Tutto sommato è facile raggiungere Mammola. Puoi arrivarci da una statale che taglia l’Aspromonte, oppure da sotto, lasciando la 106 Jonica a Marina di Gioiosa. E ci vai essenzialmente per due motivi. Uno per tenere a bada lo stomaco mangiando stocco in una delle due capitali calabresi (l’altra è Cittanova) del predetto prelibato; oppure per nutrire l’anima fermandoti al MuSaBa di Hiske Maas e Nik Spatari, artista di fama internazionale, amico di gente come Pablo Picasso e morto nel 2020.
Un documentario diretto da Luigi Simone Veneziano ha raccolto il testamento poetico di questo personaggio fuori dal comune. Il lungo lockdown ha frenato la distribuzione dell’audiovisivo prodotto dall’associazione Le sei Sorelle. Da alcuni mesi è tornato ad emozionare il pubblico. In Calabria soprattutto nei cinema storici come il Santa Chiara a Rende.
Una veduta aerea del MuSaBa (foto sito www.musaba.org)
Nik Spatari: un doc per Il sogno di Jacob
Appena vedi uno come Veneziano, capisci subito che ha buone storie da raccontare. Con Il sogno di Jacob ha riannodato un pezzo di Calabria capace di produrre meraviglia. Regia attenta, fotografia accurata, recitazione appropriata e musiche al passo con la narrazione. E una sceneggiatura affidata alle sapienti mani di Alessia Principe, scrittrice e giornalista de LaC. Con un’incursione-cameo di Gioacchino Criaco, autore di libri come Anime nere e Le Maligredi. Criaco dialoga con Spatari, due sensibilità stregate dalla luce accecante dell’Aspromonte. Una luce in grado di riprodurre la gamma di colori utilizzata da Michelangelo, spiega Nik in una sequenza dell’intervista.
Lo scrittore Gioacchino Criaco intervista Nik Spatari e Hiske Maas al Musaba
Nei manuali si dice metacinema. In realtà la parola è entrata nel vocabolario dei giornali e degli appassionati da tempo memorabile. Veneziano porta sul grande schermo un regista impegnato a realizzare un lavoro per la tv su Spatari e sul Musaba. Sarà un motivo per riflettere su se stesso insieme alla troupe.
Quando il bambino era bambino
In principio era un bambino di una Reggio Calabria sotto le bombe sganciate dalle Fortezze volanti. Ai più attenti ricorderà in parte il ragazzino del cult movie The Wall, il film di Alan Parker ispirato al capolavoro musicale e concettuale dei Pink Floyd.
Uno di quegli ordigni ruba per sempre l’udito a Nik. Da allora sentirà il mondo solo attraverso le tonalità uniche delle sue opere.
Nel documentario una precisa scelta stilistica mescola il bianco e nero con il colore. Come fa Wenders ne Il Cielo sopra Berlino. Veneziano dice di essersi ispirato espressamente alla cifra narrativa del regista tedesco approdato, non molti anni fa, proprio in Calabria a pochi chilometri da Mammola. A Riace ha girato un film-documentario sul paese dell’accoglienza e la forza del messaggio di Mimmo Lucano.
Particolare de “Il sogno di Jacob” di Nik Spatari (foto sito www.musaba.org)
L’utopia di Nik Spatari
Nik non dimenticherà mai la bibbia a puntate sulla rivista religiosa letta dalla madre. Le illustrazioni di Gustave Doré e il messaggio universale di quelle storie. Il sogno di Jacob nasce da lontano per poi diventare un’opera d’arte lunga 14 metri. Fogli di legno e colori «alla Spatari» direbbe Hiske Maas per il racconto di Giobbe abbandonato da Dio e dagli uomini.
Lucano, Spatari e Tommaso Campanella. Tre utopie che si mescolano, si inseguono, percorrono strade poco battute. Non è un caso se un capitolo del documentario del regista cosentino si chiama: “La città del sole”. E Stilo non è lontana da Mammola.
Il regista Luigi Simone Veneziano e l’artista Hiske Maas al MuSaBa di Mammola durante le riprese de “Il sogno di Jacob”
Il furto di Jean Cocteau
Nik Spatari espone a Parigi negli anni Sessanta quando il grande Jean Cocteau gli ruba una tela. Il fatto non sfugge alla stampa della capitale francese. L’episodio è raccontato dal filmaker calabrese nel documentario. Con la sua compagna, l’artista Hiske Maas, alla fine di quel decennio Nik decide di tornare a Sud. Stregati dai ruderi del complesso monastico di Santa Barbara e da un paesaggio ammaliante, mettono radici alle pendici dell’Aspromonte.
Trasformeranno questo posto in un museo-laboratorio unico. Qualcuno, più di uno, cerca di mettere il bastone tra le ruote a questa coppia di visionari. Tanti ostacoli superati; compresa la superstrada che doveva passare a pochi metri dal MuSaBa. L’ostinazione di Iske contiene pure un messaggio per chi non crede in un futuro quaggiù: «Ci sarebbero mille cose da fare in questa Calabria».
Anche le cartoline hanno un recto e un verso. Il recto del Golfo di Policastro è quel panorama mozzafiato a cavallo di tre regioni, da Scalea a Camerota o giù di lì (volendo includere Palinuro o fermarsi agli Infreschi). E di questo, come al solito, parlerò molto poco. Il verso include, in ordine sparso:
la Marlane,
l’isola di Dino,
il Cristo di Maratea,
il disastro edilizio intensivo di Scalea,
il disastro edilizio “distensivo” di San Nicola Arcella.
Il conte, il monte e il Cristo
La strada che conduce al Cristo di Maratea, che sovrasta il Golfo di Policastro
Avviciniamoci un po’ alla volta: il Cristo di Maratea sembra fare spallucce e dirti a braccia aperte «dotto’, io quello che potevo fare l’ho fatto»… ma è un bluff: la pacchianata, a imitazione di Rio de Janeiro, non sorge sul Pan di Zucchero ma sul monte S. Biagio, spodestando perciò anche il vecchio titolare aureolato.
L’ottovolante per arrivare lassù è opera di un progettista che meriterebbe l’anatema per diverse ragioni (è brutto, sta cadendo a pezzi, ha deturpato il panorama, fa venire le vertigini non solo ai più inclini ad averle). Eppure i ruderi di Maratea antica stanno praticamente lì. e nessuno si chiede mai in che modo un tempo ci si arrivasse. Ah, se si fosse un minimo curiosi…
Il viso del Cristo, pacchianata delle pacchianate, pare non fosse altro che il ritratto del committente da giovane, ovvero il conte Stefano Rivetti di Val di Cervo, quell’imprenditore piemontese che dagli anni Cinquanta si fece finanziare diverse opere quaggiù grazie alla Cassa per il Mezzogiorno e ai buoni uffici del ministro Emilio Colombo, buoni uffici che gli portarono in tasca più di 4 miliardi di lire di quegli anni.
Vasche per il trattamento dei tessuti all’interno della Marlane
Lavoratrici all’opera sui telai della Marlane
Operai al lavoro nello stabilimento Marlane
Una protesta dei parenti degli ex operai della Marlane morti di tumore
Quel che resta di uno dei due stabilimenti Marlane
E qui comincia l’avventura nel paesaggio post-atomico distopico (e anche un po’ dispotico) di certi angoli di Calabria costiera nordoccidentale. Il grande scempio di Policastro prosegue sull’Isola di Dino. Da qualche parte si legge la fantasiosissima fandonia in base alla quale si chiamerebbe così in memoria del figlio di Enzo Ferrari, deceduto nel 1956. Bene, l’Isola si chiama come si chiama già dall’antichità, e per fortuna esiste la cartografia storica che lo conferma.
Apparentemente amena e lussureggiante, in realtà è ben altro: acquistata da altro imprenditore piemontese un po’ più noto del precedente (tale avv. Gianni Agnelli) per farne un polo turistico, anche qui il savoiardo se ne lavò le mani. Costruiti alcuni tucul, un mezzo bar-ristorante e qualche villetta, tutto cadde in abbandono nel giro di pochi anni. Dopo ulteriori passaggi di proprietà, solo pochissimo tempo fa il Comune di Praia a Mare ha riottenuto, riperso e riottenuto ancora la proprietà dell’isola.
Anni ’70, clienti al ristorante (oggi semidistrutto) dell’hotel Totem sull’Isola di Dino
E poi ci si lagnava, nei decenni passati di quanto fosse inopportuno il villaggio del Bridge, sul monte sopra San Nicola Arcella… che a ben vedere sarà troppo esteso, troppo colorato, ma è pur sempre più caratteristico e accettabile rispetto alle vergogne edilizie che hanno riempito la zona più costiera, tra calette in cui fare il bagno in mezzo ai liquami, non-luoghi dei più “classici”, e piccoli ecomostri: orrende villette a schiera dei parvenu che per voler imitare ingenuamente le villone dei papaveri democristiani o dei più altolocati professionisti napoletani, si schiacciano l’una all’altra sgomitando tra l’immondizia quasi fino alla Torre Crawford e al magnifico Palazzo del principe Spinelli di Scalea, poi Lanza di Trabia, ora restaurato, passato nelle proprietà del Comune di San Nicola Arcella e nuovamente abbandonato nella sua interezza.
