Filoxenìa è il titolo di un lavoro di ricerca documentale e fotografica sulla Calabria greca curato da Patrizia Giancotti. Antropologa, fotografa, giornalista, autrice e conduttrice radiofonica, che ultimamente ho riscoperto con maggiore attenzione cogliendone aspetti nuovi. Una rilettura attenta, meno veloce, più consapevole mi ha consentito di riprendere i temi principali di un lavoro che l’ha vista impegnata ad approfondire la conoscenza dei nostri luoghi, di cose e persone da leggere nel profondo.
Patrizia Giancotti, antropologa e giornalista
L’amore per il forestiero nella Calabria grecanica
Filoxenìa, suona bene questo termine greco, con quella sua inflessione morbida e accomodante che vuole significare amore per il forestiero, senso vivo di accoglienza. Sono stati mesi intensi i suoi, vissuti tra Bova e Roccaforte del Greco, passando per Gallicianò e Roghudi nel cuore della grecità calabrese, un tempo valso a partorire un’opera preziosa, ben al di là della già importante cifra stilistica, non fosse altro che per il merito di aver cristallizzato quanto ancora rimane di un piccolo mondo antico offrendo al lettore una chiave interpretativa antropologica e prima ancora umana di una realtà apparentemente semplice ed invece assai complessa, difficilissima da decodificare.
Roghudi vecchio
Il titolo completo di questo lavoro edito da Rubbettino è: Filoxenia, l’accoglienza tra i Greci di Calabria, una ricerca che prende in esame aspetti geografici e culturali attraverso l’analisi di singoli profili, come nel caso di Pasquale, uno dei personaggi certamente più interessanti su cui la Giancotti ha posto la sua lente.
Il senso omerico
Pasquale Romeo è un ragazzo di Bova con alle spalle anche una breve ed estemporanea esperienza cinematografica. È importante l’analisi della figura di Pasquale perché incarna l’evoluzione di una terra dove vecchio e nuovo, tradizione e modernità sembrano convivere, dove uomo e natura si amano e si odiano in un continuum scandito dall’alternarsi delle stagioni. Patrizia Giancotti lo descrive così.
Pasquale Romeo ha recitato nel film “Anime nere” di Francesco Munzi, tratto dal libro omonimo di Gioacchino Criaco
«La Calabria greca – dice – è terra di uomini ospitali, nella pienezza del senso omerico. Per mesi ho percorso quei territori, impegnata in una ricerca sul campo dove ho visto medici, professori, fabbri, massaie, suonatori di lira, zampogna e organetto, pastori. Pasquale ad esempio è un giovane di Bova poco più che trentenne, che dopo un’esperienza come attore nel Film Anime Nere di Francesco Munzi (tratto dal romanzo omonimo di Gioacchino Criaco), girato proprio tra Bova ed Africo, è tornato alla sua quotidianità».
Lira calabrese (foto Alfonso Bombini)
Dal red carpet alle salite di Bova
Le parole della Giancotti evocano il senso del luogo e di chi ci vive: «Il suo stazzo è molto in alto, in verticale lo strapiombo diventa precipizio fiorito che porta al fiume, la vista da capogiro arriva fino al mare.
Non c’è niente in piano, è difficile persino camminare eppure lo vedo come da un aereo in volo, correre giù dietro le capre col bastone dei padri e i piedi alati. Al red carpet calpestato a Venezia ha continuato a preferire la verticalità di questi scoscendimenti, dove il suono delle capre si fonde con quello della natura risvegliata e dove anche il profumo del vento, il fiume, il lupo, la pietra, il fiore, l’uomo e il mare laggiù sono uniti nella stessa partitura».
Greci di Calabria
È una terra bella, affascinante, a tratti misteriosa e ancora arcaica quella dei Greci di Calabria, un caleidoscopio in cui rintracci tante cose, montagne che si tuffano a mare, il grigio quarzo delle pietre che lascia spazio al rosso dei tramonti, ma soprattutto quell’antico idioma unico al mondo, primo riferimento ad una cultura che si perde nei secoli. Il continuo richiamo all’elemento greco lo si ritrova anche nella musica, nelle occasioni corali come i lutti o le feste, nel senso di ospitalità ancora vivo. Mi ha molto colpito il viaggio di Patrizia Giancotti, forse per la necessità di leggere la mia terra da una prospettiva differente. Perché spesso per leggere i luoghi, le persone e gli eventi a te più vicini è necessario osservarli da altre prospettive. Per questo ho sempre creduto nel valore del viaggio che ti libera da vincoli e legami che offuscano una capacità di lettura imparziale.
Roccaforte del Greco
Terra madre
Filoxenìa regala al forestiero uno spaccato fedele di una realtà che ancora resiste. Regala allo stesso tempo anche ai Greci di Calabria un’occasione di guardarsi allo specchio, una visione altra ed imparziale. È ricco di una straordinaria carica emozionale Filoxenìa che fa cogliere il suo senso più vero forse proprio in quella dicotomia regalata dalla descrizione di Pasquale, dei suoi piedi alati, del bastone dei padri e di quel tappeto rosso che nulla ha potuto dinnanzi al richiamo della terra madre.
Certo nella scelta più o meno consapevole di Pasquale gioca un ruolo fondamentale la presenza permeante di un corredo genetico ben preciso che spinge al di là del calcolo, della logica, al di là del richiamo di sirene più o meno lontane. In quella scelta, non sappiamo quanto consapevole, ci piace leggere la metafora di un piccolo mondo antico che rimane aggrappato alle rocce della sua montagna, guardando con rispetto ma sempre con bonario distacco un mare oggi forse solo idealmente più vicino.
Le sette vite di Majorana. Sono quelle che lo scrittore Mimmo Gangemi fa vivere al fisico siciliano misteriosamente scomparso nella notte tra il 26 e 27 marzo 1938. Uno dei cold case italiani più noti, oppure semplicemente un uomo desideroso di far perdere le sue tracce? Lo scopriremo solo leggendo L’atomo inquieto, ultima fatica letteraria del narratore di origini aspromontane. Che ieri ha presentato il suo ultimo libro a Villa Rendano in occasione di “Libri in Villa”, l’iniziativa promossa di concerto con il Comune di Cosenza e le associazioni che lo scorso 24 febbraio hanno sottoscritto, con la Fondazione “Attilio e Elena Giuliani” e lo stesso ente cittadino, il Patto per lo sviluppo culturale del territorio. Walter Pellegrini, presidente della Fondazione “Attilio ed Elena Giuliani” ha aperto i lavori: «Sentimenti di amicizia e stima mi legano a Mimmo Gangemi, intellettuale capace di costruire una narrazione stupenda». E poi «Mimmo è stato pure autore della Luigi Pellegrini editore».
Da sinistra: Antonietta Cozza, consigliere comunale di Cosenza; Walter Pellegrini, presidente della Fondazione “Attilio e Elena Giuliani”; Mimmo Gangemi, scrittore di Santa Cristina d’Aspromonte
A stimolare il dibattito e dialogare con lo scrittore aspromontano è stata Antonietta Cozza, consigliere comunale di Cosenza con delega alla Cultura. Secondo lei il libro è un po’ «una via di mezzo tra la spy story e il romanzo psicologico».
La Calabria compare in questa storia. In primis per la ventilata presenza del fisico catanese nella Certosa di Serra San Bruno. Gangemi chiarisce il senso: «È un omaggio alla “Scomparsa di Majorana” di Leonardo Sciascia». Anche «Sharo Gambino» fece lo stesso.
A Villa Rendano Mimmo Gangemi sottolinea la stranezza di una lettera. Quella inviata da Majorana a un suo amico dove annunciava il suo suicidio in mare, sul traghetto che lo avrebbe dovuto portare in Sicilia: «Uno che sa nuotare non si toglie la vita in mare e, soprattutto, non porta con sé cinque stipendi e la sua quota di eredità paterna».
Suggestioni, spunti, riflessioni e indizi disseminati nel ragionamento e nel romanzo. A partire da quella foto che ritrae il criminale nazista Adolf Eichmann sul piroscafo nel porto di Buenos Aires. Insieme a lui un capitano della Wermacht e un tipo che somiglia tanto, troppo, allo scienziato italiano. Gangemi chiarisce: «Non è mai stato filonazista, ma filogermanico».
“L’atomo inquieto” aggiunge un altro capitolo alla carriera letteraria di Gangemi. Autore di libri come “La signora di Ellis Island”, “Il giudice meschino” e “Marzo per agnelli”.
