Categoria: Cultura

  • Pasolini e il medico di Paola

    Pasolini e il medico di Paola

    Intellettuale anticonvenzionale, indipendente, unico e ineguagliabile. Cinquant’anni fa moriva Pier Paolo Pasolini, assassinato sul litorale di Ostia nella notte fra il 1° e il 2 novembre 1975. Un poeta, giornalista, regista e letterato che ha lasciato un segno indelebile nella cultura italiana del Ventesimo secolo e che ha scandagliato in profondità i tormenti, le ipocrisie, i vizi e i cambiamenti del popolo italiano.

    Renzo Paris racconta la morte di Pier Paolo Pasolini nel suo ultimo libro - la Repubblica
    Il ritrovamento del corpo di PPP

    Dai campagnoli di Casarsa ai sottoproletari delle borgate romane, fra i popoli umili che più hanno intrecciato le loro sorti al vissuto di Pasolini un posto di rilievo ha la gente di Calabria. Quello fra PPP e la Calabria è stato un rapporto burrascoso ma intenso, sviluppatosi attraverso i reportage, i film, i documentari, anche la poesia, con le parole di Profezia, componimento del ’64 poi diffuso col titolo Alì dagli occhi azzurri, che anticipò il dramma dei migranti nel Mediterraneo e in particolare lungo le coste calabresi.

    “Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,
    a milioni, vestiti di stracci,
    asiatici, e di camicie americane.
    Subito i Calabresi diranno,
    come malandrini a malandrini:
    ‘Ecco i vecchi fratelli,
    coi figli e il pane e formaggio!’”

    Pasolini in Calabria: banditi a Cutro

    La complessità del legame fra Pasolini e la Calabria si fonda sul caso scoppiato lungo il vespro dell’estate del 1959, a seguito della pubblicazione – il 5 settembre – della terza e ultima parte di un reportage in Italia, da Ventimiglia a Pachino, da Reggio Calabria – luogo in cui, scrive, gli piacerebbe «vivere e morirci, non di pace, […] ma di gioia» – a Trieste, che Pier Paolo Pasolini confezionò, con gli scatti del fotografo Paolo di Paolo, per la rivista Successo. La parte conclusiva del documentario dal titolo La lunga strada di sabbia si concentrava sulla risalita della Penisola, dallo Jonio calabrese all’Adriatico, tragitto durante il quale il poeta passò, fugacemente, a bordo della sua Millecento a quattro cilindri, da Cutro, paesino immerso in un paesaggio bucolico di calanchi oggi in territorio di Crotone, al tempo rientrante nella provincia di Catanzaro.

    Parliamo della famosa polemica dei banditi – così come Pasolini appellò la gente di Cutro –, cavalcata dalla pubblicistica locale e dal governo democristiano di Cutro con a capo il sindaco Vincenzo Mancuso.
    «Lo vedo correndo in macchina: ma è il luogo che più mi impressiona di tutto il lungo viaggio. È, veramente, il paese dei banditi, come si vede in certi westerns. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi. Si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge, o, se non dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, a un altro livello. Nel sorriso dei giovani che tornano dal lavoro atroce, c’è un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia».

    Premi e polemiche

    Alla diffusione di queste pagine, sulla stampa calabrese si scatenò un’isteria collettiva. L’intellettuale corsaro provò, a suo modo, a chiudere la questione con una replica, uscita il 28 ottobre su Paese Sera. Un passaggio della Lettera sulla Calabria sosteneva che «la storia della Calabria implica necessariamente il banditismo: se da due millenni essa è una terra dominata, sottogovernata, depressa». Ma la querelle proseguì, raggiungendo il picco poche settimane dopo, a metà novembre, quando PPP ricevette a Crotone – città in contrasto politico con la vicina Cutro considerata l’amministrazione di colore rosso, retta dal primo cittadino comunista Vincenzo Corigliano – il prestigioso Premio Crotone per il suo romanzo Una vita violenta. «Il Premio Crotone assegnato a chi ha offeso senza alcun ritegno l’onorabilità della cittadina crotonese e di Cutro» metteva nero su bianco, indignato, Il Messaggero della Calabria.

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    Pasolini in Calabria per il Premio Crotone

    Il dottor Pasquale Nicolini

    È una vicenda famosa, di cui si è scritto molto. Poco tramandato è invece uno scambio di lettere, avvenuto a cavallo fra l’uscita del resoconto incriminato e la consegna contestata del Premio Crotone all’autore, fra Pasolini e un medico calabrese.
    È il 26 settembre 1959 quando dalla Calabria parte una raccomandata. A firmarla è un dottore, ufficiale sanitario di Paola, Pasquale Nicolini.
    Vicino agli ultimi, ai più deboli, Nicolini era quello che oggi definiremmo un attivista. L’uomo si impegnava a promuovere il diritto alla salute per le famiglie meno abbienti e per la costruzione di abitazioni moderne, che strappassero le genti più povere della cittadina tirrenica dalle loro casupole malsane e lesionate a seguito dei bombardamenti dell’ultimo conflitto mondiale – lascito di quegli orrori della guerra che il dottor Nicolini aveva sperimentato negli ospedali militari.

    L’uomo possedeva anche una profonda cultura umanistica, amava discettare di filosofia e letteratura e non disdegnava di comporre poesie dedicate alla sua terra. Interessatosi chiaramente alla controversia scoppiata a seguito delle parole di Pasolini sulle pagine di Successo, il dottor Pasquale Nicolini pensò dunque di scrivere, con la cortesia e l’acume che lo distinguevano, una lettera privata al poeta.
    Di seguito, estratti della missiva, pubblicata il 23 luglio 2012 da Roberto Losso, giornalista scomparso nel 2023, sulle colonne del Quotidiano della Calabria:

    Una lettera per confrontarsi

    «Al signor Pier Paolo Pasolini, il suo resoconto La lunga striscia di sabbia, pubblicato nel numero di settembre di Successo, ha suscitato in Calabria un’ondata di risentimento, invero molto giustificato, del quale non so se l’è giunta l’eco. Io preferisco scriverle personalmente, anche perché voglio aver la certezza ch’ella conosca il mio pensiero: sarò franco e sereno, e le sarò molto grato se vorrà rispondermi con uguale franchezza e serenità. Chi sa che non si possa giungere alla comprensione e… alla distensione! Molte volte si grava l’animo di rancori per interpretazioni errate o perché si va più in là delle intenzioni altrui. Non è così?

    Ella, dunque, percorrendo la ‘lunga strada di sabbia’ della nostra Penisola, ha dato un fugacissimo sguardo alla costiera calabra e ne ha tratto delle conclusioni che certamente non ci fanno onore. Che il suo sguardo sia stato fugacissimo è provato dalla celerità con cui ha percorso detta strada».

    Pasolini tra le braccia di Morfeo?

    «Verrebbe addirittura da pensare che da Maratea (che è in Lucania) a Reggio Calabria abbia viaggiato in ‘turboreattore’, se neppure si è accorto delle belle scogliere di Praia e Scalea, del paradiso di Cirella di Diamante piena di sole, di Belvedere e della sua Rosanville, di Cittadella del Capo semplice e romantica, della mia Paola panoramica e mistica, dello sperone di Tropea, di Bagnara, di Scilla. Ovvero – lo confessi! – nel tratto calabro-tirrenico, vinto dalla stanchezza, ha ceduto il volante al suo fotoreporter e si è accoccolato nelle braccia del buon Morfeo?».

