Categoria: Cultura

  • Fenestrelle, i calabresi nelle prigioni dei Savoia

    Fenestrelle, i calabresi nelle prigioni dei Savoia

    È un episodio minore della grande Storia, di cui i calabresi non sono stati protagonisti. Eppure vari calabresi lo hanno vissuto in prima persona.
    Ci si riferisce alla storia dei reduci dell’Esercito del Regno delle Due Sicilie all’indomani della Seconda Guerra d’Indipendenza.
    Sbandati, prigionieri di guerra, riarruolati dal Regno d’Italia o disertori datisi alla macchia.
    Alle loro spalle troneggia, massiccia e a tratti sinistra, l’ombra di Fenestrelle, il forte che domina la Val Chisone, un angolo suggestivo del Piemonte ai confini con la Francia.
    Molti vi finirono prigionieri, altri vi arrivarono per completarvi la leva, alcuni vi finirono “in punizione” e qualcun altro (pochi per fortuna) vi morì.

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    Soldati borbonici del Sedicesimo battaglione cacciatori

    Due morti di Cosenza

    Prima di entrare nel dettaglio, è importante raccontare la storia di due prigionieri cosentini. Sono il contadino Domenico Visconti, nato nel 1837 a Belvedere Marittimo, e il tessitore Antonio Veltri, nato a San Pietro in Amantea nel 1835. Le loro storie sono tragicamente simili.
    Visconti (che nei ruoli matricolari è iscritto come “Viscondi”, probabilmente per un errore di pronuncia), arriva a Fenestrelle il 3 febbraio 1862 e vi muore di tifo il 16 aprile successivo.
    Veltri, invece, arriva a Fenestrelle l’8 luglio 1862 e vi muore il 7 novembre successivo di febbre reumatica.

    Ladri e disertori

    Ma come mai i due cosentini finiscono a Fenestrelle? “Viscondi” entra nell’Esercito borbonico nel 1858 come soldato di leva ed è arruolato in un battaglione di Cacciatori. Diventa quindi prigioniero di guerra a Caserta l’otto settembre 1860. Torna a casa, ma si riarruola a Napoli il 7 giugno del 1861 ed entra nei Bersaglieri. Il 17 settembre successivo lo arrestano per furto: sconta quattro mesi di carcere e poi lo mandano a Fenestrelle.

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    Una commemorazione neborbonica in divise d’epoca

    Veltri, invece, viene sorteggiato alla leva borbonica nel 1859 e finisce nel Secondo reggimento di linea. Alle fine delle ostilità tra Regno di Sardegna e Due Sicilie si riarruola nel Quarantatreesimo di fanteria il 5 giugno 1861. Tenta la diserzione e… finisce a Fenestrelle.

    Sbandati, prigionieri e disertori

    Un po’ di chiarezza è doverosa. Iniziamo dalla cosa più banale: gli obblighi di leva.
    Il Regno delle Due Sicilie aveva una leva militare in parte più leggera rispetto a quello dei Savoia: non venivano arruolati tutti gli appartenenti a uno scaglione, ma si procedeva con sorteggio.
    Per il resto era più pesante: chi ci incappava, doveva prestare servizio per quattro anni, contro i due e mezzo-tre dei “savoiardi”. Ma la scappatoia c’era: pagare una tassa oppure trovare un sostituto.
    Ancora: secondo il Diritto internazionale bellico, se uno Stato ne assorbiva un altro, ne ereditava anche gli obblighi. Quindi, il Regno di Sardegna doveva far finire la leva ai soldati borbonici. Questo spiega le vicende di Visconti e Veltri.

    Due parole su Fenestrelle

    E Fenestrelle, in tutto questo? Si può subito chiarire una cosa: non era un campo di concentramento. Nato come fortezza di confine, il forte fu adibito a carcere per un breve periodo subito dopo la Restaurazione. Poi divenne sede dei Cacciatori Franchi, un corpo “punitivo” (cioè caratterizzato dalla disciplina durissima) e, subito dopo la Seconda Guerra d’Indipendenza, fu usato come “deposito” per prigionieri di guerra in attesa di essere riassegnati o rispediti a casa.
    Il Forte, c’è da dire, non era un ambiente salubre: i suoi 1.600 e rotti metri di altezza lo rendevano proibitivo per molti meridionali. Ma nessuno vi fu torturato o passato per le armi.
    Per ricapitolare: si finiva a Fenestrelle come prigionieri di guerra, fino alla proclamazione del Regno d’Italia. Oppure, subito dopo, perché riottosi alla disciplina dell’Esercito e quindi da “correggere”.

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    Una manifestazione in costume nel forte di Fenestrelle (foto di Roberto Cagnina)

    Conforti, il folle di Catanzaro

    La storia più singolare è quella di Giuseppe Conforti, nato a Paterniti, nel Catanzarese, il 1830.
    Conforti, autore di un memoriale simpaticissimo, è un personaggio esuberante. Si dichiara, infatti, di famiglia nobile ma decaduta e perciò costretto a fare il falegname. Nel 1856 il Nostro incappa nel sorteggio e parte soldato. E passa subito i primi guai.
    Parrebbe che la moglie, giovane e bella, di un suo superiore «inservibbile a cortivare la sua…» lo corteggi spudoratamente. Così finisce in gattabuia.
    Lo liberano, ma solo per partecipare alla sfortunata campagna militare del 1860. Ripara col suo reparto nello Stato Pontificio, quindi torna a casa. E lì ricominciano i suoi guai.

    Le disavventure di un reduce

    La Guardia Nazionale di Cosenza, su indicazione del prefetto, inizia le sue retate tra i reduci sbandati. Conforti viene preso prima di arrivare a Catanzaro ed è spedito a Milano.
    Detenuto nel Castello Sforzesco, sulle prime dichiara fedeltà a Francesco II di Borbone, poi cambia idea e si riarruola a modo suo: dà un nome falso e scappa.
    Torna in Calabria e si rimette a fare il falegname, ma «quelli giudei» della Guardia Nazionale lo ribeccano e lo rispediscono al Nord. Non a Fenestrelle, ma a Genova.
    Lì accetta il riarruolamento, parrebbe per davvero, ma prima tenta un ricorso. In attesa del risultato entra nel reparto del Genio nel 1862.

    Francesco II di Borbone, l’ultimo re delle Due Sicile

    Ma la vita militare non fa per lui: dopo un anno di punizioni disciplinari, diserta e si rifugia presso la Corte borbonica in esilio a Roma. Francesco II lo riarruola tra i briganti, non in Calabria ma a Benevento. Le tracce di Giuseppe Conforti si perdono qui. E la durezza delle repressioni nel Beneventano non fa sperare bene per lui.

    Undici fuggiaschi

    Cosa succede a chi si riarruola? Quel che capita sempre: i più si si adeguano, qualcuno no. E magari diserta. Al riguardo, finiscono sotto processo a Milano cinque soldati cosentini, originari di Luzzi e Rose. I cinque marmittoni, scappano il 25 maggio 1861 dal Ventinovesimo e dal Trentesimo fanteria di Savigliano nel Cuneense, a causa dell’eccessivo rigore della disciplina.
    Discorso simile per altri sei calabresi che il 6 luglio successivo disertano dal Quarantaduesimo fanteria di Racconigi, sempre nel Cuneense.

    Conforti il camorrista

    Nel 1861 la parola mafia non è ancora entrata nel linguaggio pubblico.
    Al suo posto si parla di “camorra”, come sinonimo di “criminalità organizzata”. E certi episodi si verificano anche a Fenestrelle, a partire dalle estorsioni.
    Al riguardo, finisce sotto processo Giovanni Coppola, un soldato originario di Rossano finito tra i Cacciatori Franchi di Fenestrelle. L’accusa è di aver tentato, il 26 luglio 1862, di ottenere un “pizzo” da un commilitone, che aveva vinto al gioco.
    Coppola, classe 1829, è un veterano dell’Esercito borbonico: ha finito la leva nel 1857 ed è richiamato subito dopo. Le nuove autorità non si fidano di lui. Infatti, lo spediscono a Fenestrelle come “disarmato”, cioè furiere. Un ruolo che si dava agli indesiderabili. Per lui il forte non basta e finisce in galera a Torino.

    La piazza d’armi del forte di Fenestrelle

    Un’altra estorsione

    Un altro episodio grave si verifica nel Forte di Exilles, sempre nel Torinese e sempre sede dei Cacciatori Franchi.
    I protagonisti sono tre meridionali, tutti pregiudicati, finiti nei Cacciatori per i soliti motivi “disciplinari”. Tra loro spicca un altro Conforti, Ferdinando, che ha una storia triste alle spalle.
    Orfano di Reggio Calabria, il Nostro è prigioniero di guerra a Capua. Ed è la sua prigionia più lieve, perché finisce in manette più volte per furto, ingiuria e minacce.
    Il 23 aprile 1862 viene spedito ad Exilles.
    Il 9 giugno successivo, assieme ai suoi due compari (un avellinese e un napoletano) chiede il pizzo a tre commilitoni piemontesi. Le vittime si rifiutano e vengono aggredite a colpi di baionetta. Anche per questo Conforti il carcere è una meta obbligata.