Paolo Migliazza merita. Questa cosa non l’ho capita subito, cioè quando l’ho conosciuto qualche anno fa. L’ho capita un po’ dopo, quando entrai per la prima volta nel suo studio, il vecchio laboratorio in un sotterraneo di via del Pratello, a Bologna. Non tanto per l’ambientazione, che aggiungerebbe già di per sé una patina di bohémien di cui Paolo non ha minimamente bisogno, quanto per l’impatto visivo ed emotivo all’ingresso di quel luogo. E certo, uno studio d’artista è sempre una fucina magica più o meno a soqquadro a seconda delle inclinazioni del personaggio. Ma questo aveva in più qualcosa tra l’inquietante e un certo senso di estraneità rispetto al tempo. Ricordo un’intera stanza piena di busti di bambini, pochi ancora in lavorazione, molti finiti, tutti silenziosi ma in qualche modo urlanti. Qualcuno coperto, qualcuno rotto. Una specie di piccolo Esercito di terracotta under 18 e soprattutto inerme.
Perché hai cominciato proprio con la scultura anziché con un altro mezzo espressivo?
Alcune sculture di Paolo Migliazza realizzate per We are not superheroes
«Ho cominciato da bambino, toccando e giocando con la terra, stando in campagna dietro a mio nonno. I miei nonni erano da una parte operai, e dall’altra piccoli proprietari terrieri. Tutti di Girifalco. La terra l’ho sempre respirata, in particolare col nonno paterno, come spesso succede giù. E in campagna, uno dei modi che avevo per giocare, per inventarmi e costruirmi le stalle degli animaletti era prendere la terra, paciuccarla e creare i vari spazi. Il mio primo approccio alla scultura è stato questo, ludico, abbastanza inconscio».
Strano che proprio a Girifalco fosse nato un altro artista, con un cognome simile al tuo e che forse ti assomigliava pure un po’, il garibaldino Antonio Migliaccio…
«Nessun collegamento. L’arte l’ho assorbita un po’ da mio padre, che è stato sempre un po’ appassionato, anche non avendola mai potuta praticare. Ma io mi sento del tutto figlio, anzi, nipote di una dimensione contadina, anche nell’accezione più bella e romantica del termine».
Contano, e molto, le radici?
«Le radici sono un elemento costituente della personalità, ma che noi non razionalizziamo. Assorbiamo il retaggio culturale della storia dei luoghi in cui nasciamo e cresciamo e ce li ritroviamo nelle scelte che facciamo, specialmente in ambito artistico».
Il fatto di aver iniziato con la terra ha condizionato quindi anche la scelta dei materiali con cui lavori oggi?
«Sì e no, nel senso che quella è stata una scelta di comodo perché la conoscevo bene. La potevi costruire e distruggere, modellare la forma da 0 a 100 e da 100 a 0. Poi c’è anche la condizione del lavoro. La scultura ha qualcosa che tanti altri linguaggi non hanno: devi mettere in conto anche la stanchezza, il lavoro fisico, e non solo quello psicologico legato all’idea».
Quali modelli di ispirazione hai avuto?
Una delle opere di Paolo Migliazza
«Negli anni di studio sono venuto spesso a Bologna ma non ci ho trovato mai niente di interessante… mi ero formato in una piccola bottega locale… quello che mi ha veramente toccato è stato quando, al Parco Archeologico di Scolacium, Alberto Fiz curò per due anni Arte Nel Parco, una mostra collettiva all’interno degli scavi (con opere di Paladino ecc.); poi quello che mi ha smosso di più è stato Time Horizons di Antony Gormley: aveva installato sui pendii 100 calchi in ferro pieno e nonostante l’orografia, insomma le curve di livello altimetriche del parco fossero incoerenti, le 100 figure restavano tutte esattamente sullo stesso piano, disegnando idealmente una linea d’orizzonte che guardava verso il mare. Poi ho intervistato Aron Demetz per la tesi, ed è gente che mi ha messo un po’ in pace col mondo. Lui, Walter Moroder, Bertozzi e Casoni, mi hanno fatto capire che si poteva ancora fare la scultura figurativa. Io pensavo fosse una roba legata al Novecento e invece oggi è più viva di altri linguaggi.
Ricordami quell’installazione tua e di Nicola Amato, che vi feci portare ad Aliano al festival di Franco Arminio (la gloriosa e indimenticabile edizione de “La luna e i calanchi” di fine agosto 2016)…
Fu una cosa fatta solo per quell’occasione, ed era un’installazione assolutamente site-specific. Avevamo utilizzato circa 200 vecchi mattoni conici forati, le pignatte che venivano utilizzate per fare soffitti e controsoffitti. Avevano un buco sulla testa e uno sulla base, così da trattenere il calore ma contrastare l’umidità, una sorta di coibentazione. Ce le caricammo in macchina io e Nicola, da Girifalco ad Aliano… 270 km. Arrivati lì scegliemmo lo spazio che ci interessava di più, il pianterreno di una casa antica, con in mezzo la bocca di un pozzo. Rovesciammo le pignatte in modo praticamente casuale, considerato anche il fatto che quelle cadute orizzontalmente finivano per rotolare… sarebbe da rifare. Ma poi com’è che c’eravamo finiti?
Niente, fu che l’anno prima fui invitato da Franco Arminio sempre ad Aliano, dove facevo una specie di seminario folle, itinerante, che si intitolava “Viabilità a misura d’uomo contro gli attacchi di panico (tornando all’Italia di prima)”, che poi era la base di partenza della rubrica “Strade Perdute” che sto curando su questo stesso giornale… Ma torniamo a te e cerchiamo di uscire un po’ dal tecnico. Qual è stata la tua soddisfazione maggiore?
«Sicuramente l’esperienza con la Galleria L’Ariete di Bologna, il mio battesimo del fuoco in termini concettuali, quando ho fatto We are not superheroes, e ho cercato di trascinare la scultura nella contemporaneità».
I tuoi bambini, meravigliosi e inquietanti… perché proprio i bambini?
«Da un lato era la necessità di uscire dal seminato dello studio accademico, dei modelli e delle modelle, dall’altra iniziavo a riflettere su una mia visione personale, una mia traccia visiva. Anche su quello che era il mio passato: ho giocato per strada e nella mia memoria c’è questo imprinting per cui ho plasmato questi bambini che riporto ad un’immagine minima relazionandoli alla scultura arcaica: sono fermi, non giocano, non hanno rapporti tra di loro ma nemmeno con i grandi. Sono dei bambini vecchi».
Una volta mi hai detto che questi bambini sembrano buoni ma in realtà sono cattivissimi.
Non è che poi crescendo le cose cambino molto… Detto ciò: i tuoi sono bambini belli… perché? Forse per una forma inconscia di politically correct per cui non vorresti far passare la cattiveria infantile attraverso tratti somatici sgradevoli?
«Riguardandone alcuni che non ho mai esposto, diciamo che non li metterei sul podio dei più belli della classe».
Sono anche molto fotografici, icastici, ma spesso è come se non avessero gli occhi…
«Li hanno velati: quello che voglio è eliminare un aggancio emotivo diretto, ecco perché eliminare l’occhio. Nella mia visione, velare gli occhi significa riportare tutto al corpo e alla semantica del corpo. Una scultura che diventa vicina fisicamente ma lontana a livello emotivo. Non mi interessa che passi la mia idea. Interessa che la mia opera riesca a far sentire lo spettatore davanti a un dispositivo aperto. Poi sta a lui».
Prossimi progetti?
«Il MABOS (Museo d’Arte del Bosco della Sila), è un museo d’Arte Contemporanea situato nella Sila catanzarese. L’imprenditore, Mario Talarico, ha aperto questo parco scultoreo offerto per la realizzazione di opere site-specific che rimangano lì. E poi sono stato invitato al Premio San Fedele, a Milano».
Quindi, in parte, un temporaneo ritorno alla Calabria. Tutta l’Italia è paese?
«Tutta l’Italia è provincia. L’Italia non è mai riuscita a vedersi come una nazione protagonista, ma ha sempre avuto una visione subalterna di se stessa».
A parte forse durante il Rinascimento, anche se non c’era una sola Italia…
«Esatto… era più internazionale e centrale cinquecento anni fa che non oggi».
Paolo Migliazza all’opera in occasione di We are not superheroes
Cosa consiglieresti a un diciottenne artista di oggi?
«Niente. Gli consiglierei di annoiarsi».
Questa l’ha detto anche Paolo Sorrentino…
«Ed è giusto. L’eterna provincia d’Italia, che è il Sud, e in particolare la Calabria… in questo ci aiuta. La provincia ti lasciava la libertà della noia perché non era a contatto con una contemporaneità stressata dai mezzi di comunicazione. Mi sento fortunato».
Però fa scaturire anche recriminazioni…
«Certo, il fatto che ci sia sempre una sorta di clientelismo. Il fatto è che spesso giù – ora un po’ meno – c’è sempre un po’ una visione per cui la cultura sembra di minor valore e rischia di mischiarsi alla sagra di paese. La Calabria è come una macchina supersportiva che potresti mandare a mille e invece la lasci ad arrugginire nel vialetto dietro casa perché ti vergogni di farla vedere…».