    «Così ella ha potuto dare una occhiata di scorcio solo a Reggio ed al resto del litorale jonico. Ma tanto è bastato per farle osservare che Reggio è città estremamente drammatica e originale, di un’angosciosa povertà, dove, sui camion che passano per le lunghe strade parallele al mare, si vedono scritte come “Dio, aiutaci”, che Cutro è veramente il paese dei banditi come si vede in certi westerns (ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi); che ivi si sente che siamo fuori dalla legge o, se non dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, ad un altro livello…» […]

    Povera ma bella

    «E finalmente, uscendo dal Sud, ha sentito di qualificarlo ‘carfaneo sterminato, brulichio di miseri, di ladri, di affamati, di sensuali, pura e oscura riserva di vita’. Ma come ha potuto, signor Pasolini, emettere di tali giudizi sulla base di un rapido colpo d’occhio? Perché, guardi, la Calabria è veramente e dolorosamente povera e depressa, ma che, dai nostri camion gridi la sua invocazione a Dio per non perire, questo no! Anche perché è nella natura di noi calabresi un senso d’orgoglio, direi, smisurato (usi a soffrir tacendo)».

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    Quel che resta del tempio di Hera Lacinia a Capo Colonna (Crotone)

    «Ed ora mi levi una curiosità: da che cosa ha potuto dedurre che Cutro è il paese dei banditi? […] Strano, poi, che proprio ivi, in vicinanza di Crotone, dove ancora splendono i fasti della Scuola Pitagorica, si sia sentito fuori dalla legge e dalla cultura del suo mondo (ch’è pure mondo d’alto livello). Strano davvero, perché c’è chi, nelle notti lunari, vede ancora aggirarsi, nei pressi della colonna di Hera Lacinia, le ombre del grande saggio e dei suo discepoli che vanno irrequiete dietro l’assillo di intendere le leggi, l’ordine e l’armonia totale dell’Universo. Ritorni per davvero, signor Pasolini, nella nostra povera ma bella e generosa Calabria. A Paola sarà mio gradito ospite.»[…]

    «Sono certo che si ricrederà di molte cose e che non dirà più di noi che siamo un brulichio di miseri e di ladri, e che qua tutto è essenza negativa. Abbiamo le nostre miserie e i nostri difetti, ma abbiamo anche il nostro buon cuore, le nostre virtù e soprattutto il grande desiderio di essere considerati figli non demeriti di una madre comune».

    La replica di Pasolini

    Apprezzando il tono e la cultura classica espressa da Nicolini, PPP decise di rispondere. Già il 1° ottobre con la sua Olivetti 22 il poeta replicò al medico calabrese. Riportiamo alcuni lacerti della risposta:
    «Gentile dottor Nicolini, devo dirle anzitutto: i banditi mi sono molto simpatici, ho sempre tenuto, fin da bambino, per i banditi contro i poliziotti e i benpensanti. Quindi, da parte mia, non c’era la minima intenzione di offendere i calabresi e Cutro. Comunque, non so tirare pietosi veli sulla realtà: e anche se i banditi li avessi odiati, non avrei potuto fare a meno di dire che Cutro è una zona pericolosa, ancora in parte fuori legge: tanto è vero che i calabresi stessi, della zona, consigliano di non passare per quelle famose ‘dune giallastre’ durante la notte.» […]

    «E quanto ai ladri, infine: non mi riferivo particolarmente alla Calabria, ma a tutto il Sud. Sono stato derubato tre volte: a Catania, a Taranto e a Brindisi (sempre nelle cabine delle spiagge). In Calabria ho avuto una rapina a mano armata (di coltello): a cui sono sfuggito solo per la mia presenza di spirito. Queste cose ovviamente non le ho scritte, non solo per senso della litote, ma per non mettere nei guai i miei ladri e i miei rapinatori, che continuano ad essermi simpaticissimi (solo a Taranto, per colpa del bagnino, è intervenuta la polizia: ma io non ho voluto fare la denuncia contro il povero ladruncolo subito ritrovato)».

    Manie di persecuzione, lotta e realtà

    «Questi sono dati della vostra realtà: se poi volete fare come gli struzzi, affar vostro. Ma io ve ne sconsiglio. Non è con la retorica che si progredisce. Tutto questo lo dico a lei, perché mi sembra una persona veramente buona e simpatica». […]
    “Mi dispiace dell’equivoco: non si tiene mai abbastanza conto del vostro ‘complesso di inferiorità’, della vostra psicologia patologica (adesso non si offenda un’altra volta!), della vostra collettiva angesi, o mania di persecuzione. Tutto ciò è storicamente e socialmente giustificato.

    E io non vi consiglierei di cercare consolazioni in un passato idealizzato e definitivamente remoto: l’unico modo per consolarsi è lottare, e per lottare bisogna guardare in faccia la realtà. Mostri pure questa lettera ai suoi amici, la renda pubblica, magari la faccia anche stampare sui giornali che hanno polemizzato contro di me. Sono certo che sarò capito. Le ripeto: lei è persona degna di ogni rispetto e anche affetto, e, come tale, cordialmente la saluto, suo devotissimo Pier Paolo Pasolini».

    Pasolini torna in Calabria

    Il carteggio non fu divulgato, come esortato dallo stesso Pasolini. «Persona degna di ogni rispetto e anche affetto», il dottor Nicolini lasciò la preziosa corrispondenza nel cassetto, lontana dalle grinfie di cercatori di scoop e fomentatori della diatriba.
    La polemica si affievolì presto e, trascorsi alcuni anni, Pasolini ritornò in Calabria. Il rapporto con la regione, terra genuina, reale, trascurata e anarchica quanto bastava per non essere stata ancora corrotta dalla omologazione e dalle brutture conformistiche imposte dalla modernità, da quel “genocidio culturale” inflitto agli italiani, proseguì raggiungendo l’acme nel ’63-’64 con le riprese del Vangelo secondo Matteo.

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    Pasolini durante le riprese de Il Vangelo secondo Matteo

    Il poeta e regista, deluso dalle trasformazioni del paesaggio avvenute in Medio Oriente, scelse di girare in diversi luoghi rupestri del Meridione, fra cui le calabresi Le Castella e Cutro, panorami «ferocemente antichi», scampati al disastro «economico, ecologico, urbanistico, antropologico» del tempo, che meglio potevano ricordare la Terra Santa di duemila anni prima.
    E il colto dottor Pasquale Nicolini? Voci perpetuate nei decenni vogliono che Pasolini abbia incontrato, negli anni successivi a quella turbolenta seconda metà del 1959, quel medico intellettuale paolano che aveva avuto l’ardire di scrivergli direttamente per metterlo a parte del suo pensiero e per avere un confronto, e che grazie all’educazione e all’accesa passione per le proprie radici si era meritato non soltanto la risposta, ma pure la stima di uno dei massimi pensatori del Novecento.

    Voci, indiscrezioni mai confermate che nulla tolgono a una corrispondenza preziosa, tassello importante per ricostruire il rapporto tormentato e ricco di fascino fra Pasolini e la nostra terra.