Il villaggio del Bridge, sulle colline di San Nicola Arcella
Oceano mare (Tirreno)
Il brutto e il bello, come al solito. Il buon gusto e quello cattivo, pessimo, inguaribile.
E qui nel Golfo di Policastro ricomincia quel ciclico degrado antropologico, in quelle che d’inverno diventano terre di nessuno dove – puntualmente – torna ad essere assente pure il minimo segnale stradale, anche solo quello che malauguratamente riporti sulla Strada Statale. Gli unici segnali sono quelli dei lidi, dei ristoranti, dei discopub, tutti rigorosamente muniti di nomi esotici. Ma che bisogno c’è di essere esotici nel mezzo del Mediterraneo, nel cuore del Tirreno? Cosa abbiamo da invidiare?
E allora ecco i vari Copacabana, Martinica, Tequila, e via dicendo. Come se alle Maldive avessero bisogno di intitolare un bar ad Anacapri, a Portofino, al Gargano, alla Scala dei Turchi o alla Chianalea.
Ecomostri piccoli e grandi, barche e ombrelloni a due passi dalla Torre Crawford
Esoterismo e presepi viventi
Il cattivo gusto, dicevo, inguaribile come il destino tristissimo dell’altra torre lì vicino, la torre Talao, passata dall’essere un leggendario luogo di ritrovo di esoteristi di calibro non indifferente – tra cui Aleister Crowley, Arturo Reghini, Giulio Parise e Giovanni Amendola in veste di teosofo – all’ospitare, quando va bene, i presepi viventi organizzati dal Comune di Scalea. Dalle stelle alle stalle, mai come in questo caso. Dal neopaganesimo sotto le volte stellate… alle mangiatoie. E pensare che proprio durante un soggiorno presso la Torre Talao, nel ’22, Reghini scrisse Le parole sacre e di passo. Studio critico ed iniziatico. E pazienza, anche qui.
Torre Talao, primi del Novecento
Erre come Livorno
Tutto in linea con gli abusi edilizi e lo sfruttamento del territorio nel Golfo di Policastro in termini di edificabilità. Fate un confronto tra due mappe di Scalea pre e post anni ’60 del Novecento e resterete piuttosto sorpresi per la quasi assoluta irriconoscibilità della forma urbana. Eppure non doveva essere male neppure Scalea, un tempo, molti molti decenni prima di essere definita – non a torto – Napoli Lido. Quando magari vi passeggiava tranquillamente il suo cittadino più illustre, quel Gregorio Caroprese che tutti si ostinano ancora a chiamare Caloprese, secondo il vezzo umanistico che portò Parisio a trasformarsi in Parrasio, Gualtieri in Gauderino, Terapo in Lacinio, Rosselli in Russilliano e finanche un mio omonimo nel canonico Frugali.
Niente da fare: Caroprese era e Caroprese resta, così come del resto tale cognome sopravvive nel circondario di Scalea e da lì in tutta Italia, a differenza dell’inesistente Caloprese. E state tranquilli, lo dice persino la lapide settecentesca in sua memoria: “heic sunt Gregorii Caropresii italorum philosophorum maximi viri omnigena eruditione praestantis virtutibus pietate morbus praeclarissimi Iani Vincentii Gravinae i. c. Petrique Metastasio magistri sita ossa. Viator tametsi properas siste. Da sacro cineri flore set ne sit tibi dicere grave molliter Caropresii ossa cubent”…
Le associazioni contano, le associazioni pesano, occorre ascoltare le associazioni.
Non è retorica. Nei momenti di crisi, i gruppi organizzati di cittadini devono svolgere una preziosa supplenza alle istituzioni, oberate di problemi e non sempre pronte a rispondere.
Ciò vale soprattutto per Cosenza, che vive tuttora forti difficoltà.
Proprio in quest’ottica, laFondazione “Attilio e Elena Giuliani”ha organizzato un incontro-dibattito tra i rappresentanti dell’associazionismo cittadino, svoltosi a Villa Rendano lo scorso tre febbraio.
La Fondazione chiama, le associazioni rispondono
La Fondazione chiama, le associazioni aderiscono (più di trenta) e partecipano (circa venticinque).
Un successo? Sì, date le attuali difficoltà. Ma la risposta positiva dell’associazionismo rivela anche la voglia di ragionare su possibili ipotesi di lavoro in vista della cittadinanza attiva. Questa voglia è emersa anche durante il dibattito coordinato dalla terna della Fondazione Giuliani: il presidente Walter Pellegrini, il giornalista Francesco Kostner, addetto stampa della fondazione, e il giornalista Antonlivio Perfetti, direttore di Cam-Teletre e organizzatore di eventi di Villa Rendano.
Villa Rendano
Le associazioni cosentine
Alcune sono storiche e di peso istituzionale: ad esempio, la Società Dante Alighieri, rappresentata dalla professoressa Maria Cristina Parise Martirano, altre più recenti, come la Fondazione Lanzino.
Alcune con missioni specifiche, come l’Orchestra sinfonica “Brutia”, altre concentrate sul sociale, come Lav-Romanò.
Ancora: c’è chi ambisce a rievocare pezzi di storia patria, come l’associazione Maria Cristina di Savoia e chi, invece, si sofferma sulle tradizioni del territorio, come “I tridici canali”, specializzata nel vernacolo cosentino. E ancora: come non ricordare il “Teatro dell’Acquario”, che si propone di far sopravvivere un’esperienza artistica importantissima per la città? E, visto che siamo in tema, che dire dell’associazione “Alfonso Rendano”?
Allarme centro storico
Nel caso dell’iniziativa di Villa Rendano, c’è uno scopo comune: far leva sulle proposte della Fondazione Giuliani per risvegliare la città, magari integrandosi col ricco calendario di iniziative cantierato dalla Fondazione per l’anno in corso.
Già: come è emerso dal dibattito, l’azione dei cittadini è fondamentale in una fase in cui è difficilissimo ricorrere al gettone pubblico per valorizzare il territorio.
Che a tratti rischia la desertificazione, come il centro storico di Cosenza.
Un momento del dibattito tra associazioni a Villa Rendano
Lotta per la salvezza
Già: tutti i presidi della parte antica di Cosenza, come le due Biblioteche (la Civica e la Nazionale) e l’Archivio di Stato, sono smobilitati o in smantellamento.
Vuoi per la crisi finanziaria, vuoi per le varie spending review, che hanno imposto tagli e blocchi al turnover, vuoi per i cambiamenti istituzionali. Se si pensa alle attività private, la situazione rischia di rivelarsi ancora peggiore.
Ripartire da Villa Rendano
In quest’ottica, il rimedio prospettato dalla Fondazione Giuliani, e già in parte programmato, rivela più di un motivo d’interesse. Infatti, trasformare Villa Rendano in un catalizzatore di energie civiche attraverso la cultura significa mantenere viva l’attenzione su un’area della città in pieno riflusso, dove i guizzi degli anni ’90 suscitano solo nostalgie, più o meno struggenti.
Ma significa anche riaccendere le discussioni al di fuori del mantello della politica. Intendiamoci: le istituzioni pubbliche non sono escluse, ma partecipano come interlocutori preziosi e non con ruoli “padronali”. Le risposte proverranno dalla rete di associazioni che la Fondazione Giuliani mira ad annodare.
Un programma ambizioso? Senz’altro. Ma sono ambizioni che partono dal basso e si sviluppano in piena orizzontalità. Anche questa è democrazia,
Durante il fascismo la Calabria è nel destino di chi subisce il confino di polizia. Si stima che tra il 1926 e il 1943 i confinati in Italia siano 18.000 e di questi il 15% si ritrovi lì.
La propaganda antifascista in quegli anni è tra i peggiori crimini da prevenire: bisogna domare ogni istinto ribelle. Non importa aver commesso un reato per finire al confino, basta un semplice sospetto di pericolosità. È una misura di prevenzione che si applica con un mero allontanamento, ma di fatto priva della propria autodeterminazione chi se la vede infliggere. Il regime preferisce luoghi dell’entroterra, isolati durante i mesi invernali, difficilmente raggiungibili, scarsamente politicizzati. Ed è così che a Longobucco, paesino di poche anime sulla Sila cosentina, si scrive un’inaspettata favola da Mille e una notte.
Ma senza lieto fine.
Abis… Sila
L’Italia è appena uscita vittoriosa dalla campagna d’Africa, ma nella nuova colonia non mancano i malumori verso l’invasore. Un esempio? L’attentato a Rodolfo Graziani, figura di spicco del fascismo italiano, accusato di crimini di guerra e viceré d’Etiopia. Graziani rimane ferito nell’agguato, la dura repressione alla resistenza anticoloniale non si fa attendere e provoca migliaia di vittime.
I fascisti decidono di allontanare figure della classe dirigente etiope per scongiurare il rischio che animino nuove insurrezioni contro il regime.