    Il dramma degli sconfitti

    I dati su questi ex soldati duosiciliani provengono da due testi documentatissimi: I Prigionieri dei Savoia di Alessandro Barbero (Laterza, Bari 2014) e Le Catene dei Savoia di Juri Bossuto e Luca Costanzo (Il Punto, Torino 2012).

    Lo storico Alessandro Barbero

    I tre autori hanno compulsato una mole impressionante di documenti d’archivio per raccontare le vicende di tanti soldati, soprattutto di quelli degli Stati preunitari sconfitti, subito dopo il Risorgimento.
    Queste ricerche rivelano uno spaccato sociale e umano impressionante e interessante allo stesso tempo. È il dramma dei reduci sospesi tra due mondi: quello che hanno perso e quello che non sentono ancora loro. Ciò vale anche per i calabresi.

  • Da Arpanet al Web: Internet fa quarant’anni

    Da Arpanet al Web: Internet fa quarant’anni

    Il web fa quarant’anni. Non proprio quello che conosciamo, ma quello, pionieristico, senza il quale non vivremmo le attuali possibilità della rete.
    Se ne è discusso nel dibattito Interconnessione planetaria: dall’alba di Internet alla comunicazione globale, che ha inaugurato, il 25 gennaio, il calendario 2023 degli avvenimenti organizzati a Villa Rendano dalla Fondazione “Attilio e Elena Giuliani”.

    Dai protocolli ai containers: i segreti della connessione

    Protagonisti dell’incontro, due big dell’informatica (non solo) calabrese: Domenico Talia, professore di Sistemi di elaborazione delle informazioni, e Antonio Palmiro Volpentesta, professore di Marketing per ingegneria gestionale, entrambi presso l’Unical.
    Allora: qual è stato il percorso da Arpanet, la prima rete specialistica a internet? «Un percorso in continua espansione», ha spiegato Talia, «sviluppatosi grazie ai protocolli». Cioè quelle sigle che tutti gli utenti incrociano nella navigazione quotidiana: ip, http, https, ecc.
    Questi protocolli, ha specificato Volpentesta, «possono essere paragonati ai containers per il trasporto delle merci», cioè sono mezzi standard per far viaggiare le informazioni.
    Coincidenze della storia: non è un caso che protocolli informatici e containers siano stati messi a punto negli anni ’80.

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    Villa Rendano

    Internet tra tecnica e consenso

    La strada che porta alla connessione globale è fatta di due cose: tecnica e consenso. Del primo aspetto si è occupato Talia, che ha raccontato l’evoluzione della rete, dai primi esperimenti pionieristici finanziati dal Pentagono all’odierna diffusione di massa.
    Sul secondo aspetto si è soffermato Volpentesta, che ha invece spiegato i motivi per cui Internet ha avuto successo.
    Secondo i suoi calcoli, entro il 2040 è previsto il “pareggio”: tanti esseri umani, altrettante connessioni. Ma, attenzione: esistono, infatti, sette miliardi di device su otto miliardi di abitanti del pianeta. Quindi il “break even” potrebbe verificarsi prima.

    Cimitero delle tecnologie

    L’affermazione del web, cioè l’attuale configurazione della rete, non è stata facile né scontata.
    «La storia è anche un cimitero di tecnologie, spesso più valide di quelle attuali, che sono state accantonate solo perché non hanno avuto successo», hanno spiegato i due scienziati.
    E, per quel che riguarda il web, c’è l’imbarazzo della scelta: sistemi operativi promettenti superati dall’attuale duopolio Windows-Os, mezzi fisici (laserdisc o il mitico floppy) ingurgitati dalla gigantesca memoria collettiva in cui si è trasformata la rete. Ne sono un esempio i cloud, capaci di stivare quantità immense di dati.

    Domenico Talia

    Costi e benefici

    La prossimità del break even tra esseri umani e device, pone alcuni interrogativi che dividono gli specialisti in “integrati” e “apocalittici” (tra questi ultimi spicca Evgenij Morozov, duro critico dell’operato delle “big five”).
    «Tutto ha i suoi costi», ha commentato Volpentesta. Ma i benefici possono valere il prezzo dei sacrifici in termini di privacy che affrontano tutti gli utenti del web.
    Per ora, almeno…

  • Ferramonti, la storia dei libri in internamento

    Ferramonti, la storia dei libri in internamento

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    Un campo di internamento può diventare, oltre a un luogo dell’abominio, anche un casuale crocevia di cultura. Quello di Ferramonti di Tarsia è stato, almeno in parte, anche un luogo di questo tipo.
    C’è un filo che insospettatamente lega la Calabria a Theodor Mommsen e persino alla storia dell’editoria anastatica e del collezionismo.
    Già noto per esser stato un campo sui generis, ricordato soprattutto per la provvidenziale forma di solidarietà che si venne a creare tra i prigionieri, i civili e le autorità locali, Ferramonti fu occasione di prigionia condivisa per almeno quattro particolarissime personalità della cultura, note e meno note. Quattro uomini che la storia ha condotto dapprima nel lager, poi a riemergere in maniera singolare: Ernst Bernhard, Gustav Brenner, Michel Fingesten e Werner Prager. Vi si aggiunge la figura di Israel Kalk, il quale pure varcò le soglie del campo, benché non da prigioniero.

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    Internati a Ferramonti

    E c’è intanto una piccola storia conosciuta a pochi, più che altro nel giro dei bibliofili più consumati: Oliviero Diliberto, che appartiene a questo novero, l’ha scoperchiata, ricostruita e divulgata con passione nel suo La biblioteca stregata (Roma, 2003). È, appunto, la storia tormentata della biblioteca privata di Theodor Mommsen, un corpus librario scampato parzialmente a due incendi, poi a divisioni ereditarie, ancora parzialmente a donazioni, a dismissioni da parte di biblioteche pubbliche (scarsamente accorte di fronte alla presenza degli ex libris mommseniani su alcuni doppioni), a trasferimenti transoceanici e, infine, alla vendita incontrollata sulle bancarelle. Uno degli ultimi luoghi di passaggio di alcuni volumi provenienti dalla biblioteca Mommsen fu una libreria antiquaria romana, dalla quale questi riemersero dopo le interminabili peripezie: la libreria Prager.

    Werner Prager, da Amsterdam a Ferramonti

    prager-ferramontiWerner Prager, protagonista – forse inconsapevole – di questa storia libresca, nacque nel 1888 a Berlino, dal libraio Robert Ludwig (1844-1914) la cui bottega aprì nel 1872. Assieme alla moglie Gertrud, continuò a gestire la società R. L. Prager e, pensando poi di scampare ai provvedimenti antisemiti, trasferì ingenuamente l’attività da Amsterdam a Roma nel 1937, ovvero solo un anno prima della promulgazione delle leggi razziali che intanto gli impedirono il commercio librario, e in secondo luogo lo costrinsero alla prigionia a Ferramonti.

    Dopo la liberazione, Prager riaprì la sua libreria, che chiuse poi i battenti nell’anno della sua morte, 1966. Possiamo immaginare conversazioni dotte, a rinfrancare parzialmente la prigionia, tra Prager e i prossimi personaggi che ci vengono incontro. Perché intanto c’è un altro libraio eccellente nella storia di Ferramonti, un uomo che come Prager ha fatto riemergere libri dall’oblio: Gustav Brenner.

    Gustavo Brenner, da Ferramonti alla Casa del libro

    Brenner, ebreo austriaco, è forse una delle figure più dimenticate della storia dell’editoria italiana. E, al tempo stesso, una delle poche davvero ascrivibili a un’intellettualità autentica, almeno nel panorama culturale della Calabria che lo accolse. La sua storia si lega prima al commercio librario, poi all’esperienza dell’internamento, e poi all’editoria tout court. Gustav Brenner nacque a Vienna nel 1915 da Joseph, libraio in Praterstrasse, e intraprese il mestiere paterno fin quando non lo arrestarono per condurlo dapprima a Buchenwald e poi a Dachau.