  • Morte a Sud: il Ponte di Lombardi Satriani

    Morte a Sud: il Ponte di Lombardi Satriani

    Nel crepuscolo autunnale del Mezzogiorno italiano, dove il sole cala lento tra le serre e le colline aspre della Calabria e i venti del Tirreno sussurrano storie antiche, il 2 novembre è un giorno di silenzio imposto dal calendario liturgico, ma è anche un ponte – quel ponte liminale, evocato da Luigi Maria Lombardi Satriani e Mariano Meligrana nel loro Il ponte di San Giacomo (1975, ried. 1989) – che collega i vivi ai morti, come un passaggio vitale, un dialogo sotterraneo che nutre l’esistenza quotidiana.

    Partendo da quel testo fondante dell’antropologia meridionale che illumina come le credenze popolari calabresi trasformino il lutto in un rito di resistenza e memoria, esploriamo il concetto di morte in questa terra di confine. Un ragionamento per comprendere come, in un mondo globalizzato e segnato da crisi recenti come la pandemia, la morte resti un «segno sotterraneo della vita», come ha scritto Lombardi Satriani: morte non come assenza, ma come presenza che modella comunità e identità.

    La morte a Sud descritta nel ponte di San Giacomo, libro di Lombardi Satriani e Meligrana

    Non svaniscono mai del tutto

    Vito Teti descrive, in lavori come Pietre di pane (2011), come i morti non svaniscano mai del tutto. In alcuni tratti di folklore calabrese, essi ritornano come ospiti affamati dall’aldilà, per i quali i vivi preparano tavole imbandite con “ossa dei morti”, o il grano dei morti, un pugno di chicchi tumefatti nell’acqua bollente, metafora di corpi che rigenerano la terra fertile. Queste pratiche, radicate nel sincretismo tra cristianesimo e paganesimo pre-cristiano, riflettono un’antropologia del lutto che Ernesto de Martino definiva «pianto rituale», ossia un grido collettivo che non piange solo la perdita, ma riafferma i legami sociali contro l’angoscia del nulla.

    Le prefiche di Pasolini

    Nel Mezzogiorno più ampio, dal Cilento campano alla piana di Sibari, all’Aspromonte, alla Calabria grecanica, la morte è concepita come un ciclo agrario, intrecciato alla terra aspra e alla migrazione. Qui, il sudario non è solo stoffa nera – che, come nota un recente studio etnografico su usanze funebri calabresi (2025), le donne anziane indossano per un anno intero, o talvolta per la vita, come atto di fedeltà e protezione – ma un velo che separa e unisce mondi.

    I rituali del 2 novembre, con le processioni ai cimiteri e le lamentazioni delle “piangitrici”, o prefiche evocate da Pasolini, trasformano il dolore individuale in un dramma corale, una forma di “contestazione culturale” contro l’oblio imposto dalla modernità. Lombardi Satriani lo coglieva già negli anni ’70: i morti calabresi, evocati nei canti e nei proverbi, sono “i segni sotterranei” che irrigano la vita contadina, impedendo che l’emigrazione – che ha svuotato paesi interi – recida le radici.

    Morte a Sud: il Ponte di Lombardi Satriani diventa lutto invisibile

    Ma che ne è oggi di questo ponte? Dati recenti, emersi da indagini antropologiche post-pandemiche, rivelano una resistenza affascinante, ma anche mutazioni profonde. Il COVID-19, con i suoi oltre 13000 decessi in Calabria tra 2020 e 2023 (dati ISTAT, aggiornati al 2024), ha imposto un lutto “invisibile” con funerali a porte chiuse, tombe visitate da lontano, un silenziamento che ha amplificato l’angoscia heideggeriana della morte come “propria e impropria”. Eppure, come documenta un report etnografico del 2023 sull’antropologia della morte nel Sud Italia, le comunità hanno risposto con innovazioni ibride.

    A Reggio Calabria, nel 2020, i cimiteri di Condera e Paglia hanno visto ingressi contingentati, misurazioni termiche e mascherine, ma il rito si è adattato con preghiere via streaming, candele accese sui balconi, e un boom di “cunsulu” – quel pasto comunitario offerto alla famiglia del defunto – consegnato a domicilio, simbolo di solidarietà che ha rafforzato i legami in tempi di isolamento. Oggi, con la commemorazione tornata alla normalità emerge un’evoluzione deii rituali che incorporano il digitale, con app per virtuali suffragi e social media dove si condividono foto di tombe, trasformando il privato in pubblico.

    Morte e riti arbëreshë e grecanici

    In Calabria, terra di arbëreshë e grecanici, queste trasformazioni si collocano anche in specificità etniche, anche in periodi diversi dell’anno. Tra le comunità albanesi di Lungro o Frascineto, la Java e Prigatorëvet – la festa dei morti arbëreshë, mescola canti bizantini a credenze precristiane: i defunti “tornano” e i vivi lasciano porte aperte con pane e sale, eco di un’ospitalità come resistenza all’emarginazione. Qualche anno fa avevo notato come amiglie rurali hanno ripreso i “questuanti” – i bambini che, con zucche intagliate a teschio (coccalu di muortu), bussano alle porte chiedendo “oboli” per i morti – ma con un twist: incorporano elementi di Halloween, quel sincretismo globale che alcuni studiosi descrivono come “assemblaggio ludico” per rivitalizzare paesi spopolati. Non è diluizione, ma vitalità: la morte, ibrida, diventa strumento di aggregazione contro la solitudine pandemica.

    Questo ponte, dunque, non crolla; si rinnova. In un Mezzogiorno segnato da spopolamento – con Calabria che perde 10.000 abitanti annui (ISTAT 2024) – e flussi migratori inversi, come i cimiteri siciliani e calabresi che accolgono i resti di migranti annegati nel Mediterraneo la morte interpella l’antropologia a una riflessione urgente: come ospitare l’estraneo defunto? A Lampedusa o a Cutro e Crotone, emergono riti nuovi – monumenti anonimi, preghiere interreligiose – che estendono il “memento” cristiano a un’etica mediterranea dell’ospitalità. Lombardi Satriani, con il suo sguardo sul folklore subalterno, ci spingerebbe a vedere qui non tragedia, ma potenzialità: i morti “stranieri” diventano semi di una memoria condivisa, contro le barriere erette dalla crisi.

    Morte a Sud: fermiamoci ancora sul Ponte di Lombardi Satriani

    Sul far della sera del 2 novembre 2025, mentre le campane echeggiano nei valloni calabresi, fermiamoci a ragionare su questo ponte. La morte nel Mezzogiorno è fermento, è invito a vivere con intensità, a custodire i segni sotterranei che ci legano. Come i chicchi del grano dei morti, che gonfiano nell’acqua per rinascere pane, così i nostri defunti ci ricordano che la vita deve fare i conti con loro per continuare a essere tale. In questa commemorazione, non piangiamo solo perdite ma celebriamo un’eternità quotidiana, appassionata e resistente, che rende il Sud un laboratorio antropologico vivo.

    di Gianfranco Donadio

    L’antropologo Luigi Maria Lombardi Satriani
  • Cutro, Pasolini e una Calabria fuori dal tempo

    Cutro, Pasolini e una Calabria fuori dal tempo

    Nel 1959 Pier Paolo Pasolini attraversa l’Italia in macchina, una Fiat 1100 prestata da Federico Fellini. Non per un film, come in altre occasioni, ma per un reportage insieme al fotografo Paolo Di Paolo: La lunga strada di sabbia, pubblicato in tre puntate sulla rivista Successo (www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=4179).

