Categoria: Cultura

  • Joseph Roth, libri e film per combattere la fortezza Europa

    Joseph Roth, libri e film per combattere la fortezza Europa

    La citazione è lunga, e la chiosa ne riporta una seconda davvero illuminante. Ma per il suo contenuto, il suo autore, l’anno in cui è stata partorita, vale la pena di leggerla fino in fondo.

    Le parole di Joseph Roth

    «Se fossi papa, vivrei ad Avignone. Sarei felice di vedere ciò che è riuscito a realizzare il cattolicesimo europeo, quale grandiosa mescolanza di razze, quale miscuglio colorito delle più disparate linfe vitali. Sarei felice di constatare che nonostante questo rimescolio il risultato non è una tediosa uniformità. Ogni persona porta nel proprio sangue cinque diverse razze, antiche e recenti, e ogni individuo è un mondo che ha origine in cinque diversi continenti. Ognuno capisce tutti gli altri, e la comunità è libera, non costringe nessuno a comportarsi in un determinato modo. Ecco qual è il grado più alto di assimilazione: ognuno resti com’è, diverso dagli altri, straniero rispetto ad essi, se qui vuole sentirsi a casa propria. Un giorno il mondo avrà l’aspetto di Avignone? Che timore ridicolo hanno le nazioni, e perfino le nazioni in cui si vanta una mentalità europea, se credono che questa o quella “peculiarità” possa andar perduta e che dalla colorita varietà degli esseri umani possa scaturire una poltiglia grigiastra! Gli uomini infatti non sono dei colori, e il mondo non è una tavolozza! Quanto più numerosi sono gli incroci, tanto più nette resteranno le peculiarità! Io non riuscirò a vedere quel mondo meraviglioso in cui ogni singolo rappresenterà l’intero, ma già oggi intuisco un simile futuro quando siedo nella piazza dell’Orologio di Avignone e vedo rifulgere tutte le razze della terra nel viso di un poliziotto, di un mendicante, di un cameriere. È questo il grado più alto di quella che viene chiamata “umanità”. E l’umanità è l’essenza della cultura provenzale: il grande poeta Mistral, alla domanda di un dotto che gli chiedeva quali razze vivessero in questa parte del paese, rispose stupito: “Razze? Ma se di sole ce n’è uno solo!“.

    Questo brano è tratto dal libro Le città bianche di Joseph Roth. Nel 1925, il grande scrittore mittleuropeo fu inviato dal Frankfurter Zeitung nelle località della Provenza – tra le altre, Avignone, Lione, Marsiglia, Vienna, Tarascona – caratterizzate, appunto, dal loro colore dominante.

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    Lo scrittore Joseph Roth

    Cinema al Circolo Zavattini

    Queste magnifiche corrispondenze si trovano in un libro che ho letto nello stesso periodo in cui il Circolo Zavattini di Reggio propone una rassegna che comprende alcuni film francesi, l’ultimo dei quali è stato L’anno che verrà, del 2019, per la regia di Mehdi Idir e Grand Corps Malade. La storia narra di una scuola media in cui dai primi anni si concentrano in classi di sostegno gli allievi che non esprimono opzioni su materie come il latino, lingue straniere o musica. La vice preside appena arrivata, Samia, francese di seconda generazione, prende a cuore le sorti di alcuni alunni di origine maghrebina e sub sahariana, con un contesto familiare segnato da difficoltà di vario genere. Al di là della bella trama dell’opera, m’interessa prendere in considerazione un altro aspetto, legato a quanto esplicitato da Joseph Roth.

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    Il regista francese Mehdi Idir

    Il cinema d’Oltralpe, in questa e in tante altre occasioni, ha tratto enorme vantaggio dalle “linfe vitali” delle quali scrive Roth. È l’ennesima dimostrazione, nota a chi sa leggere l’evoluzione umana senza pregiudizi e preconcetti ideologici, del contributo fondamentale che può venire a ogni Paese dall’iniezione nel suo corpo sociale, economico, politico, di forze fresche, di idee e punti di vista e conoscenze e culture differenti.

    Nello scritto di Roth vi sono altre riflessioni. Quello che oggi chiameremmo melting pot sarebbe il frutto dell’azione del cattolicesimo europeo, che ha realizzato una «grandiosa mescolanza di razze, (un) miscuglio colorito delle più disparate linfe vitali». Inoltre, il “rimescolio” non produce “una tediosa uniformità”, ma persone che portano in sé le proprie caratteristiche (di razza: allora il termine era di uso corrente) perché nessuno è “costretto a comportarsi in un determinato modo”.

    Il mondo che immagina Joseph Roth

    Nel mondo futuro che Roth immagina, consapevole che non avrà il tempo per ammirarlo, dalla commistione scaturisce non una “poltiglia grigiastra”, ma una società nella quale ognuno manterrà la propria identità, nel rispetto di quella altrui.
    Una vera lezione, quella di Joseph Roth, che dovrebberoe mandare a memoria soprattutto i governanti e i cittadini di quelle nazioni affette dal “timore ridicolo” di subire chissà quali stravolgimenti, chissà quali “sostituzioni etniche”, addirittura programmate da menti diaboliche.
    Capita abbastanza spesso di rilevare in qualche grande del passato un pensiero attuale, perfettamente adattabile alla realtà dei nostri giorni. Credo che questo sia un caso emblematico di pensiero eterno, di analisi e conclusioni sempre valide, dai tempi dei cacciatori – raccoglitori fino ai nostri giorni. Un dubbio, tuttavia, rimane, instillato nella nostra mente dalla stretta attualità: se il mondo vaticinato da Joseph Roth lo vedremo noi o i nostri posteri, o nessuno mai.

  • Baccalà, l’ex “manzo dei poveri” che fa impazzire i calabresi

    Baccalà, l’ex “manzo dei poveri” che fa impazzire i calabresi

    Per la povera gente delle città e delle campagne il baccalà era un alimento importante e, come i maccheroni, considerato simbolo di benessere e abbondanza. Aveva un gusto gradevole e, se ben cucinato, poteva solleticare il palato dei più raffinati buongustai e stare al pari di qualunque prelibato manicaretto. Preparato in bianco con olio e limone, sotto forma di pasticcio, in tortiera o in casseruola condito con pomodoro, pinoli e uva passa era squisito. Qualcuno scriveva che le stesse divinità dei tempi antichi «lo avrebbero preferito all’eterna ambrosia».

    Il cibo dei semidei

    In una cicalata si legge che era il cibo dei semidei, che solo a vederlo rallegrava il cuore ed era sano perché se i pesci puzzavano dalla testa, era decollatu, ed è giustu, si nnò corrumpiria anchi lu bustu. E in un’elegia dedicata al baccalà si legge che era incantevole a vedersi nel piatto, bianco come il latte, gustoso come nessun altro cibo e ogni giudice lo avrebbe dichiarato il migliore tra tutti. Se Adamo avesse mangiato merluzzo salato non sarebbe stato scacciato da Dio e Giuseppe l’ebreo non sarebbe sfuggito alle voglie della sua padrona se avesse inteso odore di baccalà.

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    Michelangelo: Il peccato originale e la Cacciata dall’Eden nella Cappella Sistina

    Gli esperti raccomandavano che i baccalà da acquistare dovevano essere di grandi dimensioni, avere un colorito bianco e leggermente «paglino» nella faccia interna, la polpa lungo la spina non doveva presentare colorito bruno o rossastro, la pelle doveva essere aderente al corpo e la carne tenera, ben compatta e di buon odore. Gli stoccafissi, a differenza dei merluzzi salati, resistendo ai calori estivi, potevano serbarsi anche per due anni ma accidentalmente bagnati o tenuti ammucchiati in luoghi umidi erano anch’essi soggetti a putrefazione rapida, alla tarlatura e all’impolveramento.

    Sulle ali del gusto

    Per distinguere «anche all’oscuro» un ottimo gadus morhua, bisognava osservare le ali. Sul mercato era possibile vedere tre specie di baccalà: una con le ali al taglio della testa, chiamate orecchie, voltate entrambe verso la coda; un’altra con le ali entrambe rivolte all’insù; la terza con un’ala rovesciata all’insù e l’altra voltata in direzione della coda. I primi erano squisiti e da consumare sempre, i secondi erano scadenti e quindi da non acquistare, i terzi erano mediocri e da mangiare solo in rare occasioni. Le ali voltate verso la coda denotavano che il pesce «non aveva fregato», era grosso e manteneva le sue caratteristiche; quelle voltate in due modi significavano che i pesci presi stavano «fregando» ossia seminando; quelle rovesciate ambedue all’insù erano «il geroglifico che il pesce nella di cui cattura fu trovato», aveva già seminato ed era stanco, magro «esinanito e per conseguenza il peggiore».baccala-shutterstock_428919922-1-1024x501

    Baccalà al posto della carne

    Il baccalà si sostituiva alla carne e, non caso, era chiamato il «manzo dei poveri». I grandi proprietari terrieri, nella stipula dei contratti con i braccianti, oltre al salario prevedevano peperoni all’aceto, formaggio e baccalà. Il merluzzo salato, meno caro del pesce fresco, era alla portata popolino ma non da poter essere consumato frequentemente e, infatti, si cucinava in genere nelle domeniche, nelle feste e a Natale. Un’inchiesta ministeriale confermava che tra le classi povere si consumavano solo aringhe e baccalà ma il loro prezzo, benché basso, non ne permetteva l’uso quotidiano ed era limitato alle ricorrenze.

