una denuncia per furto.
    Ma (e lo ha confermato anche un discendente di Villella), dalla calabresità di Villella non si può derivare in alcun modo l’equazione calabrese uguale ladro o assassino.
    Villella, in altre parole, poteva essere anche nordamericano, slavo o cinese: ciò che secondo Lombroso lo rendeva delinquente era una piccola malformazione cranica (la fossetta occipitale mediana), non la “razza”.

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    Il cranio di Giuseppe Villella

    La teoria di Lombroso e la Calabria

    L’uomo delinquente, uscito in più edizioni e ristampato nel 2013 da Bompiani, è l’opera più importante e più indigeribile di Lombroso: un mattone di 2.138 pagine, che diventano 4mila e rotte nell’edizione digitale. Il classico libro più citato che letto.
    Eppure, a scavarvi un po’ dentro, ci si accorge che la Calabria non è in cima alle preoccupazioni criminologiche dello scienziato.
    Al contrario: la parola Calabria appare solo 27 volte e mai per “inchiodare” il territorio a pregiudizi.

    Prostitute, assassini e promiscui

    Nelle pagine de L’uomo delinquente, c’è, ad esempio, la comparazione tra le caratteristiche anatomiche di una prostituta di Reggio Calabria con quelle di una collega di Milano (che risultano simili).
    Oppure si scopre che il numero di infanticidi commessi in Calabria è uguale a quello del Piemonte.
    Ancora: a proposito di omicidi, si scopre che i calabresi accoltellano di più e i piemontesi preferiscono l’avvelenamento. Poi c’è un dato curioso: Cosenza, secondo le ricerche di Lombroso, era in cima alla lista per i comportamenti illeciti a sfondo sessuale, inclusa la prostituzione.
    In tutto questo, il pregiudizio antimeridionale dov’è?

    Il Museo Lombroso di Torino

    Niceforo, un allievo imbarazzante

    Lombroso ripubblica nel 1897 il suo diario militare giovanile con l’aiuto di Giuseppe Pelaggi, un medico di Strongoli.
    Il perché di questa tardiva operazione editoriale è chiaro: Lombroso, preso di mira dai meridionalisti, deve un po’ sbarazzarsi dell’ingombrante paragone con Niceforo, che a fine Ottocento impazza col suo La delinquenza in Sardegna.
    Ed ecco che il professore di Torino riscopre il suo passato di meridionalista, tra l’altro mai rinnegato né sconfessato dalla sua produzione matura.

    Il pregiudizio antilombrosiano

    Semmai, il pregiudizio vero resta quello contro Lombroso, riesploso all’inizio del decennio scorso, in seguito all’apertura di un Museo a lui dedicato presso l’Università di Torino.
    Sull’argomento è tornato di recente Dino Messina. La firma storica del Corriere ripercorre, nel suo La storia cancellata degli italiani (Solferino, Milano 2012), la vicenda un po’ comica di alcuni gruppi di revisionisti “antirisorgimentali” che hanno tentato di far chiudere il Museo.
    Ma tant’è: ognuno ha la sua cancel culture. Chi ha subito il colonialismo prende di mira la cultura occidentale. Chi, invece, è stato vittima della propria arretratezza, parla a vanvera. A ciascuno il suo.

  • San Francesco di Paola e Colombo: un giallo dietro la conversione degli indios

    San Francesco di Paola e Colombo: un giallo dietro la conversione degli indios

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    Nella storia della scoperta dell’America di Cristoforo Colombo, la Chiesa ha sempre valorizzato l’opera di evangelizzazione dei missionari.
    Sacerdoti e religiosi di ogni rango sono consacrati nel racconto ufficiale ,inserito nella storia della nascita del Nuovo Mondo.
    Tra i personaggi più celebrati di questa schiera, c’è padre Bernard Boyl, dell’Ordine dei Minimi di San Francesco di Paola.

    Padre Boyl nel ricordo di Giovanni Paolo II

    Padre Boyl partecipò al secondo viaggio dell’ammiraglio, iniziato il 25 settembre del 1493, su comando dei reali di Spagna.
    Il 1979 in America Latina, il pontefice Giovanni Paolo II rese omaggio a questi “apostoli” nel suo sbarco «sulla rotta – come disse a Santo Domingo – dei primi evangelizzatori del nuovo continente, di quei religiosi che vennero ad annunziare Cristo Salvatore, a difendere la dignità degli indigeni, a proclamare i loro inviolabili diritti, a favorire la loro integrale promozione, ad insegnare la loro fratellanza come uomini e come figli del medesimo Signore e Padre, Dio».

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    Il ritratto di padre Bernard Boyl

    Il racconto di Rosselly de Lorgues

    Ma le cose forse non andarono proprio così. E tra l’esaltazione enfatica di queste “conquiste” e la storia riletta in un’ottica diametralmente opposta, ancora oggi le distanze rimangono incolmabili. Come se ci fossero due verità diverse.
    Una la racconta il conte francese Rosselly de Lorgues in un libro del 1856, Cristoforo Colombo-Storia della sua vita e dei suoi viaggi che poggia su «documenti autentici raccolti in Ispagna ed in Italia». L’autore tenta, come riporta la prefazione, «di adempiere ad un atto di giustizia riparatrice pubblicando la storia esatta di questo gran Servo di Dio».
    Questo libro sembra l’ennesimo “romanzo” di una vicenda fin troppo conosciuta e celebrata.

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    Il libro del conte francese

    Uno scambio di persona

    Ma così non è: de Lourges fu avallato da Papa Pio IX, il quale gli scrisse in una lettera del 1851, di apprezzare lo sforzo «di proteggere la gloria del primo cattolico che piantò la croce in quelle lontane spiagge, e divulgò il nome del Redentore».
    La versione del secondo viaggio di Colombo in America, fornita da de Lorgues sulla base di una documentazione corposa, ribalta del tutto la storiografia “ufficiale” sul ruolo determinante di padre Boyl nella conversione degli indios.
    Anche perché il Boyl di cui parla il conte, non era un seguace di San Francesco di Paola, bensì un benedettino suo omonimo. Questo Boyl aveva preso il posto dell’originale all’ultimo momento a causa di un fraintendimento sulle sue generalità sorto tra papa Alessandro VI e i sovrani di Spagna.
    Fu insomma uno scambio di persona.

    Un missionario in America Latina

    Padre Boyl secondo la Chiesa

    Questo mistero, mai indagato a fondo, emerge oggi dalla lettura di questo testo “occultato” e mai citato in nessuna bibliografia.
    Il libro di de Lorgues pone dubbi che solo una seria ricognizione potrà chiarire.
    Ma prima di esaminare le parti che riguardano l’identità di padre Boyl, è opportuno un accenno biografico su colui che per la Chiesa è il primo apostolo di Cristo in America. Le fonti che si riportano, molto simili tra loro, provengono da pubblicazioni religiose.
    Si sa che padre Bernard Boyl era di originetarraconense e venne scelto da Ferdinando d’Aragona ed Isabella di Castiglia, in occasione del secondo viaggio di Cristoforo Colombo per la evangelizzazione del nuovo mondo «sia per motivi di fede che per legare alla Spagna le future colonie».

    Il legame con San Francesco di Paola

    L’indicazione ricadde su di lui perché «era già consigliere e segretario del re di Spagna ed eremita dell’Ordine dei Minimi, nonché amico di infanzia del monarca».
    A lui fu affidato il compito di risolvere una controversia politica sorta con il Re di Francia, Carlo VIII. E proprio in questa occasione il religioso conobbe Francesco di Paola. «Colpito dalla santità e dall’austerità del santo eremita calabrese – proseguono le note – Bernard Boyl prese la decisione di entrare nell’Ordine dei Frati Minimi Eremiti. San Francesco ebbe modo di conoscerne e apprezzarne le qualità e lo nominò Vicario Generale per la Spagna inviandolo in quella terra per fondarvi dei conventi, nella seconda metà del 1492. Incaricato dallo stesso Papa Alessandro VI, che a sua volta era stato sollecitato dai reali di Spagna, Boyl partì per le nuove terre al seguito di Cristoforo Colombo».