    CALABRIA, PASOLINI A CUTRO «PAESE DEI BANDITI»

    L’obiettivo è raccontare un Paese in trasformazione, dove il boom economico sta trasformando contadini in vacanzieri, e il mare in merce. Attraversa anche la Calabria e, tra tutte le tappe, ce n’è una destinata a rimanere nella memoria per le polemiche sollevate: si tratta di Cutro, che Pasolini descrive così: «Ecco, a un distendersi delle dune gialle, in una specie di altopiano, Cutro. Lo vedo correndo in macchina: ma è il luogo che più mi impressiona di tutto il viaggio. È, veramente, il paese dei banditi, come si vede in certi westerns. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi». Non serve molto di più per accendere la miccia. La stampa calabrese esplode di indignazione, il Comune di Cutro chiede scuse formali, e persino un deputato democristiano – un certo La Russa (bizzarri ritorni della storia) – alza il vessillo dell’«offesa al popolo calabrese».

    L’attacco di certa stampa a Pasolini dopo le parole pronunciate dall’intellettuale su Cutro

    IL PREMIO A CROTONE

    La questione, naturalmente, non è solo letteraria: a venti chilometri di distanza, a Crotone, governa il Partito Comunista, mentre Cutro è democristiana fino al midollo. E così, quando a novembre Pasolini riceve il Premio Crotone per Una vita violenta, la polemica diventa scontro politico a cielo aperto.
    Fedele al suo talento per infilarsi nei guai con grazia, Pasolini scrive una lettera aperta a Paese Sera, con il tono che gli riconosciamo, diretto, ironico, spietato: «I banditi mi sono molto simpatici. Quindi da parte mia non c’era la minima intenzione di offendere i calabresi e Cutro. […] Quanto alla miseria, non vedo perché ci sia da vergognarsene. Non è colpa vostra se siete poveri ma dei governi che si sono succeduti da secoli, fino a questo compreso».

    Pier Paolo Pasolini incontra i giovani di Cutro

    PASOLINI, CUTRO E UNA CALABRIA FUORI DAL TEMPO

    Era un tentativo di spiegazione, ma anche un manifesto: Pasolini non accettava l’idea di “mettere il velo” sulla realtà. La Calabria del 1959 era povera, dura, fuori dal tempo, eppure, in un Paese che stava correndo verso la televisione, le vacanze in Riviera e la Fiat 600, dire la verità era già un atto di eresia.

    Per altri versi, quel viaggio è una sorta di Viaggio in Italia al contrario, e se Goethe veniva a cercare la luce, Pasolini trova le ombre: dune ingiallite, coste vuote, volti segnati dalla fatica. Nel frattempo il turismo esplode, con gli italiani in vacanza che raddoppiano tra il 1959 e il 1965, rendendo così il reportage una doppia testimonianza, l’istantanea di un Paese che cambia, e l’addio a un mondo che scompare.
    Quaranta anni dopo è Philippe Séclier a provare a rifare lo stesso viaggio, reportage pubblicato da Contrasto, e ancora nel 2024 ci pensa un tedesco, Michael Ernst, per un volume pubblicato da teNeus con foto di Paul Almasy.

    Anche lui, nel percorrere sessantacinque anni dopo “la lunga strada di sabbia” passa da Cutro, scrivendo sulla Frankfurter Allgemeine: «Anche io mi sento come nella scenografia di un film western. Nessuno per strada, voci di uomini rumorose dietro una porta solo accostata, mentre si sporge il viso di una donna di almeno cento anni che chiude rapidamente la persiana quando mi vede guardare verso di lei. Non resterò un’ora in questo posto, anzi nemmeno mezza!». Come dire, la stessa impressione, sessantacinque anni dopo, di un luogo che non appartiene al presente.

    CUTRO E LA SUA TRAGEDIA

    Nel frattempo, Cutro è tornata sulle pagine dei giornali, e non per una polemica letteraria, ma per una tragedia: la strage di migranti, novantaquattro morti, a Steccato di Cutro, nel febbraio 2023. Le stesse coste dove Pasolini vedeva i “banditi” sono diventate la frontiera del dolore di altri “banditi” del mondo contemporaneo.

    C’è qualcosa di spaventosamente coerente in tutto questo. Se nel 1959 Pasolini veniva accusato di aver insultato la Calabria per averne descritto la povertà, nel 2023 quella stessa costa è teatro di un’altra forma di povertà, non più interna, ma globale.
    Forse aveva ragione lui quando scriveva che «la realtà non si può velare» e che il compito di chi guarda, di chi viaggia, scrive o fotografa non è consolare, ma disturbare.
    Sessantacinque anni dopo, la Calabria continua a essere un luogo che «impressiona», per usare le sue parole, solo che adesso, a impressionarci, non è più la parola “banditi”. È la realtà, nuda e disperata, che ancora ci assedia.

    di Attilio Lauria

  • La Calabria che Mimmo Jodice ci ha insegnato a guardare

    La Calabria che Mimmo Jodice ci ha insegnato a guardare

    Ebbene sì, c’è un autore che era già stato in Calabria prima del festival di fotografia di Corigliano, quello che ha reso la nostra regione una tappa ineludibile della grande fotografia contemporanea. Ospite della Fondazione Napoli Novantanove, Mimmo Jodice ha ripercorso a fine millennio il viaggio di Norman Douglas, raccontato nel 1915 dallo scandaloso, quanto raffinato scrittore inglese in Old Calabria, diario di viaggi nell’antica Calabria, da Lucera al Salento, ma non solo. Come suggerisce il titolo del libro di Jodice, Old Calabria e i luoghi del Grand Tour, il suo percorso fotografico si muove fra le tracce di altri scrittori in viaggio, da George Gissing a Henry Swinburne, Alexandre Dumas, Edward Lear e Francois Lenormant, solo per citarne alcuni.

    Fuori dalla contemporaneità

    E dunque è una Calabria che evoca un tempo altro dalla contemporaneità quella di Jodice, le cui atmosfere sospese, dense di silenzio, inducono alla riflessione, a “perdersi a guardare”, secondo la frase di Fernando Pessoa che il Maestro ha trasformato nel tempo in poetica dalla felice cifra stilistica: «Osservare, indagare con gli occhi, con la mente, perdermi a guardare, contemplare, immaginare, cercare visioni oltre la realtà», scriverà nella biografia pubblicata da Contrasto il cui titolo, Saldamente sulle nuvole, è una citazione di quell’Ennio Flaiano che «l’arte è un modo di tenere i piedi poggiati saldamente sulle nuvole».

    Le immagini dei Bronzi di Riace

    È questa lentezza dello sguardo di Jodice, caparbiamente lontano dal virtuosismo dell’attimo decisivo bressoniano, che sottrae il viaggio alla dimensione documentaria per affidarlo ad un’interiorità visionaria e contemplativa, fino a trasformare la realtà in una sorta di paesaggio dell’anima, capace di accarezzare le nostalgie della memoria. Memoria che è soprattutto identità, in questa nostra parte di Mediterraneo vista come luogo di radici e stratificazioni che riprendono vita nelle immagini di certi luoghi o architetture. Tracce di identità altrimenti consegnate all’oblio, la cui ricerca è proseguita poi qualche anno più tardi con le immagini dei Bronzi di Riace, realizzate per la campagna fotografica affidatagli dalla Regione Calabria.