    Francesco II di Borbone, l’ultimo re delle Due Sicilie

    Il baccalà era venduto specialmente nelle cantine. E qualcuno faceva notare che, pur costando poco, per il volgo non era economico perché, essendo particolarmente salato, spingeva a bere tanto costoso vino. I baccalà offerti dagli osti ai clienti erano spesso piccoli merluzzi di qualità scadente mentre il pregiato baccalà verde, che aveva almeno due piedi di lunghezza, era riservato ai benestanti. Di questo baccalà spesso il volgo acquistava gli orecchiagnoli, alette e spuntature che i signori prenotavano per darle ai gatti. Il merluzzo salato di ottima qualità, era costoso per via dei dazi e i patrioti cosentini, in un manifesto affisso al portone della prefettura, accusavano Francesco II di «scorticare e far morire di fame la popolazione senza pietà» imponendo gabelle sul baccalà.

    Baccalà e religione

    Nell’Ottocento baccalà e stoccafissi erano ormai sulla tavola delle famiglie italiane e in ogni città c’erano decine di botteghe che li vendevano, dissalavano e cucinavano. Nelle feste religiose, soprattutto a Natale, i baccalajoli giravano nei quartieri e nei vicoli con una cesta sulla testa piena di stoccafissi e un secchio in mano con merluzzo ammollato. Quel pesce salato che proveniva da lontano era considerato una prelibatezza. E persino un brigante calabrese come Paolo Zumpano Olivella, gran mangiatore di carne, amava farsi portare alla macchia baccalà fritto dalle sue manutengole.

    Il successo di baccalà e stoccafisso nella dieta alimentare delle popolazioni era dovuto anche alla proibizione della Chiesa di mangiare carne nei giorni di digiuno, che superavano un terzo, e tra i chierici anche la metà dell’anno. I vescovi invitavano i fedeli a nutrirsi durante i digiuni di baccalà e stoccafisso perché sapevano che tanta gente per i loro pranzi utilizzava pesci prelibati che non avevano niente da invidiare alla carne. Il merluzzo salato era il cibo della penitenza e nelle campagne dopo i funerali i parenti cenavano su una tavola senza tovaglia, fiaschi e bicchieri ed era «formalità indispensabile che siasi sempre il baccalà».

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    Stoccafisso e baccalà erano pietanze in uso nella Nicotera studiata da Keys

    In occasione della Pasqua dei morti era uso «in tutto l’orbe rustico» nutrirsi con alimenti semplici e soprattutto merluzzi secchi e salati preparati in vari modi. In alcuni paesi le donne tendevano una corda da una finestra all’altra e facevano penzolare la Quaresima, una pupa di stoffa e di pezza con un fuso in mano e qua e là appesi saracche, sarde e pezzi di baccalà. La Quaresima, che seguiva ai giorni di grandi abbuffate, era rappresentata come una vecchia donna magra che accompagnava il Carnevale morto su un carretto tenendo in mano un baccalà o uno stoccafisso.

    Baccalà o stoccafisso?

    In passato di discuteva molto se era più buono il baccalà o lo stoccafisso. Ancora oggi il baccalà è apprezzato nella provincia di Cosenza e il pesce stocco nella provincia di Reggio Calabria. Nel cosentino in genere era infarinato e fritto o cotto con patate, olive nere, peperoni, pomodoro, alloro, prezzemolo, sale e pepe. Nel reggino il merluzzo secco si mangiava ad insalata con olio, aglio, prezzemolo e limone o cotto con patate, cipolla, peperoni, pomodori e olive in salamoia. Non sappiamo perché in certe province si prediligeva il baccalà e in altre lo stoccafisso. «De gustibus non disputandum est» ammoniva un detto latino e un proverbio popolare aggiungeva: «dei palati uguaglianza non può stare, perciò non s’ha dei gusti disputare».

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    Mammola (RC), una recente edizione della Sagra dello Stocco

    Mangiare stoccafisso invece del baccalà era probabilmente anche un mezzo di coesione, un modo per sancire l’appartenenza al gruppo, per rafforzare i valori comuni e rimarcare l’identità. Per avere un io c’è bisogno di un tu e per avere un noi c’è bisogno di un voi e questa differenziazione passava anche attraverso gli alimenti e la cucina.

    Ricchi e poveri

    La scelta del baccalà o dello stoccafisso era inoltre spesso legata al prezzo più che al gusto. Un medico dell’Ottocento osservava che i labardoni erano acquistati dai benestanti nelle città e il pesce-bastone dai contadini nelle campagne. Il merluzzo secco, detto anche merluccio o merluccia, si conservava meglio di quello salato ma era più difficile da digerire poiché le carni, seccandosi, diventavano coriacee, acquisivano una «durezza offensiva» e, non a caso, bisognava batterlo e macerarlo per lungo tempo nell’acqua prima di cuocerlo.

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    La “puteca” di un baccalajuolo a Napoli

    A volte la preferenza del merluzzo secco o salato dipendeva dai tipi di pesce che i brigantini inglesi, francesi, spagnoli, norvegesi, danesi, olandesi e di altre nazioni scaricavano negli scali italiani. Accadeva che in alcuni porti arrivassero solo aringhe, in altri baccalà e in altri ancora stoccafisso e gli importatori li mettevano all’asta ai negozianti che giungevano da ogni luogo. Il merluzzo conservato che arrivava a Napoli era commercializzato da imprese francesi che trattavano la vendita con i grandi produttori e stipulavano contratti con gli acquirenti partenopei che pagavano i proprietari dei bastimenti e i diritti della dogana. I compratori a loro volta vendevano il prodotto ad altri acquirenti che con bragozzi, brazzere, trabaccoli, peote, feluche, sciabecchi, polacchette e pieleghi lo portavano nei villaggi marini lungo il Tirreno e dell’Adriatico.

    Baccalà alla calabrese

    Imbianchite il Baccalà, spinatelo bene, e disfatelo in scaglie, passate con olio in una cazzarola sul fuoco dell’erbe fine, indi stemperateci due alici, metteteci un pizzico di farina, e bagnatele con un pochino di vino e culì; fate che la salsa stia bene di sale e stretta, poneteci dentro il Baccalà, e fatelo insaporire per mezz’ora fuori del fuoco, indi vuotatene una quarta parte sul piatto, che dovete servire, spolverizzate sopra con pane grattato, mescolato con mostacciolo pesto, e mandole bruscate, e peste finissime, poneteci sopra l’altra terza parte del baccalà, e spolverizzatelo nell’istessa guisa, e così farete del resto; aspergete sopra col resto della salsa, fategli prendere al forno un leggiero colore, e servite subito. Osservate che non bolla nel forno (Ricetta di Vincenzo Agnoletti, 1819)

  • Édouard Manet: 30 capolavori alla Galleria Nazionale di Cosenza

    Édouard Manet: 30 capolavori alla Galleria Nazionale di Cosenza

    Centoquaranta anni dopo la sua morte per vedere un Manet tocca andare al Musée d’Orsay o in altri templi della cultura mondiale, quelli che un secolo e mezzo prima lo respinsero. Oppure, più semplicemente, fare un salto alla Galleria Nazionale di Cosenza. A partire dal 24 marzo e fino al 25 aprile, infatti, tra i corridoi di Palazzo Arnone sarà possibile ammirare le creazioni del genio francese. Si tratta di trenta capolavori incisi, della prestigiosa edizione Strölin, per scoprire come la Parigi di metà ‘800 entrò nella modernità. La mostra di Cosenza si chiama Manet. Noir et Blanc. A idearla e produrla è l’Associazione N. 9, mentre la curatela è affidata ai fratelli Mario e Marco Toscano.

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    Palazzo Arnone, antica sede del carcere cittadino, ospita oggi la Galleria Nazionale di Cosenza

    Per un mese, dunque, non ci sarà bisogno di arrivare fino al Metropolitan Museum di New York per godersi Il chitarrista spagnolo (1860) o a Parigi per quell’Olympia (1863) che tanto scandalo destò alla sua prima apparizione pubblica. Basterà salire a colle Triglio, nel centro storico di Cosenza, e lasciarsi catapultare nel bianco e nero di Manet. Il pittore che Baudelaire e Zola adoravano perché voleva «essere del proprio tempo e dipingere ciò che si vede, senza lasciarsi turbare dalla moda».

    Realismo e impressionismo

    Esistono un prima e un dopo Édouard Manet nella pittura degli ultimi due secoli. Rivoluzionario suo malgrado, controcorrente per indole, il pittore francese ha rappresentato con la sua opera un punto di svolta per l’arte. L’Accademia però, salvo rari casi, non gli riconobbe a lungo la grandezza che avrebbe meritato (e desiderato). Manet cercava di portare sulla tela la realtà, amava dipingere all’aria aperta, venerava artisti del passato come Velasquez. Ma, al contempo, stravolgeva le aspettative di quanti si erano nutriti fino a quel momento con l’arte classica. Un amore per la vita reale, il suo, che fece innamorare del suo pennello scrittori come Baudelaire e Zola, ma faticò a incontrare i favori del grande pubblico e della critica.