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    San Francesco di Paola

    La lite con Colombo

    Da qui in avanti il rapporto con Colombo diventa un aperto conflitto «tra l’idea missionaria e civilizzatrice e gli interessi materiali che avevano stimolato l’espansione europea oltreoceano».
    I rapporti tra i due si logorarono al punto che Boyl lasciò la Missione nel 1494.
    Da Tours, su incarico di San Francesco, il religioso arrivò a Roma presso Alessandro VI per intercedere in favore dei Minimi. Per obbedienza al Re di Spagna accettò di succedere a Cesare Borgia nella carica di abate commendatario dell’Abbazia di San Michele di Cuxà, nel Rossiglione. E qui rimase fino al 1507, anno in cui cessava di vivere San Francesco di Paola.

    Padre Boyl secondo de Lorgues

    Fin qui, il racconto ufficiale della vita di padre Boyl secondo la Chiesa e l’Ordine dei Minimi. Questo racconto è però confutato dal conte de Lorgues.
    Questi svela nel suo libro che colui che era andato in America in realtà era «il padre Bernardo Boil, catalano monaco benedettino del Monserrato in gran credito alla corte pel suo sapere, Eletto dai Monarchi per quel Vicario Apostolico, egli aveva obbedito imbarcandosi, come sarebbe andato ad un negoziato diplomatico. Il padre Boil, superbo nel suffragio reale, stimando sé stesso, cominciò a provare una profonda antipatia per l’Ammiraglio, che pareva credere piuttosto ad un selvaggio che alla sua penetrazione d’uomo diplomatico».

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    Cristoforo Colombo

    Il frate e il capitano: complotto contro Colombo

    Boil si alleò al comandante Margarit, Costui, contravvenendo agli ordini, si era installato nei villaggi degli indios «in cerca di facili piaceri». E aveva commesso soprusi di ogni genere. Il frate e il marinaio ordirono una congiura.
    Insieme i due fecero ritorno in Spagna per ribaltare le accuse e mettere in cattiva luce Colombo presso i reali. «Margarit e Boil – sostiene De Lorgues – macchinarono di partire, si impadronirono di alcune navi ancorate nel porto, e fuggirono vilmente da veri disertori».

    Un religioso indegno

    Il giudizio del conte diventa ancora più sferzante nel raccontare il controverso personaggio di padre Boil. Questi, nella sua missione «non aveva provato che noia, aridità e disgusto delle sue funzioni, e, senza fare alcun bene aveva cooperato a troppi mali». «Diremo di più – prosegue lo scrittore – la grazia evangelica non era stata concessa da Dio al padre Boil. Lo spirito di forza e di verità, che consacra l’apostolato non poteva discendere su quello statista catalano, perché in realtà il Capo della Chiesa non aveva eletto lui a proprio Vicario Apostolico».

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    Papa Alessandro VI

    Boyl vs Boil

    E qui viene fuori la versione inedita sulla vera identità del frate sbarcato in America. «L’ardimento di questa affermazione potrà sorprendere e parer temeraria – continua De Lorgues – ma noi andiam debitori alla verità, alla dignità della Chiesa, e alla giustizia della storia, di chiarire finalmente questo fatto singolare, tenuto sinora al buio anche per gli Spagnuoli. L’onore della nomina era stato riservato all’umiltà di un discepolo di san Francesco, il frate Bernard Boyl».
    Dunque: il prescelto non era un minimo, ma un benedettino, contrariamente a quanto aveva caldeggiato il re presso il pontefice. «Quando giunse in Castiglia l’ampliazione della Bolla – sostiene il conte – il Re pensò che si fossero ingannati a Roma nel dinotare la persona a motivo della somiglianza del nome; che cioè, il Papa avesse designato il frate Boyl volendo nominare il padre Boil».

    Chi è il vero Boyl?

    Resosi conto dell’“errore”, il re però non volle ritardare la partenza delle navi. Perciò non informò il francescano: «Il padre Bernardo Boil, scelto dal Re, fu mandato in cambio di Fra’ Bernardo Boyl, eletto dal Santo Padre. Agli occhi di Ferdinando, non v’era nella sostituzione che ardiva permettersi altro che una rettificazione d’indirizzo: non vedeva in ciò di mutato che una lettera del nome: Boil invece di Boyl, un Benedettino invece di un Francescano».
    Qual è la verità? Quella raccontata fino ad oggi dalla Chiesa, oppure quella del De Lorgues, che comunque aveva preannunciato le sue rivelazioni al pontefice Pio IX?

    Un conquistador in azione

    Conversioni coatte

    Una cosa è certa, a qualunque Ordine monastico appartenesse il missionario, è documentato che il suo comportamento, non fu irreprensibile.
    Anzi, non solo egli calunniò Colombo, ma fu complice della “conversione” forzata degli indios, attuata, più che con la parola di Dio, con la violenza.

    La testimonianza di Canale

    A dimostrazione di questo comportamento valga ancora una ulteriore testimonianza. È quella contenuta nel libro del 1863 Vita e viaggi di Cristoforo Colombo di Michel Giuseppe Canale.
    «Deliberato e posto in pronto il viaggio – scrive l’autore – si volle che missionari religiosi accompagnassero il Colombo, e recassero colà il benefizio del Vangelo, convertendo a questo i naturali; diversi frati si scelsero quindi sotto la direzione di padre Boyl monaco catalano, vicario apostolico; sventuratamente costoro nonché portare buon frutto in quelle vergini terre, vi sparsero la zizzania delle loro male opere, e il padre Boyl specialmente fu principale autore dei disordini che vi accaddero e delle molte sventure che afflissero l’animo di Colombo».

    Alessandro Pagliaro

  • Caramelle calabresi nella calza della Befana

    Caramelle calabresi nella calza della Befana

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    Considerando che la Befana preferisce il chilometro zero, stanotte avrà fatto rifornimento in Calabria. Calze gonfie come palloncini, giocattoli, monetine di cioccolata, carbone di zucchero, ma soprattutto caramelle e gelatine. E non parliamo dei soliti marchi, quelli super pubblicizzati e famosi in tutto il mondo. Oggi la Calabria può offrire una gamma di golosità, con prodotti dop e ingredienti genuini, che ha pochi avversari in Italia: Silagum. Il nome ha certamente meno appeal rispetto alla celebre griffe degli iconici orsetti gommosi, ma è un’azienda che produce 2.500 tonnellate di caramelle l’anno e da trent’anni è una realtà economica della zona industriale lametina, la cosiddetta ex Sir, a lungo un deserto buio di capannoni vuoti.

    https://icalabresi.it/fatti/calabria-grand-tour-cemento-lamezia-vibo-soverato/
    Lo stand milanese di Silagum a Tuttofood 2021

    Silagum, le caramelle vendute in Russia e Stati Uniti

    Trenta operai, quasi tutti del lametino, e tre turni di lavoro spalmati su ventiquattro ore, perché l’impianto di estrusione, made in Francia, che fornisce le rotelle di liquirizia, lavora giorno e notte. Cinque milioni di euro di fatturato e un grosso investimento per eliminare la plastica dagli incarti. Le caramelle calabresi sono vendute in Francia, Inghilterra, Finlandia, Russia, Stati Uniti. Sono apprezzatissime in Canada ed esportate finanche in Sud Africa e Giappone.

    Primo e secondo tempo

    C’è un primo e un secondo tempo nella cronistoria della Silagum. Nata a fine anni Ottanta per iniziativa della Compagnia delle opere, l’associazione imprenditoriale legata al movimento Comunione e liberazione, grazie ai generosi fondi della De Vico (la legge 44), ha rappresentato un esperimento pilota calabrese dell’imprenditoria giovanile.
    Resta una delle poche superstiti di quell’ondata a distanza di trent’anni. Il tutor è stato il patron del cioccolato Agostoni (prodotto dalla fabbrica lombarda Icam), che è ancora tra i cinque soci. Nel 2005 scoppiava il caso Why Not su intrecci tra potere, fondi pubblici, istituzioni e presunte logge massoniche. L’inchiesta di De Magistris coinvolgeva protagonisti della politica italiana e anche la Compagnia delle opere. Anni di processi e clamori e un finale di assoluzioni.

    Il secondo tempo della fabbrica di caramelle inizia proprio nel 2005, quando entra in azienda Claudio Aquino come direttore commerciale. «Ci sono vari step – spiega – per portare un’azienda al successo. Il primo passo è fare un buon prodotto, poi devi metterlo sul mercato, devi saperlo presentare, dargli un vestito giusto». Aquino, oggi alla guida del marketing ma anche amministratore delegato, sulla vicenda Why Not e fondi pubblici taglia corto. Parla la realtà attuale.