    Fuggito, maturò in lui l’idea di rifugiarsi a Trieste e poi a Milano. Proprio qui, mentre lavorava presso una casa editrice, lo arrestarono e deportarono nel campo di Tarsia. Lasciò il campo il 31 ottobre 1942: sposatosi nel 1947, aprì a Cosenza la “Casa del libro” in piazza Crispi, ovvero una libreria e casa editrice il cui catalogo offriva già dall’inizio una scelta incentrata sulla storia del Mezzogiorno nonché sull’esoterismo, molto spesso d’impronta massonica (Gustav era affiliato al Grande Oriente d’Italia).

    Le ristampe anastatiche

    Fu allora che si fece strada anche la sua prima idea di “biblioteca circolante”, in qualche modo antesignana del bookcrossing oggi in voga. A Brenner si dovrebbe riconoscere, tra l’altro, un primato che di solito si attribuisce ad altri, ovvero quello di aver introdotto in maniera sistematica, in Italia, la ristampa anastatica (riedizione, conforme agli originali, di opere difficilmente reperibili). Prima di lui, in maniera sporadica, a mettere in commercio delle ristampe anastatiche era stata certamente la Görlich di Milano, mentre all’estero era stata già messa in atto dal celebre antiquario Kraus, cresciuto nella stessa Praterstrasse (proprio al civico 16 in cui visse Arthur Schnitzler).

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    Gustavo Brenner sull’ingresso della sua prima libreria a Cosenza

    Ma la paternità dell’introduzione sistematica della ristampa anastatica in Italia viene di solito erroneamente attribuita ad Arnaldo Forni: in realtà le primissime pubblicazioni di Forni vedono, sì, la luce nel 1959 ma le sue prime ristampe anastatiche nascono soltanto nel 1966. A voler esser magnanimi, un primo isolato tentativo di anastatica fu messo in atto da Forni nel 1961, mentre Brenner aveva pubblicato già nel 1958 l’anastatica in tre volumi della Storia dei Cosentini di Davide Andreotti (l’edizione, sotto l’insegna della Casa del libro in Cosenza, riporta l’acerba dicitura “ristampa elettro meccanica dell’edizione di Napoli, S. Marchese, 1869”).

    Una sfida impari

    Detto ciò, resta inconfutabile che Brenner sia stato il primo in Italia e tra i primi in Europa a riprodurre rare opere che, soprattutto tra il Sei e il Settecento, gli autori meridionali avevano fatto stampare presso tipografie perlopiù estere. Certo, l’indirizzo prettamente meridionalistico ed esoterico delle edizioni Brenner non poté competere col respiro più ampio del catalogo Forni e con la più acuta capacità commerciale del bolognese il quale, se pur non aveva nemmeno lontanamente la levatura culturale di un Brenner, poteva dal canto suo avvalersi, nella città universitaria, della collaborazione di un intellettuale di notevolissimo spessore quale Albano Sorbelli, figura con la quale nessuno, in Cosenza, avrebbe potuto misurarsi.

    Il Picasso degli ex libris

    E Michel Fingesten (già Finkelstein) cosa c’entra con i libri, vi starete chiedendo? Presto detto: è stato, tra l’altro, il più grande ideatore e incisore di ex libris del Novecento. Anzi, qualcuno disse che Fingesten sta all’ex libris come Picasso sta alla pittura. Nato nel 1884 a Butzkowitz, studiò all’Accademia di Vienna, laddove ebbe come compagno di studi nientemeno Oskar Kokoschka. Membro della corrente della “Nuova Secessione”, testimoniò nelle sue acqueforti le atrocità della Grande Guerra.

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    Michel Fingesten dipinge a Ferramonti

    Internato nel 1940, continuò a creare opere d’arte persino a Ferramonti, come quel Martirio di San Bartolomeo commissionatogli dall’allora parroco di Bisignano. Ma è l’ex libris la sua specialità  e per gli ex libris verrà richiesto il suo talento dai collezionisti di tutta Europa (tra i committenti celebri, addirittura Roosvelt, Stravinsky, Richard Strauss, Rainer Maria Rilke, Bernard Shaw e Paul Valery o, in Italia, Pirandello, D’Annunzio e addirittura Mussolini!).

    Israel Kalk e la Mensa dei Bambini

    L’altra figura legata a Ferramonti e ai libri, è quella di Israel Kalk. Ebreo lettone, trasferitosi a Milano si dedica a iniziative filantropiche come la Mensa dei Bambini, che accoglie i figli dei profughi ebrei giunti in Italia intorno al 1938-39. Assicura loro una dimora, un pasto quotidiano, l’assistenza medica e il doposcuola. L’attività della Mensa si estende presto all’assistenza per i profughi ebrei anziani e per i deportati nei campi di concentramento dell’Italia meridionale.

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    Israel Kalk

    È così che Kalk riesce a recarsi ripetutamente presso il campo di Ferramonti: all’organizzazione del campo dona materiale scolastico, vestiario, medicinali e sussidi, istituendo persino una borsa di studio a tutti gli scolari. Dal 1939 Kalk incomincia a raccogliere un fondo archivistico, costituito non soltanto dai documenti della Mensa ma pure dal ricchissimo materiale inerente all’attività di assistenza presso Ferramonti e dalla sua collezione libraria: 416 volumi, prevalentemente in lingua yiddish, pubblicati tra il 1907 ed il 1977 (narrativa, poesia e teatro, raccolte di proverbi, leggende e fiabe ebraiche, testi sacri e canti liturgici), oggi custodito dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano.

    Ernst Bernhard, lo psicanalista delle star

    L’ultimo personaggio, Ernst Bernhard, nacque invece a Berlino, da genitori ebrei, nel 1896. Socialista, partecipò alle rivoluzioni bavarese e austriaca. Dopo la laurea in medicina indirizzò i propri interessi verso la psicanalisi, e collaborò con Jung tra il 1935 e il 1936, anno in cui si trasferì a Roma, marcando ancor più del suo maestro l’interesse per l’esoterismo, nonché per la teosofia, la chirologia e l’astrologia. Non è propriamente un bibliofilo, ma ai patrimoni librari e alla stessa storia del libro, ha contribuito con la sua opera di saggista.

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    Ernst Bernhard

    Prigioniero anch’egli, nel 1941 Bernhard poté finalmente lasciare Ferramonti, dove era entrato «col suo I Ching e il suo diario, deciso a vivere in modo consapevole e significativo ciò che il destino gli avrebbe portato». Riprese poi la professione nella capitale e a Bracciano, laddove fondò l’Associazione Italiana di Psicologia Analitica, che portò avanti fino seguendo illustri pazienti quali Natalia Ginzburg, Giorgio Manganelli, Cristina Campo, Roberto Bazlen, Vittorio de Seta e, tramite quest’ultimo, persino Federico Fellini.

    Ferramonti e il paesaggio palestinese

    Dai suoi diari di autoanalisi emerge pure un sogno fatto e annotato durante la prigionia (che, a dire il vero, starebbe benissimo sulla bocca del miglior Woody Allen):

    «Dal campo in Calabria vengo deportato verso Oriente e arrivo in un campo dove sono completamente isolato e solo.
    Penso che mi peserà molto il non avere nessuno di cui prendermi cura e da far progredire. Ma a mio conforto mi viene in mente che là ci sarà pure un corpo di guardia nazista. Potrei prendermi cura di questo».

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    Soldati all’esterno del campo

    Ancora, negli anni più maturi della sua professione non mancò di ricordare sporadicamente l’esperienza calabrese:

    «Nel 1941, quando ero internato in Calabria, passai il Venerdì Santo solo, sotto un fico, leggendo e digiunando, davanti a me il paesaggio del Mediterraneo, che mi ricordava il paesaggio palestinese. Quando la sera mi avvicinai al campo d’internamento, mi venne incontro il brigadiere della polizia e mi disse: “Dottore, è arrivato il telegramma”. Ero libero. Comprai vino rosso e dolci per i miei compagni di prigionia e nuovi amici, festeggiai con loro l’addio e il giorno seguente partii in tassì, con fichi e cioccolata, per Amantea e la notte seguente per Roma. La domenica di Pasqua arrivai in via Gregoriana, con una completa amnesia di tutto ciò che prima della mia prigionia era avvenuto nella mia abitazione, tanto per quel che riguardava me che i miei pazienti».

  • Villa Rendano: un 2023 carico di appuntamenti

    Villa Rendano: un 2023 carico di appuntamenti

    Per tutto il 2023 Villa Rendano sarà teatro di un nutrito e variegato cartellone di eventi che in parte verrà realizzato in collaborazione con il comune di Cosenza
    È partita la stagione culturale della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani che quest’anno celebra il decennale della sua costituzione.