E così una parte degli etiopi finisce al confino in Sila, a Longobucco. Sebbene l’isolamento del paese si presti ad aspre detenzioni, la permanenza si rivela migliore del previsto.
Nell’elenco degli etiopi al confino a Longobucco figuravano anche ex ministri e ambasciatori
Monsignor Montini scrive al nunzio apostolico
I deportati etiopi al confino a Longobucco sono infatti personalità vicinissime a Hailé Selassié, l’imperatore che dopo l’occupazione fascista aveva scelto l’esilio volontario. Hanno un livello socioculturale elevato e intrattengono contatti epistolari con Mussolini e alti prelati nel tentativo di cambiare la propria sorte.
È in effetti la Santa Sede a muoversi per garantire loro un soggiorno meno duro. A testimoniarlo, una lettera di monsignor Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, al nunzio apostolico monsignor Francesco Borgongini Duca. Montini evidenzia le difficoltà economiche del figlio dell’ex ministro di Etiopia e chiede una soluzione al problema.
Al confino a Longobucco: «Purché non siano serviti da bianchi»
Data l’attenzione che i confinati etiopi riscuotono, le autorità fasciste assumono nei loro confronti un atteggiamento moderato. I nuovi arrivati non tardano ad accorgersene e si uniscono ai longobucchesi per ottenere maggiori compensi dalle casse del regime.
Gli italiani chiedono i pagamenti per i servizi offerti ai confinati e gli etiopi avanzano richieste per abiti, cibo e integrazioni degli assegni. Anche in virtù di questo scambio reciproco, le autorità trasgrediscono all’obbligo di non far incontrare i confinati con la popolazione locale.
Telegramma del prefetto Palma col permesso di uscita per i confinati. A sinistra, scritto a penna e sottolineato, si legge: «Il Duce consente purché non siano serviti da bianchi. Prego assicurarsi».
Gli etiopi arrivano lassù con l’etichetta di irriducibili e pericolosi, ma l’interesse e la propensione a creare un clima cordiale per il quieto vivere rendono possibile l’incontro tra le due culture. Un certo peso pare averlo anche il fatto che, sebbene privati della libertà di lasciare Longobucco, siano prigionieri molto particolari rispetto ad altri al confino: vestono in doppio petto, nella villa che gli ha assegnato la Prefettura ci sono molti libri e si organizzano concerti. E poi, si racconta, ricevono un assegno di mille lire al mese, la somma che gran parte degli italiani dell’epoca sogna ascoltando l’omonima canzone alla radio.
Se, da principio, c’è chi li guarda circospetto, presto gli etiopi al confino diventano parte della comunità di Longobucco. Notabili africani e contadini silani vanno d’amore e d’accordo, al palazzo e rinivuri (dei neri, ndr) le donne del paese portano minestre e verdure, le sarte cuciono per loro degli abiti in occasione delle festività. Colori, lingue, profumi per sette anni si incrociano nei vicoli.
È nato nu criaturo, è nato niro
Di quella convivenza la traccia più nitida resta Michele Antonio Scigliano, figlio della relazione illegittima tra Giuseppina Blaconà, una contadina di Longobucco, e il ras Ubie Mangascià al confino in Sila. Lui ha bisogno di una brava cuoca; lei ha il marito Vincenzo Scigliano al fronte, proprio in Etiopia, e bisogno di un lavoro. S’incontrano, si piacciono. E il 19 febbraio del 1939 a Longobucco nasce un bambino. Con la pelle scura come suo padre, povero come sua madre.
1953, l’ambasciatore etiope (di spalle) a Roma torna in visita a Longobucco, dove era stato confinato
Per il paese e il regime è uno scandalo. Il ras Mangascià viene trasferito da Longobucco a Bocchigliero e lì rimane fino al 1943, quando gli alleati riportano gli etiopi al confino nella loro terra. Tornato in Africa, Mangascià diventa ministro delle Poste e consigliere della Corona, sposa una principessa del luogo molto vicina all’Imperatore.
Non dimentica però – e come lui altri confinati, che torneranno in Sila negli anni successivi – gli affetti lasciati sulle montagne calabresi, almeno non del tutto. Invia un po’ di denaro per contribuire alla crescita del figlio, chiede a Giuseppina di trasferirsi col bambino ad Addis Abeba, ma lei rifiuta.
‘U nivureddu, da boscaiolo a miliardario
Michele Antonio, nel frattempo, cresce con la sola madre. Per tutti è u nivureddu. Conduce una vita di stenti, cerca di racimolare qualche quattrino con i lavori più umili, tra qualche gesto di inclusione e le chiacchiere di paese che lo dipingono come figlio del peccato.
Appena maggiorenne si sposa con Filomena, povera come lui. Poi la sua vita cambia all’improvviso.
Nel municipio di Longobucco arriva una lettera, è dell’ambasciata d’Etiopia. Informa i cittadini che si andava cercando il figlio del ras. Qui le versioni della storia arrivate fino ad oggi divergono: secondo alcuni nella missiva si parla della morte del principe e della concessione dell’eredità al figlio Michele Antonio Scigliano; secondo altri di riferimenti a eventuali lasciti non ci sarebbe ombra. Fatto sta che u nivureddu per tutti è diventato miliardario.
Deportate etiopi insieme a donne di Longobucco
La notizia della chiamata di Michele Antonio in Etiopia elettrizza i longobucchesi che risfoderano la loro arma migliore: la solidarietà. Preparano (a loro spese) feste e banchetti, gli comprano vestiti nuovi. Nasce addirittura un comitato – ne fanno parte, tra gli altri, il sindaco Giacinto Muraca e il vicesindaco Antonio Celestino – per chiedere un mutuo in banca allo scopo di gestire le spese di viaggio.
Il neo miliardario – secondo chi sostiene che il comunicato parli dell’eredità – va in giro promettendo, oltre alla restituzione dei soldi spesi in suo onore e per la sua partenza, anche gloria e splendore per Longobucco, il paese che aveva accolto il padre e cresciuto lui.
1961, i genitori di Antonio sulle pagine di Ebony
Una rivista americana per nei del ’62 riporta la notizia di quanto accaduto in Sila
U nivureddu quando faceva il taglialegna
Michele Antonio nei giorni in cui doveva ancora guadagnarsi da vivere
U nivureddu sfoggia il suo nuovo look tra le strade di Longobucco
La nuova casa di Michele Antonio Scigliano in Etiopia
Giacinto Muraca in Etiopia con Michele Antonio
Michele Antonio e il suo fratellastro etiope Kembede Mangasha Wubie
Foto ricordo con la sorellastra etiope Tigest Bezabbe
Etiopia, Michele Antonio incontro i giornalisti dopo il suo arrivo ad Addis Abeba
U nivureddu, vestito di tutto punto, discute con un’anziana a Logobucco
Michele Antonio e sua madre Giuseppina a Longobucco dopo la notizia
Il principe non cerca moglie
Giunto in Etiopia, però, l’unico pensiero è la sua nuova vita da principe. Di lui – tantomeno del denaro da restituire – in paese non si saprà più nulla. Qualcuno ancora oggi dice che lo abbiano ammazzato dei sicari assoldati da ulteriori eredi che non volevano dividere con lui il malloppo. Altri che la sorella di Ubie Mangascià abbia fatto cancellare dal testamento quel nipote mezzosangue.
Michele Antonio con sua moglie Filomena e loro figlia Giuseppina
Filomena, intanto, per la vergogna è tornata da sua madre a Rossano portando con sé i due figli. Al Corriere della Sera, che va a intervistarla nel 1963, racconta di essere andata a trovarlo in Africa pochi mesi prima. Michele Antonio – riferisce al cronista – pare avere problemi col testamento che gli ha cambiato la vita, ma va in giro su macchinoni in dolce e numerosa compagnia. Promette anche a Filomena denaro che non invierà mai. Si mostra freddo, ma non troppo. «I fimmini tutti l’ommini ce l’hanno… però Antonio non si è scordato di me e l’ha dimostrato!», spiega al giornalista la donna accarezzando nel pancione il loro terzo bambino che dovrà presto sfamare in qualche modo. Il marito le ha chiesto di chiamarlo Mangascià.
Longobucco e il confino
Gli etiopi non sono i primi dissidenti a essere finiti al confino a Longobucco, né gli ultimi. Passano da lì in quegli anni i personaggi più disparati, da Lea Giaccaglia ad Amerigo Dumini. E il paese fa da cornice anche alla tragica morte di tre confinati, due uomini e una donna. Le autorità archiviano il caso in tutta fretta, derubricandolo a omicidio-suicidio frutto della gelosia. Si tratterebbe, al contrario, di un delitto politico legato al mondo del nazionalismo croato di estrema destra, all’epoca alleato dei nazifascisti.
Il “Palazzo e ri nivuri” oggi
In Sila, però, il passaggio di queste genti ha lasciato ben poco di tangibile, solo racconti. Rimangono in filigrana nella storia di un paese, che per poco tempo, vide l’Africa a spasso nei suoi vicoli.
I longobucchesi di quegli anni non ebbero la sensibilità intellettuale di comprendere la portata del fenomeno, non conservarono abiti, ricetti, oggetti o lettere. Ma, in tempi non sospetti, custodirono, per tramandarcelo, il bene più prezioso: l’umanità.