    E così, a lungo, nei grandi Saloni e musei per i suoi quadri non si trovò posto per colui che molti oggi considerano il padre dell’impressionismo. In realtà Manet impressionista non fu mai o, almeno, non fino in fondo. Già il fatto che usasse il nero nei suoi dipinti – colore tabù per i colleghi Renoir, Monet, Degas – rende complesso considerarlo tale. L’ammirazione nei suoi confronti da parte dei tre appena citati, però, basterebbe a quantificare il ruolo della sua arte nella nascita della celeberrima corrente pittorica. «Manet era per noi tanto importante quanto Cimabue o Giotto per gli italiani del Rinascimento», disse di lui il padre del celebre regista. E pazienza se il diretto interessato riteneva, al contrario, Pierre-Auguste «un ragazzo senza alcun talento».

    I Manet alla Galleria Nazionale di Cosenza

    Pur non trattandosi di tele – l’unico quadro del francese in Italia, salvo sporadici prestiti, è il Ritratto del Signor Arnaud a cavallo, conservato alla GAM di Milano – le opere che per un mese saranno a Cosenza non sono certo di poco conto. Come si legge nel comunicato che annuncia l’apertura dell’esposizione, infatti, «la produzione grafica di Manet, sperimentale ed innovativa, è considerata fondamentale nello sviluppo delle tecniche di stampa. Le incisioni esposte, edite nel 1905, furono stampate postume dalle tavole originali di Manet, da Alfred Strölin, importante collezionista e commerciante tedesco. Le 30 lastre pubblicate nel 1894 da Dumont (che comprendevano le 23 del portfolio curato da Suzanne Manet per Gennevilliers nel 1890) rappresentano una raccolta esaustiva della produzione dell’artista. Vennero infine biffate dallo stesso Strölin per evitare ulteriori impressioni».

  • C’era una volta il futuro: Alessia Principe torna con le sue “Stelle meccaniche”

    C’era una volta il futuro: Alessia Principe torna con le sue “Stelle meccaniche”

    In una sfera immaginaria, in cui le vite degli altri diventano ricordi ed energia e l’umanità non ricorda più il Sole, si riflette la storia scritta da Alessia Principe nel suo nuovo romanzo Stelle meccaniche (Moscabianca edizioni), di recente pubblicazione.
    Aprendo uno squarcio nel tempo e nello spazio la giornalista e autrice porta il lettore in un futuro distopico in cui la Terra ferita da un disastro nucleare crede di riuscire a ripartire dai talenti e dai ricordi. La scrittrice dopo Tre volte (Bookabook, 2017) sceglie di spostare l’immaginazione narrativa lontana dal presente per proiettare il lettore in un futuro cupo, sospeso tra i ricordi del passato e l’ipertecnologia.
    Il romanzo sarà presentato in anteprima giovedì 23 marzo alle ore 18 alla libreria Feltrinelli di Cosenza. A dialogare con l’autrice ci saranno la scrittrice Elena Giorgiana Mirabelli e la critica d’arte Gemma Anais Principe. Il giorno dopo, venerdì 24 marzo, sempre alle ore 18, Alessia Principe dialogherà con Nunzio Belcaro alla libreria Ubik di Catanzaro.

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    Alessia Principe

    Stelle meccaniche: Alessia Principe e il suo futuro distopico

    In Stelle meccaniche tutto ha inizio alla fine degli anni Novanta del XX secolo: il sogno di una fonte di energia pulita, eterna e sicura sembra potersi realizzare grazie alla stella artificiale Meti. Il lavoro del team scientifico a capo della ricerca porta però a una catastrofe di dimensioni inimmaginabili: il 3 aprile del 2013 Meti, creata nella centrale a fusione nucleare Tokamak, implode e crea un buco nero che risucchia al suo interno gran parte del mondo per come lo conosciamo oggi.

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    ​Secoli dopo, il volto della Terra è ancora profondamente segnato dall’incidente e fulcro della vita è ormai il continente Mediana, formatosi dopo l’implosione. E per mandarlo avanti occorre energia: la soluzione sono i Resti, sfere di ricordi cristallizzati, attimi del passato che salgono verso l’atmosfera, invisibili e impalpabili finché lampi elettrici non li mostrano e solidificano.

    Gli esseri umani sono divisi tra chi possiede il talento, e vive un’esistenza tranquilla, e chi ne è sprovvisto ed è destinato a trascorrere i suoi giorni nel terrore di essere usato come pezzo di ricambio organico. In tal modo il sogno di una società utopica in cui i migliori hanno il posto che meritano, diventa una distopia che vede il talento ridotto da dono a forma di discriminazione.

    Anime, classica e steampunk

    Nel romanzo seguiamo le vicende di due bambini di undici anni: Giosuè, talento del pianoforte e Tito scugnizzo delle periferie, luogo ai margini del grande Continente della Mediana, dove le scorie rendono l’aria irrespirabile. I due si conoscono nella sala d’attesa di un ospedale dove si effettuano trapianti. Giosuè sta per avere delle mani nuove, Tito un cuore migliore. Tra loro si allaccerà un rapporto fraterno e, grazie a quel legame, capiranno cosa è successo al mondo e cosa riserva il futuro.

    In Stelle meccaniche si ritrovano le atmosfere cupe e steampunk che rievocano alcuni anime giapponesi degli anni ’70 e ’80 come Galaxy Express999, mentre tra le pagine risuonano le note di Satie, Mozart e Rachmaninov.
    Stelle meccaniche dal 23 febbraio è disponibile in libreria e nei maggiori store online.

  • Santa Maria di Corazzo, l’Abbazia tra passato e futuro

    Santa Maria di Corazzo, l’Abbazia tra passato e futuro

    Rispetto è la parola chiave, la stella polare degli interventi di restauro, consolidamento e valorizzazione che partiranno dalle prossime settimane alla Abbazia di Santa Maria di Corazzo, sita nella frazione Castagna di Carlopoli, comune di circa 1.500 anime della Presila catanzarese.
    I lavori avranno un approccio corretto, equilibrato e delicato, nel rispetto dell’immenso valore storico, culturale, religioso, paesaggistico e ambientale di quello che è senza dubbio uno dei monumenti più significativi e suggestivi dell’intera Calabria, terra di mare, certo, ma anche di monti, di storia, di tradizioni, di diversità linguistiche e culturali, di beni mobili e immobili di eccezionale pregio. Un patrimonio di cui essere consapevoli e da riguardare, fedeli alla duplice accezione suggerita dal sociologo e saggista Franco Cassano, vale a dire di avere riguardo, premura dei luoghi e di tornare a guardarli e a viverli davvero.

    L’Abbazia di Santa Maria di Corazzo: dalle origini all’abbandono

    L’Abbazia di Santa Maria di Corazzo – per secoli parte dell’Università di Scigliano – prende il nome dal vicino fiume Corace e la sua fondazione risale all’XI-XII secolo. Una più precisa collocazione temporale e susseguente paternità risultano ancora difficili da definire. È confermata la presenza dei monaci cistercensi e dell’abate Gioacchino da Fiore nell’arco di tempo che va dal 1157 al 1188 circa. Non trova, invece, al momento attestazione l’ipotesi caldeggiata da molti di una precedente edificazione dei monaci benedettini.
    La fine dell’Abbazia coincide con i drammatici terremoti del 1638 e 1783 che sconvolsero la popolazione calabrese e cambiarono per sempre l’aspetto paesaggistico della regione. Dopo un secolo e mezzo di trascuratezza e silenzio, dal 1934 il sito è tutelato dallo Stato italiano (legge di Tutela n. 364 del 1909).abbazia-di-santa-maria-corazzo-cartello

    Rispettoso, conservativo e delineato a seguito di un’attenta analisi conoscitiva, il progetto di restauro e consolidamento punta a valorizzare il bene tenendo fissa in mente la sua funzione originaria. Quindi non condannandolo, tracciando la strada, a una futura trasformazione in una luccicante attrazione turistica e macchina per fare soldi nell’interesse di pochi e a scapito di tutti gli altri.

    Malazioni simili vedrebbero l’imponente Abbazia vittima di un altro “terremoto”, non di minore entità – anzi, assai più grave considerato che sarebbe generato da chi è soltanto ospite della Terra e non da chi la governa – rispetto alle calamità naturali che ne determinarono prima la distruzione, poi l’abbandono – seppur documenti ne attestino residenti sino ai primi anni dell’Ottocento – e infine la progressiva espoliazione dei materiali e delle opere che vi erano conservate. Tra questi da citare quello che dovrebbe essere il portale della navata principale, collocato nella chiesa di San Bernardo della vicina Decollatura.