    La fondazione compie dieci anni

    «Sarà un anno ricco di iniziative, che spazieranno dal ricordo di importanti anniversari, in campo storico, politico, istituzionale, artistico e musicale, alla presentazione di libri, alla poesia, con l’ambizione di essere, ancor più di quanto non sia avvenuto in questi mesi, un punto di riferimento per il territorio, offrendo ai cittadini l’opportunità di conoscere e approfondire temi e questioni cruciali nella quotidianità del nostro tempo». Così Walter Pellegrini, il presidente della Fondazione “Attilio ed Elena Giuliani”, annuncia le attività culturali del 2023, il decimo della prestigiosa Istituzione cittadina.

    L’hi tech per iniziare

    Il calendario è iniziato il 25 gennaio, alle 17,30, con i docenti dell’Università della Calabria Domenico Talia e Antonio Palmiro Volpentesta, intervenuti sul tema Interconnessione planetaria: dall’alba di Internet alla comunicazione globale, ricostruendo le tappe che hanno portato da Arpanet a Internet.
    L’interconnessione planetaria è stato il tema inaugurale di Storia in Villa, un contenitore culturale in cui troveranno spazio altri importanti anniversari che la Fondazione intende proporre all’attenzione generale.

    Storia In Villa: da Pinocchio a Zeffirelli

    Tra i tanti, i centoquarant’anni dalla prima pubblicazione di Pinocchio, gli ottocento anni dal primo presepe realizzato da San Francesco d’Assisi, il duecentocinquantesimo anniversario della morte di Alessandro Manzoni, i cento anni dalla nascita di don Milani, i quarant’anni dall’arresto di Enzo Tortora, i sessant’anni dalla tragedia del Vajont e dalla morte di J.F. Kennedy, i trent’anni dell’Unione europea, il settantacinquesimo anniversario della nascita di Peppino Impastato, il decennale della morte di Margherita Hack e di Nelson Mandela, il centenario della nascita di Franco Zeffirelli, i cinquant’anni della storica sentenza della Corte Suprema americana sull’aborto.

    I protagonisti di Cosenza

    Nella programmazione di Storia in Villa sono previsti anche i ricordi di alcune figure prestigiose, purtroppo scomparse, che con la loro azione hanno segnato la vita culturale, artistica, sociale e civile non solo della città dei Bruzi.
    Si comincerà con un “medaglione” dedicato al giornalista Emanuele Giacoia, elemento di punta della Rai calabrese e protagonista di molte trasmissioni sportive nazionali. Si proseguirà quindi con il poeta Franco Dionesalvi, il regista Antonello Antonante, il giornalista Raffaele Nigro e lo scrittore, giornalista e commediografo Enzo Costabile.
    Altri ricordi di figure importanti saranno programmati nel corso dell’anno e proseguiranno anche durante il 2024.

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    Antonello Antonante (foto Alfonso Bombini 2020)

    Libri in Villa

    Libri in Villa verrà realizzato in collaborazione con il Comune di Cosenza e sarà lo spazio dedicato ai volumi di maggiore successo, a livello nazionale, meridionale e regionale.
    Tra i primi appuntamenti, il 2 marzo, l’incontro con Mimmo Gangemi, che presenterà il suo romanzo L’atomo inquieto, edito da Solferino.
    Il 29 marzo, invece, sarà la volta della giornalista Rai Annarosa Macrì, con il suo ultimo romanzo edito da Rubbettino.

    I venerdì e il Cineforum a Villa Rendano

    Continueranno, inoltre, I venerdì di Villa Rendano, gli approfondimenti tematici di Villa Rendano, coordinati dal giornalista Antonlivio Perfetti, che stanno riscuotendo enorme successo.
    Fiore all’occhiello della programmazione 2023 sarà anche il Cineforum, coordinato da Franco Plastina, attraverso il quale la Fondazione intende offrire ai numerosissimi amanti del cinema presenti in città un appuntamento settimanale con la proiezione di film e documentari.
    Il programma prevede anche un ricordo di Massimo Troisi, del quale quest’anno ricorre il settantesimo anniversario della nascita, con la proiezione del film Il Postino.

    Un ricordo di Sergio Giuliani

    Nel 2023 ricorre anche il decennale dell’avvio delle attività della Fondazione “Giuliani”, che verrà celebrato con una giornata in ricordo del fondatore, Sergio Giuliani, e l’istituzione di alcune borse di studio, in memoria del filantropo e benefattore cosentino, destinate a studenti particolarmente meritevoli.

    Il conferimento della cittadinanza onoraria a Sergio Giuliani

    Poesia e territorio

    Un evento particolarmente importante sarà anche il Festival della poesia I padri della parola, realizzato in collaborazione con la Regione Calabria e che si svolgerà a Cosenza in primavera. Vi parteciperanno alcuni tra i maggiori poeti italiani con il coinvolgimento delle scuole superiori dell’area urbana cosentina.
    Riprenderà, inoltre, il progetto I borghi, che prevede anche in questo caso il coinvolgimento degli studenti delle scuole superiori della provincia di Cosenza, chiamati a descrivere le realtà, la cultura e le tradizioni dei rispettivi territori.

    Consentia itinera: le novità del Museo di Villa Rendano

    Per quanto riguarda il Museo Consentia itinera, a partire dal mese di febbraio numerosi e interdisciplinari saranno i laboratori educativi e creativi destinati ai bambini ed alle famiglie, grazie al finanziamento dell’Agenzia per la Coesione Territoriale.

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    Una sala del museo multimediale Consentia itinera

    Tra i temi affrontati, le antiche lavorazioni artigiane trasferite ai piccoli da abili maestri (pietra, argilla e legno), la cura del patrimonio e della legalità (con visite nei luoghi degradati del centro storico e proposte di recupero), le scoperte scientifiche (con incontri ed esperimenti rivolti ai “piccoli scienziati” ma ancora laboratori creativi lungo la linea del tempo) attività sulla storia di Cosenza) e incontri di musica partecipati e interattivi.
    Nel mese di marzo 2023, infine, la Fondazione Giuliani inaugurerà, nelle sale multimediali del Museo Consentia itinera, la nuova mostra digitale sulla scienza e la tecnologia dal titolo Urania. Scienza e cultura realizzata in collaborazione con il Museo Galileo di Firenze e con il contributo economico del Mur.

  • Petrolini sul grande schermo, il recupero parte da Paola

    Petrolini sul grande schermo, il recupero parte da Paola

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    Ettore Petrolini è stato tra i più grandi attori ed autori del teatro comico italiano. La sua originalità si è espressa soprattutto con vena satirica in parodie e comicità, tra macchiette dei teatri minori e personaggi di operette e riviste di varietà che hanno trovato posto nelle sue commedie. Molti monologhi, per fortuna incisi su dischi dell’epoca, danno modo ancora oggi di apprezzare la modernità della sua irridente verve comica.
    Ma Petrolini fu anche interprete di cinque film tra il 1913 e il 1931. La produzione cinematografica, per quanto rada, ha permesso comunque di immortalare il suo magistrale estro su pellicola. E il recupero di quei film passa oggi dalla Calabria grazie a Gianmarco Cilento.

    Gianmarco Cilento e il “Progetto Petrolini”

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    Gianmarco Cilento

    Studioso e autore di saggi e monografie incentrati sulla storia e i protagonisti del cinema nazionale, Cilento vive a Paola. Insieme ad una squadra di critici e appassionati come lui – e in collaborazione con l’associazione culturale Ettore Petrolini e Diari di Cineclub – è il promotore di “Progetto Petrolini”. Si tratta di un lavoro di ricerca che culminerà con la pubblicazione di un libro dedicato alla filmografia dell’attore romano.  A curare il volume saranno inoltre Adriano Aprà, Alfredo Baldi, Anna Maria Calò, Nino Genovese, Anton Giulio Mancino, Silvia Nonnato, Domenico Palattella, Davide Persico, Simone Riberto e Marco Vanelli. Si tenterà così di recuperare, prima che sia troppo tardi, l’opera cinematografica di Ettore Petrolini, allo stato attuale parzialmente dispersa.

    I cinque film perduti (o quasi)

    Petrolini disperato per eccesso di buon cuore di Ubaldo Pittei (1913), Mentre il pubblico ride di Mario Bonnard (1920), Nerone di Alessandro Blasetti (1930), Il cortile e Il medico per forza, di Carlo Campogalliani (1931): queste le pellicole che hanno visto l’attore romano protagonista lungo quasi un ventennio. Le prime due sono mute, mentre le altre sono state registrate con il sonoro. E se i due film senza voci sono al momento irreperibili, Nerone e Il medico per forza lo sono parzialmente all’interno del film di montaggio Petrolini, uscito nel 1949. Il cortile invece, dopo decenni d’invisibilità, è stato fortunatamente “ritrovato”. Le ricerche di Cilento hanno infatti appurato che del film esistono addirittura due copie, una conservata al Museo del Cinema di Torino e l’altra alla Cineteca di Bologna.