Le immagini all’interno dell’articolo raffigurano alcune sculture di Paolo Migliazza della serie “We are not superheroes”. L’autrice degli scatti è Rosa Lacavalla
«Ero stato felice a Gerusalemme, con la mia povertà, come non mai, perché ero stato libero di osservare la vita in silenzio, senza essere distratto dalla molestia delle faccende quotidiane» Gerusalemme, la Terra Promessa, città santa tre volte: per gli ebrei, i cristiani e i musulmani. Città contesa, ricca di contrasti, di contraddizioni, da sempre al centro di accese tensioni e sanguinosi scontri.
Questa città nel 1961 fu teatro del processo ad Adolf Eichmann.
Processo a Eichmann: La Cava inviato speciale
Il celeberrimo ufficiale nazista, pianificatore della soluzione finale, colpevole dello sterminio di milioni di ebrei durante la Seconda guerra mondiale, finì a processo proprio in un centro culturale gerosolimitano trasformato per l’occasione in tribunale; un evento che registrò un grandissimo coinvolgimento dei media mondiali.
Le udienze – che si svolsero dall’11 aprile al 15 dicembre ’61 e terminarono con la condanna a morte, non eccessivamente scontata alla vigilia– furono seguite da giornalisti provenienti da ogni continente.
Tra questi anche il grande scrittore calabrese Mario La Cava, inviato speciale del quotidiano lucano Corriere Meridionale.
Al centro, Mario La Cava
Il viaggio in Israele
La cronaca di quell’esperienza in cui La Cava «intuisce che l’incontro con la banalità del male lo riguarda direttamente come individuo», in una terra molto più lontana e misteriosa – e quindi seducente – di quanto non possa comunque apparire ancora oggi, ritorna in Viaggio in Israele pubblicato, in ultima edizione, da Edicampus.
In questo prezioso volume – che gode delle attente curatela e introduzione di Milly Curcio e di un saggio di Luigi Tassoni – lo scrittore nato a Bovalino l’11 settembre 1908 tesse un filo che lega due mondi vicini e lontani, divergenti e convergenti.
Due realtà unite dal Mediterraneo che sciaborda sulle sponde ioniche della Calabria e su quelle israeliane.
Una civiltà arcaica in abiti moderni
Il processo Eichmann, infatti, per l’intellettuale assunse presto le fattezze del fortunoso pretesto per raccontare una civiltà arcaica e nuova al contempo, che lo sorprende per l’affinità col popolo della sua Calabria.
Una civiltà arcaica e nuova. Questa civiltà sorse soltanto nel 1948 con la costituzione dello Stato di Israele nella partizione a tavolino – osteggiata dagli antisionisti e dagli arabi – dell’antichissima Palestina, deliberata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite.
Non solo: per La Cava il viaggio in Israele divenne l’indagine silenziosa – parola chiave della sua peregrinazione – di un universo fino ad allora appena fantasticato.
Immagine d’epoca di Tel Aviv
Un calabrese in Israele per il processo Eichmann
Lo scrittore, già noto e apprezzato in quell’epoca – l’autore de I Caratteri negli ultimi anni Cinquanta aveva dato alle stampe Le memorie del vecchio maresciallo e Mimì Cafiero –, affidò a un anonimo protagonista, suo alter-ego, il racconto di quella esperienza illuminante.
E, come per ogni viaggio di scoperta che si rispetti, gli inconvenienti – magari inconsciamente cercati – non tardarono. Sulla nave diretta ad Atene (scalo verso la Terra Promessa), il protagonista-autore si imbatté in un tale Toto C., pingue ebreo italiano, sedicente chirurgo esperto di procurati aborti, fuggito dal Bel Paese perché la donna che aveva sposato era oramai irrimediabilmente invecchiata e ingrassata. Non era più attratto da lei e perciò aveva pensato bene di rifarsi una vita nel novello Stato di Israele.
Il fascino della Terra Santa
La sosta nella capitale greca si protrasse più del dovuto per l’“oscuro scrittore” e il nuovo conosciuto, sicché, perduta la nave, ripartita dal Pireo senza di loro, si trovarono costretti a raggiungere Israele in aereo. A spese dell’ingenuo La Cava, che atterrò in Terra Santa avendo già speso gran parte del denaro portato con sé. Questo contrattempo segnò il suo intero soggiorno. E non per forza in negativo.
Lo scrittore si trovò beatamente spaesato in Israele, a contatto con una umanità povera ma non misera, ricevuto con l’ospitalità che tanto gli ricordò la sua regione in case di ebrei e di arabi. Si perse in pranzi pantagruelici, contemplò sinagoghe, biblioteche, kibbutz, porti, spiagge e coltivò stupore e malinconia per ogni cosa: il cielo ingombro di uccelli, le distese di eucalipti, il suggestivo “disordine silvestre” intorno alle città, il brulichio delle stradine, le barbe più belle sulla faccia della terra.
Narratore-viaggiatore, nello Stato ebraico Mario La Cava indagò con lo sguardo curioso le genti, le loro costumanze e il paesaggio tutt’attorno, nel sacro rispetto di ciò che si percepisce né inferiore, né superiore, ma unicamente diverso da sé. E neppure così tanto.
Soldati israeliani nella Gerusalemme anni ’60
Tel Aviv, Petah Tikva, Gerusalemme – in cui ammise di avere trascorso i giorni «più ricchi di intime vibrazioni» della sua intera vita –, Rehovot, Nazareth, Haifa, Beer Sheva, capitale del deserto del Neghev; in questo lungo errare l’intellettuale bovalinese tornò sovente col pensiero alla Calabria, ricordatagli non solo dall’accoglienza e dai volti mediterranei, ma anche dal mare, dai colli e dai monti di quella terra che pareva lo volesse riavvicinare alla patria lontana.
L’incontro con Adolf Eichmann nel processo
Mario La Cava partecipò ad alcune delle udienze conclusive dell’epocale contraddittorio riservato a Eichmann, tra le pagine più affascinanti dell’opera originata da quei giorni d’estate del ’61.
«Mi pareva che soltanto con quell’incontro io sarei penetrato negli abissi del male e attendevo quella prova quasi come una rivelazione, nella quale meglio avessi potuto conoscere me stesso».
In prima fila, in una atmosfera da teatro, in attesa dell’atto finale della tragedia, La Cava cercò con lo sguardo gli occhi Adolf Eichmann, occhi che «nemmeno per un momento si prestarono ad essere guardati». Il volto affilato dell’ufficiale delle SS, le sue labbra sottili, taglienti, «le labbra di chi non aveva mai sorriso ad alcuno».
Lo scrittore strabiliò dinanzi alla impressionante sicurezza, al manifesto agio di Eichmann, autentica reincarnazione del Diavolo, in quella situazione drammatica. E scrisse: «Sembrava che non avesse fatto altro che prepararsi nella sua vita a quel tipo di dibattimento».
Il gelido nazista
Di fronte alla speciale corte gerosolomitana che gli contestava crimini di guerra, crimini contro l’umanità, nello specifico contro gli ebrei, Eichmann asserì di avere eseguito ordini superiori, fedelissimo a un principio, un ideale, un capo che non esistevano più.
Agli occhi di La Cava, il criminale nazista apparì interessato esclusivamente a difendere da una parte «il buon nome del popolo tedesco di fronte alla storia» e dall’altra la sua verità suprema, che serbò dentro sé e che non permise a nessuno di scardinare e scoprire, lasciando così non pienamente soddisfatto il popolo di Israele, in cui comunque il narratore non riscontrò alcun furore particolare. Comprese che soltanto il silenzio dei sopravvissuti alle persecuzioni poteva essere «la risposta più confacente» alla sciagura cui la comunità ebraica era andata incontro.
Una domanda senza risposta
«Che uomo fu dunque Eichmann?» si domandò Mario La Cava. L’interrogativo rimase irrisolto; la condanna a morte dell’ufficiale, eseguita a Ramla, meno di cinquanta chilometri a nordovest di Gerusalemme, il 31 maggio 1962, mise la parola fine alla parabola di Eichmann fondendo nello stesso tempo l’unica chiave con la quale sarebbe stato possibile aprire il suo forziere di segreti.
Cos’è Viaggio in Israele?, si domanda invece oggi il lettore. Un saggio? Un romanzo storico? Un reportage?
Pubblicato per la prima volta nel 1967 da Fazzi, editore di Lucca, e ristampato nel 1985 dall’editore cosentino Brenner – con la speranza di fare ottenere migliore fortuna a quello che lo stesso autore aveva definito uno «strepitoso insuccesso» –, il libro del tentato vis-à-vis di La Cava e Eichmann e dell’avventura israeliana dello scrittore, non è facilmente confinabile dentro un recinto.
Eichmann in cella in attesa dell’impiccagione
Una testimonianza importante
Anche questo interrogativo resta insoluto. Se proprio volessimo arrischiare una definizione, accollandoci tutte le responsabilità del caso, potremmo identificarlo come un diario letterario, che attinge tanto dall’autobiografia quanto dal romanzo.