    Ritorno all’antico pensando al futuro

    L’intento è dunque di agire soltanto sulle problematiche in atto – sulle lesioni dannose e la vegetazione deleteria per l’integrità degli elementi delle murature –, lungi dall’alterare l’aspetto dell’antico monumento.
    Nello specifico, l’intervento consterà nella installazione di stampelle di acciaio per sorreggere le creste murarie, di griglie metalliche poste a copertura degli ambienti ipogei, di parapetti e luci gentili, non impattanti, che accompagneranno, giorno e notte, i visitatori. Una serie di operazioni per rendere sicuro e accessibile il rudere medievale, anche per le persone diversamente abili.ruderi-abbazia-santa-maria-corazzo

    Dettaglio importante e che manifesta una lieta sensibilità e lungimiranza: gli interventi di consolidamento e restauro di questa gemma preziosissima del patrimonio artistico e culturale della Calabria, eredità per l’intera regione, saranno potenzialmente reversibili. I componenti impiantati, un domani, potranno essere estratti, non intralceranno l’operato di più avanzate attività che potrebbero avere luogo nei decenni e secoli futuri. Rispetto sia per il bene sia per le generazioni postere, per l’appunto.

    Il progetto per l’Abbazia di Santa Maria di Corazzo

    Il progetto ha ottenuto il via libera – diversamente da un altro, assai più aggressivo e snaturante, che prevedeva l’installazione di pareti in cristallo e di un tetto in legno lamellare, presentato nel 2020 (allora si parlò di «intervento di tipo conservativo ma allo stesso tempo innovativo») – dalla Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio delle province di Catanzaro e Crotone.

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    Rendering del progetto di restauro respinto

    A realizzarlo, il Comune di Carlopoli e i professionisti della Giannantoni Ingegneria srl: gli ingegneri Andrea Giannatoni e Isabella Santeramo, l’architetto Luisa Pandolfi. L’elaborazione ha beneficiato del supporto e della consulenza scientifica dell’archeologo e docente Francesco Cuteri, del soprintendente Belle Arti e Paesaggio di Catanzaro e Crotone Stefania Argenti, del docente e architetto Riccardo dalla Negra, del docente e architetto Giuseppina Pugliano e del geologo Marcello Chiodo.

    La presentazione del progetto

    A presentare gli interventi di restauro, consolidamento e valorizzazione della Abbazia di Santa Maria di Corazzo sono stati invece Wanda Ferro, sottosegretario al Ministero degli Interni, Mario Amedeo Mormile, presidente della Provincia di Catanzaro, Emanuela Talarico, sindaco di Carlopoli, Antonio Chieffallo, presidente dell’associazione Muricello, all’interno del Municipio di Carlopoli lo scorso 19 marzo nell’ambito degli eventi di chiusura del Premio Muricello.

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  • Donne sull’orlo di una crisi di Omero

    Donne sull’orlo di una crisi di Omero

    Sono belle le donne raccontate da Omero, attraverso l’arte della tessitura e la cura della casa conquistano gli uomini e restano fedeli ai mariti. Altre s’innamorano follemente di un uomo che appartiene a un’altra donna e lo trattengono su un’isola lontana. Sono donne lussuriose e c’è anche una maga seduttrice che trasforma gli uomini in maiali; donne come modelli da seguire e altre come esempi da respingere. Donne che ci parlano ancora con tutta la forza di una narrazione che affonda le sue radici nel mito, quello capace di esplorare interiorità personali e collettive.

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    Un momento del reading teatrale “Le voci delle donne di Omero”

    Le donne di Omero

    Le Voci delle Donne di Omero ci raggiungono attraverso un reading teatrale che, partendo dal mito, ripercorre le sensazioni dei personaggi femminili di Iliade e Odissea. Emozioni racchiuse nell’attenta scrittura drammaturgica di Katia Colica e, nella sua voce, che ne declama i versi, si addensa il senso profondo di una mitologia attualizzata. Le voci delle donne di Omero echeggiano tra gli spazi artistici della Calabria, riuscendo a registrare quel famoso sold out che fa ben sperare sulle sorti della diffusione della cultura teatrale nella nostra regione, luogo in cui vivere di teatro e più in generale di cultura, non è sempre un’impresa facile.

    È questa l’occasione per incontrare da vicino Katia Colica e, con lei, parlare di donne, miti, teatro, periferie e come dice lei di cultura salvifica. La performance, come chiarisce Colica, consente di far conoscere al pubblico, attraverso un linguaggio innovativo dettato da un’interpretazione personale, un testo che si articola in un intreccio narrativo, poetico e musicale.

    La dignità perduta

    Le donne di Omero, dee o umane, mortali o immortali, sono legate a un percorso di sofferenza, di sacrificio, ma che nella narrazione prendono forma, i silenzi diventano voci e le voci si concretizzano nella consapevolezza di essere state private della propria dignità. Donne che raccontano il proprio punto di vista e per fare questo partono dal mito, il solo capace di spiegare le emozioni di donne in balia del destino, donne utilizzate come merce di scambio, che piangono le sorti del marito, ma anche logorate dall’inganno. Nient’altro che i temi della nostra attualità descritti amplificando emozioni e sensazioni. In scena ci sono delle donne, voci di donne, che si raccontano, appartengono tutte allo stesso nucleo familiare. Emerge la voce di Persefone, una ragazza che vive il suo Ade personale all’interno della bulimia, quindi intrappolata in quel sotterraneo cavernoso del disturbo patologico alimentare.

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    Particolare di una scultura dell’Ottocento che raffigura Omero

    Il mito diventa narrazione contemporanea

    Demetra, la madre di Persefone, non vuole vedere e accettare l’Ade creato dalla figlia. Il personaggio di Tiresia è quello di una transessuale che si racconta, una narrazione che Colica ha costruito sulla doppia identità dell’indovino cieco che fu sia uomo sia donna. Eco è una donna trasparente, una ragazza che non riesce a esprimersi e quindi, senza le giuste parole la sua immagine non si concretizza in un corpo. Infine arriva Ade, simbolo di quel luogo in cui tutte le anime possono ritrovarsi solo ascoltando le proprie voci. Le musiche originali e dal vivo sono di Antonio Aprile e sul palco prende forma un percorso in cui il mito diventa una narrazione contemporanea, si parte da lontano per raccontare le problematiche femminili che si ripetono da millenni.

    La drammaturgia di Katia Colica

    La drammaturgia di Katia Colica nasce proprio dalla consapevolezza di storie reiterate, voci che arrivano da un tempo remoto, si attualizzano e si aprono a un costante e reciproco dialogo. Colica è riuscita a costruire una scrittura drammaturgica lavorando, come afferma, su una sorta d’innesto tra il mito classico e la contemporaneità. Un gioco d’incroci e di equilibri linguistici utili a non far dimenticare le nostre origini classiche. Katia difende la grecità radicata nella nostra cultura, ne parla come qualcosa che si avverte sotto pelle, una eco che risuona interiormente e che può tradursi nelle parole della contemporaneità.

    L’architetto delle emozioni

    Katia Colica è un architetto urbanista di Reggio Calabria, ma alle costruzioni di mattoni e cemento ha preferito quelle delle emozioni fondate dal sapiente intreccio delle parole. Il mestiere della scrittura per affrontare temi di disagio e di malessere sociale, autrice di romanzi e giornalista, ma più di tutto lei si sente una drammaturga e questo perché, come in un racconto mitico, non ha fatto altro che seguire le orme di una suggestione legata al tempo della sua infanzia.

    Un Altro Metro Ancora è la prima drammaturgia di Katia, quella che le ha consentito di rappresentare le emozioni suscitate da una storia vera vissuta da sua madre: finita la guerra, un gruppo di sfollati dell’Italia centrale diretti verso il Sud, si ritrova in un campo minato. Un ragazzo si propone di essere il primo della fila così da consentire a tutti di attraversare indenni quel pezzo di strada.

    Un progetto di liberazione

    Le figure del ragazzo e degli sfollati che seguivano le sue impronte, per Katia Colica, hanno sempre costituito un’immagine teatrale, tale da elaborarla negli anni e alla fine tradurla in una vera e propria scrittura scenica e anche in un libro. Fedele all’importanza attribuita alla forza delle parole Katia va in scena per raccontare delle storie, ma non si sente un’attrice, per lei stare sul palco è una pura casualità che ritrova un riscontro nell’apprezzamento del pubblico.

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    Katia Colica impegnata nel reading teatrale “Le voci delle donne di Omero”

    Le parole, Katia, le porta anche nelle periferie, e le condivide come un progetto di liberazione con gli stranieri, con le donne, con le minoranze etniche. Il suo amore viscerale per l’antica Grecia l’ha portata a ideare, insieme all’associazione Adexo, il Balenando in Burrasca Reading Festival, giunto ormai alla sua IV edizione e di cui lei è direttrice artistica. Il reading affonda le sue radici nell’antica Grecia, luogo in cui il cantore o aedo era considerato un profeta sacro poiché trasmetteva la tradizione orale dei testi accompagnato dal suono della cetra. L’ultimo progetto in cantiere della drammaturga Colica è il reading Persefone, il ritorno: incanto di primavera. che approderà in primavera nell’antico Parco Archeologico di Locri Epizeferi, luogo sacro della cultura e simbolo della Magna Graecia.