    Uno scatto di Mimmo Jodice a Santa Severina (KR)

    Jodice non fotografa la Calabria, la ascolta

    Come tra volto e anima, per Jodice c’è un legame indissolubile fra dimensione esteriore e interiore che caratterizza tutto ciò che riguarda il Sud, dove “si fondono bellezza scenografica del paesaggio e dimensione sociale che viene dal passato”, come dirà in un’intervista.
    E forse è questo, in fondo, il dono più grande che Mimmo Jodice ci ha lasciato: aver guardato la Calabria non come un “altrove” da raccontare, ma un luogo dove la bellezza non è mai solo estetica, ma memoria viva, carne e spirito.

    Da calabrese, non posso che riconoscere in quelle immagini il respiro lento della mia terra, la luce che indugia sulle pietre, il silenzio che sa dire “più di mille parole”, la malinconia che da noi è una forma d’amore. Jodice non fotografa la Calabria per spiegarla: la ascolta. E in quello sguardo sospeso, tra mare e montagna, tra mito e realtà, ci restituisce l’essenza di ciò che siamo: un popolo che resiste al tempo, ancorato alla propria storia ma sempre, ostinatamente, con i piedi poggiati sulle nuvole.

    Mimmo Jodice
  • Da Riace a Calais, viaggio sospeso tra accoglienza e inospitalità

    Da Riace a Calais, viaggio sospeso tra accoglienza e inospitalità

    di Walter Greco (responsabile scientifico Laboratorio Capire, Dispes, Unical)

    ***

    Nei giorni scorsi, all’interno del Laboratorio CAPIRE, si è svolta la presentazione agli studenti del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria del recente volume di Anna Elia (professoressa Associata di Sociologia dell’ambiente e del territorio presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria) ed Emmanuel Jovelin (Sociologie de l’(in)hospitalité. De la Jungle de Calais à Riace, Éditions du Cygne, Parigi, 2025), rappresentando un pretesto per andare al di là del consueto rito accademico che accompagna i risultati di una ricerca.

    Emmanuel Jovelin, autore del libro Sociologie de l’(in)hospitalité. De la Jungle de Calais à Riace, Éditions du Cygne, Parigi, 2025

    Una “sociologia dell’inospitalità”

    Si tratta di un lavoro di ricerca che, improntato alla necessaria rigorosità scientifica, è dedicato alla costruzione di una possibile sociologia dell’inospitalità, configurandosi come una reale occasione – densa e dialogica – per mettere alla prova un lessico critico capace di cogliere i significati profondi dell’attuale regime europeo delle frontiere e dei sistemi di accoglienza ad esso legati. Il campo di lettura dell’opera, infatti, non si limita a descrivere ma interroga, mette in tensione, chiede una presa di posizione. Il titolo, felicemente perturbante, determina la lettura per cui l’inospitalità non è tanto un incidente della storia, ma un reale dispositivo, una struttura di pratiche e discorsi che respinge, seleziona, invisibilizza, ma che, proprio all’interno di questa propria natura, dev’essere resa leggibile nei suoi ingranaggi – giuridici, amministrativi, semantici – prima ancora che sia contestata sul piano normativo.

    L’enorme accampamento di migranti sorto vicino Calais, in Francia

    Riace e Calais -Sangatte, i luoghi simbolo

    Nel libro, il confronto su questo aspetto si articola intorno a due luoghi-simbolo che assumono il valore di esperimenti sociali opposti: da un lato Riace, laboratorio di prossimità e convivenza, in cui l’accoglienza si fa politica territoriale e pratica di comunità; dall’altro Calais–Sangatte, paradigma europeo della “giungla” intesa non come eccezione ma come esito, perfettamente coerente, di una governance dell’assenza che produce dispersione, degrado amministrato, umiliazione quotidiana.

    Sulla scena di Riace, l’esperienza appare insieme fragile e probante mostrando come l’inclusione funzioni quando si abbandona la logica dei finanziamenti frammentati e a breve termine per trasformarli in infrastrutture ordinarie — servizi educativi, sanità di base, lavoro di prossimità — con particolare attenzione a donne e bambini.

    Sulla seconda scena – quella di Calais – si ricostruisce la genealogia degli sgomberi, delle dislocazioni, delle riemersioni ai margini, fino alla costruzione di una “città nella città” in cui microeconomie di sopravvivenza proliferano là dove lo Stato si ritrae e l’eccezione diventa regola. Il punto, nelle parole degli autori, non è contrapporre moralismi ma è mostrare come i dispositivi dell’inospitalità si ripetano, con variazioni locali, lungo l’intero spazio europeo, dalla Manica al Mediterraneo.

    Mimmo Lucano, protagonista dell’esperienza di Riace

    Mimmo Lucano, artefice di un esperimento di convivenza

    All’interno di questo quadro, la figura di Mimmo Lucano assume un valore performativo: non un eroe, non un capro espiatorio, ma l’indice – concreto e controverso – del costo umano dell’innovazione sociale che attraversa torsioni giudiziarie e una retorica, spesso tossica, sull’ontologia della “legalità” come interdizione dell’aiuto mentre, al contrario, proprio la criminalizzazione della solidarietà finisce per funzionare da cerniera simbolica dell’inospitalità, riorganizzando la percezione pubblica. In questo quadro il conflitto non è tra legalità e illegalità, ma tra due modelli di ordine: da un lato quello che riduce le persone a “cifre in un modulo”, parte di una vera e propria industria dell’accoglienza che amministra la scarsità e la distanza e, dall’altro quello che restituisce nome, voce, legami, iscrivendo i nuovi venuti in un patto di convivenza che riguarda tutti, autoctoni e migranti, amministratori e cittadini.

    Nausicaa e Ulisse alla radice dell’accoglienza

    La storia e il mito, di cui la Calabria è largamente infarcita, fanno sì che i rimandi culturali non siano orpelli ma risorse ermeneutiche, come Nausicaa che, dinanzi a Ulisse nudo e vulnerabile, non chiede chi sia ma provvede a vestirlo, dando luogo alla fondazione di una tradizione mediterranea dell’ospitalità che precede la nostra modernità politica e la interroga. Le narrazioni non appaiono, dunque, come saghe esotiche, ma come miti perfettamente incasellabili in contesti reali capaci di ricondurre a esperienza sensibile ciò che la burocrazia tende a disincarnare. mentre la memoria civile funge da argine contro la tentazione di naturalizzare l’eccezione. Così Riace diventa la “nuova spiaggia” in cui il mito si attualizza e la storia torna a farsi, concretamente, lavoro quotidiano di istituzioni e cittadini.