    Alla (ri)scoperta del Petrolini perduto

    «Compito del progetto – spiega Cilento – è non solo quello di recuperare i due film muti dell’attore romano, ma anche le versioni integrali di Nerone e Il medico per forza. Un lavoro di ricerca sicuramente impegnativo e faticoso, quanto doveroso. Vogliamo evitare che di tali pellicole si possa spegnere definitivamente anche l’ultima speranza di recupero. Per l’estrema complessità si auspica il sostegno di ogni ente pubblico e associazione culturale interessata alla preservazione del patrimonio cinematografico. Recuperare il perduto cinema di Ettore Petrolini, così da poterlo apprezzare noi e tramandarlo alle future generazioni, è la nostra missione. E che questa sia l’inizio di una serie di iniziative volte a promuovere le carriere cinematografiche irreperibili di altri artisti dello spettacolo italiano».

    Alessandro Pagliaro

  • L’uomo del cinema aspetta il secolo del Santa Chiara a Rende

    L’uomo del cinema aspetta il secolo del Santa Chiara a Rende

    C’è gente come Tullio Kezich che ha passato una vita al cinema. Altri come Orazio Garofalo non possono farne a meno. Una questione di famiglia. Il Santa Chiara a Rende non è solo il cinematografo più antico della Calabria ancora in funzione. È un luogo predestinato sin dalle origini. Regala sogni ed emozioni dal dicembre del 1925, come La Corazzata Potëmkin di Sergej M. Ėjzenštejn.

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    Orazio Garofalo davanti all’ingresso del cinema Santa Chiara a Rende (foto Alfonso Bombini)

    Il nonno d’America

    Pietro Garofalo lascia Rende per New York nel 1912. È uno tipo scaltro. Dopo le inevitabili difficoltà degli inizi, trova la sua strada. Non se la passa male, gestisce pure un biliardo nel Bronx. Il sogno americano finisce e si sveglia in Calabria nel 1924. Gli resta un bel gruzzolo da investire nell’acquisto di una parte del convento Santa Chiara. Diventerà nel 1925 il cinematografo omonimo.
    Compra un proiettore “Pio Pion”. Oltre 130 posti in sala tutti occupati. Oggi si dice sold out. Al mattino il cinema sparisce e in quel posto si producono fichi secchi.

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    Il proiettore Pio Pion in dotazione al Santa Chiara

    Il buttafuori

    Pietro Garofalo ha tre figli maschi: Italo Costantino, Francesco (che diventerà preseparo di fama) e Antonio. Lavorano col padre. L’ultimo è il buttafuori del cinema Santa Chiara: dopo la prima proiezione trova sempre qualcuno che fa il furbo e vuole restare, gratis, per la seconda. Ci pensa lui. Braccia possenti e spalle larghe. Lo racconta così suo nipote Orazio.

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    Italo Costantino Garofalo

    Il cinema sfida le bombe

    L’epopea del muto, Charlie Chaplin, Stanlio e Ollio segnano gli albori del Santa Chiara. In sala suona l’immancabile orchestrina. I grandi western americani, la Garbo e poi l’arrivo del sonoro sono impressi nella memoria collettiva di una comunità. La sala è talmente piena e i muri sudano dal calore e dall’umidità. Poi arriva la guerra e ferma il cinema. Mancano le pizze coi film. Italo Costantino Garofalo sfida le bombe degli Alleati, corre a Napoli e torna con le pellicole a Rende. Per certi versi sembra una storia alla Theo Angelopoulos de Lo sguardo di Ulisse.

    La tv uccide il grande schermo

    Franco Franchi e Ciccio Ingrassia sono già un classico del Santa Chiara. Proiettano i film di Fellini, poi quelli con la Loren e la Lollobrigida, la “bersagliera” morta da poco. La macchina dei sogni a Rende si ferma alla fine degli anni Settanta. La tv a colori ha invaso le case degli italiani. Il grande schermo comincia ad avvertire i primi contraccolpi. Il Santa Chiara chiude.

    Nuovo cinema Santa Chiara

    Arintha perde il suo storico cinema. Ma qualcosa si muove. Si moltiplicano le riunioni nel centro storico alla presenza dei Principe (Cecchino e Sandro), i due politici che hanno trasformato Rende in una città modello nella Calabria di quegli anni. Il Comune alla fine rileva la sala diventata una specie di magazzino. Resterà tale per tanto tempo.
    Intanto Italo scrive a Giuseppe Tornatore. Il regista de Il Camorrista e di Nuovo cinema Paradiso, risponde all’appello. E butta giù una lettera per Italo e suo figlio, un giovane Orazio. Li incoraggia a non mollare. È il 1996.

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    La lettera del regista Giuseppe Tornatore a Italo Costantino Garofalo

    Bisogna aspettare il 2015 per la riapertura del Santa Chiara. A tagliare il nastro è il sindaco Marcello Manna. La palla passa ad Orazio. Che mette a disposizione la sua competenza e il suo tempo a titolo interamente gratuito.
    Sono circa 235 i film proiettati negli ultimi 7 anni. Cinema d’autore quanto basta. E in attesa dell’inizio delle pellicole Orazio proietta la sua videoarte: un vero maestro nella tecnica del found foutage.

    I giovedì al cinema Santa Chiara

    La passione di Orazio ha inizio con i giovedì del Santa Chiara. Quando Italo prova ad aprire le pizze e prova le pellicole che poi allieteranno le serate del pubblico pagante. Qualcuna è spezzata, rovinata. Cosa fare? Italo non si dà per vinto. Taglia e cuce come un montatore. «I film non perdono coerenza e non hanno interruzioni. Quanta abilità mio padre». Orazio Garofalo ricorda il suo genitore e mentore. Non dimenticherà mai i ritagli delle pellicole, il proiettore 35 mm a manovella e quel fazzoletto di stoffa aperto sul quale si materializzano le immagini in movimento: così nasce l’amore per il cinema.

    La filosofia di Finuzzu

    Il Santa Chiara di Orazio «non è d’essai ma nickelodeon», espressione nata negli Stati Uniti per indicare il carattere economico e proletario della Settima arte a 5 centesimi di dollaro all’ingresso. Il Santa Chiara procede in qualche modo insieme a un altro simbolo della cultura rendese: il Finuzzu film festival. Sulla terrazza di Serafino, presidente del circolo Reduci e combattenti morto lo scorso anno, la nuova commedia all’italiana ha divertito gli abitanti del centro storico insieme ad anguria, dolci e bibite. Perché il cinema, prima di essere legittima masturbazione mentale degli intellettuali (o presunti tali), è soprattutto arte popolare.

  • Melia e le grotte di Trèmusa: se un disastro si trasforma in opportunità

    Melia e le grotte di Trèmusa: se un disastro si trasforma in opportunità

    Quella di Melia è una storia di rigenerazione. Una rigenerazione che parte dal basso, da piccoli passi compiuti sui territori da cittadini che, da una parte, si battono contro l’abbandono e l’isolamento e, dall’altro, fanno squadra per valorizzare le proprie comunità ed i tesori che custodiscono. In altri termini trasformano un disastro in opportunità. Vediamo come.
    Melia, provincia di Reggio Calabria, è una borgata di Scilla abbarbicata sulle pendici dell’Aspromonte, appena fuori dall’area di competenza del Parco. Non si tratta di un dettaglio perché le grotte di Trèmusa, ad oggi ancora inaccessibili per la frana di cui parleremo, hanno fornito un contributo essenziale per i riconoscimenti guadagnati dal Parco Aspromonte in ambito Unesco.

    L’antefatto: Melia isolata

    A giugno 2021 si verifica una frana sulla strada interpoderale nel territorio della frazione scillese. Ne segue, il successivo dicembre, una seconda che lascia praticamente il territorio isolato. Si tratta dello smottamento della Strada Provinciale 15, Scilla-Melia. Qualche anno prima la Città Metropolitana aveva stanziato 300 mila euro per interventi di messa in sicurezza in un cantiere partito e abbandonato da tempo.

    La frana sulla Sp 15 Scilla-Melia
    La frana sulla Sp 15 Scilla-Melia

    La frana del giugno 2021 ha consentito di organizzare una ricognizione archeologica nell’area immediatamente adiacente alle grotte di Trèmusa. La ricognizione è stata promossa dall’associazione Famiglia Ventura, supportata dall’associazione La Voce dei Giovani e dalla parrocchia di Melia, finanziata dai Lions e diretta dall’archeologo Riccardo Consoli. Due i gruppi di lavoro: il primo coordinato dal topografo Antonio Gambino, che si è occupato di effettuare i rilievi e la pulitura paesaggistica nella zona delle gole; il secondo da Consoli, che ha effettuato una prima indagine stratigrafica del suolo.