  • De Novellis: senatore cosmopolita e massone

    De Novellis: senatore cosmopolita e massone

    Senatore, calabrese e cosmopolita.
    Potrei fermarmi qui, data l’attuale incompatibilità tra “senatore calabrese” e “cosmopolita”.
    E invece: Fedele Giuseppe De Novellis apparteneva nientemeno alla leva del 1854, e brillò parecchio in cosmopolitismo. Al contrario, i suoi emuli e umili colleghi, nati magari un centinaio d’anni dopo e con molte più possibilità, al massimo sono andati all’estero con la moglie. Magari in qualche banalissima meta creduta intellettualmente originalissima, o a visitare la figlia in quasi-Erasmus. Ma le loro mete preferite restano i lidi estivi assai più vicini. Ad esempio – ironia della sorte – proprio il luogo di nascita di De Novellis: Belvedere Marittimo.

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    Villa De Novellis, a picco su Capo Tirone

    Il Belvedere antico di Fedele De Novellis

    Cosa poteva essere Belvedere nel 1854? Un piccolo paradiso appollaiato sulla rocca tra monti e mare, tra le quinte del Monte La Caccia e la buca del suggeritore – o forse è il caso di dire il golfo mistico – della scogliera di Capo Tirone, in cima alla quale sorge ancora la villa estiva che appartenne alla famiglia del senatore.
    Non è qui però che la nobildonna Adelaide Leo dà alla luce il figlio del galantuomo Gennaro De Novellis, dieci giorni prima di Natale: Fedele nasce nel principale palazzo di famiglia – l’attuale municipio – nel rione Santa Maria del Popolo, dove sorge la chiesa omonima in cui il piccolo viene battezzato appena apre gli occhi.

    De Novellis deputato a vita

    Dopo i classicissimi studi in Giurisprudenza a Napoli – a quel tempo obbligatori per chi poteva – il giovane De Novellis intraprende una carriera lunga e brillante.
    Per cominciare, ricopre ininterrottamente un seggio alla Camera dal 1892 al 1913, grazie ai voti del collegio di Verbicaro per il gruppo parlamentare di Sinistra guidato da Giuseppe Marcora.

    Parlamentare d’assalto

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    Fedele De Novellis

    Da deputato riveste anche la carica di Segretario dell’Ufficio di Presidenza della Camera dal 1906 al 1909. La sua attività legislativa non è proprio frenetica: presenta solo un progetto di legge, nella XXIII legislatura, per costituire in Comune autonomo San Nicola Arcella, All’epoca tempo frazione di Scalea.
    Interviene però, e molto, sul bilancio sugli esteri, sugli affari interni, sui lavori pubblici e sulla giustizia. Ovviamente, non si scorda del suo collegio e lavora tanto sulle comunicazioni stradali e ferroviarie con “le Calabrie”. Inoltre, si interessa dell’amministrazione della provincia di Cosenza, della fillossera nel circondario di Paola e dell’alluvione di Cosenza. Mica acqua fresca, rispetto alla poco frenetica e poco memorabile attività degli imbarazzanti epigoni.

    Un diplomatico col grembiule

    Affiliato alla massoneria, diventa anche Grande Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia, decorato del Gran Cordone.
    Ma la nota più sorprendente è appunto il cosmopolitismo conferitogli, se non altro, dalla sua successiva veste professionale. Ovvero la prestigiosa sequenza di cariche diplomatiche ricoperte.
    Già funzionario della Prefettura di Roma, De Novellis diventa addetto di legazione al Ministero degli affari esteri. Appena trentenne è a Belgrado (1884), poi a Lisbona (1886), a Costantinopoli (1888) e a Berlino (1891).
    Infine viene nominato Segretario onorario di legazione (1892) e poi Inviato straordinario e ministro plenipotenziario di II classe a Christiania (oggi Oslo) nel biennio 1912-1914.

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    Palazzo De Novellis, oggi sede del municipio di Belvedere Marittimo

    De Novellis scrittore geoplitico

    Non posso né voglio dilungarmi sula produzione letteraria di De Novellis. Tuttavia, segnalo qualche titolo per farne capirne lo spessore: Leggi e condizioni economiche della Serbia (1886), Sulla questione cinese (1899), La convenzione anglo-francese. Marocco e Tripolitania (1905), Il Pacifico e le sue lotte (1909), L’Asia centrale e le sue lotte (1910), L’Europa in Africa (1911), Il commercio italiano di esportazione in Norvegia (1914).
    Insomma, quanto di più distante – parrebbe – dall’ombelicale bruzio e dalla fuffa degli scaldapoltrone.

    De Novellis a Palazzo Madama

    Collocato a riposo, De Novellis diventa a cinquant’anni senatore di terza categoria (quella composta dai deputati con sei anni di esercizio o dopo tre legislature) nel gruppo liberale democratico (poi Unione democratica).
    In questa veste si prodiga essenzialmente in questioni finanziarie ed è membro di tre commissioni parlamentari. Cioè la Commissione per il regolamento interno, la Commissione d’inchiesta sulle gestioni per l’assistenza alle popolazioni e per la ricostituzione delle terre liberate (1920-1922) e, infine, la Commissione d’inchiesta sull’ordinamento e funzionamento delle amministrazioni centrali, sui servizi da esse dipendenti e sulle condizioni del relativo personale (1921).

    Un’immagine antica di Palazzo Madama

    Gli ultimi anni

    Nonostante la nomina senatoria fosse all’epoca sempre ad vitam, De Novellis smise di intervenire in Senato già prima dell’avvento del fascismo. Ben sette anni prima di spegnersi, a Roma, nel maggio del 1929, presso la sua residenza nel quattrocentesco Palazzo Orsini, poi Taverna, al prestigioso civico 36 di via Monte Giordano (dove vissero Torquato Tasso e, molto tempo dopo, nomi enormi dello spettacolo e dello sport internazionale).
    De Novellis: una meteora. Di cui la Calabria ha perso lo stampo, senza neppure dolersene.

  • Lorenzo Calogero, il poeta della solitudine

    Lorenzo Calogero, il poeta della solitudine

    Oltre la morte non si può andare.
    Non si dorme, non si ama.
    Si riposa infinitamente.

    Il riposo infinito che giunge soltanto dopo la fine. Sì, perché la vita dell’autore di questi versi fu tutt’altro che serena e sgombra di affanni. Afflitto dall’angoscia di vivere, Lorenzo Calogero fu un poeta solo. E solo un poeta.
    Considerato, post mortem, fra i più alti poeti del Novecento da molti insigni pareri – fra questi anche quello di Carmelo Bene –, Calogero è tuttora poco conosciuto nella sua terra di origine, la Calabria, sempre molto incline a sostenere la liceità della locuzione latina d’evangelica memoria di Nemo propheta in patria.

    Gli studi e le prime poesie

    Nato il 28 maggio 1910 a Melicuccà, paese dell’entroterra Reggino, a breve distanza da Palmi e dalla Costa Viola, Lorenzo Calogero è il terzo dei sei figli – cinque maschi e una femmina – di Michelangelo Calogero e Maria Giuseppa Cardone. Cattolici, abbienti, possidenti terrieri, i Calogero-Cardone sono una delle famiglie melicucchesi più in vista del tempo.
    Dopo i primi anni di studi – dapprima nel paese natio e poi a Bagnara, presso dei parenti della madre –, nel 1922 Lorenzo Calogero si trasferisce con la famiglia a Reggio Calabria, dove il ragazzo consegue la maturità scientifica, e nel 1929 a Napoli per iscriverlo alla facoltà di Ingegneria della prestigiosa Università Federico II. Si tratta di una breve liaison quella con l’ingegneria, sicché dopo poco lo studente passa alla facoltà di Medicina. L’insicurezza sul percorso accademico da intraprendere lascia intravedere la fragilità caratteriale del poeta fin dalla giovinezza.

    Disinteressato alla politica del periodo, agli inizi degli anni Trenta Lorenzo Calogero comincia a soffrire di un arcano disagio che lo accompagnerà fino al termine dei suoi giorni: patofobie, vale a dire il terrore, spesso confuso con la convinzione, di contrarre o già essere affetto da gravi malattie. Nel caso di Calogero, la tubercolosi e il cancro.
    In quel decennio, comunque, il giovane compone i primi versi. Risalenti al triennio 1933-35 sono le liriche poi raccolte in Poco suono, stampato, nel 1936 e a pagamento, da Centauro, editore che l’anno precedente aveva pubblicato sedici sue poesie riconosciute meritevoli dalla giuria del Premio Poeti di Mussolini.

    Nel ’37 Lorenzo Calogero consegue la laurea in Medicina e ottiene a Siena l’abilitazione alla professione che, dopo nuovi tentennamenti, inizia a esercitare in Calabria: prima nella natia Melicuccà, poi, sempre per parentesi brevi o brevissime, in numerosi paesi come Sellia Marina, Gimigliano, Zagarise, Jacurso e San Pietro Apostolo.