Uno show di luci ha concluso il 2022 a Corigliano-Rossano (o, per gli amanti dei campanili a Corigliano e Rossano).
Tuttavia, «ho voluto celebrare anche questa unione tra due comunità, che hanno accantonato i loro campanilismi», spiega l’autore delle installazioni spettacolari che hanno abbellito la città jonica.
È Franz Cerami, classe ’63, napoletano doc, artista specializzato nel mescolare tecniche classiche e hi tech e docente di Digital Storytelling presso l’Università “Suor Orsola Benincasa”. Spettacolo multimediale e nuove tecnologie per celebrare monumenti antichi e persone comuni. Oppure per dare una bellezza inedita agli orrori urbanistici, come la centrale elettrica.
Tanti modi per dire una cosa sola: l’arte è anche racconto…
Lighting Flowers: la centrale idroelettrica trasfigurata dai laser
Partiamo dall’installazione più legata al territorio che hai celebrato: Denzolu.
Mi ha colpito molto, al riguardo, un’antica leggenda, che esprime le rivalità tra i campanili. Si racconta che i rossanesi mettevano le lenzuola davanti al sole per oscurare Corigliano. E poi mi ha colpito il suono di questo termine dialettale: “denzolu” vuol dire senz’altro lenzuolo, però evoca anche suggestioni arcane, se si vuole un po’ esotiche.
Cosa hai voluto rappresentare con l’uso del lenzuolo?
Ho voluto trasformare un elemento divisivo, che ricorda troppo le rivalità tra comunità, che a volte hanno avuto esiti tragici, in un simbolo d’unione.
Quel che colpisce è la tecnica utilizzata. Vogliamo approfondire un po’?
Ho fatto una serie di riprese con due videocamere a varie persone, cittadini comuni, artigiani, pescatori, professionisti e autorità. E ne ho fatto un doppio uso. Il primo è multimediale: ho mescolato queste riprese “ritratto” a riprese dell’ambiente e le ho proiettate sulla Torre del Cupo a Schiavonea.
Denzolu: ritratti di cittadini sulla Torre del Cupo
Ma c’è anche uno sviluppo più tradizionale, che poi dà il nome all’opera. O no?
Esatto: ho estratto dei frame da queste riprese e ne ho ricavato varie serigrafie sviluppate su delle tele che ho appeso sulle facciate dei due palazzi municipali di Corigliano e Rossano. Ed ecco: le lenzuola non offuscano più il sole, ma vivono attraverso la luce e raccontano la fusione coraggiosa.
Quest’installazione fa parte di una serie di opere che ho sviluppato in diverse zone del mondo: San Paolo del Brasile, Napoli, San Pietroburgo e via discorrendo. A Corigliano-Rossano ho deciso di valorizzare a modo mio la centrale elettrica.
Un compito non facile…
In questo caso, ho deciso di trasformare il classico ecomostro in un’opera d’arte attraverso la proiezione di motivi colorati con potenti fasci di luce. Ho giocato un po’ sul doppio senso della parola “mostro”: in latino “monstrum” vuol dire sia “brutto” (e la centrale indiscutibilmente lo è) sia “appariscente”. Io ho tentato di estrarre l’aspetto meraviglioso da una cosa brutta.
Un primo piano di Franz Cerami
A giudicare dal risultato, ci sei riuscito.
Anche De Andrè diceva: «Dal letame può nascere un fiore. O no?».
Infine c’è Lumina, che si ispira a una poetica diversa: portare un elemento futuribile su una struttura antica…
In questo caso, ho proiettato dei fasci di luce sulla facciata dell’Abbazia del Patire. Il risultato è stato molto forte, a livello visivo.
Notevole anche l’uso delle colonne sonore.
Merito, in questo caso, di Claudio Del Proposto, che le ha composte per l’occasione. E sono debitore anche al mio assistente Flavio Urbinati, il cui aiuto è stato fondamentale per la riuscita.
Com’è nata quest’iniziativa?
Sono stato contattato direttamente dall’Amministrazione comunale, per sviluppare un progetto celebrativo di questo municipio unico che fonde due comunità calabresi affini anche quando erano divise. I contatti sono iniziati nella tarda primavera del 2022. Ho iniziato i lavori a luglio e li ho terminati poco prima dell’autunno.
Il Patire vola nel futuro
Come ti sei trovato?
Direi benissimo. I cittadini sono stati collaborativi e ospitali. Ottima l’accoglienza, bellissimo il paesaggio e molto suggestive parecchie zone. In particolare, mi ha colpito Schiavonea. Ma in una realtà così ricca come quella in cui ho lavorato c’è l’imbarazzo della scelta.
Ma cosa può trovare di tanto importante un napoletano in Calabria?
Tante cose. Ma soprattutto quell’apertura e quella socialità tipica delle zone di mare. Forse la magia di queste zone è tutta in quest’orizzonte sconfinato e bello. A Napoli come sulle vostre coste. Un punto di partenza per sognare un futuro migliore.
La Storia, il classico controverso di Elsa Morante, parte da Paola.
Infatti, Nora Almagià, la madre di Ida Ramundo, la protagonista, si lascia annegare in un tratto di Tirreno compreso tra Paola e Fuscaldo. La Storia divenne all’epoca (1974) un avvenimento letterario e suscitò enorme scalpore: divise la critica, tra chi gridava al capolavoro e chi invece riteneva si trattasse soltanto di un lungo feulleiton.
Comunque sia, il libro resta un long seller: non a caso, ne vengono riproposte tuttora nuove edizioni.
La scrittrice Elsa Morante
Una storia calabrese di Elsa Morante
La protagonista è Ida Ramundo, attraverso le cui vicende la Morante racconta un dramma collettivo tra Seconda Guerra mondiale fino alla liberazione e oltre.
Attorno a Ida, una donna spaurita e perseguitata dal destino, e ai suoi due figli, Ninuzzu e il piccolo Useppe, si muove un microcosmo di piccoli personaggi, nel contesto di una storia più grande, piena di violenza devastatrice, di orrori e miserie. Le vicissitudini di Ida iniziano dalla Calabria. Così scrive Elsa Morante sulla famiglia della protagonista: «Il padre Giuseppe Ramundo era di famiglia contadina dell’estremo sud calabrese. E la madre di nome Nora, una padovana di famiglia piccolo-borghese bottegaia, era approdata a Cosenza, ragazza di trent’anni e sola in seguito ad un concorso magistrale». Nora è di origine ebraica, ma non vuole rivelarlo per paura delle conseguenze delle leggi razziali. Insieme al marito, anche lui maestro elementare, si stabilisce a Cosenza per motivi di lavoro.
Una edizione recente de “La Storia”
Elsa Morante racconta un anarchico cosentino
Proprio in questa città nel 1903 nasce Ida. Suo padre ha letto Fauré, Tolstoj Proudhon, Bakunin e Malatesta e questo fa star male Nora, che oltre a dover custodire il suo “segreto” si ritrova per casa un marito anarchico.
«Aveva preso a frequentare un piccolo ambiente appartato – scrive di Giuseppe, la Morante – dove finalmente poteva dare sfogo ai suoi pensieri. Non ho potuto controllare l’ubicazione precisa di quella osteria. Però qualcuno in passato, m’accennava che per arrivarci bisognava prendere una tranvia suburbana, se non forse la cremagliera, su per il fianco della montagna».
Sicuramente la scrittrice non conosceva per davvero quei luoghi, però da come li descrive, si comprende benissimo che deve essere rimasta affascinata dai racconti che dei suoi amici calabresi a Roma. Forse degli artisti, oppure politici.
La follia di Nora
Sta di fatto che la scrittrice sembra scusarsi per non essere più precisa nei dettagli.
E comunque rende omaggio a Cosenza, e proseguendo nel libro, anche a Paola.
Dopo la morte del marito, Nora è sopraffatta dalle sue paure ed esce di senno. Decide di recarsi in Palestina, dove secondo le sue congetture si ritroverebbero tutti gli ebrei del mondo per sfuggire agli orrori delle persecuzioni razziali. Prende il treno dalla stazione di Cosenza per Paola e, una volta lì, imbarcarsi su una nave per la Terra promessa.
Il treno che da Paola portava a Cosenza
La tragica fine di Nora
«Qualcuno ricorda di averla vista, nel suo vestituccio estivo di seta artificiale nera a disegni cilestrini, sull’ultima cremagliera serale diretta al lido di Paola. Forse, sarà andata girovagando per un pezzo lungo quella spiaggia senza porti. Difatti il punto preciso dove l’hanno ritrovata, è a vari chilometri di distanza dal lido di Paola, in direzione Fuscaldo. Era una bellissima notte illune, quieta e stellata». Così finisce la storia di Nora Almagià. Così da Paola inizia “La Storia”.