    Nessun sostegno pubblico

    «La Compagnia delle opere ha
 promosso Silagum all’origine, l’ha favorita creando l’incontro tra i soci calabresi e il nostro socio di Lecco Antonio Agostoni, che resta un sostenitore e
 un punto di riferimento. Silagum è un’azienda che cammina con le proprie
 gambe, è una società a capitale privato, che non gode di sostegni pubblici».
 La fabbrica è ancora lì, nella ex Sir, dove qualche capannone si è animato nell’ultimo
decennio. Il trasporto è soprattutto su gomma ma per le destinazioni oltreoceano ed orientali, le caramelle calabresi viaggiano su container, partono da Napoli e non da Gioia Tauro «per scelte logistiche dei nostri clienti» precisa Aquino.

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    Operai della Silagum nello stabilimento di Lamezia Terme

    Silagum: gli inizi con le caramelle al luna park

    «Gli inizi – dice Aquino – sono stati tutti in salita, l’azienda produceva per conto terzi, senza marchio. Si faceva fatica – racconta – ad avere un prodotto di qualità perché mancavano know how e personale specializzato. Le caramelle venivano vendute sfuse nei mercati, nei luna park, nelle fiere. Con caparbietà non ci siamo arresi e abbiamo portato avanti il nostro progetto e abbiamo cominciato ad avere un’identità e importanti riconoscimenti». Oggi il marchio Silagum viene esportato in molti Stati, circa il 30% della produzione è destinato ai mercati esteri.

    La Calabria dentro

    «Abbiamo puntato – commenta Aquino – a farci riconoscere sugli scaffali, prima avevamo un intermediario che rivendeva a marchio suo e non c’era legame con il consumatore. Oggi chi sceglie Silagum sceglie un prodotto di qualità, è questa la nostra forza e il nostro orgoglio». Caramelle profumate e coloratissime, con la Calabria dentro: bergamotti, limoni e arance che provengono da Gioia Tauro e Reggio e poi la liquirizia dop di Naturmed. Siamo molto attenti alle materie prime – precisa Aquino – le gelatine contengono il 20 per cento di succo di frutta e siamo gli unici produttori di rotelle di liquirizia bio».

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    Caramelle al limone prodotte dalla Silagum

    La causa ambientalista

    Il futuro? Roseo, quasi come una gelée alla fragola. «Il post pandemia è stato naturalmente difficile – ammette Aquino – siamo una piccola realtà e abbiamo subìto gli aumenti dei costi delle materie prime. Non possediamo la forza delle multinazionali, ma cerchiamo di innovarci. Da poco è stato fatto un grosso investimento per avere confezioni in carta eliminando la plastica. Siamo molto orgogliosi di dare il nostro contributo alla causa ambientalista».

    Sulle difficoltà e le lamentele di una Calabria arretrata nella produzione e nei trasporti, il presidente del cda della Silagum non segue la consueta linea di molti colleghi imprenditori: «Se hai in testa una cosa e sai che può funzionare, la fai, anche se sei in Calabria. Al centro dell’attenzione non devono esserci le difficoltà, ma bisogna mettere in risalto le caratteristiche positive e le peculiarità. Anche Sperlari, che è di Cremona, ha le sue difficoltà. Diverse dalle nostre, ma le ha. Le caramelle Silagum sono tra le più buone in commercio ed è su questo che dobbiamo puntare».

  • Duonnu Pantu e il monsignore: l’irriverente blasfemia di un prete pornografo

    Duonnu Pantu e il monsignore: l’irriverente blasfemia di un prete pornografo

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    In questa storia sono certi due elementi: lo scenario e uno dei due protagonisti.
    Il primo è la Cosenza della seconda metà del ’600. Cioè il capoluogo di una provincia importante del vicereame di Napoli.
    Cosenza non è ricca, ma è una meta ambita dei nobili smaniosi di far carriera, che l’hanno trasformata in un loro quartiere-dormitorio. Soprattutto, ha un filo diretto con Napoli e Madrid, perché è città demaniale. Cioè è protetta dalla corona e non è sotto il dominio del solito principe o duca.

    Il secondo elemento certo è Gennaro Sanfelice, che diventa arcivescovo di Cosenza nel 1661.
    Il terzo elemento è incerto, perché avvolto tuttora in un mito popolare in cui realtà e immaginazione si intrecciano fino a diventare indistinguibili: è Duonnu Pantu, l’altro protagonista.

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    Il palazzo Sanfelice (Napoli)

    Sanfelice, un nobile in carriera

    Gennaro Sanfelice è un nobile napoletano di grande blasone. È il fratello minore di Giovanni Francesco, duca di Lauriano.
    Ma, soprattutto, è il cugino di Giuseppe Sanfelice, che fa una gran carriera nella Chiesa dell’epoca.
    Gennaro, forte di una preziosissima laurea in “Utroque” (Giurisprudenza, che allora era il passepartout per il potere e quasi un obbligo per gli aristocratici), arriva a Cosenza nel 1650, come vicario del potente cugino, nominato arcivescovo da papa Alessandro VII.
    Poi Giuseppe diventa nunzio apostolico in Germania e Gennaro regge l’arcidiocesi fino al 1661, quando il cugino muore.
    A questo punto, il papa formalizza l’attività di Gennaro e lo fa restare a Cosenza come arcivescovo.

    Un vescovo progressista

    Giuseppe Sanfelice arcivescovo di Cosenza

    Non c’è troppo da scandalizzarsi per tanto nepotismo, che allora era una prassi socialmente accettata.
    Anzi, il nepotismo dell’epoca, esplicito e sfacciato, dà i punti a quello attuale, giustificato con le formule più ipocrite.
    Tuttavia, l’arcivescovo Gennaro non è solo un figlio di papà. È un uomo di carattere, che dimostra di essere tagliato per il ruolo a cui l’hanno destinato gli studi e il blasone.
    Appena ha le mani libere, Sanfelice mette ordine nella diocesi. Soprattutto, difende le prerogative del vescovo (cioè le sue) e mette un freno alle ingerenze della Santa Inquisizione.
    Il suo merito più grande è lo stop alle persecuzioni dei valdesi, che dopo il pogrom di Guardia Piemontese erano proseguite per circa un secolo a San Sisto e a Vaccarizzo.
    Come mai uno così tosto diventa una macchietta? Chiediamolo a Duonnu Pantu.

    Il prete pornografo

    Di Donnu Pantu sono certe due cose: i versi pornografici in vernacolo e la sua zona d’origine, Aprigliano, un paese tra Cosenza e la Sila.
    Sulla sua identità storica restano parecchi dubbi, alimentati dalle solite contese tra studiosi, a partire da Lugi Gallucci (il primo interprete che nel 1833 ha messo ordine nella produzione pantiana) per finire con Oscar Lucente, raffinatissimo intellettuale e storico dirigente del Msi, entrambi di Aprigliano.
    Per convenzione, Duonnu Pantu è il nome d’arte di Domenico Piro, sacerdote apriglianese morto poco più che trentenne a fine ’600.

    Antica veduta di Aprigliano

    Un trio di preti

    A riprova che il nepotismo è un doc dell’Italia di allora, anche don Domenico appartiene a una famiglia di sacerdoti: nel suo caso gli zii materni Giuseppe e Ignazio Donato.
    I tre, oltre che somministrare sacramenti, sono specializzati in pasquinate. Infatti, sono conosciuti con un nomignolo: gapulieri, ossia criticoni.
    Piro, a differenza degli zii, si specializza nella pornografia, che racconta in alcuni poemi (la Cazzeide e la Cunneide) pieni di riferimenti colti e volgarità estreme e caratterizzati da un uso virtuosistico dei versi in dialetto.
    Ma c’è di più: Piro è un gaudente e un goliarda a tutta forza, come prova la sua polemica con l’arcivescovo.

    Contestatore avant la lettre

    Alla base del dissidio tra Piro e Sanfelice – che, da buon napoletano, è piuttosto tollerante – ci sarebbe stato un piccolo tumulto nel collegio del Seminario di Cosenza, raccontato tra l’altro nel poemetto La briga de li studienti.
    In pratica, alcuni studenti poveri, costretti ad accontentarsi della mensa, rubano le vettovaglie ai ricchi. Un “esproprio proletario” in piena regola.
    Piro resta coinvolto nella bagarre e finisce in cella di rigore proprio per ordine dell’arcivescovo.