    Lorenzo Calogero, dal primo amore alla Val d’Orcia

    Caduto il fascismo e trovato un abbozzo d’indipendenza economica – seppur le patofobie non accennino a svanire, tanto che nel 1942, preso dallo sconforto, si spara un colpo in petto (parlare di tentativo di suicidio ci pare irriguardoso dell’intelligenza del poeta e del lettore, considerato che il nostro era comunque un medico e un medico sa bene come ammazzarsi e come non ammazzarsi) –, nel 1944 Calogero fa la straordinaria scoperta di un altro aspetto della vita: si innamora e fidanza con una studentessa conosciuta anni prima a Reggio Calabria. Purtroppo, le angosce, l’insoddisfazione cronica e le continue manie di cui soffre il giovane medico – in quel periodo è convinto di aver contratto la rabbia da un cane – inveleniscono il rapporto. La ragazza tenta in tutti i modi di tirare fuori Calogero dalle secche in cui sta scivolando, ma ogni tentativo si rivela vano. La complicata relazione si interrompe già con la fine di quell’anno.campiglia-lorenzo-calogero

    Conclusa la guerra, Lorenzo Calogero riprende a comporre poesie e fa ritorno a Melicuccà. Qui resta per un periodo abbastanza lungo, sino al principio del 1954 quando, dopo aver vinto un concorso, viene nominato medico condotto a Siena e spedito nel paesello collinare di Campiglia d’Orcia. La sua esperienza professionale in Val d’Orcia, però, è sì tanto disastrosa che appena un anno dopo è costretto a lasciare l’incarico. Scrive al fratello Paolo: «Come medico non godo alcuna simpatia da parte della popolazione»; la gente di Campiglia, infatti, aveva fatto presto a non fidarsi e a disertare lo studio di quel dottore così introverso e nevrastenico. Di fatti, l’isolamento in Val d’Orcia ha peggiorato il nervosismo e la suscettibilità del medico-poeta e ha acutizzato un’altra sua dannosa tendenza, quella di abusare di barbiturici e tabacco.

    Nessun sostegno dal mondo letterario

    Lasciatasi alle spalle l’esperienza infausta in terra toscana, Lorenzo Calogero si getta totalmente nella poesia cercando un editore che possa pubblicare i componimenti scritti nel dopoguerra e quella montagna di inediti giovanili che si porta appresso da anni. Dopo il rifiuto ricevuto da Einaudi, nel 1955 è costretto ancora una volta a ricorrere alla stampa a pagamento, in questa occasione presso la casa editrice senese Maia. Le due raccolte portano il titolo di Ma questo… e Parole del tempo.

    Uomo dotato di scarsissimo amor proprio, in vita Lorenzo Calogero non ha avuto – e non ha saputo condurre a sé – il sostegno di alcun esponente del mondo letterario, un universo prevenuto e distratto che non riusciva proprio a trovare le ragioni e il tempo per comprendere quel poetuccio venuto fresco fresco dal Sud più misterioso. L’unica eccezione è costituita da un altro poeta meridionale: si tratta di Leonardo Sinisgalli.

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    Leonardo Sinisgalli

    Lucano di origini – era nato nel 1908 a Montemurro – Sinisgalli è stato il solo a dimostrare amicizia e interesse per Calogero e le sue poesie. I due condividono pure la passione per l’ingegneria e il critico e poeta lucano non si tira indietro quando il collega calabrese gli chiede, durante il loro primo incontro a Roma, di firmare la prefazione per il suo prossimo scritto. È Come in dittici, raccolta di centosettantasei liriche scritte tra il ’54 e il ’56 e edite sempre da Maia.

    Il tentativo di suicidio e il ricovero a Villa Nuccia

    Il 1956 e il 1957 rappresentano due anni decisivi, in senso negativo, per l’esistenza di Calogero. Alla scomparsa della madre, cui era profondamente legato, il poeta tenta il suicidio. L’esaurimento nervoso oramai manifesto a tutti, porta i famigliari alla decisione di ricoverarlo nella clinica per malattie nervose di Villa Nuccia, a Gagliano di Catanzaro. Questo periodo di internamento – durante il quale verga gran parte dei versi che finiranno ne I quaderni di Villa Nuccia, volume postumo, nominato dal poeta melicucchese Canti della morte – non giova affatto alla psiche di Calogero. Imprigionato entro le alte mura della casa di cura, egli si sente tradito dalla famiglia, capisce di non potere più contare su di loro.

    È così che chiede nuovamente aiuto a Leonardo Sinisgalli, sempre più unico legame col mondo fuori da sé, solo faro visibile dalla sua bagnarola in preda alla tempesta.
    Il Poeta ingegnere non gli volta le spalle e il 3 marzo 1957 firma la presentazione di alcune liriche calogeriane pubblicate sulla Fiera letteraria. Nell’estate del medesimo anno giunge la prima e unica gioia letteraria – effimera – dell’autore calabrese con la vittoria del Premio Villa San Giovanni.

    La drammatica premiazione di Villa San Giovanni

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    Premio Villa S Giovanni, Lorenzo Calogero alla destra di Leonida Repaci; dietro di lui Enrico Falqui, Leonardo Sinisgalli, Franco Saccà

    Oramai divorato dai suoi demoni, in un primo momento Calogero non accetta l’invito ed è soltanto grazie all’intervento dell’amico Sinisgalli che decide di presentarsi alla cerimonia. La serata, però, è un colpo allo stomaco per chi vi assiste. Minato nella salute e incapace financo di camminare con fluidità, Lorenzo Calogero viene praticamente trascinato sul palco e ritira senza un sorriso il riconoscimento.
    L’episodio ricalca i contorni della premiazione di Cesare Pavese al Premio Strega 1950, consegnatogli sessantaquattro giorni prima del suicidio nella notte tra il 26 e il 27 agosto.
    “Tornato da Roma, da un pezzo. A Roma, apoteosi. E con questo? Ci siamo. Tutto crolla.” Queste le meste parole dello scrittore langhetto qualche giorno dopo la vittoria.
    «Mi cugghjuniàru». Questa la colorita ma tetra risposta, in dialetto calabrese, di Lorenzo Calogero a un compaesano che gli aveva chiesto come fosse andata al Premio Villa San Giovanni.

    La morte di Lorenzo Calogero

    Morte mi chiama

    col suo peso leggero

    come in un sogno.

    Gli ultimi anni del poeta sono segnati dai continui ricoveri e susseguenti fughe da Villa Nuccia. Abbandonato da tutti, al termine del 1960 si ritira in solitudine nella dimora di Melicuccà riempendo le sue giornate di innumerevoli cuccume di caffè, manate di sigarette e boccette di sonniferi.
    Qui l’inquietudine di una vita cessa, quando il 25 marzo 1961 è trovato morto. Le circostanze del decesso di Lorenzo Calogero non sono state mai chiarite. Con buone probabilità si era tolto la vita da almeno tre giorni con un sovradosaggio di barbiturici, altro episodio che ne paragona la parabola esistenziale a quella di Pavese. Un ultimo punto in comune con lo scrittore de La luna e i falò è il biglietto d’addio che, all’apparenza semplice ma pregno di delirio, arrendevolezza, distacco, apprensione, terrore, Lorenzo Calogero lascia accanto al suo corpo: «Vi prego di non essere sotterrato vivo».lorenzo-calogero-seppellito-vivo

    La poesia

    E quel che mi rimane

    è un poco di turbine lento di ossa

    in questo orribile viavai

    dove è alzato anche

    un palco alla morte.

    Da voracissimo lettore, Lorenzo Calogero accolse nella sua opera, come sostiene Luigi Tassoni ne Il gioco infinito della poesia (Giulio Perrone, 2021), “detriti, tessere, parole chiave, scie ritmiche” di tutti gli autori letti, rimodellati perché potessero aderire con coerenza alla sua poesia, ché questa non ne uscisse come una scialba parodia. Come abbiamo visto, però, i suoi versi ostinatamente tormentosi, scevri di speranza con cui consolarsi, anche antistorici rispetto alla poesia del tempo, non trovarono né lettori né editori interessati a pubblicarli.
    Il poeta morì in quell’alba di primavera del ’61, ma la sua poesia risorse, o, per meglio dire, sorse, facendo vedere quanto essa sia inconsumabile, prendendo in prestito le parole di Pier Paolo Pasolini.

    Estate ’62: Lorenzo Calogero diventa un caso letterario

    La diffidenza verso l’opera di Lorenzo Calogero crolla dopo la morte, come sovente accade e come era accaduto poche stagioni prima a un altro gigante della letteratura italiana del Novecento: Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Nell’estate del ’62 non si parla di altro che di quel poeta calabrese morto poco più di un anno prima in circostanze tragiche. Ne scrivono nomi illustri della cultura: Eugenio Montale, Giorgio Caproni, Alberto Bevilacqua, Mario Luzi, Leonida Repaci, Sharo Gambino, Carlo Bo, Franco Antonicelli. Addirittura Giuseppe Ungaretti si lascia andare a una frase divenuta celebre: «Questo Lorenzo Calogero ci ha diminuiti tutti».

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    Giuseppe Ungaretti

    Il nome di Calogero compare su tutte le testate nazionali, La Stampa consiglia i suoi libri tra quelli da portare sotto l’ombrellone, qualcuno avanza paragoni con i Poètes maudits. L’ultimo poeta dell’ermetismo, il nuovo Rimbaud, l’ultimo dei poeti maledetti. I titoloni si sprecano. Poi, passata l’ondata emotiva e modaiola, sul nome di Lorenzo Calogero cala di nuovo il silenzio.

    Nel 1966 l’editore Lerici, che aveva pubblicato in due volumi le Opere Poetiche di Calogero e che aveva in cantiere una terza pubblicazione, chiude l’attività lasciando inedita un’altissima catasta di manoscritti.