Nell’opera, Mario La Cava ci ha fatto dono di una testimonianza originale per comprendere l’inquietudine precedente alla cosiddetta Guerra dei sei giorni – breve ma decisivo conflitto del giugno 1967 che portò Israele a conquistare buona parte dei territori contesi – e che vige tuttora in quell’angolo del pianeta.
Le contraddizioni di un popolo tollerante e rigido insieme, le prime tensioni sociali, economiche e politiche, la complessità dei rapporti tra ebrei e arabi, paragonati, sotto il punto di vista sentimentale, ancora una volta ai calabresi, costretti a vivere da subordinati per il bene nazionale; aspetti che fanno del diario letterario – ci siamo convinti, sì – di La Cava uno scritto dalla «forte connotazione etica», come afferma Tassoni, da leggere, fedeli alle indicazioni dell’autore, in silenzio, con l’animo lene, spoglio dei pregiudizi e dell’arroganza propri di chi, postero ai fatti che è intento a leggere, crede di avere in mano la verità.
Condottiero, politico, economista e… massacratore. Nel lontano ’84 la controversa figura di Fabrizio Ruffo, il cardinale che soffocò nel sangue la Repubblica partenopea, fu ricordata a San Lucido, paese natale dell’aristocratico, in un convegno, a cui partecipò anche Giacomo Mancini.
In quell’occasione si presentò il romanzo storico Rosso cardinale, del giornalista inglese Peter Nichols, che ritraeva a tinte fosche il porporato.
Mancini contro il cardinale Ruffo
Giacomo Mancini fece un intervento accalorato, in cui evidenziò le nefandezze della spedizione di Ruffo e lo definì «un macellaio».
Tra gli ospiti c’era Gerardo Marotta, presidente dell’Istituto per gli studi filosofici di Napoli che non fu da meno del politico: «L’esortazione che io faccio è che mai sorga un monumento al cardinale Ruffo in questa piazza. Se mai, un monumento ai martiri del ’99».
La lapide della discordia per il cardinale Ruffo
L’appello di Marotta cadde nel vuoto: dopo quindici anni, nel dicembre del 1999, a San Lucido venne scoperta una lapide in memoria di Ruffo.
Fu un piccolo, paradossale primato: il primo tentativo di riabilitazione pubblica del “cardinale rosso”, per di più mentre si svolgevano le celebrazioni internazionali del bicentenario della Repubblica napoletana.
Anche il Corriere della Sera riportò quella “provocazione” in terza pagina, con un titolo significativo: Il cardinale Ruffo, un galantuomo dopotutto.
Gerardo Marotta, il presidente dell’Istituto per gli studi filosofici di Napoli
L’anatema di Maciocchi
Non basta rileggere il passato più o meno “illuminato” di Ruffo per farne una figura degna di qualunque interesse. Neanche oggi, che va di moda un certo revisionismo.
«Siano maledetti, per sempre, non solo i Borboni, ma tutti i Ruffo, e i loro eserciti della Fede! Essi hanno orribilmente rallentato la democrazia in Italia». È l’anatema scagliato dalla scrittrice Maria Antonietta Maciocchi nel suo libro Cara Eleonora (Milano, Rizzoli 1993), dedicato a Eleonora Fonseca Pimentel, l’eroina della Repubblica partenopea impiccata a Napoli senza mutande in mezzo alla piazza festante.
La responsabilità del cardinale Ruffo
Il cardinale Ruffo ha una grande responsabilità, storica e morale: al servizio di Ferdinando IV di Borbone, fu l’artefice della spedizione che partì da Palermo e si estese in tutto il Sud.
A tale scopo, Ruffo organizzò le bande armate per radere al suolo le città che avevano innalzato l’albero della libertà. Quindi caddero sotto i colpi dei Sanfedisti, che si muovevano sotto le insegne di Sant’Antonio (che aveva spodestato San Gennaro accusato di essere giacobino) popolazioni inermi.
Peter Nichols, biografo britannico del cardinale Ruffo
I volenterosi macellai del cardinale Ruffo
Una fonte anonima dell’epoca racconta tutta l’efferatezza dei massacri dei masnadieri di Ruffo, definito «un vero bandito», a cui si erano uniti i briganti di Fra’ Diavolo.
Tra i ricordi più forti c’è la Vandea di Altamura. La città pugliese, che aveva aderito alla Repubblica, si difese dall’assedio per quarantacinque giorni e capitolò solo in seguito a uno stratagemma.
Una volta entrate, le truppe diedero luogo all’eccidio: stuprarono donne e suore e fecero esecuzioni sommarie. Lo stesso Fabrizio Ruffo ordinò la fucilazione in piazza di suor Maria Sabina accusata di simpatie per i giacobini.
Cannibali a Napoli
Capitolarono, in Calabria, Crotone, Catanzaro, Cosenza, Paola e Amantea. A Napoli si narra che i corpi dei giacobini venivano fatti a brandelli dai lazzari, quindi arrostiti e mangiati. I loro teschi diventavano bocce.
Leggere per credere: «I cadaveri che uscivano dalle mani del carnefice li gettavano sui roghi; poi quando erano cotti a loro gusto, ne rosicchiavano il fegato e il cuore, mentre altri soldati, si fabbricavano fischietti con le ossa delle gambe».
Maria de Medeiros è Eleonora Fonseca Piementel ne “Il resto di niente”
Pogrom partenopeo
Il cardinale non risparmiò neanche i prelati. Finirono al patibolo un vecchio sacerdote, Nicola Pacifico, e il vescovo di Vico Equense, Michele Natale, autore di un catechismo repubblicano. Tutta la meglio gioventù napoletana, cresciuta col pensiero di Vico e Filangieri e con gli ardori della Rivoluzione francese, fu sterminata. Francesco Caracciolo, comandante della flotta napoletana finì appeso al pennone più alto della nave dell’ammiraglio inglese Orazio Nelson.
Per non parlare della fine di un’altra madre della patria: Luisa Sanfelice, protagonista dell’omonimo romanzo di Alexandre Dumas.
Ferdinando I di Borbone, ‘o Re Nasone
Il voltafaccia di re Ferdinando
Anche i massoni pagarono cara l’adesione alla Repubblica: tra i perseguitati spicca l’abate Antonio Jerocades, a cui sono tuttora dedicate molte logge, che fu costretto all’esilio. Il fragile esperimento rivoluzionario finì in tragedia. E a nulla valse la “onorevole” capitolazione che Ruffo offrì a Castel Sant’Elmo agli insorti: finirono tutti giustiziati. Infatti, dopo la vittoria re Ferdinando voltò le spalle al cardinale e calpestò gli accordi di resa da lui siglati con i giacobini. E da allora per il cardinale carnefice cominciò il lento declino.
Nella Bagnara del 1860, splendida come poteva essere allora, nasce Vincenzo Morello, unico maschio in una ricca famiglia di commercianti. Rampollo baciato già solo per questo dalla fortuna, non evita tuttavia gli studi. Finisce così dapprima al Collegio Donati di Messina, poi – percorso classico per quei tempi – a Napoli per laurearsi in Giurisprudenza. In verità, però, a Morello – avvocato tanto a Napoli quanto in Calabria – il diritto interessa ben poco, mentre è molto più attratto dal giornalismo.
Rastignac, D’Annunzio e signora
Nel 1881 fonda a Pisa la rivista Il Marchese Colombi e nel 1887 diventa collaboratore fisso del quotidiano La Tribuna. È tra queste colonne che incomincia ad utilizzare lo pseudonimo Rastignac, ispirato all’Eugène de Rastignac ideato dalla penna di Balzac.
Lo definiscono «articolista principe del giornalismo italiano» e il suo nome comincia a svettare: è amico di Gabriele D’Annunzio e con lui condivide un profondo scetticismo nei riguardi della politica giolittiana e del parlamentarismo, inteso come «grande scuola di delinquenza nazionale». A dire il vero, con D’Annunzio condivide anche altro, ovvero l’amore per la stessa donna: quella Maria Hardouin di Gallese, moglie del Vate, la quale si toglierà la vita nel 1890.
Maria Hardouin di Gallese, moglie di D’Annunzio e amante di Morello
Vincenzo Morello e il giornalismo
Morello si lancia totalmente nel giornalismo e diventa redattore del Piccolo, su invito del direttore Rocco de Zerbi, dove intraprende una polemica contro il repubblicano Giovanni Bovio. È così feroce da procurargli in realtà una collaborazione ancora più prestigiosa, ovvero quella con Il Corriere di Roma, guidato all’epoca dalla vulcanica coppia Matilde Serao – Edoardo Scarfoglio, che di Morello fu in qualche modo il mentore.
Sulle orme della vecchia Tribuna, nel 1890 fonda – assieme a Giulio Aristide Sartorio – la più celebre e popolare Tribuna Illustrata, il primo periodico illustrato italiano.