È stato uno dei terremoti più disastrosi della storia d’Italia, nonché quello che più ha segnato la narrazione recente e l’identità stessa della Calabria, ultimo sud della Penisola. È praticamente impossibile, infatti, partecipare a una conferenza, un intervento pubblico sulla storia della Calabria – dal punto di vista culturale, religioso, artistico o architettonico che sia – e non giungere a un certo punto al terribile sisma che duecentoquaranta anni fa sconquassò e cambiò per sempre le sorti e il volto della regione. Parliamo del Terremoto della Calabria meridionale del 1783.
Le macerie dopo il terremoto del 1908
Conosciuto pure come Terremoto di Reggio e Messina del 1783 – nome sempre meno utilizzato dopo il più noto e vicino sisma del 1908 che cancellò le due città affacciate sullo Stretto –, l’evento sismico fu tra i più prolungati della storia del Paese.
“Un giudizio universale l’aspettava, ma brutale e cieco, poiché era per ravvolgere nel medesimo abisso indistintamente e chi era bianco d’innocenza e chi era nero di delitto.
[“Storia d’Italia” di Carlo Botta, volume ottavo, da “Biblioteca scelta di Opere italiane antiche e moderne”, volume 464, Silvestri 1844]
Anticipata secondo gli scritti dell’epoca da un autunno e inizio d’anno piovosissimi – presagio di sventura, e che già aveva provocato alluvioni e smottamenti in molti centri –, la prima catastrofica scossa si verificò poco dopo mezzogiorno del 5 febbraio 1783. Ma nell’arco dei successivi cinquanta giorni se ne registrano altre cinque violentissime, momenti campali di un orrendo tremolio che fino al tramonto di marzo accompagnò l’esistenza dei calabresi.
Quelli di febbrajo esercitarono principalmente il loro furore sopra le città più vicine al Faro, l’ultimo su quelle che verso lo strangolamento d’Italia tra i golfi di Sant’Eufemia e di Squillace sono poste. [Ibidem]
Calabria, 5 febbraio 1783: terremoto a Oppido
Mercoledì 5 febbraio 1783. Il paese epicentro della prima devastante scossa fu Oppido, antichissimo abitato compreso fra la Piana di Gioia e l’Aspromonte. La montagna si spaccò sfracellando case, campagne, il castello e la cattedrale: un sussulto di magnitudo 7.1 (undicesimo grado della scala Mercalli) che rase totalmente al suolo la cittadina del Reggino, mietendo circa cinquemila anime.
Alexandre Dumas padre
In visita – fortuita, ché fu costretto ad approdarvi a causa di una tempesta marina che gli aveva reso impossibile lo sbarco in Sicilia – in Calabria alla metà degli anni trenta dell’Ottocento, Alexandre Dumas padre scrisse di Oppido che «ebbe la sorte di tutte le belle donne: oggetto di desiderio nella loro giovinezza, di disgusto nella loro decrepitezza, d’orrore dopo la loro morte» [Viaggio in Calabria, Rubbettino 1996].
Dopo quella di mezzodì del 5 febbraio che cancellò Oppido, le scosse proseguirono nelle ore immediatamente successive. Se ne registrarono 949 fino al 7 febbraio quando un nuovo rabbiosissimo sisma – magnitudo 6.7 – annichilì Soriano e il suo Convento di San Domenico, fra i più maestosi del Continente, già distrutto e poi ricostruito dopo il terremoto del 6 novembre 1659.
Nove giorni dopo l’ecatombe
Gli aiuti arrivarono dopo lunghi giorni d’attesa. Le notizie del tremuoto – come si diceva al tempo – raggiunsero Napoli, sotto la cui corona borbonica soggiaceva la Calabria, solamente a nove giorni dai primi eventi. A recapitarle fu l’equipaggio della fregata Santa Dorotea, partita dal porto di Messina il 10 febbraio. Le prime missioni di soccorso giunsero nella regione quando la stessa continuava a tremare.
Come detto, di fatti, il sommovimento tellurico imperversò sulla Calabria – la parte Ulteriore, dall’Istmo di Marcellinara allo Stretto di Messina, interessando in maniera ferale anche la città siciliana – fino agli ultimi giorni di marzo, precisamente il 28. In quella data si verificò un ultimo orribile episodio sismico sulla trasversale fra Feroleto e Borgia, interessando i centri di Maida, Marcellinara, Girifalco e Cortale.
Un’illustrazione mostra il maremoto sullo Stretto del 1783
I paesi demoliti dalla furia del terremoto furono tantissimi. A causa del cosiddetto Flagello, più di centottanta abitati andarono distrutti. Fra questi, oltre ai già citati, Palmi, Seminara, Santa Cristina, Castelmonardo (l’odierna Filadelfia), Mileto, Serra San Bruno, Polistena, Cinquefrondi, Casalnuovo e Terranuova (oggi, rispettivamente, Cittanova e Terranova Sappo Minulio), Stalettì, Bagnara e Scilla. Il susseguente maremoto colpì queste ultime e travolse fatalmente le genti che avevano trovato riparo sulla spiaggia.
Oltre a ciò e al numero elevatissimo di vittime – la stima dell’insigne storico e saggista Augusto Placanica, contenuta nel suo L’Iliade funesta (Casa del Libro Editoriale, Roma 1982), attesta oltre trentamila morti, pari al «10 per cento della popolazione dell’intera provincia» della Calabria Ultra dell’epoca. Altre stime si spingono fino alla cifra di cinquantamila vittime con alcuni paesi che videro perire sotto le macerie oltre sei abitanti su dieci.
Il terremoto del 1783 cambiò volto alla Calabria
Si verificò un mutamento radicale della morfologia della regione. Una sequenza sismica così lunga e devastante portò infatti alla rivoluzione dell’aspetto paesaggistico della Calabria che da quei giorni non sarà più lo stesso. Tra le frane, gli scivolamenti e la liquefazione delle terre – uno scenario, riportano le cronache del tempo, da fine del mondo – la sella di Marcellinara, punto centrale dell’omonimo Istmo, si abbassò, numerosi torrenti e fiumi – come l’importante Mesima – cambiarono il proprio corso, si rovesciarono intere colline e presto si notò un po’ dovunque la comparsa di ampie fenditure, profondi crateri colmi d’acqua e sabbia, acquitrini e laghetti. Interessati dal fenomeno del bradisismo – vale a dire l’innalzamento o abbassamento della terra, assai visibile lungo le coste – furono inoltre i centri di Reggio Calabria, Bagnara e Scilla.
Formazione di crateri di depositi sabbiosi nella Piana di Gioia Tauro (Atlante iconografico allegato alla “Istoria de’ Fenomeni del Tremoto avvenuto nelle Calabrie, e nel Valdemone nell’anno 1783 posta in luce dalla Reale Accademia delle Scienze, e delle Belle Lettere di Napoli”, Michele Sarconi, 1784)
Il Terremoto del 1783 fu una ecatombe talmente colossale che non se ne trovarono eguali a memoria d’uomo, se non in epoche remote. Michele Torcia, membro dell’Accademia regia, nella sua relazione coeva dal titolo Tremuoto accaduto nella Calabria, e a Messina alli 5. Febbrajo 1783 paragonò la sciagura calabro-sicula al violentissimo sisma che nel 17 portò morte e distruzione in dodici città della provincia romana dell’Asia Minore, avvenimento riportatoci da Tacito e da Plinio il Vecchio.
La riscoperta della “penisola della Penisola”
Sancendo, dopo il devastante terremoto del 1638 e altri di minore entità a cavallo fra la fine del Seicento e i primi del Settecento, la posizione altamente sismica della Calabria, l’apocalisse del 1783 fu importante per riaccendere la luce sulla “penisola della Penisola”.
Priva di vere strade che la collegassero al resto del Regno, luogo di transito caldamente sconsigliato ai viaggiatori delGrand Tour – che proprio in quella seconda metà del Settecento andava trasformandosi in una moda irrinunciabile per i giovani letterati e aristocratici della Vecchia Europa e che, sull’onda delle eccezionali scoperte di Ercolano (1709) e Pompei (1748), stava investendo anche il resto del Meridione –, “grazie” al Flagello la misterica e pericolosa finibus terrae di Calabria fu infatti “riscoperta”. Nel senso che si prese coscienza delle sue antiche problematiche, della sua fragilità ambientale, dell’arretratezza del suo disegno abitativo e del suo sistema economico e sociale.
In Calabria il primo regolamento antisismico
Così, oltre al ritorno della nobiltà calabra soggiornata a Napoli – più che altro preoccupata dei disordini scoppiati presso i propri feudi –, conversero in Calabria scienziati, medici, geologi e tecnici da tutto il mondo. Assieme a essi, dalla fine del Settecento e per tutto l’Ottocento, raggiunsero la regione anche scrittori, letterati, osservatori, membri dell’aristocrazia europea; uomini come Johann Wolfgang Goethe, Stendhal, Edward Lear, George Gissing che ne parlarono, ne scrissero, fecero da cassa di risonanza, avvicinando la Calabria al resto del Continente cui, pure inconsciamente, apparteneva.