    Gli inediti all’Unical

    In centinaia, infatti, sono i quaderni zeppi di poesie del melicucchese oggi conservati all’Università della Calabria – dipartimento di Studi Umanistici, laboratorio Archivi letterari novecenteschi – in pazientissima attesa che qualche anima volenterosa decida finalmente di pubblicarli.
    Di e su Lorenzo Calogero, poeta consumato dal suo mal di vivere e dimenticato dal mondo culturale italiano, possiamo leggere:

    • Opere Poetiche I, a cura di Roberto Lerici e Giuseppe Tedeschi (Lerici, 1962);
    • Opere Poetiche II, a cura di Roberto Lerici e Giuseppe Tedeschi (Lerici, 1966);
    • Poesie, a cura di Luigi Tassoni (Rubbettino, 1986);
    • Lorenzo Calogero, di Giuseppe Tedeschi (Parallelo 38, 1996);
    • Itinerario poetico di Lorenzo Calogero, di Giuseppe Antonio Martino (Qualecultura/Jaca Book, 2003);
    • Parole del tempo, di Lorenzo Calogero a cura di Mario Sechi con una introduzione di Vito Teti (Donzelli, 2010);
    • Avaro nel tuo pensiero, di Lorenzo Calogero a cura di Mario Sechi e Caterina Verbaro (Donzelli, 2014).

    Melicuccà oggi ricorda il suo insigne figlio con una via e un monumento, sito lungo la principale via Roma, dell’artista scillese Carmine Pirrotta. L’opera (datata 1966) è stata finanziata con fondi degli emigrati d’Australia e commissionata dal Circolo culturale Lorenzo Calogero.

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    Melicuccà, il monumento a Lorenzo Calogero (foto Antonio Pagliuso)

     

     

  • STRADE PERDUTE | Cavalli, cavalieri e magia ad Amendolara

    STRADE PERDUTE | Cavalli, cavalieri e magia ad Amendolara

    Che Pomponio Leto fosse nato ad Amendolara e non a Teggiano – come ancora si legge da troppe parti – è ormai abbastanza assodato.
    La paternità dianese dello stesso, se pure filologicamente plausibile, è però anche tarda: chi per primo parla di Leto amendolarese è il coetaneo Pietro Ranzano – mica uno qualunque –, e poi Sabellico, il Volaterrano e il calabrese Gauderino.
    Soltanto una generazione più tardi, con Pietro Marso, avrà inizio la corrente dei “dianisti”. Ma lasciamo da parte l’improbabile quanto scottante certificato di stato civile di Pomponio (era pur sempre figlio illegittimo del conte Giovanni Sanseverino, che diamine!)…

    Un maniscalco illustre di Amendolara

    C’è un altro amendolarese al quale è stata attribuita spesso un’altra provenienza. È il meno noto Bonifacio Patarino, esperto maniscalco e autore nel Cinquecento del Receptario de mascalzia composto da mastro Facio Patarino da Lamigdolara a Bernabò da San Severino conte de Lauria et signore de Lamigdolara.
    E rieccoci con i Sanseverino… (se non vado troppo errato, Patarino dovrebbe essere fratellastro del destinatario).

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    Nanni di Banco: Miracolo di Sant’Eligio, 1420, Firenze, Orsanmichele

    Il trattato di Patarino

    Una copia del manoscritto, precedente all’ottobre 1545, è consultabile presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna e forse è proprio di mano di Patarino.
    Gli scettici sulle origini amendolaresi di Patarino potrebbero non contentarsi dell’indicazione del luogo nel titolo dell’opera.
    Li serviamo con due o tre indizi sparsi qua e là: tra un «citrangolo» e il «butiro de bufalo o de vacha», troviamo i più tipici «zafarani», l’«assogna», la «riquilitia» e il «fiore de cardoni che fanno le cocozze».

    Veterinaria e magia ad Amendolara

    Ma bando, anche stavolta, ai dubbi anagrafici.
    La cosa interessante di questo manoscritto di mascalcia è ben altra, ovvero l’espressione palese del connubio tra tecnica artigiana, pratica veterinaria e contesto magico.
    Dopo aver spiegato come si debbano fare i ‘bagnoli’ ai garretti gonfi, mediante vino cotto con pece, incenso e cera, Patarino mescola la scienza – o quel che era – alla superstizione religiosa.

    L’incantesimo santo ai chiodi del cavallo

    Infatti, l’autore racconta un «incanto sanctissimo» da farsi «alla inchiodatura del cavallo»:
    «Come hai trovato la inchiodatura cazerai lo chiodo e ficcalo sotto terra che non se veda e dirai sopra la inchiodatura queste parole…
    Nicodemo cazzò li chiodi de la mano e da li piedi del nostro Signore senza dolore. Cossì sana questo cavallo da questa inchiodatura con lo padre con lo figliolo et con lo spirito santo. Como le pieghe del nostro Signore non colsero ne dolserà cossì questa inchiodatura non doglia con lo patre con lo figliolo e con lo spirito santo…
    Fa una croce in ante, et una poi con le parole».

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    Bottega del maniscalco, sec. XIV, seconda metà, Fabriano (Ancona), Palazzo del Vescovo

    Due magie di Amendolara per guarire i cavalli

    • Il margine tra medicina e magia è labile fino al Cinquecento e anche oltre. Eppure, in pieno Novecento, Patarino s’è attirato le feroci critiche di uno storico della veterinaria, Valentino Chiodi (forse punto sul vivo dell’omonimia). Ancora, altri due brevi esempi… il vostro cavallo ha “il verme”? Oppure ha il “nervo attinto”? Ecco altre due formule:
    • «Incanto da verme de Cavallo
      Scrivite in carta +x pater noster +x alabia +x pater noster +x barco +x pater noster x acrai +x pater noster + ligato con un filo sotto lo collo del cavallo et serà sano.
    • Incanto de nervo attinto
      Imprimis dirai 3 paternoster cum 3 Avemarie con 3 croci sopra lo nerbo actinto et poi fate una cartocella de le parole sequente et ligalo sopra lo nerbo con una pezza nova. Le parole sono queste molto perfette
      + Ante parte + parte ante
      + Ante parte + parte ante
      + Ante parte + parte ante
      + Gion Grison + Tigris Eufrates».
    La botttega di un maniscalco

    Magno, Ruffo e Rusio: i precursori della magia equina

    Nessuna fandonia: Patarino raccoglie l’eredità culturale dei più celebri Giordano Ruffo e Lorenzo Rusio, autori di altri trattati di mascalcia, stavolta duecenteschi, e forse forse addirittura dei trattati di Alberto Magno.
    Perciò rischia d’essere pretestuosa una separazione troppo netta fra i contesti della magia colta e della magia popolare. L’analfabetismo connaturato alla seconda non impediva che il “mago” istruito, il cultore o l’esoterista erudito, potessero frequentarla con pari interesse.

    Ci si mettono anche i preti

    Guarda caso Giuseppe Battifarano, un prete, nella vicina Nova Siri di fine Ottocento, raccoglieva tra i propri manoscritti alcune formule magiche da utilizzare in ambito ippico:
    «Per far ferrare un cavallo per quanto difficile possa essere, si gira tre volte intorno al cavallo percotendolo legermente con una coda di volpe femina, e si dica Io ti scongiuro in nome di Dio, e ti comando che tu ti facci ferrare, per portare uomini come Gesù fu portato in Egitto dalla Vergine. Un Pater ed Ave Maria».
    (Copio dai Secreti di natura con l’ajuto divino, la sezione esoterica dei manoscritti dell’Archivio Battifarano, sui quali ora non posso dilungarmi…).

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    “Secreti di natura con l’ajuto divino”, compilati dal parroco Giuseppe Battifarano.

    Una scuola di equitazione

    Cavalli, magia, Alto Jonio, Cinque e Ottocento… ho detto tutto? Ora che ci penso, no. Infatti, il 19 maggio 1596 fu istituita una vera e propria scuola di equitazione a pochi chilometri da queste terre. Più esattamente a Senise, con tanto di ufficialissimo atto notarile. In quest’atto cui – oltre al futuro istruttore, tale Hectore Mazza di Taranto – si nominano anche tale Mutio, forgiere, e un immancabile Sanseverino (stavolta Scipione).
    Mai più sentito tanto scalpitio in quel circondario.

    I cavalli secondo il ministero

    Il Censimento generale dei cavalli e dei muli eseguito alla Mezzanotte dal 9 al 10 Gennaio 1876 per conto dell’allora Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio, spiegava: «In questa Provincia [di Cosenza] per la difficoltà delle vie e per la conseguente necessità di servirsi di animali equini piccoli ed adatti a praticare luoghi anfrattuosi e valichi dirupati si sono sempre ricercate le specie dei muli detti bardotti e dei cavalli piccoli detti levatori, l’uso dei quali corrispondeva bene alle condizioni dei luoghi. Questo sistema accreditò le razze cavalline antiche degli Abenanti, del De Mundo, dei Coppola ed altri che oramai più non esistono, ed induceva i fittajuoli di terreni ad allevare chi una e chi due asine per produrre bardotti».