    Risultati superiori alle aspettative

    Doveva trattarsi di una semplice attività didattica con gli studenti dell’Università di Messina e di Firenze, ma i risultati hanno superato le aspettative.
    Ne è emerso un quadro affascinante: sotto il manto stradale sono state individuate diverse stratificazioni, risalenti a diverse epoche che vanno dal periodo tardo ellenistico a quello borbonico. Riemersi parte del percorso di epoca romana e un ciottolato di età borbonica. Le ricerche hanno permesso di individuare il tracciato della vecchia Popilia proprio presso il valico del Vallone Favazzina su cui affacciano le gole di Trèmusa. Non era scontato che fosse così: non vi era certezza che la strada consolare romana passasse da quell’area.

    La Storia è passata da Melia

    Lo spiega Riccardo Consoli, archeologo dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Assieme a Lino Licari, guida paesaggistica e archeologo ante litteram, e a Gambino, Consoli ha compiuto i rilievi. Secondo il ricercatore quello delle grotte di Tremusa «è l’unico passaggio per attraversare il territorio venendo da Nord. Superati i piani di Corona, giunti e oltrepassati i piani di Solano, sorpassato il Vallone di Bagnara e arrivati a Favazzina, sarebbe stato difficoltoso dirigersi a Sud scendendo verso il mare per poi risalire. Dato che è accertato che il percorso della via Popilia passasse dai piani, l’unica via percorribile doveva passare per il Vallone di Tremusa che collega la via del Nord con l’altopiano di Melia per poi scendere da Campo Calabro fino a giungere a Reggio».

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    L’antica via Popilia

    «All’altezza del vallone di Tremusa – prosegue Consoli – insiste una lingua di terra che consente un attraversamento dolce tra le due sponde della vallata. Dai primi rilievi effettuati sull’area, abbiamo rinvenuto diverse tracce di questa strada, attraverso alcuni elementi visibili: fontane, canalette e una serie di dettagli che fanno riconoscere che si tratta di un percorso tracciato in epoca romana. Ed in effetti fino all’Ottocento, ossia fin quando non si è iniziato ad adottare il cemento armato, quel percorso è rimasto tale. Anche la strada regia passava da lì».

    «Melia, per la sua posizione, era il trait d’union tra la Sicilia e il varco per il Nord. Un crocevia. Questo – conclude l’archeologo – ci fa affermare senza ombra di dubbio, anche sulle tracce del passaggio di Sant’Antonio da Padova che risalì verso Nord dopo il naufragio a Milazzo, che la Storia è passata da Melia. Questi dati non sono solo importanti a livello archeologico, ma possono rappresentare l’avvio di nuovi percorsi turistici e di trekking per rivalutare un’area di indubbia importanza storica».

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    Devoti di Sant’Antonio da padova in pellegrinaggio a Milazzo

    L’importanza delle grotte di Trèmusa

    Si tratta dei primi rilievi effettuati dopo duecento anni. Nell’ambito della ricognizione, il gruppo di Gambino è riuscito a sviluppare un modello in 3D misurabile delle grotte, combinando la fotografia terrestre a un GPS. Le grotte, che fanno parte del bacino idrografico della fiumara Favazzina – in particolare del suo affluente, il Trèmusa – si sono rivelate molto più ampie e profonde di quello che possono apparire. L’area è molto vasta, scende nel ventre della montagna per diverse centinaia di metri con fenomeni carsici visibili e ben percepibili. All’ingresso c’è una sorta di arco, o semicerchio. Sulla destra, un grande spazio aperto, che affaccia sul Vallone Trèmusa, da dove iniziano i cunicoli che si tuffano nella montagna. A sinistra, invece, c’è una sala altrettanto ampia dove è più evidente la carsicità del luogo.

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    Conchiglie fossilizzate nelle viscere delle grotte di Trèmusa

    Proprio all’ingresso è stato rilevato un accumulo di terra non indifferente su cui effettuare analisi stratigrafiche più approfondite che potrebbero portare a scoprire nuovi elementi. La presenza dell’acqua, che in passato doveva essere molto più abbondante, e la possibilità di trovarvi riparo ha rafforzato l’ipotesi che potesse trattarsi di un luogo di passaggio battuto e utilizzato in passato, grazie anche alla presenza di numerosi terrazzamenti intorno. Si dovrà stabilire con studi più approfonditi se abbia avuto altre destinazioni d’uso, quale eventuale luogo di culto.

    Melia e il Parco dell’Aspromonte

    L’attività svolta, senza essere stata concordata preventivamente, si inserisce in modo naturale nel rinnovato impulso che l’Ente Parco Aspromonte dedica alla speleologia con una serie di progetti già in cantiere. Gli esiti della ricognizione collocano Melia sotto una lente di rinnovato interesse, sia dal punto di vista speleologico, sia da quello squisitamente storico-culturale. Motivo per cui è nata l’idea di inserire il borgo nella rosa di luoghi dove portare gli alunni delle scuole che aderiscono ai progetti di formazione del Parco dell’Aspromonte.

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    Uno scorcio del Parco dell’Aspromonte

    Qualche giorno fa la Città Metropolitana ha annunciato lo stanziamento di 600 mila euro per il recupero della SP 15: un provvedimento atteso da tempo e rafforzato anche dall’emergere di una valenza culturale del borgo ancora inaccessibile da Scilla. Valenza costituita dalle scoperte emerse dalla ricognizione archeologica e dalla presenza di quelle gole che hanno contribuito, pur se fuori Parco, al riconoscimento dell’Aspromonte come geoparco Unesco. L’attività ha permesso non solo di scoprire importanti tracce del passato, ma ha richiamato studiosi, esperti, istituzioni, associazioni locali a lavorare per la comunità. La stessa Soprintendenza per i Beni Culturali ha aperto uno specifico dossier.

    L’unione fa la forza

    Le forze si sono unite e in tutta Melia sono partite forme di collaborazione e compartecipazione. L’intera comunità ha aperto le proprie porte, un tam-tam che ha supportato le attività di ricognizione, lasciando gli studiosi liberi di passare tra i poderi per puntellare la loro ricerca. Elemento, anche questo, non scontato. La stessa associazione Voce dei Giovani ha fatto da megafono, ribadendo l’importanza di un progetto che mira a rendere Melia nuovo punto di attrazione turistico-culturale.

    La campagna di ricognizione ha fatto dunque da vero e proprio collante di comunità. A cascata, e grazie al rinnovato interesse, è stato ripubblicato su iniziativa dell’associazione Famiglia Ventura lo storico testo del 1908 Cenni storici dal borgo di Melia. Sembrava perduto ma una copia è stata ritrovata presso la biblioteca di Palmi, consentendo così l’uscita di una nuova edizione. E rinvigorendo quello che spesso manca in Calabria: la cura e la tutela della memoria storica, elemento essenziale per il recupero dell’identità del borgo. In questo solco va inserito anche il recupero di una cartolina raffigurante un melioto fatto prigioniero in Egitto nel 1941 che è stata consegnata agli eredi dell’uomo.

    Partire dai territori, restare sui territori

    L’operazione di Melia pare seguire lo stesso ragionamento fatto a Bova con il progetto Se mi parli, vivo. Lì, tramite l’azione dell’Associazione Jalo to Vua e, grazie alle competenze di alcuni ricercatori originari del luogo, il greco di Calabria è diventato un attrattore che ha richiamato linguisti da tutta Europa.
    Nel caso di Melia, il lavoro dell’associazione Famiglia Ventura è stato importante: dal 2011 l’organizzazione promuove la cultura attraverso la lettura e l’arte su tutto il territorio metropolitano, perseguendo la valorizzazione e il coinvolgimento delle comunità locali.

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    Scritte in grecanico su un portone a Bova

    «Melia è una borgata con cui si è creata una relazione speciale. Concentrare l’attenzione degli archeologi in un’area periferica come quella delle Grotte di Trèmusa è un modo sia per promuovere la ricerca in località poco studiate, sia per accendere un riflettore sulle problematiche e sulle opportunità di territori spesso dimenticati dalle istituzioni o dai grandi circuiti economici e turistici. Territori che possono rappresentare ulteriori nodi di sviluppo per il comprensorio di Reggio», ha spiegato Francesco Ventura, ex presidente dell’associazione e promotore dell’iniziativa.

  • Orrico e Garritano sul palco dell’Unical con il “Pitagora” del prof Bruno

    Orrico e Garritano sul palco dell’Unical con il “Pitagora” del prof Bruno

    Giovedì 2 febbraio, alle 10:30 per le scuole e alle ore 20:30 per tutti, verrà messo in scena al Tau (teatro auditorium Unical) “La fuga di Pitagora lungo il percorso del sole” di Marcello Walter Bruno, interpretato dall’attore e drammaturgo Ernesto Orrico con musiche originali eseguite dal vivo da Massimo Garritano. Sempre il 2 febbraio, ma a partire dalle 17.00, verrà aperta al pubblico la mostra “Unical collage. 10 metri di ponte ricostruiti al Tau”.