    L’incontro tra Nausica e Ulisse, diventato simbolo di accoglienza dello straniero naufrago in un’opera della seconda metà del 600

    Le pratiche dell’inospitalità

    Nominare l’inospitalità significa anche cartografare i suoi attori (media, burocrazie, ordinamenti), le sue pratiche (selezione, attese infinite, diritti intermittenti), le sue retoriche (emergenza, ordine pubblico, sicurezza) e le sue economie (del degrado, della precarietà, del confine). Da qui un’agenda minima che non indulge in astrattezze ma chiama a riconoscere la mobilità come tratto strutturale delle società contemporanee, a stabilizzare reti locali di accoglienza con risorse dedicate, a proteggere giuridicamente gli attori solidali e a garantire forme effettive di cittadinanza alle persone che arrivano, non come concessione simbolica ma come momento di partecipazione reale e di allargamento dei processi decisionali. Nel caso di Riace, tutto questo prende forma nella scelta di tempi lunghi, nella cura dei legami, nell’uso pubblico delle risorse in funzione della coesione sociale; nel caso di Calais, al contrario, il dispositivo dell’eccezione mostra la sua capacità di riprodurre un problema che finge di risolvere, moltiplicando gli interstizi in cui l’umanità viene trattata come eccedenza.

    L’accoglienza come forma di democrazia

    È qui che il libro mostra la sua utilità: non promette soluzioni facili, non offre scorciatoie morali, ma restituisce un lessico, una grammatica dell’attenzione, con cui leggere e trasformare pratiche istituzionali e immaginari collettivi. In definitiva, il lavoro di Anna Elia e di Emmanuel Jovelin consegna al pubblico un messaggio limpido secondo cui l’ospitalità non è un gesto caritatevole né un lusso di tempi prosperi, bensì un’infrastruttura della democrazia. Progettarla, finanziarla, proteggerla significa sottrarla alla tirannia dell’emergenza e riportarla alla politica ordinaria; significa riconoscere che l’ordine non coincide con l’assenza dell’altro, ma con la sua inclusione regolata in un patto di cittadinanza; significa, infine, accettare che le biografie – le nostre e le loro – si intreccino in città che non hanno bisogno di “giungla” per illudersi di essere sicure, ma di strade, scuole, servizi e diritti condivisi. Se Riace indica una via – pratica, replicabile, “dolce” – e Calais mostra un monito, sta a noi decidere quale delle due eredità vogliamo assumere come forma del presente. La sociologia dell’inospitalità non pretende l’ultima parola, ma chiede, più modestamente e più esigentemente, di cominciare a parlare con parole proprie di una politica che deve tornare ad agire senza rimuovere, senza violare, senza lasciare indietro.

    La pericolosità di Riace

    È proprio per questo che Riace diventa “pericolosa”: si trasforma in un’esperienza viva che sottrae carburante alla macchina politica che capitalizza l’angoscia dell’altro, dimostrando che la convivenza è praticabile, che i costi sono governabili e i benefici diffusi. Una prova vivente incrina la narrazione securitaria — che vive di eccezione e allarme — minando il consenso di chi su quelle paure costruisce campagne, carriere e rendite simboliche, fino a rappresentare tutta la società come necessariamente orientata verso forme di inospitalità

  • Tv private calabresi: c’è memoria collettiva in quei nastri magnetici

    Tv private calabresi: c’è memoria collettiva in quei nastri magnetici

    In un’era dominata dal flusso incessante di contenuti digitali, dove le immagini si accumulano in cloud invisibili e algoritmi decidono cosa ricordare, la fragilità degli archivi audiovisivi delle televisioni private calabresi tra il 1974 e il 2004 emerge come un monito silenzioso. Questi archivi non sono semplici depositi di nastri magnetici o bobine polverose ma sono frammenti di una memoria collettiva, di testimonianze visive di un Sud italiano in transizione, segnato da lotte sociali, aspirazioni moderne e ombre persistenti di marginalità.

    IL DESTINO DEI SUPPORTI MATERIALI

    Eppure, la loro precarietà fisica, economica e culturale, li rende vulnerabili, quasi evanescenti, come echi di trasmissioni che svaniscono nel buio di una notte senza ricezione. Riflettere su questa fragilità significa interrogarsi non solo sul destino di supporti materiali, ma sul valore stesso della storia locale in un panorama mediatico globalizzato, dove il locale rischia di essere il primo a essere sacrificato sull’altare del profitto e dell’oblio.
    Il periodo 1974-2004 non è arbitrario, ma segna l’alba della deregulation televisiva italiana, con la sentenza della Corte Costituzionale n. 202 del 1974 che liberalizza le trasmissioni via cavo, seguita dalla storica n. 226 del 1976 che infrange il monopolio RAI aprendo le porte alle emittenti private via etere.

    TV PRIVATE CALABRESI: L’ARCHIVIO FRAGILE

    In Calabria, questa rivoluzione assume contorni peculiari che da un territorio economicamente fragile, con un tessuto produttivo dominato da piccole imprese e cooperative, nascono emittenti che diventano la voce autentica di comunità isolate, catturando rituali, proteste e volti quotidiani. Ma proprio questa prossimità al suolo, cioè la capacità di “raccontare il territorio”, come recita il progetto PRIN “Telling the Territory”, nel Dispes dell’Università della Calabria, di cui recentemente si è tenuto un convegno per illustrare la ricerca in corso, si rivela una condanna per la conservazione. Oggi, progetti come “L’archivio fragile” tentano di riscoprire questi tesori dimenticati, digitalizzando materiali che altrimenti rischierebbero la dissoluzione. Questa riflessione esplora le radici storiche di tale fragilità, le sue manifestazioni concrete e le implicazioni filosofiche per la nostra comprensione della memoria.

    IL MOSAICO DELLE TV PRIVATE CALABRESI

    La nascita delle televisioni private in Italia è figlia di un fermento sociale e giuridico che scuote gli anni Settanta. Il monopolio RAI, pilastro del consenso statale post-bellico, si incrina sotto il peso di movimenti studenteschi, operai e femministi, che reclamano una comunicazione più democratica e plurale. La sentenza del 1974, legittimando le trasmissioni via cavo in ambito locale, apre una breccia: da Telebiella nel Nord a pionieri meridionali come Telediffusione Italiana Telenapoli, le “libere” emittenti proliferano, passando da poche decine nel 1977 a oltre 600 nel 1980. In Calabria, questa espansione è tardiva ma intensa: la regione, con la sua geografia aspra e le sue divisioni provinciali (Cosenza, Catanzaro, Crotone, Vibo Valentia, Reggio Calabria), vede emergere canali come Telemia (fondata nel 1979 a Bova Marina), Promovideo TV negli anni ’80 e Reggio TV dal 1998, TeleCosenza, Telestars, ReteAlfa, eccetera, fino ad arrivare a network come LaC TV.

    UN SUD IN FERMENTO

    Queste emittenti non sono meri diffusori di intrattenimento, ma producono documentari e inchieste che penetrano l’essenza calabrese. Immaginate servizi su feste patronali a Tropea, proteste contro l’emigrazione a Reggio Calabria o reportage sulle cooperative agricole cosentine negli anni ’80, durante la crisi post-terremoto dell’Irpinia che lambisce il Mezzogiorno, giusto per fare qualche esempio. Tra il 1974 e il 2004, il panorama evolve, la legge Mammì del 1990 consolida il duopolio RAI-Mediaset, marginalizzando le realtà locali. La transizione al digitale terrestre, culminata in Calabria nel 2012, impone costi proibitivi e la legislazione del 2004 ridisegna il settore con norme stringenti. In questo arco, le TV private calabresi catturano un “Sud in fermento”: aspirazioni di modernità contro ombre mafiose, come le inchieste su ‘Ndrangheta che, pur censurate o autolimitate, filtrano nei telegiornali locali.