    Cavalli amendolaresi davanti al palazzo Coppola, poi Andreassi

    Il ricordo di Vincenzo Padula

    Forse, l’ultimo a sentire tutto quello scalpitio è stato il patriota e storico Vincenzo Padula, quando da quelle parti registrava i nobili allevatori di mandrie equine: «Giumentieri: Andreassi d’Amendolara, Pucci d’Amendolara, Gallerano d’Amendolara, Mazario [sic] di Roseto, Chidichimo di Albidona hanno buone razze. Ottime le mule di Mazario, ottimi i cavalli di Andreassi, della razza di Coppola, piccoli, ben fatti, e forti, non sono però molto agili al moto, mancano di padre».
    Non di padre mancò invece la progenie “umana” dei nobili di Coppola. Questi si imparentarono con gli Andreassi di Montegiordano e quindi si stabilirono Amendolara abbandonando Altomonte.
    Da un “sanseverinato” all’altro e da un cavallo all’altro, tutto diventa più chiaro (del resto, non appartenevano ad altri Sanseverino i cavalli utilizzati come modelli da Leonardo da Vinci?…). Tutto torna.

  • Non solo miracoli: vita segreta di San Francesco di Paola

    Non solo miracoli: vita segreta di San Francesco di Paola

    Rozzo, ignorante, burbero. E analfabeta. Così, per molti secoli, è stato tramandato San Francesco di Paola.
    Nulla di più falso: l’enorme mole di documentazione storica della sua vita dimostra l’esatto contrario, a dispetto delle tante agiografie che hanno quasi offuscato i lati essenziali dell’uomo. Non ci sono solo i miracoli, che comunque restano il filo conduttore delle narrazioni sul santo calabrese.

    San Francesco di Paola medico e filosofo

    C’è un’altra storia, ancora tutta da scrivere: San Francesco di Paola fu anche uomo di scienze e filosofo. Guariva gli ammalati con le erbe e riusciva dove i medici fallivano.
    Per questo, i dottori dell’epoca lo consideravano quasi uno stregone. San Francesco conosceva tutti i segreti delle piante e ne sapeva dosare le quantità per lenire le sofferenze.
    Erano solo pozioni “magiche”, le sue, come pensavano i detrattori? San Francesco appare nei dipinti con in mano un sottile bastone, che certo non usava per sorreggersi, specie da giovane e nel pieno delle sue forze. Quando, per capirci, si spostava in lungo e in largo per la Calabria.

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    La statua sommersa di San Francesco di Paola

    Anche rabdomante

    Il santo era una figura imponente, dall’alta statura. Gli ultimi studi ci dicono che era gioviale con gli uomini e le donne che incontrava sul suo cammino.
    Tutto il contrario di quanto finora ci è stato raccontato. Quel bastone, da cui non si staccava mai, doveva quasi sicuramente servirgli per la ricerca dell’acqua nei luoghi più impervi dove dimorava.
    San Francesco “sensitivo” sarebbe riuscito ad individuare anche nel “deserto” i siti da dove far sgorgare il prezioso liquido, e quindi installarvi le comunità che poi dovevano popolare quei posti. Così nacquero i conventi che lui costruì.

    San Francesco ingegnere e costruttore

    Da solo e con l’aiuto dei “segreti” delle scienze, ingegneristica e idraulica, di cui era senz’altro in possesso. Questo è un altro lato della polivalente attività del frate.
    A Paola, Paterno, Corigliano, Spezzano, in Sicilia a Milazzo, ma anche in Francia e in tanti altri posti San Francesco costruì opere che solo una persona che conosceva le complicate formule matematiche della statica, poteva realizzare.
    La perfezione dei manufatti, l’equilibrio delle murature, la geometria degli archi e delle navate, rimandano all’ingegno di chi non poteva fare leva solo su empiriche conoscenze da manovale. Era proprio lui l’autore dei suoi progetti.
    Non si sa fino a che punto usasse gli squadri e gli inchiostri, anche se, coadiuvato da maestranze esperte, di sicuro era egli stesso che dava forma a quelle imponenti strutture.

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    Il santuario di San Francesco di Paola

    Un mistero da chiarire

    Aveva studiato e frequentato dotti? Certamente, tutti gli indizi portano a tali conclusioni. Ma di queste “tracce”, nessuna è stata ripercorsa e indagata nella giusta considerazione. L’uomo di scienze arriva anche ad essere un tutt’uno con l’uomo filosofo della vita.
    Al di là della fede, che professava nei comportamenti concreti, San Francesco ha pieno rispetto del corpo, oltre che dell’anima.
    I suoi lunghi digiuni e le privazioni, tramandati fino ad oggi, rappresentano la consapevolezza della coniugazione del benessere fisico con quello dello spirito.

    San Francesco vegetariano

    D’altronde i suoi 92 anni vissuti quasi tutti in salute, sono il risultato di questo perfetto equilibrio. San Francesco non partecipava ai bagordi e ai succulenti pranzi di corte. Tuttavia, non per questo le sue privazioni erano la mortificazione della carne e il decadimento dell’organismo.
    Il suo era uno stile di vita sobrio, grazie anche alla pratica vegetariana. La sua era una “dieta” salutare per il corpo e la mente, motori infaticabili di una ricca esistenza.
    Da qui anche la meditazione e la preghiera, per la materializzazione delle azioni quotidiane. Tutte rivolte alla diffusione dei messaggi di pace, carità e giustizia che hanno rappresentato il perno del suo pensiero “filosofico”.

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    Victor Hugo

    San Francesco di Paola filosofo umanitario

    Una filosofia, forse spicciola, ma messa in pratica in ogni circostanza: dall’incontro, con i sovrani e coi papi a quelli con le persone più umili.
    Solo un uomo in possesso delle moderne conoscenze del mondo poteva stare alla pari, nelle corti d’Europa, in una fase così piena di grandi mutamenti. E qui arriva un’altra confutazione: San Francesco è descritto il più delle volte come fustigatore di costumi, accigliato, con lo sguardo severo e di rimprovero.
    Un conservatore e un moralizzatore in un mondo pervaso dagli eccessi e dal peccato.

    A tu per tu con Torquemada

    Tuttavia, alla base del pensiero “filosofico” del santo calabrese c’era la predicazione della misericordia e del perdono: i sentimenti tra i più alti della religione cristiana. Tutto questo, quindi, mal si concilia con la visione manichea del santo tutto d’un pezzo. Lo ha compreso, nientemeno, Victor Hugo.
    Nel testo della sua opera teatrale, Torquemada, il grande scrittore francese accosta l’inquisitore al santo calabrese. E proprio quest’ultimo tiene testa nel dialogo a colui che con la tortura si era macchiato di efferati crimini contro gli “eretici” del tempo. Mondi contrapposti confliggono nello scambio tra i due. Ne esce magnificata la tolleranza di San Francesco.

    L’inquisitore Torquemada

    L’arrivo in Francia

    In Francia il frate visse l’ultima parte della sua vita: quella della saggezza.
    Chiamato da Luigi XI a corte per guarirlo dai suoi mali, san Francesco vi dimorò per ben venticinque anni. Nonostante l’intervento del santo, per il re non ci fu nulla da fare. Morì subito dopo.
    Questo evento, comunque, aprì le porte del castello di Amboise al mistico, che costruì un nuovo convento.

    Venticinque anni ad Amboise

    Amboise a quell’epoca era il centro propulsore della modernità in Europa a tutti i livelli. In quel luogo, per volere degli “illuminati” regnanti, andavano e venivano filosofi, letterati, musicisti, artisti, consiglieri politici.

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    San Francesco di Paola e Luigi XI di Francia

    Da lì prese corpo un nuovo pensiero.
    La politica della guerra, veniva soppiantata da quella della pace, mentre il vecchio mondo si lasciava dietro le spalle tutte le sue contraddizioni.
    Dai simposi ai cenacoli e le feste di corte Amboise, diventò meta ambita per chi voleva stare al centro delle trasformazioni. San Francesco fu tra le figure eminenti che determinarono questa svolta.
    Aperto alle nuove conoscenze, visse anche gli anni della scoperta dell’America di Cristoforo Colombo, e per una parte della sua esistenza quasi incrociò Leonardo Da Vinci.

    San Francesco e Leonardo: vite parallele

    Il grande uomo di scienze e artista, visse anche egli ad Amboise , per tre anni fino al giorno della morte. Le sue spoglie sono ancora seppellite in quel luogo.
    Una coincidenza non del tutto casuale, accomuna San Francesco e Leonardo. Entrambi furono i protagonisti della costruzione di un nuovo orizzonte.
    I due non si incontrarono mai, ma una intermediazione fatta di singolari correlazioni, porta a pensare ad una comunanza di aperture mentali che entrambi possedevano.

    Il castello di Amboise

    Una conclusione

    Venticinque anni di una esistenza sono tanti. Rappresentano un arco temporale di mutamento per ognuno. San Francesco visse il periodo francese in maniera intensa, ma ben poco si conosce di questa permanenza.
    Certamente si compenetrò nelle vicende del tempo. Sarebbe bene approfondire questi aspetti della sua maturazione, alla luce del contributo che diede allo sviluppo dell’Europa. Finora queste zone d’ombra non sono state scandagliate. Sicuramente, studi e ricerche approfonditi potrebbero dare molte sorprese.