    La poesia: un’arma per la libertà

    La poesia è un’arma potente, sia quando commuove sia quando ridicolizza.
    Duonnu Pantu, dopo alcuni giorni di gattabuia, indirizza una supplica (Lu mumuriale) a Sanfelice. L’arcivescovo convoca il giovane prelato e gli annuncia l’imminente liberazione.
    Ma la tentazione di fare un’ennesima burla è forte. E Piro non è tipo che sa resistere: infatti, mette sulla porta della cella un cartello con la dicitura “si loca”, cioè affittasi.
    Sanfelice non si fa volare la mosca al naso, riconvoca Piro e gli chiede il perché della scritta. «Monsignore, visto che me ne vado, resta vuota, quindi si loca», è la risposta beffarda.
    «Bene», replica l’arcivescovo, «ci resterete voi finché non arriverà il nuovo inquilino».

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    Versi sparsi di Duonnu Pantu

    La sfida: prete trasgressivo vs arcivescovo

    A questo punto, la sfida entra nel vivo e Pantu gioca un’altra carta. Il prigioniero si è accorto che nel cortile davanti alla cella si radunano tutti i giorni dei ragazzini.
    Li chiama, gli insegna dei versi e gli affida un compito: recitarli ogni sera sotto casa dell’arcivescovo.
    Eccoli: «Bonsegnù, Bonsegnù, fùttete l’ossa/ lu vicariu allu culu e tu alla fissa/ vi ca si nun me cacci de sta fossa/ iu dicu c’hai prenatu la patissa» (Monsignore, monsignore… se non mi tiri fuori dico che hai ingravidato la badessa).
    Dopo alcuni giorni di questo battage, l’arcivescovo cede. Ma non vuole capitolare. E fa una proposta a Duonnu Pantu.

    La tentazione più forte

    La libertà in cambio di una poesia dedicata alla Madonna. Ma, per cortesia, niente volgarità.
    La leggenda narra che Pantu abbia eseguito il compito più o meno alla lettera. Ma di questa poesia resta solo un verso, in cui il Nostro racconta a modo suo la verginità della Madonna: «E nzinca chi campau la mamma bella/ de cazzu nun pruvau na tanticchiella» (ossia: «Finché campò la mamma bella…»). Già: alle tentazioni Pantu non sa resistere.
    Ma c’è da dire che l’arcivescovo mantiene comunque la promessa. Ciò fa pensare che, sotto sotto, anche lui sia stato al gioco.

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    La targa commemorativa sulla casa di don Domenico Piro

    L’ultima tentazione di Pantu

    La leggenda attribuisce a Pantu una morte degna della sua vita. O, almeno della sua poesia.
    Malato di tisi e agonizzante, il giovane sacerdote sente gli amici e i parenti bisbigliare in attesa del suo trapasso.
    Piro si risveglia di botto e chiede beffardo: «Si parrati ’i cunnu miscatiminnici puru a mia» (cioè: se parlate di… fatemi partecipare),
    Poi chiude gli occhi e raggiunge Sanfelice, morto due anni prima.

  • Paolo Orlando, il reggino che sceglie i film che vedrai al cinema

    Paolo Orlando, il reggino che sceglie i film che vedrai al cinema

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    Il fiuto per i film su cui puntare si è sviluppato in anni di lavoro sul campo, ma è nato probabilmente sulle colline di Arcavacata. Era nella prima generazione di studenti del progetto pilota di un Dams a Sud, tra i cubi dell’Università della Calabria, dove si è laureato con una tesi su Stanley Kubrick.
    Paolo Orlando oggi è il direttore della distribuzione di Medusa film e in questa fine anno ha buoni motivi per gioire. Guarda i successi in sala, è continuamente collegato con i report di Cinetel.

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    Paolo Orlando

    È un “grande giorno” per il cinema italiano. Il film con Aldo, Giovanni e Giacomo, diretto da Massimo Venier, ha festeggiato un magnifico Natale, con un incasso di oltre un milione e 100mila euro nel giorno di Santo Stefano. A firmare la colonna sonora della commedia ambientata sul lago di Como, è il cantautore calabrese Dario Brunori, che già aveva collaborato con il trio in Odio l’estate.
    Il box office è da record. Se la partenza è questa, si spera anche in un grande anno del ritorno del pubblico in sala nella post pandemia. Il terreno è già tastato da diversi titoli di questa fine 2022. L’omaggio al teatro di Roberto Andò con il suo La stranezza, la commedia piccante Vicini di casa, il family Il ragazzo e la tigre.

    Da Reggio al grande schermo

    Paolo Orlando, 52 anni, reggino, nella grande fabbrica italiana del cinema, che ha il suo quartier generale a Roma, lavora dal 2001. Oggi fa parte della rosa ristretta dei manager. Dal 2019 insieme con il vice-presidente e amministratore delegato Giampaolo Letta, condivide scelte e strategie. Visiona quintali di pellicole ed è presente a tanti festival, da quelli più importanti ai cosiddetti minori, le vetrine del cinema che verrà. Da Cannes, Venezia e Berlino a Giffoni e Saturnia.

    Anche all’invito del Reggio Calabria film festival ha risposto volentieri. Un buon motivo per tornare a respirare l’aria del mare dello Stretto e per fare visita ai suoi genitori.
    Nella città brutia è stato nel febbraio scorso, in occasione dell’anteprima nazionale di un film a lui caro, “Una femmina” del regista cosentino Francesco Costabile, la storia di Rosa la ribelle, l’attrice cariatese Lina Siciliano, che non accetta il clima e la brutalità mafiosa in cui è costretta a crescere.
    Ciò che colpisce dei titoli Medusa è la perfetta osmosi tra il cinema più impegnato e i prodotti che possono piacere a un grande pubblico.

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    Lina Siciliano sul set di “Una femmina” (foto Francesco Spingola)

    Come si sceglie un film?

    «Le scelte nascono da un’idea condivisa, a partire dall’amministratore delegato, fino a coinvolgere tutte le varie funzioni aziendali. Medusa ha sempre avuto la costante coesistenza di titoli dall’alto potenziale commerciale, quindi trasversalmente nazionalpopolari, e di tutto ciò che aveva a che fare con un mondo più art house che passava sia per gli esordi del cinema italiano, sia per il consolidamento di grandi autori. Le congiunture degli ultimi dieci anni hanno modificato l’approccio, anche perché il pubblico ha manifestato un’attenzione particolare al prodotto di qualità».

    Cosa è cambiato? E come si sceglie un listino Medusa?

    «Abbiamo provato a far coesistere quello che più naturalmente ci viene bene, cioè la commedia popolare, con un cinema più ricercato, più impegnato. L’esigenza è, quindi, quella di comporre un listino che sia il più eterogeneo possibile e che vada a intercettare al meglio le tipologie di pubblico È in quest’ottica che nascono film come Perfetti sconosciuti, 2016, oppure film family, un sottogenere della commedia che il cinema italiano non frequentava e che è stato rianimato con Dieci giorni senza mamma (di Alessandro Genovesi, con Fabio De Luigi e Valentina Lodovini, ndr).
    Gli esempi più recenti sono la distribuzione di Un altro giro diretto da Thomas Vinterber, Oscar come miglior film straniero, e Nostalgia di Mario Martone con Pierfrancesco Favino, Tommaso Ragno e un bravissimo Francesco Di Leva».

    Un decennio di risultati, insomma, prima che il covid fermasse tanti progetti. Un esempio per tutti: La grande bellezza e l’Oscar per il miglior film straniero riconquistato dal cinema italiano.

    «Sì, tutta la produzione di Sorrentino fino a Youth è passata da noi. Ma penso anche a Tornatore, a Virzì, a Pupi Avati e ad altri nomi illustri del cinema italiano».

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    Paolo Sorrentino con l’Oscar vinto con il suo La grande bellezza

    Il tuo primo incontro con il cinema è stato in Calabria. Sei stato allievo di Marcello Walter Bruno, semiologo e critico di “Segno cinema”, uno che con i suoi studenti amava discutere di tutte le forme d’arte. È scomparso lo scorso luglio, ed è stato un dolore per chiunque l’abbia conosciuto, ascoltato, letto. È inevitabile chiederti se il tuo intuito abbia a che fare con questo background.