Infine, nel 1894 (stesso anno in cui pubblica il volume Politica e bancarotta) fonda Il Giornale, assieme a Bobbi e Bellodi, posizionandolo politicamente intorno alle figure di Zanardelli e Crispi.
Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao
Trombato alle elezioni
Allora come oggi, raggiunte le vette del giornalismo niente è più semplice che fare anche politica. Nel 1895 Morello si candida alle elezioni per la XIX legislatura nel collegio di Bagnara, ma lo sconfigge il notabile locale Antonino De Leo. Questi – dicono le biografie – «alla forza delle idee aveva anteposto il potere del denaro. Morello ottenne 950 voti contro i 1420 di De Leo: accusato di essersi venduto all’avversario, uscì dalla vicenda profondamente amareggiato e, dall’indignazione provata nei confronti dei suoi concittadini, ebbe origine il vulnus che scavò una distanza insanabile con la sua città natale».
L’Ora… di tornare al Sud
Torna dunque al giornalismo, pur continuando a sostenere Crispi e a opporre Giolitti. Stavolta nelle vesti di primo direttore del nuovo quotidiano palermitano L’Ora, che si presenta come giornale di opposizione al regime autoritario del generale Pelloux. A chiamarlo per tale ruolo, nel 1900, è l’industriale Ignazio Florio in persona. Qui Morello fa confluire le più note penne del giornalismo italiano e riesce a far diventare L’Ora un giornale moderno, capace di competere con i più grandi quotidiani nazionali.
Ignazio Florio junior
Il ritorno in politica di Vincenzo Morello
Ma Morello fu anche poeta, drammaturgo e critico teatrale. Se nel 1881 aveva pubblicato a Napoli le sue Strofe, più avanti dava alle stampe anche i volumi Leggendo (1886), Nell’arte e nella vita (1900), L’albero del male (1914), Il roveto ardente (1926), Dante, Farinata, Cavalcanti: lettura nella Casa di Dante in Roma (1927) e Germinal, in quel 1909 in cui comincia a dirigere le Cronache letterarie di Firenze.
E poi ritenta la via politica: si avvicina così alle prime posizioni fasciste e nel 1923 viene nominato senatore nella XXVI legislatura del Regno, per la 20ª categoria: coloro che con servizi o meriti illustrano la Patria. Nel caso specifico, come «solenne riconoscimento delle singolarissime qualità dello scrittore e, più ancora, dell’opera da lui svolta, durante trent’anni di strenua attività nella stampa quotidiana, per la rivendicazione delle più alte idealità italiane».
Troppo laico per la camicia nera
Molto vicino al Duce, nella cui politica vede realizzate le proprie aspettative, Morello scrive sul mussoliniano Gerarchia. Il 16 dicembre 1925 lo nominano commissario della Società Italiana degli Autori ed Editori, di cui diventa presidente per il biennio 1928-1929. Dal 1926 è direttore del quotidiano milanese Il Secolo.
Benché avesse osteggiato per una vita intera il parlamentarismo e benché fosse stato anche ben poco partecipe in Senato, Vincenzo Morello era ispirato da forti sentimenti patriottici. Intorno alla questione del Concordato tra Stato e Chiesa cattolica pubblica nel 1932 il volume Il Conflitto dopo la Conciliazione, nel quale condanna le concessioni concordatarie alla politica ecclesiale. Coerentemente al proprio spirito anticlericale e ai propri trascorsi massonici, aveva infatti dato le dimissioni dal Partito Nazionale Fascista già nel 1930, proprio all’indomani del Concordato e delle scelte del regime in materia di istruzione, matrimonio e proprietà.
Benito Mussolini, e il cardinale Pietro Gasparri al momento della firma del Concordato
Essendo egli scettico in merito alla propria eventuale iscrizione all’Unione nazionale Fascista del Senato, i senatori De Vecchi e Vicini, per conto del Direttorio, lo invitavano ancora nel 1932 a partecipare alla successiva seduta di Palazzo Madama con la camicia nera d’ordinanza. Invano.
Molto prima che ci facessero sognare i vari Giggs, Gerrard e Lampard, Rui Costa, Leonardo, Ronaldinho o in parte Redondo (molto più tecnico, ma col baricentro molto più giù), il centrocampista che va sistematicamente in goal è una invenzione italiana. Tipica di squadre chiuse, dove il fantasista scardina e il 9 puro fa più la boa che il bomberone. Mario Corso Mario, come dice Ligabue. Mazzola che avanza due palloni d’oro, uno di Cruijff e uno dell’altro dieci con la rete e la sigaretta facile, Gianni Rivera.
Nella Cosenza Ottanta/Novanta, e nel suo Cosenza, qualche giocatore tecnico che piace alla curva e ogni tanto sciorina in saccoccia delle perle gemmate si vede.Urban, ad esempio, tanta classe ma anche tanti sacrifici sui campi off della pedata minore. Molto più tardi Tatti, che però gioca seconda punta. Nel ‘93/’94, l’anno del primo mondiale tototruffa e tutto marketing, a Cosenza abbiamo Pietro Maiellaro.
Pietro Maiellaro, lo Zar di Bari
Irsuto d’approccio, abulico quando di luna storta, ma dispensatore di gioia quando lo squarcio si accende e rivela. Si era fatto le ossa a Bari, divenendo una sorta di Lider Maximo, idolo di quartiere, tipo da murales, da maglia autografata, da tanti calci e ancora più calcio. Lì, il primo frame dei suoi flash da Messi ante litteram. Lui coi galletti pugliesi, tutti gli altri un Bologna piccolo piccolo.
Pietro Maiellaro affronta Diego Armando Maradona in una sfida tra Bari e Napoli
Era del resto un Bologna un po’ straccione e un po’ decaduto insieme, molto diverso dalla squadra di fine anni Novanta che, grazie ai goal di Beppe Signori alla seconda giovinezza da fantasista, farà nella stessa stagione semifinale in Coppa Italia e UEFA.
La palla è una saponaccia poco oltre i quaranta metri: rimbalzata, strappata, sporca, lercia e anonima. Maiellaro ci vede dietro la sceneggiatura del goal della domenica, la giocata da loop in cineteca. Buona acrobazia per acciuffarla piena e scarica robusta: una sassata balistica che uccella l’estremo difensore felsineo andato a caccia di farfalle.
Dopo quelle quattro stagioni da urlo, si fanno avanti in tante. Una volta è la Fiorentina: la Fiorentina che, come in modo suicida faceva il Cecchi Gori di inizio Duemila, comprava attaccanti su attaccanti. E segnava e prendeva. Maiellaro, in realtà, c’è: ma gioca poco, la continuità non esiste. E Maiellaro a Bari ha insegnato che per prendersi la scena deve avere la piazza, la stagione, la tenacia del tempo contro l’euforia dell’attimo. Altrimenti, quei suoi istanti di cristallo non hanno giusto ambiente di maturazione.
La seconda chance
La seconda chance si chiama Ternana: neopromossa in B che fa una campagna acquisti grandi firme e zero contratti. Sulla carta Pino “Saracinesca” Taglialatela, pararigori nel Napoli che rimpiangeva Maradona e troppo presto aveva dimenticato Giuliani, e Sandro “Cobra” Tovalieri: velenoso bomber bassino che poteva fare anche il tornante. Tanto i suoi golletti stagionali li refertava. Si dissolse presto e le curve di Terni subirono l’ennesimo declassamento sul campo. Alcuni amici e maestri conosciuti tra i Freak Brothers della Est ricordano ancora quella estate di illusioni di oltre trent’anni fa: come un bacio non dato, che non si dimentica per il male che ti ha fatto.
Ho visto Maiellaro
E così Pietro Maiellaro a Cosenza. Annata realizzativa buona. Il Cosenza della B ogni anno, e ogni anno l’aritmia in pieno petto di non sapere se lotterai per la A o dovrai romperti la schiena ad evitar la C (un coro ancora cantato in Bergamini nasce da questa schizofrenia).
La Curva Sud del San Vito negli anni ’90
Cosenza-Fiorentina. Presente stretto, passato prossimo a metà. Maiellaro prende una palla ancora una volta anonima, di risulta, una fesseria sotto il Sole che squarcia in diagonale il rettangolo al San Vito quasi fossero i Campi Elisi di Marassi. Se li beve tutti, indistintamente tutti. Cinque, sei gli vanno dietro. Lui semina e cammina. L’attempato cronista della Rai dirà che Maiellaro si ferma solo quando la palla va in rete: è vero. San Vito in delirio permanente, io lì ragazzetto con lo zio Tonino, fratello di mia nonna, tutta sera ancora a parlare, a una cena di famiglia con nonni e bisnonni, del goal di Maiellaro, del contratto al Milan di Baresi, di quel calcio grande che si sentiva anche in piccola città (non) bastardo posto.