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    Il Teatro auditorium Unical (foto Alfonso Bombini)

    Mentre mercoledì 1 febbraio alle ore 12 sarà inaugurata, nel foyer del Teatro, della mostra collettiva “Star arts”, una collezione di scatti ideata e realizzata in collaborazione con l’Associazione Fotografica “Ladri di Luce” di Cosenza.
    Si tratta di tre eventi promossi e organizzati dal dipartimento di Fisica dell’Università della Calabria, l’infrastruttura di ricerca Star (Southern Europe Thomson Back-Scattering Source for Applied Research) e il progetto NoMaH (Novel Materials for Hydrogen Storage).

    Durante la conferenza stampa di presentazione degli eventi sono intervenuti oggi: Riccardo Barberi, direttore del dipartimento di Fisica dell’Unical e responsabile scientifico di Star; Raffaele G. Agostino, vicedirettore del dipartimento di Fisica e responsabile sientifico del progetto NoMaH; Fabio Vincenzi, direttore del TAU; Caterina Martino, co-curatrice di “Unical Collage”; Daniela Fucilla, presidente dei “Ladri di Luce”; Ernesto Orrico e Massimo Garritano.

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    Marcello Walter Bruno, professore all’Unical e studioso di cinema e fotografia

    Marcello Walter Bruno (Carolei 1952 – Lucca 2022) è stato professore associato all’Università della Calabria. Si è occupato di cinema, fotografia, comunicazioni di massa e teatro. Dal 1979 al 1989 è stato programmista-regista della RAI. Negli anni Novanta è stato direttore creativo dell’agenzia “La cosa pubblicitaria”. Ha collaborato come drammaturgo con Giancarlo Cauteruccio/Krypton e Ernesto Orrico e ha recitato il monologo di Paolo Jedlowski Smemoraz. Ha pubblicato i libri Neotelevisione (Rubbettino, 1994), Promocrazia. Tecniche pubblicitarie della comunicazione politica da Lenin a Berlusconi (Costa & Nolan, 1996), Il cinema di Stanley Kubrick (Gremese, 2017). Suoi saggi e articoli sono apparsi sulle riviste Alfabeta, Cinemasessanta, Il piccolo Hans, Duel, Segnocinema e Fata Morgana.

    Ernesto Orrico ha lavorato con Teatro delle Albe, Scena Verticale, Teatro Rossosimona, Centro RAT, Teatro della Ginestra, Carro di Tespi, Spazio Teatro, Zahir, Compagnia Ragli. Ha scritto ‘A Calabria è morta (Round Robin, 2008), le raccolte di poesie Talknoise. Poesie imperfette e lacerti di canzone (Edizioni Underground?, 2018), Appunti per spettacoli che non si faranno (Coessenza, 2012) e The Cult of Fluxus per (Edizioni Erranti, 2014). Ha all’attivo diversi progetti di contaminazione tra musica e teatro tra cui The Cult of Fluxus e Speaking and Looping.

    Massimo Garritano è un musicista e compositore. Ha all’attivo numerose incisioni discografiche tra cui: Doppio Sogno (Dodicilune Rec. 2014), Present (Manitù Rec. 2016), Talknoise (Manitù Rec. 2018). È autore di musiche per film muti, balletti, reading e spettacoli teatrali. Dal 2006 è assistente collaboratore per i corsi preaccademici del Conservatorio di Cosenza. Docente di chitarra jazz al Conservatorio di Potenza (2016, 2017), Cosenza (2017, 2018, 2019) e di composizione jazz al Conservatorio “Tomadini” di Udine (2019). Dal 2021 insegna al Conservatorio di Milano.

  • Il tè con Platone: la filosofia fuori classe a Roccella

    Il tè con Platone: la filosofia fuori classe a Roccella

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    Prenderla con filosofia non significa affrontare le cose con troppa leggerezza. Almeno a Roccella jonica la pensano così. Qui un gruppo di ex studenti dell’Unical nel 2010 ha dato vita a una scuola estiva di alta formazione proprio in filosofia. Tutto così serio da portare nella cittadina marittima gente anche dall’estero. E questa volta non per il rinomato  festival del jazz.

    Roccella jonica: un tè con Marx e Platone a Scholé
    Remo Bodei è stato direttore della Scuola estiva a Roccella

    Il prof Nizza

    Angelo Nizza è uno dei cervelli che ha costruito questo presidio culturale. Oggi insegna storia e filosofia in un liceo di Oppido Mamertina. Il progetto nasce tra i cubi dell’Università della Calabria. Più precisamente nello studio di Mario Alcaro, allora docente nell’Ateneo di Arcavacata e direttore del dipartimento di Filosofia. Un manipolo di ragazzi brillanti butta giù un’idea che conquista anche il professore Giuseppe Cantarano. Complice il mare di Roccella e la capacità organizzativa di un gruppo affiatato, nel cuore della Locride arriva gente come Remo Bodei, nome noto della filosofia italiana. Allora insegnava alla prestigiosa Ucla di Los Angeles. Avrebbe diretto la scuola estiva per tanti anni. Un appuntamento fisso. Diventando cittadino onorario di Roccella. Un posto particolare. Dove approdano le carrette del mare coi migranti. E la gente è ospitale alla maniera greca.

    Il professore dell’Unical Mario Alcaro si intrattiene con i ragazzi durante una vecchia edizione della Scuola estiva a Roccella

    Scholé in trasferta 

    Alla morte del prof Mario Alcaro, la famiglia offre i soldi vinti con il premio Sila ai ragazzi di Roccella. Grazie a questa donazione nel 2011 nasce l’associazione culturale Scholè per dare continuità alla organizzazione della scuola estiva (oggi diretta da Bruno Centrone e Salvatore Scali) che raddoppia, diventando pure invernale. Le attività si moltiplicano. Compresi i seminari nelle superiori. Non solo in Calabria. Nel 2023 sono già in programma due trasferte a Mirandola in provincia di Modena e Civitanova Marche. «Fare filosofia con i ragazzi, – sostiene Angelo Nizza – approfondimento con relatori di altissimo livello leggendo direttamente i testi è un’operazione non solo culturale e didattica ma anche politica. Le scuole e l’università sono sotto attacco da 30 anni. Aziendalizzare è la parola d’ordine da abbattere».

    Lezione all’aperto durante una della passate edizioni della Scuola estiva di filosofia

    Un tè con Platone

    Socrate e Platone non bastano. Arrivano corsi di fisica, latino e greco. L’Ora del tè è un appuntamento dedicato a letture e conversazioni su argomenti di varia natura, filosofia compresa. Un giardino consente di portare all’esterno gli incontri in primavere e in estate. Qualche film da proiettare e una fisiologica attività ricreativa completano l’offerta. Anche per aggiungere un po’ di spensieratezza. Non fa mai male.

    Pochi soldi molta passione 

    Scholé si regge sull’autofinanziamento. «Se si organizzano attività – spiega il prof Nizza – il nostro progetto comunitario vive e prosegue, altrimenti è un problema. Tessera, contributo spontaneo, cene sociali consentono di fare le cose liberamente, senza dipendere da nessuno».
    Durante il primo lockdown il meccanismo va in tilt. «Abbiamo rischiato di chiudere senza attività in presenza. Non basta il web che abbiamo pur utilizzato». L’unico contributo fisso viene dal Comune di Roccella. Un capitolo di bilancio è dedicato a Scholé. Non è una cifra altissima. Ma è già una gran cosa.
    Il consiglio regionale per alcuni anni ha dato un contributo alla scuola estiva quando era presidente Nicola Irto. Oggi è tutto finito. E con i bandi della Regione pensati per grandi eventi è davvero difficile ottenere finanziamenti.

    Arianna Fermani insegna Storia della filosofia antica all’Università di Macerata, è condirettore della scuola estiva a Roccella

    Il legame con l’Università di Macerata

    Un protocollo di intesa lega Scholé all’Università di Macerata. Dove insegna Storia della filosofia antica Arianna Fermani, condirettore della scuola estiva a Roccella. L’Unical, solo ateneo in Calabria ad avere facoltà umanistiche, non ha un rapporto formale con Scholé. Ma una serie di suoi prof  tra cui Fortunato Cacciatore (altro condirettore della scuola estiva), Guido Liguori, Felice Cimatti, Luca Parisoli, Giuliana Commisso hanno dato, e in alcuni casi continuano a dare, il loro contributo. Tanti altri sono passati dalla suola estiva. Del comitato scientifico fa parte «Gianni Vattimo, uno dei padri del Pensiero debole, che ha soggiornato per un’intera settimana a Roccella jonica, vagando all’interno della cittadina e conversando con la gente. Ha percorso in macchina tutta la Locride». Racconta Nizza.