    «L’intuito o sensibilità, io preferisco questa definizione, sicuramente trae le sue origini dal mio percorso di studi ad Arcavacata.
    Con Marcello Walter Bruno fu un incontro folgorante. Lui e un altro docente in particolare, Roberto De Gaetano, sono stati gli attizzatori di questa fiamma. Marcello ha avuto il grande merito di proporre un metodo che utilizzo tuttora: il modo che io ho per approcciare un progetto, a partire dalla sua sceneggiatura, è quello di scomporlo. Ed esattamente era questa la maniera di procedere nello studio dei grandi autori italiani come Visconti o del cinema americano, da Coppola fino ad arrivare a Kubrick. Quando l’ho scelto come relatore, lui stava lavorando proprio al suo libro sul regista (un volume cult uscito qualche mese dopo la morte di Kubrick, per la Gremese n.d.r.).

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    Warren Clarke, Adrienne Corri, Malcolm McDowell e Stanley Kubrick durante le riprese di Arancia meccanica, 1971

    Io ero affascinato dal rapporto di Kubrick con Max Ophüls, il meno conosciuto di tutti i registi teutonici che tra gli anni ’40 e ’50 emigrarono nel cinema americano. Marcello mi aveva suggerito un approfondimento stilistico, ma io sono andato oltre e ho portato avanti una mia tesi, secondo la quale le influenze ophulsiane non riguardavano soltanto la tecnica ma arrivavano alle tematiche. Quindi il mio lavoro aveva questo piano suicida, perché toccare un mostro sacro è da suicida, di dimostrare che Kubrick aveva pescato a piene mani nel cinema del regista tedesco. Ho lavorato per sei mesi notte e giorno ed ero pronto a laurearmi, quando Marcello mi chiese altri tre mesi di approfondimento. Io ero completamente sfinito e non accettai».

    Come andò a finire?

    «Non bene. In sede di commissione di laurea bocciò la proposta del presidente del Dams di conferirmi la lode. Lui che era il mio relatore. Ecco Marcello era preciso, netto, era trasparente. E anche queste sue qualità sono state un lascito, oltre al metodo di lavoro, a cui cerco di ispirarmi».

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    Marcello Walter Bruno

    Qual è oggi la tua visione della Calabria? Pensi anche tu che potrebbe essere un set naturale, a cielo aperto?

    «Sono nato a Reggio Calabria ma all’età di sette anni sono andato a vivere a Roma, per poi trasferirmi a Cosenza negli ultimi anni di scuola. La mia è sicuramente una visione poco campanilista che non mi impedisce di vedere le grandi potenzialità e insieme i grandissimi sprechi e anche gli scempi che vengono fatti da tutti i punti di vista. È sicuramente vero che negli ultimi tempi si è mosso qualcosa. Con la Calabria film commission sono nati progetti che hanno prodotto risultati importanti. C’è stata tutta una serie di film girati nella regione che hanno guadagnato il panorama nazionale e internazionale, partecipando a festival, riscuotendo premi, ottenendo attenzioni da parte della critica.

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    Gianni Amelio al Festival di Venezia

    Penso ad Anime nere di Francesco Munzi, tratto dal romanzo di Gioacchino Criaco e al “mio” Una femmina del regista Francesco Costabile. C’è un nuovo rigurgito di nuovi autori che hanno trovato origine in produzioni locali e, inoltre, non dimentichiamo che uno dei più grandi autori italiani viventi, parlo di Gianni Amelio, è calabrese. Ecco, mi sembra che ci sia più di un elemento per essere fieri. Se poi è un set a cielo aperto bisognerà vedere. La cosa più importante è non disperdere ciò che sinora è stato fatto».

    Anche sotto l’ombrellone, quando arrivi in Calabria per trascorrere qualche giorno di vacanza, guardi immagini e sceneggiature. È vero che spesso coinvolgi i tuoi familiari e i tuoi amici nella visione di un trailer, di un cortometraggio divertente, della bozza di un manifesto?

    «Sì, spesso, coinvolgo persone a me vicine, ascolto i pareri di amici, familiari e anche di figure target. Per esempio, se deve uscire un film per famiglie, mi capita di mostrare il trailer a un bambino e di chiedergli cosa ne pensa».

    Un’attrice, un volto nuovo femminile del cinema, sulla quale punteresti molto?

    «Mi fa molto piacere parlare di un’attrice che secondo me ha un potenziale che adesso sta venendo fuori, anche se già da qualche anno era evidente, e che, non vorrei essere blasfemo, ma potrebbe essere una nuova Monica Vitti. È Pilar Fogliati (vista in Forever Young, in Corro da te e nella serie Netflix Odio il Natale, ndr).
    È molto giovane ed ha tantissime caratteristiche, riesce ad essere fragile, divertente, quindi comica, ma anche intensa e drammatica. È per queste sue doti che ricorda lo stile Vitti».

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    Pilar Fogliati

    Quale sarà il film italiano del nuovo anno, il film che lascerà qualcosa di importante nel pubblico, il più amato, il più visto?

    «A saperlo! Magari! Posso anticipare alcuni film su cui riponiamo speranze. Uno di questi è Il primo giorno della mia vita di Paolo Genovese tratto dal suo romanzo, un film con un supercast, sulla ricerca della felicità, del motivo per essere felici e che uscirà a fine gennaio. È la storia di una sorta di gestore di anime, Toni Servillo, che offre sette giorni per far ritrovare la forza di vivere a persone che stanno per suicidarsi. È una storia intrigante e interessante. Subito dopo, a febbraio, usciremo con Laggiù qualcuno mi ama, il docufilm di Mario Martone su Massimo Troisi, che proprio nel 2023 avrebbe compiuto settanta anni. È stato realizzato con documenti inediti e testimonianze di colleghi e amici e che tra l’altro vedrò per intero proprio stasera, quando finiremo questa intervista, perché sinora ho visto dei pezzi. Stasera vedrò il film finito».

    Cosa ti manca di Reggio Calabria?

    «Ciò che mi manca di più in assoluto sono i miei genitori, poi ci sono anche altri affetti, amici, che rivedo sempre volentieri. Una cosa che mi lega moltissimo a Reggio è il mare, perché è qualcosa di ancestrale, che va oltre qualunque deturpamento della realtà. Sì, è anche il mare a mancarmi molto».

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    L’Arena dello Stretto a Reggio Calabria

    Il mare della Fata Morgana che avvicina le sponde e incanta, culla di reperti riemersi, il mare archeologico che fa venire in mente proprio la testa di Medusa, quella cara a Versace, che inchioda la sguardo, come fa un bel film con il suo pubblico.

     

     

  • BIOGRAFIE |  Il prof Francesco Coppola, padre della pedagogia calabrese

    BIOGRAFIE | Il prof Francesco Coppola, padre della pedagogia calabrese

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    Persino gli addetti al settore (sedicenti e non) hanno dimenticato questa figura preminente nel panorama pedagogico del Mezzogiorno. Francesco Coppola – anzi, per l’esattezza Francesco di Paola Vincenzo Coppola – nacque ad Altomonte il 6 giugno del 1858 da Vincenzo Gerardo e Maria Carmela Riccio, in una nobile casata di antiche radici napoletane, sulla quale tantissimo scrisse qualche decennio fa Franz von Lobstein nel suo Settecento calabrese.

    Una famiglia di nobili e tre mogli

    Se i suoi avi furono subfeudatari di Altomonte e agenti del Principe di Bisignano, in tempi più recenti i cugini in primo grado di suo padre erano stati i parlamentari Ferdinando Balsàno (1836-1869, arciprete, deputato nella IX legislatura del Regno) e l’ancor più noto Giacomo Coppola (1797-1872, senatore dal 1863, Ministro delle finanze durante il Governo Garibaldi). Tra i fratelli del suo bisnonno Luzio Coppola, spiccavano infine Reginaldo (1730-1810), vescovo di San Marco Argentano nel 1797, il domenicano Giacomo, l’abate Luigi, Silvio (sindaco d’Altomonte) e quella Isabella che, sposando Domenico Andreassi di Montegiordano, diventerà capostipite degli omonimi nobili amendolaresi e perciò anche degli ultimi Mazzario di Roseto Capo Spulico.

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    Altomonte, palazzo Coppola: casa natale del pedagogo.

    Fatta questa premessa familiare, va pur detto che tuttavia proprio il milieu nobiliare dovette star stretto al Coppola. Il quale, in rotta con i suoi, scappò da Altomonte e abbandonò presto la famiglia d’origine sposandosi, la prima di tre volte, a diciotto anni (in data 30 settembre 1881) con la giovanissima lungrese Lucrezia D’Aquila, che morirà al terzo parto, appena sette anni dopo. Dopo la prematura scomparsa di quest’ultima, Coppola convolerà a seconde nozze il 15 agosto 1884 con Mariangela Italia Irene Diodati. Nuovamente vedovo, sposerà infine, il 21 novembre 1908, Ortensia Fera.