Maiellaro si perderà un po’ negli anni a seguire. Nel ’96 in Messico, quando gli italiani all’estero erano roba occasionale da folklore. Mica oggi, che il Messico ha visto gli ultimi ruggiti della Tigre André Gignac, che avrei voluto a Roma. E infine un solidissimo fine carriera con microparentesi da giocatore-allenatore in campo in quel di Campobasso. Dicono che ci manchi quel calcio perché abbiamo perduto l’innocenza. E invece no: ci manca ché abbiam perduto la bellezza.
È considerato tra i maggiori artisti del panorama italiano tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo; le sue opere hanno valicato i confini sia nazionali che continentali. Francesco Jeraceè senza dubbio tra i figli più illustri della Calabria degli ultimi duecento anni.
Francesco Jerace, da Polistena a Napoli
Nato il 26 luglio 1853 a Polistena – popoloso paese del Reggino, stretto tra la Piana di Gioia e le pendici settentrionali del massiccio dell’Aspromonte –, Francesco Jerace era figlio di Fortunato e Mariarosa. Quest’ultima era discendente dei Morani, famiglia di scultori in legno originaria del Catanzarese che, al principio dell’Ottocento, si era trasferita verso i declivi del “Monte Bianco” calabrese per sfuggire alla prepotenza dei francesi.
Ed è proprio nella bottega famigliare di Polistena – centro ricostruito da pochi decenni dopo il devastante terremoto del 1783 – che il giovane Jerace viene iniziato all’arte del disegno, dell’intaglio e della scultura. Emerso il suo talento naturale, non passa troppo tempo che il rampollo si trasferisce a Napoli, presso la Real Accademia di Belle Arti. Sono i primi anni settanta dell’Ottocento.
Un ritratto di Domenico Morelli
A Napoli – città dove lo raggiungeranno presto i fratelli Vincenzo, anch’egli scultore, Gaetano, pittore paesaggista, e Michelangelo, poi insegnante – Francesco Jerace frequenta Andrea Cefaly, calabrese di Cortale e già patriota e pittore affermato. I suoi maestri sono Saverio Altamura, Tito Angelini, Tommaso Solari e Domenico Morelli. Dopo una prima passione per la pittura, fase non scevra da incomprensioni con maestri e pubblico, è proprio Morelli, insigne pittore e anima dell’Accademia, che indirizza il giovane alla scultura.
La prima commissione di rilievo
A Napoli, Jerace conduce una vita tutt’altro che agiata fin quando nel 1873 non giunge la prima importante commissione della carriera. Marta Somerville lo incarica di scolpire il monumento funebre della madre, la astronoma e autrice scozzese Mary Somerville. Scrive Alfonso Frangipane, biografo dell’artista, che al termine del pesante lavoro – oggi sito al cimitero inglese di Napoli –, la nobildonna, nel retribuirlo per il servigio, gli consigliò di procurarsi un luogo più salubre in cui svolgere il suo mestiere, ché lo vedeva “tanto malandato in salute” (A. Frangipane, Francesco Jerace, in Studii e ritratti calabresi, Casa editrice “La Sicilia”, Messina 1924).
Napoli, cimitero degli inglesi: il monumento funerario a Mary Somerville
Francesco Jerace, lo scultore dell’eleganza e della gagliardia
Il riconoscimento internazionale, comunque, non tarda a venire. Grande fortuna ha il gesso del Guappetiello, il fanciullo del popolo napoletano, riprodotto in molteplici repliche, tra le quali una in bronzo sarà portata all’Esposizione universale di Parigi del 1878. In quell’occasione tutti si accorsero della straordinaria grazia dell’arte di Jerace; la maestria jeraciana, infatti, segnò un progresso nella scultura italiana della seconda metà dell’Ottocento, per la luce che sembrano sprigionare i suoi busti, per il realismo, per il bello ideale che raggiunge, per la libertà e l’armonia delle forme, lievi nel marmo in cui sono incise. Camillo Boito, architetto e teorico di spicco dell’architettura, esaltò l’artista calabrese definendolo «lo scultore dell’eleganza e della gagliardia».
Un tocco di Calabria nella capitale
Addentriamoci adesso nell’opera di Jerace. Partiamo da Roma, dove è possibile trovare lavori del grande scultore polistenese a Palazzo Madama, a Palazzo di Montecitorio e alla Banca d’Italia – luoghi che conservano tre busti di Francesco Crispi. Alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea si trova, invece, il marmo del Trionfo di Germanico. Al Vittoriano, l’Altare della Patria, al lato destro della cancellata artistica di Manfredo Manfredi è collocato il gruppo bronzeo dell’Azione, capolavoro realizzato appositamente per l’apertura del Monumento nazionale a Vittorio Emanuele II. Di queste due ultime opere monumentali esistono altrettanti bozzetti, conservati all’interno della Gipsoteca Francesco Jerace di Catanzaro, ospitata al MARCA, Museo delle Arti della città capoluogo della Calabria.
Roma, complesso del Vittoriano: l’Azione, opera di Francesco Jerace
La Napoli di Francesco Jerace
La città che però conserva il maggior numero di opere del Maestro calabrese è certamente Napoli, dove Jerace visse per lunghi periodi della sua vita. Alle pendici del Vesuvio si possono ammirare le decorazioni del giardino e dei salotti della settecentesca Villa La Fiorita, nell’abitazione sui Colli Aminei l’artista soggiornò, ospite della famiglia del banchiere svizzero Oscar Meuricoffre. Oppure apprezzare l’altorilievo bronzeo sul frontone dell’Università degli studi, in cui, fra le diciotto figure – delle quali una è un ritratto del nonno Francesco Morani –, spicca Federico II, lo Stupor Mundi, fondatore dell’ateneo nell’anno di grazia 1224.
La statua di Beethoven nel cortile del Conservatorio di San Pietro a Majella
Ancora nella già capitale del Regnum Siciliae citra Pharum è possibile imbattersi nella statua jeraciana di Vittorio Emanuele II sulla facciata di Palazzo Reale, nei monumenti a Nicola Amore e a Giovanni Nicotera in Piazza della Vittoria, nelle sculture sul frontone del Duomo, nel busto della boccaccesca Carmosina al Museo e Real Bosco di Capodimonte, nella statua di Antonio Toscano, l’Eroe di Vigliena, al Maschio Angioino, nella drammatica Mater dolorosa del monumento Cocchia al cimitero di Poggioreale e nella statua di Ludwig van Beethoven, presentata nel 1895 alla edizione inaugurale della Biennale di Venezia e oggi collocata nel cortile del Conservatorio di San Pietro a Majella. Piccola parentesi: alla kermesse della città lagunare, inoltre, Jerace partecipò con altre opere tra le quali il busto di Hadria, poi acquistato da Guglielmo II, imperatore di Germania e re di Prussia.
In giro per l’Italia
Intorno all’area campana e meridionale sono da citare i monumenti in memoria dei caduti della Grande guerra a Sorrento e ad Aversa, il monumento a Giuseppe Martucci a Capua, la statua di Gabriele Pepe a Campobasso e un bronzo raffigurante Nino Cesarini, compagno del barone francese Jacques d’Adelswärd-Fersen, che il nobiluomo – personaggio da romanzo – fece collocare nel giardino di Villa Lysis a Capri, suo “tempio bianco” sacro all’amore e al dolore. La scultura purtroppo è andata perduta successivamente al suicidio del Fersen nel 1923 e all’abbandono in cui precipitò la Villa.
Il barone Fersen
Menzionando il gruppo dedicato a Gaetano Donizetti a Bergamo – onere che Jerace ottenne a seguito di un concorso in cui trionfò contro una schiera di rivali in buona parte provenienti dal Nord –, proseguiamo l’itinerario artistico dello scultore calabrese giungendo nella sua terra d’origine.
Bergamo, il monumento a Donizetti realizzato da Jerace
Le opere a Polistena
All’interno del Duomo della natia Polistena – dove Jerace ricevette il battesimo – si trova un suo altare marmoreo, quello della cappella del Santissimo Sacramento, su cui campeggia la grande tela dell’Eucarestia, chiaramente firmata Jerace. All’interno del luogo di culto è conservato anche un quadro dell’Ultima Cena (dipinto nel 1904 per volontà del padre), fatica bastevole a ricordare l’altro campo artistico in cui eccelleva il Maestro. L’esterno della chiesa dedicata a Santa Marina Vergine presenta inoltre un frontone realizzato su disegni dell’illustre concittadino.
L’Ultima Cena, dipinto realizzato da Jerace su richiesta del padre
Oltre a ciò, Francesco Jerace ha voluto ricordare il sacrificio dei polistenesi nel corso della Prima guerra mondiale con un monumento ai caduti situato in Piazza del Popolo. A sua volta Polistena ricorda il suo indimenticabile figlio con un’opera bronzea di Fortunato Longo, inaugurata nel 1997 e posta nella piazza da cui parte la via dedicatagli, e con la Casa museo Jerace, aperta nel 2018, nelle cui sale sono esposte numerose opere d’arte eseguite dall’artista e dal fratello Vincenzo. Nel Municipio della “perla della Piana”, in ultimo, si trova un bassorilievo di gesso con una testa barbuta – una delle primissime realizzazioni del giovane Jerace – e altri lavori donati in tempi recenti dagli eredi.