Lo scrittore e viaggiatore George Gissing
La mal conosciuta punta dello Stivale si trasformò in un cantiere di futuro. I nuovi paesi furono edificati secondo innovativi criteri urbanistici, cosicché in Calabria si assistette alla messa in atto del primo regolamento antisismico d’Europa che certamente contribuì a limitare i danni derivati dai continui terremoti che angustiarono la Calabria anche nell’Ottocento – ben otto quelli con magnitudo superiore a 5.5 registrati dal 1832 al 1894.
Terremoto del 1783: la Calabria e la Cassa Sacra
A coordinare le operazioni di risanamento della parte centromeridionale della regione fu il maresciallo Francesco Pignatelli, marchese di Laino, che Ferdinando IV di Borbone nominò Vicario generale delle Calabrie. Pignatelli si spostò in lungo e in largo per le aree più sconquassate, per i vari stati della Calabria Ulteriore, come il nobiluomo ebbe a titolare, nei resoconti spediti al sovrano, le molteplici zone visitate.
Nuova Pianta della città di Palmi (RC) proposta dai Borboni per la ricostruzione dopo il terremoto in Calabria del 1783
C’è da dire che i soccorsi usufruirono anche della Giunta di Cassa Sacra, un organo straordinario che si occupò di trovare fondi per la ricostruzione anche attraverso la vendita di beni ecclesiastici, mobili e immobili, espropriati a chiese, conventi e monasteri. L’ufficio della Cassa Sacra – che, in aggiunta, non nascondeva l’ambizione di riscattare dal punto di vista economico e sociale la regione (un refrain intramontabile) – ebbe alterne fortune: oltre alla spoliazione del patrimonio culturale regionale, favorì infatti l’arricchimento dei possidenti e dei nobili, lasciando ai margini i ceti meno abbienti.
E mentre l’Europa alimentava una nuova curiosità per la Calabria, i calabresi, stravolti dalle costanti calamità naturali e abbattuti dalla loro incerta e malagiata condizione, cominciarono man mano a perdere interesse verso la propria terra ferita e ostile, a staccarsi da essa e a dichiararsi vinti. Proprio nel momento in cui, forse… ma questa, come dicono quelli bravi, è un’altra storia.
Fare rete per il territorio.
La Fondazione “Attilio e Elena Giuliani”, proprio nell’ottica di un lavoro di squadra per promuovere un’attività culturale ampia, diffusa e variegata, vuole condividere il proprio programma con le associazioni, i circoli e i club che operano in questo settore nella realtà cosentina, recependone istanze e proposte.
Tale iniziativa, in linea con le finalità della Fondazione, punta a fare di Villa Rendano un presidio di cittadinanza attiva, un luogo permanente di intrattenimento, cooperazione e interdisciplinarietà, nonché di formazione attiva dei giovani nel comparto museale e culturale.
Al fine di avviare questo importante e virtuoso processo di collaborazione, Associazioni, Circoli e Club culturali del territorio sono invitati a Villa Rendano, il 3 febbraio alle ore 17,30, per un primo confronto sulle iniziative da realizzare.
Per eventuali comunicazioni, è possibile contattare i seguenti numeri: 329/8379111 (Walter Pellegrini), 333/5037160 (Anna Cipparrone), 339/2923179 (Francesco Kostner)
C’è un po’ di Calabria nelle grandi tragedie. Ad esempio, quella raccontata da Giorgio Bassani ne Il giardino dei Finzi Contini.
Iniziamo dalla protagonista.
Morta il primo marzo del 2009 a Milano a 90 anni, Matilde Bassani Finzi, cugina di Giorgio, ispirò Micol, il personaggio femminile del celebre romanzo.
Questo secondo una tesi accreditata e mai smentita dalla Bassani.
Secondo un’altra ipotesi, invece, l’ispiratrice di Micol sarebbe la contessa veneziana Teresa Foscolo Foscari.
In ogni caso, nessuna delle due assomiglia a Dominique Sanda che ha impersonato l’eroina nel celebre film di Vittorio De Sica, il quale nel 1971 vinse l’Oscar come migliore pellicola straniera.
La Micol del romanzo
Secondo la critica Micol è una delle figure più tragiche ed enigmatiche della letteratura italiana contemporanea.
L’amore di lei per lo studente universitario Giampaolo Malnate, amico di suo fratello Alberto, che muore giovanissimo, e l’affettuosa tenerezza per il compagno di infanzia Giorgio, figlio di un commerciante, sono il centro di una vicenda che termina tragicamente con la deportazione della famiglia Finzi Contini nei lager.
Vittorio De Sica
Bassani, De Luca e i Finzi Contini
Matilde Bassani, la “vera” Micol, è stata una figura romantica e importante della Resistenza, del socialismo e del movimento femminista.
Veniamo alla calabresità della vicenda. Da partigiana, Matilde Bassani – possibile ispiratrice de Il Giardino dei Finzi Contini – aderisce a Bandiera Rossa, gruppo combattente rivoluzionario fondato da Raffaele De Luca, avvocato calabrese vissuto a Paola per molti anni e personaggio di spicco dell’antifascismo romano. La vera storia non risulta meno affascinante di quella vissuta da Micol nel romanzo.
Il tesserino da giornalista di Matilde Bassani Finzi
Le gesta di Matilde iniziano il 23 marzo 1943, mentre si reca in Vaticano per farvi accogliere due rifugiati polacchi. È subito fermata dalle SS, ma riesce a fuggire, sebbene le sparino a un ginocchio. Suo padre, professore di tedesco all’Istituto tecnico di Ferrara, viene licenziato nei primi anni ’20, perché anche lui antifascista. Lo zio Ludovico Limentani, fratello della madre Lavinia, fu uno dei firmatari del Manifesto degli intellettuali contro il regime.
In azione a Firenze
Matilde nell’agosto ’44 va a Firenze con un gruppo di compagni di Roma, mentre ancora infuriano i combattimenti, per portare armi ai partigiani della brigata Bruno Buozzi.
Il gruppo giunge a destinazione grazie all’efficace lasciapassare della Central D Section del Psicological Werfare Branch.
A conferma dell’esoso prezzo pagato dai Bassani, occorre ricordare il sacrificio di suo cugino, Eugenio Curiel, combattente nella Resistenza, ucciso dai fascisti nel ’45. Nonostante le dure condizioni della vita in clandestinità, Matilde conosce l’amore della sua vita, Ulisse Finzi, che sposa il 4 aprile 1945.
Soldati della Wehrmacht a Roma
Di ritorno a Roma
Insieme a lui e ai fratelli Andreoni, Matilde fa parte del Comando superiore partigiano a Roma.
Di lei scrive Concetto Marchesi, suo professore all’Università: «Il suo nome suonava allora come quello di una intrepida compagna che dava agli anziani l’esempio della fermezza, dell’intelligenza e dell’onore».
Dopo la liberazione di Roma, il Comando collabora con gli Alleati, fornisce assistenza ai partigiani in cerca di vitto e alloggio, vestiti, denaro, cure mediche, e lavoro.
Matilde porta notizie alle famiglie dei combattenti che ancora si trovavano nei territori occupati, e fa propaganda tramite volantini, manifesti e il giornale Il partigiano. Scrive anche articoli per Italia Combatte, un foglio che viene paracadutato dall’aviazione nei territori controllati dai tedeschi.
Giorgio Bassani
Il lungo dopoguerra di Matilde Bassani
Socialista, di stampo riformista emiliano, Matilde mal sopporta il verticismo dei dirigenti del Pci, con cui ha a che fare che nel secondo dopoguerra quando milita nell’Unione donne italiane e si ritrova accanto alle minoranze comuniste, agli anarchici e ai socialdemocratici.
Sempre nel dopoguerra, Matilde si impegna nelle lotte “femminili”: partecipa alla fondazione del Cemp (Centro per l’educazione matrimoniale e prematrimoniale) che ha tra i suoi obiettivi la diffusione della contraccezione, anche giovanile, e si attiva poi nei referendum per la difesa del divorzio e dell’aborto.
Raffaele De Luca, avvocato anarchico e massone
L’adesione a Bandiera rossa, rimane un fatto singolare da inquadrare nella sua educazione anarchica, libertaria e socialista, in sintonia col suo fondatore. Raffaele De Luca, al contrario di Matilde Bassani, nulla a che vedere con Il giardino dei Finzi Contini.
Raffaele De Luca
A lui qualche anno fa lo storico e scrittore Alfonso Perrotta ha dedicato il libro L’umano divenire. Nato a San Benedetto Ullano nel 1874, il padre era bracciante e la madre filatrice, De Luca si laurea in Giurisprudenza a Napoli. Dapprima anarchico, in seguito si iscrive al Psi, candidandosi alle Politiche del 1921. De Luca è anche fondatore delle logge massoniche paolane “Germinal” e “Giuseppe Garibaldi”.
Alle prese coi fascisti
Organizzatore delle lotte dei contadini e dei ferrovieri, l’avvocato è aggredito in più occasioni dai fascisti.
È sorvegliato speciale di Polizia e dalla scheda del suo casellario si apprende che ha rapporti con Pietro Mancini.
Nel 1941 è costretto a trasferirsi a Roma. Lì fonda il gruppo comunista Scintilla e, nel 1943, il Movimento Comunista d’Italia. È direttore del giornale Bandiera Rossa.