    Francesco Coppola, una vita per l’insegnamento

    Il professore dedicò l’intera sua esistenza all’insegnamento e, più in generale, all’istituto della Scuola, inteso come la più alta e nobile delle missioni civili. Benemerito primo direttore didattico delle scuole di Spezzano Albanese, educò – dapprima nella sua residenza di Palazzo Scorza, a Spezzano Albanese, nella piazza oggi intitolata a Giacomo Matteotti – generazioni di allievi, dalle elementari alle superiori e provvide pure con solerzia alla refezione scolastica del Ricreatorio per i figli dei richiamati in guerra.

    Un commosso e nostalgico ritratto della personalità e delle abitudini quotidiane del “Professore” per antonomasia, fu dato alle stampe nel 1982 da Arcangelo Barbati, nel suo Immagini del passato. A Spezzano Albanese dal 1912 al 1923, di cui una copia mi fu donata una quindicina d’anni fa dal nobile cavaliere Giuseppe Alfredo Coppola, suo nipote.

    Le opere di Francesco Coppola

    Medaglia d’Oro al Merito Civile, conferita il 30 maggio 1912 dal Ministero della Pubblica istruzione per i suoi alti meriti educativi e di direzione nel campo della Scuola, Coppola fu peraltro scrittore elegante, linguista, critico e studioso non comune di problemi pedagogici. Pubblicò infatti diversi saggi di pedagogia, tra cui è doveroso citare almeno La morale dei fanciulli. Trattatello di doveri e diritti per le scuole elementari (Castrovillari, 1887), dedicato al suo Maestro (il celebre filosofo Andrea Angiulli, educatore insigne e di spiccato animo anticlericale, a sua volta allievo di Bertrando Spaventa nonché affiliato alla loggia Fede Italica, all’Oriente di Napoli) ed espressamente ricalcato sugli Elements d’education civique et morale di Gabriel Compayré (Paris, 1881); e un saggio su Rousseau: Giangiacomo Rousseau. La sua vita, i suoi tempi e la sua fede pedagogica (Castrovillari, 1887), opera che anticipa, pioneristica, tutta una successiva e fortunata letteratura sul medesimo tema.

    Ancora, tra le altre sue opere, tutte oggi piuttosto introvabili persino sul mercato antiquario e nelle biblioteche conservative, vanno menzionate Racconti e biografie di uomini illustri, per servire di storia patria nelle scuole elementari (Milano, 1887), Brevi racconti di storia patria sui fatti principali dell’unificazione d’Italia, per la terza classe elementare (Milano, 1889), Primizie storiche tratte dalla storia ebraica, greca e romana, per la seconda classe elementare Inferiore (Milano, 1889), Storia nazionale da Carlo 8° ad Umberto 1° (Milano, 1894), Storia Nazionale dalla fondazione di Roma alla scoperta dell’America per la Quarta classe elementare (Milano-Roma, 1894), Storia d’Italia dal 1848 al 1870 per la terza classe elementare (Milano-Roma, 1895), Racconti e biografie di storia patria, ad uso della Quarta classe elementare (Milano, 1897).

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    Colophon della Morale dei fanciulli. Trattatello di doveri e diritti per le scuole elementari (1887), opera d’esordio di Francesco Coppola

    Un massone con una missione

    Di tempra laica (era affiliato alla loggia massonica Agostino Casini, all’Oriente di Spezzano Albanese, all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia), considerava la Scuola «l’unica, vera, grande missionaria per la redenzione delle classi umili nell’inquieta ed incerta società» italiana dei suoi tempi.

    Lasciò almeno undici figli, tra cui è opportuno segnalare almeno i due di primo letto, Gustavo Luigi Ugo e Alfredo Gerardo: il primo, istitutore nel 1905, affiliato dal 27 maggio del 1912 ad una loggia cosentina del Grande Oriente d’Italia, sottotenente di Fanteria nel 1917, fu poi segretario presso il Liceo Classico di Cosenza nel 1919 e infine segretario presso il Ministero della Pubblica Istruzione e, fino al 1931, presso quello delle Finanze in Roma, laddove – già vedovo della nobile cosentina Regina Monaco – scomparve prematuramente nella sua abitazione di Monteverde; il secondo, già prigioniero in Austria e primo segretario comunale di Spezzano Albanese, venne assassinato da sconosciuti.

    Spezzano Albanese, palazzo Scorza, al cui primo piano visse e morì Francesco Coppola.
    Spezzano Albanese, palazzo Scorza, al cui primo piano visse e morì Francesco Coppola.

    A lui e a suo padre è intitolata una via di Spezzano Albanese: il bastone dal pomo d’argento accompagnò il Professore fino alla sua ultima puntuale passeggiata pomeridiana. Francesco Coppola muore a Spezzano Albanese il 7 maggio 1926 e riposa nella cappella di famiglia, presso il cimitero locale.

  • Treni storici fra identità, turismo e l’arte di Rovella

    Treni storici fra identità, turismo e l’arte di Rovella

    Il treno a vapore nella pittura e nella fantasia di Luigi Rovella. È questo il titolo della personale inaugurata ieri, mercoledì 28 dicembre 2022, a Villa Rendano e che chiuderà i battenti il 30 dicembre. Una riflessione a più voci ha preceduto il taglio del nastro. Mostra e workshop sono stati promossi dalla Fondazione Attilio ed Elena Giuliani. Il direttore del museo Consentia Itinera, Anna Cipparrone, ha introdotto i lavori e stimolato la discussione con una serie di domande e riflessioni.

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    Una delle tele di Luigi Rovella esposte a Villa Rendano

    La personale dedicata a Luigi Rovella, artista scomparso prematuramente, si snoda lungo un percorso creativo lungo 4 anni. Dal 2017 al 2020 il pittore ha realizzato dodici tele. Una di queste porta il nome della storica locomotiva a vapore della Sila.

    Deborah De Rose, anima di Interazioni creative, ha ricordato il contributo di Luigi Rovella al “Cose belle festival”: «È stato un protagonista del nostro festival, artista della luce e persona che ci è stato vicina nei momenti topici dell’organizzazione della kermesse». Deborah De Rose ha richiamato alla memoria anche la profonda gentilezza di Rovella: «Non dimentico quando ci diede un bellissimo albero di Natale che aveva realizzato in cartone».

    Due opere di Lugi Rovella che fanno parte della mostra aperta fino al 30 dicembre a Villa Rendano

    Treni e turismo lento

    I treni storici «una volta entrati in crisi come mezzi di trasporto sono diventati destinazioni turistiche». Un fenomeno «partito dal Regno Unito» e che da molto tempo ha contagiato anche l’Europa continentale, Italia compresa.
    Lo ha spiegato Sonia Ferrari, docente all’Unical di Marketing del turismo e territoriale. Subito dopo ha chiamato in causa due treni storici ormai diventati simboli e suggestioni letterarie: Orient Express e Transibieriana. E il treno della Sila? La docente dell’Università della Calabria ha sottolineato come sia un elemento tipico del «turismo lento e sostenibile», in linea con i trend di un settore che costituisce una nicchia importante.

    Treni e letteratura: la morte di Tolstoj

    Dopo aver tratteggiato le suggestioni delle tele di Rovella, Pino Sassano ha compiuto un piccolo tour tra letteratura e treni. Partendo da una riflessione perentoria: «Non esiste uno scrittore dall’Ottocento in poi che non abbia avuto come riferimento il treno». Inevitabile il riferimento del librario e professore a Lev Tolstoj: «La parte finale della sua vita si svolge su un treno, poi l’ultima fermata nella stazione di Astapovo dove muore circondato dal popolo e dai cronisti dell’epoca». Ma Sassano non si ferma alla letteratura. E chiama in causa lo sguardo di Luigi Ghirri, il fotografo che ha rivoluzionato la percezione del paesaggio. E i treni ne sono sempre stati parte integrante.

    Un momento del workshop di ieri a Villa Rendano

    Treni e identità

    Dalla fredda stazione di Astapovo alla fredda stazione di San Giovanni in Fiore. L’ex presidente della Regione, Mario Oliverio, non ha dimenticato il treno che passava dall’altopiano.
    «Ha spostato centinaia di migliaia di persone in un esodo drammatico dal Sud verso il Nord dell’Italia e dell’Europa». In quel treno di sofferenza e speranza «c’è oggi un carattere identitario». Lo stesso che Mario OIiverio vede nel treno storico della Sila, un progetto nato per una sua precisa volontà politica. Quella locomotiva che corre nel “Gran bosco d’Italia” può e deve essere «veicolo di crescita e sviluppo, attrattore turistico come scoperta e non solo come vacanza».