Polistena, Monumento ai caduti
Francesco Jerace in Calabria
A proposito di donazioni: abbiamo citato in precedenza la Gipsoteca Francesco Jerace di Catanzaro. Lo spazio offre una nutrita collezione di marmi e gessi dello scultore, donati nel 1966 dalla figlia Maria Rosa, come una riproduzione della Victa – busto marmoreo col quale nel 1880 partecipò all’Esposizione nazionale di Torino – e i busti ideali dell’Ercolanea e della principessa Evelina Colonna di Galatro.
Reggio Calabria, il monumento a Giuseppe De Nava
In Calabria la mano di Jerace è rintracciabile in diverse città. A Reggio Calabria il Maestro realizzò le statue di San Paolo e Santo Stefano di Nicea per il sagrato del Duomo: il primo secondo tradizione convertì la popolazione reggina al Cristianesimo, il secondo fu invece il primo vescovo della città. All’interno del Duomo di Reggio si trova pure un suo monumentale pergamo. Per la città sullo Stretto il Genio di Polistena ha scolpito, inoltre, il monumento ai caduti con la Vittoria Alata, il marmo Eroica, il monumento a Giuseppe de Nava e un busto della poetessa locridea Nosside. Da segnalare anche un originale autoritratto a sanguigna custodito all’interno del Museo diocesano della città metropolitana.
Un museo a cielo aperto
Proseguiamo la carrellata citando i lavori di Francesco Jerace accolti alla Gipsoteca Michele Guerrisi, presso la Casa della cultura Leonida Repaci di Palmi, il busto di nobildonna conservato al MAON, Museo d’arte dell’Otto e Novecento di Rende, e l’Angelo della tomba Compagna al sacrario della Schiavonea di Corigliano.
Non soltanto gallerie al chiuso: la Calabria rappresenta, infatti, un autentico museo a cielo aperto per quel che riguarda l’opera di Jerace. Per le strade di Crotone si incontrano le statue di Armando Lucifero e Raffaele Lucente; a Cosenza gli Angeli della cappella Greco; a Pizzo, prossimo all’incantevole belvedere di Piazza della Repubblica, il busto di Umberto I di Savoia scolpito nel 1902 per ricordare il sovrano d’Italia assassinato due anni prima per mano di un anarchico; a Stefanaconi il monumento ai caduti; a Scilla la possente statua di bronzo della Sirena; ancora a Catanzaro i marmi dei viali di Villa Margherita, raffiguranti illustri calabresi del XIX secolo tra cui Andrea Cefaly, Francesco Fiorentino e Bernardino Grimaldi.
Cosenza, gli Angeli della cappella Greco
Sul tetto dell’Aspromonte
Impossibile dimenticare, infine, la statua bronzea del Cristo Redentore, realizzata per il Giubileo del 1900 e rientrante nel “grandioso omaggio a Dio” concepito da papa Leone XIII, progetto che prevedeva la collocazione di venti statue su altrettanti monti italiani.
Posto nel 1901 sulla cima dell’Aspromonte, ai 1956 metri di Montalto, comune di San Luca, il Cristo Redentore di Francesco Jerace ha in mano una grande croce e con l’altra benedice l’intero popolo calabrese, perché possa vivere nella fede in Dio e non dimentichi i grandi uomini – religiosi e artisti su tutti – che lo hanno rappresentato nel mondo.
Montalto (San Luca), il Cristo redentore
Francesco Jerace, sculture in tutto il mondo
Membro della commissione permanente di Belle Arti, l’eminente artista fu professore onorario delle accademie di Belle Arti a Napoli, Milano e Bologna e alla VIII Biennale del 1909 gli fu riservata una mostra personale.
Francesco Jerace fu invitato alle rassegne internazionali più importanti del suo tempo, partecipando a varie Esposizioni universali, all’Esposizione italiana di San Pietroburgo dell’anno 1902 e a manifestazioni anche oltreoceano (fu a Saint Louis, Buenos Aires e Santiago del Cile) prima di spegnersi a Napoli il 18 gennaio 1937. Sue opere si trovano oggi in tutto il globo: da Londra a Berlino, da Dublino a Monaco di Baviera, da Varsavia, a L’Aia, Madrid, Atene, Odessa e Bombay.
Il Festival di Sanremo sta per iniziare, si sa, e interrogarsi su cosa significhi per questo nostro paese la sua puntuale, amplificatissima e superimposta celebrazione, nella disputa canonica tra elitarismo di massa e disprezzo intellettualistico per il pop, nella liturgica lotta tra apocalittici e integrati della canzonetta, è diventato oramai pericoloso come affrontare un dogma di fede, un tabù, un totem da scomunicare o idolatrare senza discussione.
Festival per tutti (e tutto)
Certo è che il Festival per antonomasia, quello di Sanremo, da settant’anni a questa parte è diventato il modello di spettacolo popolare che questo paese si è costruito per significare la categoria di un «evento di spettacolo popolare che ha luogo periodicamente in determinate località, con rappresentazioni di particolare rilievo e con programmi aventi di solito un loro carattere costante» (Treccani). La logica dell’evento, la festivalizzazione, ha colpito nel frattempo in ogni settore. Ormai un festival incombe per ogni cosa, dalla letteratura alla filosofia, dal porno all’edilizia, dalla cucina bio ai materiali high-tech. Un carattere di crescente enfatizzazione spettacolare e di ripetitività che, a partire dall’originale, ha generato sin dalle prime edizioni sanremesi anche curiose imitazioni e stravaganti repliche locali. Anche con sviluppi istituzionali.
La storica sede del Festival di Sanremo
La Regione Calabria, per esempio, alcuni fa nella rincorsa ai “grandi eventi” spettacolar-turistico-culturali da celebrare in regione, si inventò un bando pubblico intitolato non a caso “Calabria Terra di Festival”. Ma anche uno dei primi tentativi di clonazione della rassegna canora sanremese, incredibilmente, prese in passato le mosse proprio in Calabria. E per similitudine con l’evento originario, proprio in un piccolo centro rivierasco del Tirreno cosentino, solo qualche anno dopo la celebrazione dal primo Sanremo canzonettistico.
Il Lucival: San Lucido come Sanremo
Accadeva a San Lucido negli anni ’50 del Novecento. Il festival appena gemmato sulle sponde calabre, magra e provinciale imitazione del primo, non poteva fare a meno di echeggiarne almeno la desinenza. E fu così che si chiamò Lucival. Dato che “sentirsi Sanremo”, sognare le luci della ribalta canora con contorno di personaggi noti ed esibizioni di arti varie, con musiche, balli e luminarie – potenza primordiale dei primi organismi staminali dell’odierna società dello spettacolo – pare sia stata la molla di un’aspirazione agonistica per uscire dal grigio anonimato locale della vita di provincia, quando quella Calabria del secondo dopoguerra ancora neanche intravedeva il boom.
1954, un’esibizione durante la prima edizione del Lucival
La prima edizione del Lucival, «grande evento locale» celebrato nella “perla del Tirreno” calabrese, è datata 1954. Per chi ne divenne artefice «era il momento giusto per inventarsi qualcosa di simile» a Sanremo anche in un paesino di mare della lontana Calabria tirrenica, che dall’altro capo dell’Italia sognava di uscire con la musica, le canzoni e i cantanti dalle ombre lunghe della guerra. Alcuni giovani del luogo «al passo con i tempi capiscono che qualcosa sta cambiando nel mondo dello spettacolo». E così pensano bene di organizzare a casa loro “una kermesse canora-culturale, alla quale danno il nome di Lucival – abbreviazione originale di Festival San Lucidano”.
Nilla Pizzi in Calabria
Il Festival di Sanremo era iniziato appena qualche anno prima, nel 1951, quando le canzoni si potevano ascoltare solo alla radio, dato che la televisione non c’era ancora. Il 1954, l’anno del primo Lucival, fu pure l’anno di un avvenimento che cambio la vita dell’Italia popolare: il 3 gennaio la RAI, radiotelevisione italiana, aveva avviato la trasmissione dei primi programmi televisivi in bianco e nero. Nel 1951 il Festival di Sanremo lo vinse l’allora giovanissima Nilla Pizzi, che aveva spopolato con Grazie dei fiori, considerata all’epoca, con Papaveri e papere una sorta di manifesto in musica dell’Italietta di buoni sentimenti post bellica prudentemente guidata dalla Democrazia Cristiana di De Gasperi.
https://www.youtube.com/watch?v=4fuyGhGZOlA
Proprio la Pizzi, «con la sua voce melodiosa e la sua avvenente presenza», diventata personaggio familiare con il successo radiofonico del primo Sanremo, fu “ospite d’onore negli anni successivi proprio a San Lucido, conquistando tutti con le sue esibizioni canore”.