    UNA STORIA IN BETACAM

    Ma la loro produzione è artigianale: nastri VHS, U-matic e Betacam girati con budget risicati, spesso da operatori multifunzione in studi improvvisati. Qui risiede il paradosso: queste immagini, vicinissime alla vita, sono le più esposte al deperimento.
    La fragilità degli archivi audiovisivi calabresi si declina su più piani, intrecciando vulnerabilità tecnologica, precarietà economica e indifferenza istituzionale. Innanzitutto, il piano materiale: i supporti degli anni ’70-’90 – nastri magnetici in acetilcellulosa o poliestere – sono intrinsecamente instabili.

    LA SINDROME DELL’ACETO

    L’idrolisi, nota come “sindrome dell’aceto”, corrode questi materiali, rilasciando odori acidi e rendendoli illeggibili entro 20-30 anni se non conservati in condizioni ideali (temperatura sotto i 18°C, umidità al 40-50%). In Calabria, con climi umidi e depositi spesso in scantinati non climatizzati, questo degrado è accelerato. Molte emittenti, come quelle provinciali di Vibo Valentia o Cosenza, non hanno investito in digitalizzazione: i master originali giacciono in scatoloni, esposti a muffe, roditori o alluvioni. Il progetto “L’archivio fragile” dell’Unical ha riscoperto proprio questo: “archivi dimenticati” di emittenti private, dove bobine di documentari su migrazioni interne o tradizioni arbëreshë rischiano l’annientamento.

    COSÌ MUORE UN EMITTENTE

    Sul piano economico, la precarietà è endemica. Le TV locali calabresi nascono da iniziative imprenditoriali familiari o associative, con ricavi da pubblicità locale (negozi, sagre) che mal sopporterebbero i costi di conservazione. Negli anni ’90, la concorrenza di Mediaset e la crisi pubblicitaria post-2000 portano chiusure: emittenti come Studio 3 o Telespazio Calabria sopravvivevano con syndication precaria, senza fondi per archivi professionali. A differenza della RAI, con le sue Teche digitalizzate, queste realtà private non hanno obblighi normativi stringenti fino al 2004, e anche dopo, i contributi statali per le locali sono esigui. Il risultato è la dispersione. Al fallimento di un’emittente, i nastri finiscono in discarica, venduti a rigattieri o ereditati da eredi indifferenti. Un esempio emblematico è il fondo di Promovideo TV: attivo dagli anni ’80, i suoi archivi – ricchi di footage su eventi calabresi – languono in spazi non protetti, minacciati da obsolescenza tecnologica.

    In un Mezzogiorno storicamente ai margini della narrazione nazionale, questi archivi incarnano una “memoria minore”. Non epica, ma quotidiana: un servizio su una processione a Mammola o un dibattito su disoccupazione giovanile a Catanzaro. La loro fragilità riflette quella di un territorio emarginato, come denunciato nei documentari televisivi del periodo, che il progetto PRIN descrive come “voci del piccolo schermo d’inchiesta”. Senza riconoscimento istituzionale – a differenza degli archivi AAMOD a Roma o delle cineteche settentrionali – questi materiali rischiano l’oblio, perpetuando un colonialismo culturale interno all’Italia.

    LE ROVINE DI WALTER BENJAMIN

    Questa fragilità non è solo tecnica, ma è esistenziale. Riflettendoci, gli archivi audiovisivi calabresi evocano la teoria di Walter Benjamin sulla storia come “cumulo di rovine”, dove il passato non è lineare ma frammentato, recuperabile solo da chi osa frugare tra le macerie. In un contesto come la Calabria, segnato da terremoti metaforici – emigrazione, ‘ndrangheta, spopolamento – questi nastri sono rovine vive che catturano non la grande Storia, ma le storie di chi resiste.

    La loro precarietà interroga il nostro rapporto con la memoria: in un’era di big data, perché tolleriamo la perdita di miliardi di ore di footage locale? È forse perché, come suggerisce il convegno “Il documentario televisivo in Italia” all’Università del Salento, questi materiali sfidano il narrativo dominante, valorizzando “folclore e rivitalizzazione della cultura popolare” contro l’omologazione globale?
    Filosoficamente, la fragilità richiama Paul Ricoeur e la sua “memoria, storia, oblio”: senza conservazione attiva, la memoria si riduce a oblio selettivo, dove il Sud è sempre “altro” da narrare. Eppure, proprio qui sta la speranza: progetti come “Telling the Territory” dimostrano che la digitalizzazione non è solo salvataggio, ma atto etico di restituzione. Riscoprire un nastro su una protesta operaia a Gioia Tauro negli anni ’80 significa ridare agency a comunità silenziate, trasformando la fragilità in forza dialettica.

    TV PRIVATE CALABRESI: L’UNICAL IN CAMPO PER DIFENDERE GLI ARCHIVI

    La fragilità degli archivi audiovisivi delle TV private calabresi (1974-2004) è metafora di un’Italia divisa: ricca di storie, povera di cure. Ma in questo rischio di perdita si annida un invito alla responsabilità collettiva. Istituzioni, università e comunità devono convergere – come nel PRIN Unical coordinato dal professor Daniele Dottorini – per digitalizzare, catalogare e narrare questi tesori. Chi scrive, con Patrizia Fantozzi e Antonio Martino, dell’unità di ricerca calabrese, è convinto che solo così, le immagini effimere diventeranno immortali, testimoni di un territorio che, pur fragile, ha sempre saputo inventare la propria voce. In fondo, conservare questi archivi non è mera filologia, ma è un atto di giustizia poetica, affinché il silenzio delle bobine perse non inghiotta il brusio vitale di una Calabria mai doma.

  • La festa dei Santi Medici

    La festa dei Santi Medici

    All’alba del 25 settembre di venticinque anni fa, risalgo i sentieri aridi della Locride, il sole che tinge d’arancio il mare e i rovi. Con Antonio Bevacqua, Ottavio Cavalcanti, Agostino Conforti e Antonio Rizzo, giriamo un documentario sul pellegrinaggio ai Santi Cosma e Damiani per l’Università della Calabria. Macchina da presa in spalla, catturiamo un rito che unisce fede e folklore: “I Santi Medici”, che vogliamo offrire all’attenzione dei nostri lettori.

    La terra, friabile dopo un’estate torrida, risuona di canti griko e del tintinnio degli ex voto. Il pellegrinaggio al Santuario di Riace, paese di duemila abitanti, celebre per i Bronzi emersi nel ’72, è un cammino di redenzione, un’epica antropologica che collega Mediterraneo e fede.

    I santi guaritori

    I gemelli siriani e il simbolismo

    Cosma e Damiano, gemelli siriani del III secolo, medici anargyroi che curavano gratis, furono martirizzati sotto Diocleziano. La loro agiografia narra miracoli: un trapianto di gamba etiope, una traversata a nuoto dall’Arabia. A Riace, il culto nasce nel 1669 con un reliquiario d’argento, e nel 1734 diventano patroni. Un pastore sognò i santi sul “castedu”, dove sorge il santuario. Oggi, si racconta che  il reliquiario è portato da donne, raggiunge uno scoglio con l’orma di Cosma, simbolo di approdi per naviganti ed esuli.