Vivo per miracolo
Per la sua propaganda antifascista è arrestato in seguito a una delazione e finisce a Regina Coeli. Il Tribunale militare tedesco lo condanna a morte nel gennaio del 1944. Sollecitato a firmare la domanda di grazia oppone un netto rifiuto. Evita comunque la fucilazione per l’intercessione di alcuni antifascisti che operano nel carcere. Esce di prigione all’indomani della liberazione di Roma.
Palmiro Togliatti
Partigiani sconosciuti
In Bandiera Rossa di De Luca militano 1183 partigiani. Di questi, 186 muoibono in azioni di lotta (il numero è tre volte superiore a quello del Pci), e alcuni di loro sono “giustiziati” alle Fosse Ardeatine. Altri 137 finiscono nei campi di concentramento.
Il loro resta un tributo forte alla Resistenza, ma non così “ufficiale” da essere menzionato nella storia “organica” della Liberazione.
Alla fine della guerra molti di questi militanti chiedono la tessera del Pci. Al riguardo, si registra una singolarità: una domanda di iscrizione “collettiva”, cosa inusuale per il rigido statuto del partito.
A De Luca invece, resta un’amarezza: la sua domanda è accolta dalla Federazione romana del Pci, ma subito dopo è rigettata dalla Direzione nazionale e da Palmiro Togliatti in persona.
L’amarezza finale
Molto probabilmente, questo rifiuto si collega alla militanza massonica e al “frazionismo” dell’avvocato paolano: due cose incompatibili nell’organizzazione monolitica del Pci. Umiliato da questo diniego, Raffaele de Luca, molla la politica. Muore il 6 aprile 1949.
Con Dante Maffia ci siamo incontrati poco e di sfuggita. Una volta a Firenze, un’altra volta – fuori dal tempo e da ogni logica razionale – per caso a Laino Castello, deserta in un pomeriggio d’agosto, e un paio di volte nella “nostra” Roseto Capo Spulico. Ma basta leggere la voce di Wikipedia che lo riguarda per rimanere increduli davanti alla quantità di pubblicazioni e di riconoscimenti internazionali alla sua attività di poeta, narratore e saggista.
L’impressione è che tu sia più conosciuto fuori che dentro dalla Calabria: quanto ritieni sonnolenta la regione, in termini di fruizione della cultura?
«Su Wikipedia non c’è tutta la mia attività, non mi sono preoccupato di fornire le notizie. A me interessa fare, prendere piacere e interesse a fare, con assiduità, con attenzione e cura perché provo gioia se riesco a realizzare dei versi belli, delle pagine interessanti che potrebbero (!) aiutare la conoscenza e la consapevolezza. Per il resto non mi preoccupo di promuovermi. Ho tanti difetti, tranne la vanità, e ciò non giova per occupare un posto preminente sui giornali e nelle televisioni. Ma io sono all’antica. Ho sempre creduto e credo che la poesia, la letteratura in genere, non siano notizia e dunque possono aspettare il loro turno per farsi vive e dire la loro. Sono uno stupido illuso, lo so, ma va bene così. Non mi sono aspettato mai niente dai miei libri. Perché li scrivo e li pubblico? Per molte ragioni, ma soprattutto perché dentro pongo messaggi che avranno senso in futuro. La poesia, quella vera, quella che nasce dal cuore, dall’anima, dalla cultura e dall’esperienza in un amalgama distillato in cerca della verità, non ha tempo, vive nella perennità.
La Calabria mi ha sempre riconosciuto e mi ha dato molta attenzione, a cominciare dalla candidatura al Premio Nobel proposta all’unanimità dal Consiglio Regionale, dalle cittadinanze onorarie ricevute da Reggio Calabria, Girifalco, Trebisacce, Amendolara, Rocca Imperiale, Cassano Jonio… e infine da un convegno, con 47 interventi dalle Università di tutta Italia. Ma il problema Calabria è troppo complesso, prima perché si tratta di Calabrie, di molte Calabrie. Con vocazioni e intenti diversi, con storie diverse, con eredità che non sempre sono state smaltite per bene. Poi perché gli eventi si ripetono: Milano, in particolare, esercita una sorta di razzismo silenzioso ma efficace nei confronti di tutto ciò che non sia fatto di nebbia e di danaro. Lo so, è un luogo comune trito e ritrito, ma io ne ho subito molte dure conseguenze».
Quali soluzioni individui?
«Ce ne sarebbe una sola. Ritornare a due Italie, due gestioni autonome politiche, sociali ed economiche. Io maledico sempre le azioni di Garibaldi, il suo tradimento di Mazzini. E mi ricordo che Umberto Zanotti Bianco da qualche parte ha scritto che la Calabria, bellezza a parte, potrebbe essere la regione d’Europa più ricca: 900 chilometri di costa – e che costa! -, tre montagne, Aspromonte, Sila e Pollino, e il parco archeologico più grande del continente: Sibari».
Beh, se Zanotti potesse vedere le coste allo stato attuale… Ma andiamo avanti: hai esordito a 18 anni, nel 1964, con “È più bella la notte”, poi a 21 anni hai pubblicato “Lo straccivendolo di Eros”, ormai introvabili tutti e due. Sapevi che il secondo è conservato soltanto in due delle migliaia di biblioteche pubbliche italiane? E il primo, addirittura, in nessuna?
Rara copia di un’opera degli esordi di Dante Maffia
«In realtà ho esordito a 14 anni con un volumetto intitolato I canti dello Jonio e da quello addirittura ho recuperato una poesia che ancora ritengo valida: “Vado la sera / di casa in casa / ad ascoltare le fiabe / che mi raccontano i vecchi al focolare / come un mendico / che ha bisogno d’un pezzo di pane…”.
L’ho preso in mano proprio ora, per controllare, e la meraviglia è che ci sono brevi poesie che sembrano haiku, quegli haiku che mi hanno portato in Giappone, dove sono stati tradotti 22 miei volumi. A gennaio, a Kyoto, ci sarà la prima edizione del Premio Dante Maffia. Proprio “Premio Dante Maffia”, nonostante che, almeno sembra, ancora io sia vivo. Una storia lunga. Annoieremmo i lettori».
Poi, a 28 anni, hai pubblicato “Il leone non mangia l’erba” e a scriverne la prefazione fu nientemeno Palazzeschi. Vi furono gli apprezzamenti da parte di una componente importante della cultura italiana dell’epoca: da Sciascia a Natalia Ginzburg e Mario Luzi, da Caproni a Giacinto Spagnoletti. Cosa ricordi di te ventottenne, o giù di lì, circondato dalle attenzioni di questi nomi? Com’era quell’ambiente letterario?
Con Il leone non mangia l’erba mi resi conto che le mie emozioni non erano dettate da velleità, ma da una profonda necessità di dialogare con l’Universo, con il Mistero, con il Lievito della vita, con la Morte. Quindi vedere alla Libreria Croce addirittura personaggi come Sciascia, Luzi, venuto da Firenze, Spagnoletti, Caproni, Palazzeschi, Moravia, Bellezza e altri… mi sembrò un fatto naturale. Ma allora ancora esisteva il mondo letterario che badava alla qualità dei testi e non agli inciuci.Allora si leggeva, non si appariva soltanto. E infatti, senza appoggi, senza referenze, se non quelle del mio entusiasmo e della mia cultura, fui chiamato a collaborare al quotidiano Paese Sera, al settimanale La Fiera Letteraria e alla rubrica dei libri Rai 2. Ognuno aveva il suo compito e si collaborava».
Un altro raro testo giovanile di Dante Maffia
Anche il poeta Giuseppe Pedota scrisse di questa tua presentazione alla Libreria Croce, presenti – oltre ai suddetti – molti altri nomi celebri tra cui Giovanna Bemporad, Attilio Bertolucci e Leonida Repaci. «Un avvenimento – scrisse – che riempì la cronaca dei giornali. Come aveva fatto questo ragazzo venuto dal nulla, da un paesino sperduto della Calabria, a far confluire il gotha della letteratura romana alla presentazione del suo libro? Mistero». Oggi, questo “mistero” come puoi scioglierlo?
«Era normale partecipare alle presentazioni dei libri. Non se ne facevano a bizzeffe, non si portavano in cattedra dilettanti, ruffiani e belle bambole. Si seguivano le novità. E se nasceva un poeta bravo, se esordiva un narratore valido si consentiva, si battevano le mani. Non si spianavano i fucili per dare spazio alla mediocrità o al comparuccio.
Repaci mi abbracciò come rinascita della Calabria, che contraddiceva quello che una volta Jorge Luis Borges mi raccomandò: “Non dire mai che sei nato al Sud, dici che sei figlio di norvegesi o di londinesi e vedrai come il mondo cambia”».
Dante Maffia da giovane
E invece tu hai scritto molto anche in vernacolo (quello dell’area Lausberg), indice di un legame forte, ma non totalizzante, con la tua terra d’origine. L’Italia è ancora pervasa da razzismi interni inespugnabili, figuriamoci quanto poteva esserlo all’epoca del tuo esordio. Quanto costava allora, in quell’ambiente, in quel settore culturale, avere una provenienza meridionale?