C’era chi intravedeva anche in Calabria in quelle presenze musicali amplificate dalla crescente risonanza del festival ligure, «l’avvento di un periodo di ottimismo, di incredibili trasformazioni sociali e di crescente entusiasmo culturale». Furono dei sognatori da pro-loco e filodrammatica di paese e far nascere il Lucival nel 1954. Ingenuità culturale e illusioni visionarie fecero il resto.
I premi per i bambini
«Il Lucival sanlucidano aveva l’impronta di una manifestazione di arte e di cultura varia che ambiva a valicare i confini locali per raggiungere tutta la Calabria; infatti, scrittori, poeti, giornalisti e artisti di varie specialità potevano concorrere per premi quali Il Giornale d’Italia e La Calabria Letteraria». Un mix popolare di musica, cantanti e buoni sentimenti, dato che «la manifestazione era organizzata a scopo benefico, tant’è che gli stessi vincitori devolvevano i premi in denaro a favore dei bambini poveri della scuola».
1966, un bambino sul palco del Lucival
Il Lucival non era infatti destinato solo ad una platea «di artisti locali e ad un pubblico di adulti», “ma si rivolgeva anche ai più piccini, con concorsi a premi come La Palestra dei Piccoli, L’Ugola d’Oro, Lo Zibaldone». Di fronte a queste auliche e ingenue dichiarazioni artistiche impossibile non provare sfogliando il folto album ingiallito del festivalino sanlucidano, una sorta di Amarcord per un mondo di sentimenti, emozioni e personaggi paesani ormai trapassato.
L’inventore del Lucival e l’inno cittadino
L’idea della manifestazione canora sanlucidana «era maturata grazie alla passione di un insegnante di musica», Giovanni Ciorlia,. Per anni fu animatore e «direttore artistico del festival sanlucidano» (ma anche primo presidente della Pro Loco e a lungo assessore comunale ed esponente della DC locale). Al suo fianco, il «Prof. Dalmazio Chiappetta, il Prof. Antonio Calomino, Sindaco di San Lucido, e il Prof. Giacomoantonio Napolitano (direttore didattico)». L’orchestra Primavera diretta dal maestro Franco Perri e il quartetto Aurora, diretto da Davide Iorio, costituivano, invece, il supporto orchestrale del festival, «il cuore pulsante dell’evento». Dopo aver «trionfato nell’edizione del Lucival del 1955», la canzone A ritmo di beguine, Notte Sanlucidana, «scritta dal maestro Clemente Selvaggio e musicata dal maestro Matteo Puzzello», composta e cantata in quell’occasione, “è divenuta nel tempo l’inno musicale della cittadina”.
Giovanni Ciorlia sul palco del Lucival insieme all’Orchestra Fenati
Il Lucival fu così nel giro di qualche anno un vero happening indigeno, un «evento musicale di grande richiamo» locale che raccolse nelle sue serate al clou del successo «un pubblico pagante» che, sostengono le cronache, giunse «fino a 7.000 persone». Il Lucival fu ripetuto con successo in diverse edizioni, ma senza mai valicare «i confini della provincia».
Si teneva in estate in uno spazio all’aperto, e tutto durò sino allo scoccare del fatidico 1968. Poi, cambiati i tempi, la musica e le mode, solo qualche replica minore e grandi nostalgie attestate da reduci e gruppi facebook locali, che oggi del “mitico Lucival” sanlucidano conservano a futura memoria reliquie e icone del bel tempo che fu.
Magari non come a Sanremo, ma anche gli spettatori del Lucival a San Lucido erano numerosi
San Lucido (quasi) come Sanremo: i big del Lucival
Si ricorda così qualche memorabile comparsata di alcuni volti noti del bel mondo dello spettacolo nazionale. Quella dell’attrice Sandra Milo o, nel 1968, quella di «Nuccio Costa, mattatore dell’ultimo Cantagiro». Persino un memorabile passaggio di Enzo Tortora, che “accolto calorosamente” presentò il Lucival del 1967. Poi una galleria minore di artisti di passo a cui arrise in quel periodo anche una qualche sporadica notorietà. Qualche esempio? La cantante Anna Identici e il più classico Achille Togliani. O, ancora, «Franco Tozzi e il suo complesso», che al Lucival del 1968 cantò I tuoi occhi verdi, unica hit che si ricordi di colui che altri non è che il fratello del più noto e fortunato Umberto Tozzi.
San Lucido, 1965: Achille Togliani al Miramare
Da Sanremo a San Lucido, la giuria del Lucival
Franco Tozzi, fratello meno noto del più celebre Umberto, si esibisce al Lucival
Enzo Tortora, presentatore al Lucival, insieme al “fantasista” Riccardo Vitali
Insieme a questi, una carrellata di dilettanti locali calcarono il palco delle “voci nuove” del Lucival restando per sempre “promesse locali”. Come “il complesso The Seamen”, o «l’orchestrina sanlucidana degli Aurora». Ma resta, forse unica impronta di vite e carriere artistiche avvolte nel buio della dimenticanza, una folta processione di illustri carneade e di figurine appena tangenti quel mondo fatuo e fatato «della Rai-TV». Epifanie forestiere in mezzo a quelle calde estati di fervore paesano di cui non resta altra traccia che queste fugaci apparizioni artistiche sanlucidane da rotonda sul mare. Evocazioni di nome d’arte quasi circensi e di silhouette teneramente fellinane, fantasmi del palcoscenico rimasti malinconicamente ai margini delle luci della grande spettacolo.
Fantasisti, imitatori e ragazzi di strada
Un appello a cui rispondono nomi da leggenda strapaesana come «il cantante Franco Giangallo», «gli illusionisti del duo Naldys», «la cantante Niky», «l’attrice Nuri Neva», «Rino, il ragazzo di strada», «la cantante della Rai-TV Myriam del Mare», seguita in altre edizioni dalle «applaudite apparizioni delle cantanti Rita Monaco, Germana Caroli, Anna Maria Maresca, Valeria Foroni». Con un contorno fiorito di interpreti e artisti di arti varie, come il «celebre Maestro direttore d’orchestra Giovanni Fenati», «il magnifico trombettista Tony Spada», o «il grande fantasista Riccardo Vitali».
Al cast nostrano dei Lucival di quei tempi non poteva mancare una specie di Noschese dei poveri, il mai più rivisto Mario Di Giglio. Era lui «il bravo imitatore» cui spettava l’arduo compito, in mancanza dei più noti e blasonati personaggi originali, di portare al Lucival tutte «le altre voci delle celebrità mancanti».
Erano pur sempre luci del palcoscenico, Lucival della ribalta.
Le immagini a corredo dell’articolo sono state raccolte negli anni dalle pagine FB “Giovanni Ciorlia – Un pezzo della nostra storia”; C’era una volta Santu Lucidu”; “Tavernetta letteraria”
In merito all’articolo da voi pubblicato il lo scorso 9 febbraio e titolato “Ripartire da Villa Rendano: Associazioni unite per la città”, si evidenzia che l’Archivio di Stato di Cosenza non è «smobilitato o in smantellamento» ma è attivo con una presenza costante sul territorio attraverso iniziative culturali di ampio spessore tra cui mostre documentarie e fotografiche, convegni, e laboratori didattici e visite guidate per le scuole di ogni ordine e grado.
Le citate manifestazioni sono state pubblicate sul sito dell’Istituto, pubblicizzate sui social e sui giornali. L’Archivio ha inoltre curato la partecipazione e condivisione degli eventi con associazioni del territorio con le quali è stato possibile realizzare molte delle iniziative proposte.
Unitamente a quanto sopra descritto, questo Istituto garantisce quotidianamente i servizi all’utenza tra cui l’accesso alla sala di studio per le ricerche storiche e culturali e la consultazione bibliografica. Nonostante l’Archivio di Stato di Cosenza, come altri Enti appartenenti al Ministero della Cultura, vive un momento di marcata carenza di personale è aperto e disponibile ad ogni forma di partecipazione con le associazioni del territorio garantendo il proprio ruolo Istituzionale.
Antonio Orsino Direttore Archivio di Stato di Cosenza
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Spettabile Direttore, Nell’articolo da Lei citato si riportano alcune impressioni emerse durante il dibattito tra associazioni ed enti culturali svoltosi a Villa Rendano. Prendiamo atto di quanto ci scrive. Ma prendiamo atto che anche Lei denuncia il sottodimensionamento del personale dell’Archivio di Stato. Restiamo a Sua disposizione per coadiuvare, nel nostro piccolo, tutte le iniziative opportune a valorizzare e difendere l’Istituzione da Lei diretta.
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