    Roccella jonica: un tè con Marx e Platone a Scholé
    Fortunato Cacciatore insegna Teoria della Storia all’Università della Calabria, è condirettore della scuola estiva a Roccella

    La filosofia diventa pop ma non è show 

    «Se per pop intendiamo popolare allora sì, siamo pop». Angelo Nizza ci tiene a precisare: «Un pubblico variegato partecipa alle nostre iniziative. Per esempio molti adulti frequentano il corso base di filosofia. Non serve essere già esperti di Hegel. Basta una sana curiosità e il gioco è fatto.
    Non è un pubblico di soli specialisti. Così la filosofia parla a più persone possibile in un senso democratico; anche a chi nella vita si occupa di altro. Tutto senza puzzetta sotto il naso e arroganza da intellettuali.
    Ci guadagnano tutti a Roccella. Non mancano le ricadute positive sul commercio. «La cultura innesca l’economia – sottolinea Nizza – e non il contrario. Fare alcune cose in un piccolo centro ha vantaggi relazionali. Penso ai fornitori, alla gente, la città, tutti i componenti di una comunità».

    Studenti prendono appunti durante una sessione della scuola di filosofia a Roccella Jonica

    Marx a Roccella jonica

    Scholé ha un taglio chiaro, netto. Si capisce dagli argomenti trattati: una scuola estiva dedicata alla rivoluzione, un’altra a Marx. «È apartitica ma fortemente politica» – confessa Nizza: «Non è un festival di filosofia. Non è spettacolo, non è intrattenimento. Non c’è consumo, ma c’è uso. Uso che implica la cura, l’aver cura». Non è un caso se i prossimi appuntamenti sono dedicati a un pensatore rivoluzionario come Spinoza con un week end filosofico in programma dal 26 al 29 gennaio.

    Roccella jonica: un tè con Marx e Platone a Scholé
    Gianni Vattimo, filosofo e teorico del Pensiero debole e Giuseppe Cantarano, prof dell’Unical, a Roccella Jonica

    Caro collega Pino Certomà

    Ci siamo quasi. La biblioteca di Scholé sta per partire. C’è una persona che ha contribuito più di tutti alla sua nascita. È Pino Certomà, originario di Roccella. Ha lavorato come assistente sociale nelle carceri. Abitava a Roma. Ha studiato la filosofia da autodidatta. Al punto da possedere una biblioteca piena di testi fondamentali della materia. Tornava ogni anno in occasione della scuola estiva. Partecipando attivamente agli incontri. Uno di casa a Scholé. Un «caro collega» come lo definì Gianni Vattimo. Oggi Pino non c’è più. La sua famiglia ha donato tantissimi suoi libri ai ragazzi di Roccella jonica. Altri sono stati regalati da Remo Bodei e Pietro Montani. Un bel gruzzolo che aumenta di giorno in giorno. Una specie di «resistenza culturale», dice Angelo Nizza. In una Calabria che ne ha sempre più bisogno.

  • La guerra santa del panino ghiegghio

    La guerra santa del panino ghiegghio

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    Ci informa la stampa odierna di esasperate invettive, alcune forse anche mal riportate dai social, di non pochi cittadini e di qualche papas che hanno finito per insaporare le insulse polemiche sollevate per un diffamante… panino “ghiegghio”! Direi che siamo alle solite litanie, arrivando a trattare in maniera ridicola le cose serie e in maniera troppo seria le cose più ridicole.

    Turismo: gli Arbëreshë come la sardella?

    Secondo il comunicato emesso da un «lobbista» (così si autoqualifica) cui è stato incautamente affidata questa sballata campagna pubblicitaria, il panino “ghiegghio” viene addirittura contrabbandato come simbolo arbëresh. Andrebbe così ad aggiungersi agli altri 99 strabilianti MID (marcatori identitari distintivi) , in buona compagnia con le altre 2 minoranze linguistiche storiche regionali. Ma anche in bella compagnia con Pitagora, il bergamotto reggino, la cipolla rossa di Tropea, il pomodoro di Belmonte, la sardella di Crucoli, la nduja di Spilinga, ecc.
    Ad escogitare la lista sembra essere stato con immaginifica fantasia l’assessorato al Turismo della Regione Calabria, che l’ha presentata alla BIT di Milano, nel marzo 2022, per alimentare i flussi turistici nella nostra regione.

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    L’ex assessore al Turismo, oggi senatore, Fausto Orsomarso presenta il suo progetto sui MID

    Gianluca Gallo e le minoranze

    Invece di assistere a queste regressive polemiche capaci solo di accelerare le battute delle tastiere, basterebbe forse più utilmente chiedere all’assessore regionale Gianluca Gallo, con delega alle Minoranze linguistiche, di provvedere, per rispetto per lo meno del ruolo istituzionale affidatogli nonché per un doveroso riguardo verso le minoranze di cui si deve occupare , di provvedere a cancellare subito le 3 comunità linguistiche minoritarie dall’elenco – questo sì, vergognoso! – dei 100 MID del turismo regionale.

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    Gianluca Gallo

    Gli arbëreshë, gli occitani e i grecanici non sono dei folkloristici intrattenitori ad alta attrattività e(t)nogastronomica al servizio del turismo calabrese, ma cittadini italiani come gli altri, che aspettano purtroppo invano dopo 75 anni dalla promulgazione della Costituzione e a 25 anni quasi dalla approvazione della legge 482/99, che vengano garantiti loro i diritti a loro spettanti , a partire da quelli linguistici, al pari degli altri cittadini italiani, trattandosi di diritti di uguaglianza – e non certo di privilegi! – che la Costituzione repubblicana garantisce loro.

    Il panino ghiegghio e quello lëtir

    Questi diritti, come ben documenta il volume, edito nella collana “Albanistica” della nostra Fondazione, di Nicola Bavasso, La minoranze “tagliate” della Calabria: gli Arbëreshë. Perché è fallita la legge 482. Possibili strategie di uscita dall’impasse per le minoranze linguistiche interne (Lungro, 2021), sono purtroppo rimasti sulla carta, nell’indifferenza generale. Anche quella di chi ora si occupa e si preoccupa parossisticamente solo di come bisogna chiamare (o non chiamare!) i panini e non certo perché a livello nazionale, regionale e locale – per non parlare della latitanza della scuola pubblica e del servizio pubblico radiotelevisivo – non si applicano in Calabria le leggi che pure ci sono.

    Nel frattempo, in risposta alla proposta del panino “ghiegghio” lanciamo provocatoriamente una parallela e altrettanto ironica campagna per promuovere come arbëreshë un panino lëtir (traducibile in “italiota”).
    Per la stessa azienda proponente avrebbe sicuramente un impatto oltre che gastronomico anche social molto più efficace, oltre che più incisivo e divertente, vista la più vasta e maggioritaria platea di fruitori, senza evocare né “scomuniche” né crociate (preferisco le ottime “crocette di fichi” calabresi)!

    Italiani e arbëreshë

    Ma senza dimenticarci di pensare al nostro futuro, partendo dai seri e solidi progetti in itinere, come la proposta MOTI I MADH ora all’attenzione dell’ufficio UNESCO del Ministero della Cultura. Si è avviato un piano di cooperazione transnazionale con l’adesione del Ministero della Cultura albanese. Vede l’intera minoranza arbëreshe d’Italia rappresentata, con l’adesione da ben 53 comunità del nostro Meridione attraverso il coordinamento della Fondazione universitaria Papas Francesco Solano, perché la straordinaria cultura immateriale espressa nei secoli dagli Arbëreshë d’Italia abbia finalmente il riconoscimento dovuto attraverso l’iscrizione delle pratiche rituali italo-albanesi della primavera nel registro delle buone pratiche dell’UNESCO.

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    Vallje, danze arberëshë, a Cerzeto (CS)

    È ora di uscire dall’inverno delle polemiche inutili e dannose e di pensare alla primavera della nostra rinascita. Lasciamo ai creativi imprenditori del fast food regionale di offrirci, se vogliono, i panini con o senza ghiegghi oppure lëtinj: ma poi è davvero importante sapere come un fast-food lëtir vuole chiamare i suoi panini?
    Restiamo comunque sempre e comunque orgogliosamente italiani e arbëreshë! E nella storia, se qualcuno ne dubita, lo abbiamo anche concretamente dimostrato sul campo e non con le tastiere dei PC, dei tablet o degli smartphone!

    Francesco Altimari
    Presidente Fondazione Universitaria “F.Solano” – Docente Unical