«Quanto costava allora avere una provenienza meridionale? Devi dire quanto costa. Un solo esempio: se scorri le collane ufficiali che pubblicano poesia potrai renderti conto di quanta immondizia, non saprei come diversamente chiamarla, ci viene offerta e quasi tutta dalla stessa area o da chi ha adottato quell’area. Siamo allo sfascio. Certo, i danni del Gruppo 63 ancora sono visibili e la stupidità dei giocolieri ancora ha dei rigurgiti. Ma peggio hanno fatto i nominalisti, o come diavolo si chiamano, confondendo la poesia con la lista della spesa.
L’edizione scheiwilleriana del libro di Dante Maffia in vernacolo
La brutta verità è che ormai nessuno legge. E allora mi domando perché ci sono primari di medicina, giudici, avvocati e dirigenti d’aziende e professoroni d’ogni genere che pretendono di fare i poeti. È forse una raccomandazione del loro medico per uscire dal tunnel dell’insipienza? E senza mai leggere i classici? Lo sai che cosa mi ha detto un personaggio televisivo sempre in bella mostra? Lui scrive poesie ma, per carità, non ne legge mai per non essere influenzato. Quindi: “È spuntato il sole e illumina la spiaggia; ti voglio bene amore mio; ai lati del viale ci sono gli alberi”… L’ovvietà più assoluta, il non dire, o la retorica nata dai ricordi carducciani e leopardiani, a proposito di influenze! Con un mio libro pubblicato con lo pseudonimo Maria Marchesi, e scrivendo che la poetessa è nata al Nord, ho vinto il Premio Viareggio. Per anni non ero mai stato preso in considerazione con la firma Dante Maffia».
Tra i tuoi volumi in vernacolo il mio preferito è senz’altro “U ddìje poverìlle”. Enzo Siciliano ti ha paragonato a Scotellaro (che secondo me poco ci azzecca). E se qualcuno ti paragonasse – negli episodi vernacolari – ad Albino Pierro?
«Enzo Siciliano ha buttato quel nome, credo, a caso. Con Scotellaro non credo di avere nessuna parentela. Ma se qualcuno mi apparentasse ad Albino Pierro mi sentirei offeso. Pierro non ha scritto mai poesia che tale possa dirsi, ha composto in dialetto perché aveva intuito che era il momento giusto per essere presi in considerazione. Basti leggere i suoi versi in italiano, davvero mediocri, più spesso banali. S’infatuò, cominciò a credere che fosse la lingua a fare la poesia e non la poesia a fare la lingua. E poi, quando i filologi come Contini e altri se ne occuparono, finì per credere che fosse un grande poeta e cominciò a pretendere il Nobel. No, Pierro no: io sono un poeta e lui era un letterato. Attenti alle mitologie create da situazioni festaiole o politiche o d’altro genere».
Restiamo ancora al Sud, e possibilmente in Calabria. Tempo fa mi dicevi che sei stato amico pure dell’assai poco celebre Enrico Panunzio, pugliese temporaneamente naturalizzato parigino, scrittore sopraffino e però – o forse perciò – incompreso. So che assieme a Dario Bellezza frequentava d’estate Rocca Imperiale: c’eri anche tu, con loro, lì a due passi da Roseto? Mi racconti un paio d’aneddoti inediti sulle vostre chiacchierate?
«Enrico Panunzio era uomo colto e intelligente, ma noioso e ripetitivo e, forse perché non aveva ottenuto ciò che meritava, si era eretto a giudice supremo con la falce in pugno. Non gli andava bene niente e ricordo che Spagnoletti, con cui era molto amico, spesso lo redarguiva. Parlava sempre della Francia. Era comico vedere che cosa faceva ogni giorno per farsi offrire il caffè. Era la tirchieria all’estrema potenza. Dario Bellezza e io, scialacquatori senza quattrini, ci divertivamo a prenderlo in giro, ma lui non batteva ciglio. Le nostre chiacchierate erano a ruota libera, io mangiavo troppi libri e spesso li disorientavo. Enrico parlava sempre di Camus e Dario lo chiamava “il riflesso della peste”».
Enrico Panunzio e Dario Bellezza trascorrevano l’estate con Dante Maffia a Rocca Imperiale
Mi pare che l’editoria italiana fino alla fine degli anni ’70 sia riuscita a conservare, almeno in parte, un’anima attenta alla qualità del prodotto. Sei d’accordo sul fatto che un certo spirito virtuoso sia venuto meno negli anni? E, secondo te, si può intravedere un destino editoriale meno suicidario in termini qualitativi?
«Sono pessimista in proposito. E sono anche molto disorientato. Vedo un profluvio di libri, editi dalle sigle editoriali così dette prestigiose, che non hanno né testa né coda, che non dicono, subito spenti, inutili e obsoleti, privi di tutto. La domanda è perché vengono pubblicati. Anche mezzo secolo fa ogni tanto si faceva un favore e si pubblicava qualche cicoria, ma era evidente che si trattasse di un compromesso necessario all’editore. Adesso credo che sia ignoranza e affidamento totale alla possibilità eventuale che funzioni la vendita. Un disastro, culturalmente parlando. Un disastro al quale non riusciremo più a sottrarci, perché i lettori rimasti saranno man mano abituati alla mediocrità.
Nello specifico, in Calabria pare manchino quasi del tutto figure intellettuali di riferimento. Peggio: che vi siano fin troppi sedicenti intellettuali e finti tali. Non ne nascono più? Nascono e non attecchiscono? Scappano? E la situazione editoriale calabrese?
«Non mancano, anzi… Ma sono altrove, sono fuori e lontani dalla Calabria e dai problemi che la investono. Quindi scappano e, man mano, le radici seccano. La situazione editoriale calabrese non è male, ma le case editrici sono penalizzate perché non vengono distribuite per il solito motivo. Meno concorrenza c’è, meglio è. Il confronto fa male a molti, soprattutto ai poveri di spirito».
Ti hanno apprezzato Pasolini, Calvino, Montale, Eco, Amado, Bobbio, De Mauro, Bufalino, Zanzotto, Praz, Dacia Maraini, Gina Lagorio. In Italia hai fondato riviste, a Palazzo Chigi sei stato insignito del Premio Matteotti per la letteratura Italiana. Ciampi – all’epoca Presidente della Repubblica – ti ha insignito della Medaglia d’oro alla Cultura. Sei stato candidato al Nobel. All’estero sei stato tradotto in 35 lingue. Due domande in proposito, una sopportabile: in quale Paese straniero hai ricevuto l’accoglienza critica più elaborata, articolata? E l’altra un po’ meno: poesia e politica… qual è il tuo parere sulla polemica di qualche anno fa in merito alla questione “con l’arte non si mangia”?
«Soprattutto in Giappone, ma anche in Romania, dove sono stato tradotto più volte e sono membro effettivo della loro Accademia Eminescu. Ma forse anche in Albania, dove mi hanno dato il maggiore riconoscimento da loro elargito, il Premio Madre Teresa di Calcutta. E poi in Russia, in Ungheria, in Spagna… Devo dare ragione a Vittorio Introcaso, un giornalista televisivo che mi segue da sempre: gli stranieri mi amano di più. O almeno fanno di tutto per farmi sentire importante. Con l’arte non si mangia? È vero e non è vero. C’è perfino chi s’abbuffa o chi, come me, mangia indirettamente con qualche incarico e qualche riconoscimento».
Hai presieduto numerosi concorsi letterari, te ne saranno capitate molte. Tempo fa, Erri De Luca pubblicava un minuscolo libro dal titolo “Tentativi di scoraggiamento (a darsi alla scrittura)”. Perché, secondo te, si può trovare più dilettantismo nella poesia che nella narrativa? Come si può far capire ai tanti, troppi sedicenti poeti che non basta spezzettare una frasetta e infiocchettarla con un paio di termini struggenti (secondo loro…) per farne un componimento poetico? O che prima di esprimersi bisognerebbe avere davvero qualcosa (possibilmente non troppo banale) da esprimere ?
«A me Erri De Luca non è mai piaciuto, sempre per il solito problema. Vanno bene gli esercizi di stile, ma la narrazione è altra cosa, e non ti dico la poesia. Il dilettantismo è dilagante sia in prosa che in poesia. Con una differenza sostanziale: in poesia il disastro viene subito messo da parte o, se si tratta di personaggi importanti, si fa finta, si apparecchia l’ipocrisia e s’infarina; in narrativa, però, può accadere che un romanzo sbagliato, banale, non riuscito in nulla possa trovare l’interesse di un regista e diventare film. E il ballo della mediocrità continua e si allarga. Io vedo che siamo quasi sull’orlo del dirupo. La faccenda non finirà mai, tanto è vero che i cartellonisti, i pubblicitari ormai vengono chiamati pittori e i parolieri e i cantautori poeti. Il vocabolario si sta appiattendo, spero che non finiremo di servirci soltanto di mugolii per esprimere le inquietudini e le estasi della nostra anima. In principio fu il Verbo».
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