  • Luigi Lilio, il calabrese che detta il tempo all’umanità

    Luigi Lilio, il calabrese che detta il tempo all’umanità

    Dall’alba della civiltà al 1582 tutti i popoli hanno cercato invano di sincronizzare le date del calendario ai cicli delle stagioni. Solo Luigi Lilio vi riuscì. Quello di Lilio era un compito arduo da svolgere. Ai suoi tempi mancavano le leggi dei modelli planetari, i metodi della fisica e gli strumenti della matematica che vedranno la luce pochi anni dopo grazie a Keplero, Galileo e Newton. Lilio non aveva a disposizione queste conoscenze, ma riuscì ad elaborare un calendario così preciso da sfidare i secoli.
    A Cirò è stato realizzato un museo dedicato a Luigi Lilio dove sono riprodotti i più importanti documenti della riforma del calendario.

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    Il museo di Cirò dedicato a Luigi Lilio (foto Giovanni Bosi)

    Lilio, medico a Napoli e professore a Perugia

    Lilio nacque nel 1510 a Psycron, oggi Cirò. Dopo aver compiuto gli studi di medicina a Napoli si trasferisce a Roma ed è accertato che vent’anni dopo era professore di medicina a Perugia. Non sappiamo dove e quando morì, ma sicuramente prima del 1576. Medico, dunque, ma anche edotto di matematica e di astronomia, come del resto era normale che avvenisse per l’istruzione universitaria dell’epoca. Tra le discipline che l’aspirante medico doveva studiare c’erano l’astronomia e l’astrologia per via degli influssi che gli astri potevano avere sulle malattie. Sono poche le vicende note della esistenza di Luigi Lilio, tanto che in passato non sono mancati dubbi sulla sue origini calabresi.

    Il calendario giuliano “sbagliava” il giorno di Pasqua

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    Luigi Lilio, busto di realizzato da Giuseppe Capoano, 2012

    Nel corso dei secoli la discordanza tra le date del calendario giuliano, in vigore dal 46 a.C., e l’equinozio di primavera, impone la necessità di correggere le regole adottate per registrare il tempo. Di questo problema soffre in particolare la Chiesa Cattolica, che già dal Concilio di Nicea del 325 aveva legato al novilunio e all’equinozio di primavera il suo mistero fondamentale: la Resurrezione di Cristo. I Padri del Concilio di Nicea avevano stabilito che la Pasqua di Resurrezione si dovesse celebrare nella domenica seguente alla XIV Luna (plenilunio) del primo mese dopo l’equinozio di primavera.

    Nella metà del 1500 il calendario giuliano aveva segnato come giorno dell’equinozio di primavera il 21 marzo, ma gli astri l’avevano indicato l’11 marzo cioè circa 10 giorni prima. In considerazione di ciò, la Pasqua si celebrava nel periodo astronomicamente sbagliato. Appare ormai improcrastinabile la riformulazione del calendario, ma era un compito arduo da svolgere. Si trattava di correggere il computo per registrare il tempo e contemporaneamente evitare che l’equinozio astronomico di primavera rimanesse indietro, rispetto al calendario civile, com’era successo nel corso dei secoli.

    Le meccaniche celesti

    Le difficoltà astronomiche da risolvere riguardavano sia il moto apparente del sole sia il moto relativo della luna. Si trattava di sincronizzare il tempo civile con gli indicatori celesti, mantenendo un vincolo inamovibile: la data dell’equinozio di primavera, convenzionalmente fissata in modo perenne il 21 marzo. Il moto dei pianeti, però, è tutt’altro che regolare ed uniforme. In particolare, non è uniforme il cammino della terra attorno al sole. E, di conseguenza, nell’ottica precopernicana, non è neppure uniforme il moto apparente del sole rispetto al nostro pianeta. Il calendario è la rappresentazione degli aspetti periodici di questo moto; quindi finché esso si basa su regole precise e invariate nel tempo, è destinato a sfasarsi rispetto ai fenomeni celesti e ogni tanto deve essere “aggiustato” se lo vogliamo sincronizzato con le stagioni.

    Dieci giorni di ritardo per il pianeta Terra

    La Terra non presenta solo il moto della rotazione e della rivoluzione, ma è soggetta anche ad altri movimenti meno appariscenti; uno di questi, detto della “precessione degli equinozi”, consiste in una specie di moto di trottola che fa oscillare l’asse di rotazione con un periodo di circa 26mila anni. Il moto orbitale della Terra è riproducibile solo nel suo complesso, ma una formalizzazione accurata deve considerare la variabilità di tutti i termini descrittivi, causata da altre oscillazioni proprie della Terra, dalle perturbazioni gravitazionali degli altri pianeti e dal rallentamento della rotazione per effetto delle maree.

    A metà del XVI secolo aver trascurato tutto ciò comportava un ritardo di circa 10 giorni della reale posizione della Terra rispetto al calendario giuliano allora in uso. In breve, l’anno del calendario civile era considerato di 365, 25 giorni, più lungo dell’anno tropico di cui era incerta la reale misura. La Terra era rimasta indietro di 10 giorni nella sua orbita intorno al Sole, rispetto a quanto era previsto nel calendario giuliano.

    La Chiesa non sapeva quando fosse Pasqua

    Può non essere ovvio come questo problema debba riguardare la religione cristiana. In effetti, l’interesse astronomico della Chiesa discende dall’aver connesso la celebrazione della Pasqua alle fasi lunari e all’equinozio di primavera. Il non saper proporre un metodo esatto per la determinazione della data della Pasqua, rischiava di compromettere ulteriormente l’autorità della Chiesa cattolica in quel periodo storico molto difficile, scosso dallo scisma dei Protestanti e dei Calvinisti. Roma avvertiva il pericolo di un’ulteriore frattura con la Chiesa d’Oriente. Si doveva trovare un metodo indiscutibile, di validità perenne e di facile comprensione anche per chi non avesse specifiche competenze scientifiche.

    Il calendario in ritardo

    Nel 325 d.C., per fare fronte al dilagare dello scisma di Ario, papa Silvestro I e l’imperatore Costantino indissero in Bitinia (attuale Turchia) il primo importante Concilio cristiano: quello di Nicea. Il calendario era all’epoca in ritardo di tre giorni rispetto alle stagioni e ciò provocava nei cristiani sconcerto nel fissare la data della loro festa principale, la Pasqua. Per evitare il pluralismo liturgico nelle comunità cristiane, si fece strada l’idea di legare la Resurrezione del Cristo all’anno solare e al calendario di Cesare, utilizzando l’equinozio di primavera come data astronomica per la determinazione della Pasqua. Si stabilì una data fissa per tale avvenimento celeste, che invece è leggermente variabile: il 21 marzo.

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    Il Concilio di Nicea

    I padri conciliari eliminarono due giorni dall’anno per risistemare l’equinozio al 21 marzo, ma non furono in grado di correggere il difetto fondamentale del calendario giuliano che rimase più lungo rispetto all’anno solare. Mentre attraverso i secoli scorreva placidamente il calendario giuliano, la data dell’equinozio di primavera si allontanava lentamente rispetto alla misura reale dell’anno tropico.
    Diversi pontefici, non pochi concili e molti studiosi versati nelle discipline matematiche e astronomiche nel corso dei secoli avevano tentato invano di conciliare i due periodi del mese lunare e dell’anno solare.

    Ruggero Bacone nel 1267 aveva fatto osservare al papa Clemente IV un errore di 9 giorni dell’equinozio di primavera segnato nel calendario. Il problema della non rispondenza del calendario giuliano con i cicli delle stagioni era noto persino a Dante Alighieri che lo ricorda nel XXVII Canto del Paradiso (142-143): «Ma prima che gennaio tutto si sverni per la centesma ch’è là giù negletta».

    Nemmeno Copernico riuscì nell’impresa

    Al tempo del Concilio Lateranense, con Leone X, molti si adoperarono per risolvere la desiderata riforma. Tra questi, emerse come figura di spicco l’astronomo tedesco Paolo di Middelburg. Chiamato in causa da quest’ultimo, anche Copernico espresse il suo parere. Per Copernico non era possibile arrivare ad un calendario perfetto poiché l’anno solare era variabile.

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    Niccolò Copernico, padre dell’astronomia moderna

    Tutti gli studiosi che nel corso di tredici secoli si occuparono di trovare una soluzione al calendario, pur avendo dissertato abbondantemente sulla durata dell’anno, non riuscirono a trovare un metodo sicuro che desse una data stabile e duratura all’equinozio di primavera dal quale dipendono la Pasqua e tutte le altre feste mobili. Il calendario giuliano continuò, pertanto, ad essere utilizzato senza alcuna modifica. E man mano che passava il tempo aumentava sempre più il divario tra il calendario civile in uso e il ciclo delle stagioni. Nel frattempo si giunse al Concilio di Trento.

    Il Concilio di Trento (1545 – 1563) affrontò anche il problema della riforma del calendario. Durante le sue fasi pervennero alla presidenza varie proposte di astronomi e matematici ma, per la vastità dei temi trattati, si decise di delegare la soluzione del problema alla Santa Sede.

    La riforma di Lilio arriva in Commissione

    Subito dopo il suo insediamento papa Gregorio XIII nominò una Commissione costituita da astronomi, giuristi e teologi a cui affidò il mandato di valutare e approvare un progetto di riforma del calendario.
    La proposta di riforma elaborata da Lilio arrivò alla Commissione, che aveva come primo matematico il tedesco Cristoforo Clavio, insieme ad altre e venne giudicata la più efficiente ed anche la più facile da applicare. Però non fu lui a presentarla, poiché presumibilmente era già deceduto. Compare invece il nome del fratello Antonio, anche come membro della Commissione stessa, ed è l’unico laico che fu chiamato a farne parte. Dei nove membri della Commissione Pontificia tre erano calabresi: Antonio Lilio (fratello di Luigi), il cardinale Guglielmo Sirleto di Stilo e il vescovo Lauro di Tropea.

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    Basilica San Pietro in Roma. Mausoleo di Gregorio XIII. Antonio Lilio genuflesso porge al papa il libro dei calcoli di suo fratello Luigi

    Una testimonianza significativa del ruolo svolto da Antonio è la sua immagine scolpita nel bassorilievo del monumento dedicato a Gregorio XIII, situato nella basilica di San Pietro a Roma, nel quale Antonio Lilio, genuflesso, porge al pontefice il libro del nuovo calendario.
    La riforma del calendario era di difficile soluzione essenzialmente per la difficile misurazione dell’anno tropico. Se l’anno tropico avesse un valore costante, le regole di Lilio garantirebbero la correttezza della datazione per sempre. In effetti era questo il problema più importante da risolvere: non tanto il riallineamento tra calendario e reale posizione della Terra sull’orbita, quanto poter disporre di un sistema di calcolo stabile, invariante al trascorrere del tempo.

    La riforma di Lilio diventa calendario

    La nuova formulazione calendariale di Lilio venne inviata in forma di Compendium ai principi cristiani, Università e Accademie più rinomate d’Europa, con l’invito di esaminarlo, correggerlo o approvarlo. Gli esperti in matematica ed astronomia esaminarono la proposta ed inviarono i loro commenti al papa. I giudizi degli esperti, trentaquattro rapporti, furono quasi tutti positivi. Papa Gregorio XIII il 24 febbraio 1582 con la bolla Inter gravissimas promulgò il nuovo calendario.
    In generale, la semplicissima regola delle intercalazioni adottata dalla riforma liliana è la seguente:

    • un anno comune contiene 365 giorni; 366 giorni l’anno bisestile;
    • il giorno in più viene aggiunto alla fine di febbraio;
    • ogni anno dell’era cristiana dopo il 1582 se è divisibile per 4 è un anno bisestile;
    • la regola vale anche per gli anni di fine secolo che sono bisestili solo se divisibili per 400.
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    La bolla papale Inter gravissimas

    Ti addormenti il 4 ottobre e il giorno dopo è già 15

    Per evitare dunque che si producessero accumuli di errori futuri, si decretò di cancellare 3 giorni ogni 400 anni. Seguendo queste indicazioni non sono stati o non saranno bisestili gli anni 1800, 1900, 2200 etc.; sono stati e saranno bisestili gli anni 1600, 2000, 2400, 2800 etc. Invece di 100 giorni aggiuntivi ogni 400 anni secondo il calendario giuliano, si aggiungono 97 giorni in 400 anni che portano la lunghezza media dell’anno a 365 e 97/400 giorni. In quanto allo spostamento dell’equinozio di primavera, Lilio propose di eliminare 10 giorni dal vecchio calendario. Si andò a letto il 4 ottobre del 1582, era un giovedì, ci si svegliò il mattino dopo non il 5 ma il 15 ottobre del 1582.
    Furono i dieci giorni scomparsi dalla storia dell’umanità
    .

    Dove è il manoscritto di Lilio?

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    Calendario gregoriano perpetuo, 1583

    Lilio, perfettamente consapevole delle problematiche astronomiche discusse nel corso dei secoli, riteneva che un calendario basato su una teoria planetaria come avrebbe voluto Copernico, e inizialmente lo stesso Clavio, sarebbe stato troppo complicato da tradurre in uno strumento che segnasse il tempo e fosse facilmente accessibile a tutti. Elaborò la riforma del calendario prendendo come riferimento il valore medio delle misurazioni dell’anno tropico di 365g 5h, 49m 16s contenuto nelle Tavole Alfonsine.
    Come Lilio sia arrivato al valore annuo medio calendariale di 365,2425 (365g 5h 49m 12s) non è molto chiaro poiché il suo manoscritto non è mai stato stampato ed è scomparso senza lasciare traccia.
    Le correzioni di Lilio non sono limitate alla sincronizzazione dell’anno civile con l’anno astronomico di quel tempo. Le sue regole di intercalazione permettono di adattare il calendario nel corso del tempo ed anticipano la possibile variazione della durata dell’anno tropico nel corso dei secoli.

    L’età della luna

    Risolto il problema dell’anno calendaristico, non era così semplice il rimedio di correggere l’altro errore del calendario giuliano: la retrodatazione dei noviluni. È la parte più interessante della riforma. Scopo fondamentale dei riformatori era infatti che, nello stabilire l’epoca della Pasqua, non si tradisse l’intenzione dei padri niceni, cioè che la Pasqua cristiana si celebrasse nella prima domenica dopo il plenilunio che seguiva l’equinozio di primavera.
    Mediante due equazioni accordò i due cicli, solare e lunare, propose una tabella di validità ultramillenaria ed un originale e complicatissimo “ciclo delle epatte”. Se si conosce l’età della luna, ossia l’epatta il primo gennaio di un qualsiasi anno, si possono facilmente determinare tutti i giorni di quell’anno nei quali la luna sarà nuova o piena. E, di conseguenza, si determina senza incertezza la data della Pasqua.

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    Lunario Novo. Uno dei primi calendari gregoriani stampati a Roma nel 1582

    Il giorno Sexto Calend. Martij Anno Incarnationis Dominae M.D.LXXXI, corrispondente al 24 febbraio 1582, Gregorio XIII firmò la bolla Inter gravissimas. Il 1° marzo 1582 il testo venne affisso alle porte della Basilica di S. Pietro, alle porte della Cancelleria Vaticana e nella piazza Campo de’ Fiori.

    Pure i protestanti adottarono il calendario di Lilio

    Il nuovo calendario non fu subito e ovunque accettato da tutti i paesi. Adottarono subito il calendario i paesi cattolici romani. Dopo più di un secolo, le difficoltà incontrate nelle attività legate al commercio e nelle relazioni internazionali convinsero i paesi protestanti ad adottarlo. I più tardivi furono i paesi ortodossi, che accettarono il nuovo calendario dopo la fine della prima guerra mondiale soltanto in materia civile, mentre in liturgia utilizzano ancora il calendario giuliano. La Bulgaria si associò agli altri stati nel 1917, la Russia nel 1918, Serbia e Romania nel 1919, la Jugoslavia nel 1923, la Turchia nel 1927 e per ultima fu la Grecia nel 1928. Fuori dall’Europa il Giappone si allineò nel 1873 e la Cina nel 1911. Rifiutano ancora oggi di adottare il calendario gregoriano gli Ebrei e i Musulmani ma limitatamente ai fini religiosi.

    Francesco Vizza
    Direttore Istituto di Chimica dei Composti OrganoMetallici – ICCOM
    Consiglio Nazionale delle Ricerche – CNR