    Le statue dei Santi Medici esposte durante la festa a Riace

    Venerati anche nella festa degli zingari

    La festa è sincretismo mediterraneo. Per Victor Turner, una “communitas” che dal 25 al 27 settembre dissolve barriere sociali. Pellegrini da Stilo a Roccella Jonica, scalzi o con bastoni, offrono ex voto: cuori d’argento, arti di cera, navi per viaggi sicuri. I Rom e Sinti, nella “festa degli zingari”, venerano i santi come protettori degli emarginati, danzando con tamburelli e tarantelle attorno alle statue settecentesche della Chiesa di Santa Maria Assunta. La “calata dei santi” è un rito di “incubatio”, eco dei templi di Asclepio.

    Le radici di una festa come resistenza all’oblio digitale

    Riace resiste all’oblio digitale. Per tre giorni, messe solenni e veglie notturne animano il santuario. Il 26, la processione serpeggia con la banda musicale, falò rom, ‘nduja e pitte. Fuochi d’artificio segnano il ritorno delle statue. Bancarelle di ceramiche griko e cibi della tradizione accompagnano balli fino al 27, quando una messa chiude il rito.

    La processione a Riace

    Riace, con i suoi Bronzi, è terra di miracoli. I santi medici, legati ai Dioscuri e Asclepio, rappresentano un sincretismo bizantino. In un’Italia di spopolamento e abbandoni, gli emigrati di Santena replicano la festa dal ’65. I Rom trovano cittadinanza nei balli e negli ex voto, unendo sangue gitano e litanie cristiane. È una guarigione collettiva: il mare lava paure, i canti griko collegano Oriente e Occidente, le tarantelle scacciano la solitudine.

     

  • La scuola che c’è e quella che ci vorrebbe

    La scuola che c’è e quella che ci vorrebbe

    Se vogliamo comprendere la società, dobbiamo guardare dentro le aule delle sue scuole. Le caratteristiche che troveremo in quelle aule, in larga misura saranno rappresentative del tipo di società che ci troveremo davanti, infatti è lì che si disegna l’orizzonte di valori dentro cui ci si muoverà negli anni a venire, ecco perché per i governi controllare la scuola resta strategico. Malgrado la straripante influenza dei new media, dei social e di alcuni programmi televisivi di infima qualità, la scuola resta il luogo sociale formalmente demandato alla riproduzione immateriale, come la chiamava Gorz, il luogo cioè dove valori, saperi, tradizioni, vengono trasmessi dai vecchi ai giovani.

    Democrazia e opportunità

    Ma non solo: in democrazia la scuola è anche  il solo contesto dove costruire opportunità in grado di cambiare i destini delle persone – e dunque di intere comunità –  attraverso l’acquisizione dei saperi, la costruzione della propria consapevolezza, ma soprattutto attraverso la formazione di un Ethos democratico in grado di mutare gli individui in cittadini.

    Tutto ciò è più che sufficiente per spiegare perché la scuola sia da sempre un terreno di battaglia e che chi è mosso da tentazioni autoritarie, nazionaliste, mal celatamente repressive, la consideri un avversario da battere. Il nemico resta quell’attivismo educativo improntato a una idea riformista, che in Italia ha avuto pionieri che ancora oggi abitano con i loro esempi le lezioni che si tengono in classe e influenzano metodologie: gli ideali antifascisti di Bruno Ciari, l’eresia della Barbiana di don Milani e più tardi di don Sardelli e della sua esperienza dell’Acquedotto Felice, la fantasia irriverente di Rodari, l’impeto libertario di Mario Lodi, il concetto di “libertà responsabile” di Margherita Zoebeli. Tutti esempi di una idea di scuola – e dunque di una società –  antiautoritaria, democratica, plurale e aperta.

    Il merito a scuola rischia di essere una gabbia

    Il Merito e l’Inutile

    Le parole hanno un senso, anzi hanno una loro potenza. Rimarcare dentro la scuola concetti come “profitto” e “merito”, ha come sovrascopo relegare all’inutile lo studio di alcune discipline legate al pensiero libero.

    Lo scopo è quello di incatenare la scuola al lavoro e all’impresa, partendo dalla tirannia semantica. Il concetto di merito affascina, chi mai sarebbe contrario alla meritocrazia? E invece nella società il merito è la veste etica della disuguaglianza: la povertà è una colpa, ci viene spiegato, dunque insegnare l’ideologia del merito equivale a forgiare una generazione competitiva e spietata, che ignora che lo stesso merito ha direttamente a che fare con le opportunità di partenza e come spiega Pierre Rosanvallon «organizza l’immaginario delle società contemporanee» L’altra faccia del merito è il tema dell’inutile, cioè lo studio di tutto quello che non produce profitto: l’arte, la poesia, la filosofia, la musica. Tutte le discipline che alimentano il pensiero critico, fanno sorgere il dubbio, suscitano disobbedienza riflettendo sulle disuguaglianze sociali, sulle loro origini e sui danni ambientali non sono funzionali a una società finalizzata all’omogeneizzazione, destinata al dualismo “lavoro – consumo”, costruita sulla convinzione che lo sviluppo economico sia il solo fattore di miglioramento della vita.

    La tentazione di misurare deforma la valutazione

    L’irresistibile tentazione di misurare tutto

    Da parecchio valutare non è più soltanto mettere voti. L’irruzione nella scuola italiana di sistemi di test che mirano a “pesare” gli studenti è ormai consolidata, malgrado le critiche. I test di logica, matematica, o di competenze nozionistiche, non tengono conto, anzi mortificano la capacità di scrittura, la creatività, il pensiero divergente, tutte cose non casualmente rinchiuse nel recinto dell’inutile.

    La scuola che coinvolge

    La scuola che servirebbe

    La scuola che ci vorrebbe è quella che educa alla complessità, che ripudia le scorciatoie del complottismo e dell’antiscientismo, che annuncia la necessità di attrezzarsi attraverso lo studio per affrontare le sfide che ci sono e quelle che verranno. Ci vorrebbe una scuola in cui l’Educazione civica non fosse rappresentata da improbabili lezioni di educazione stradale, ma parlasse dei valori della Costituzione, della libertà, della tolleranza, della multiculturalità,  attraversando e permeando tutte le altre discipline e non restando, come è adesso, una sorta di cenerentola cui dedicare qualche ora di lezione. Una scuola che insegni ai ragazzi a muoversi con sicurezza tra fake news e slogan, che la politica non è una cosa che fa schifo, o per pochi, ma al contrario è partecipazione, è dire quel che si pensa e dunque avercelo un pensiero.

    La scuola come luogo di partecipazione

    Una scuola che insegni l’etica della democrazia, che implica il riconoscimento e il rispetto dei diritti delle minoranze. Che insegni l’etica della responsabilità, verso gli altri, soprattutto quelli differenti da noi. La responsabilità verso l’ambiente e il destino planetario, cioè di tutti. Ma anche la responsabilità delle nostre parole e delle nostre azioni. Una scuola, per dirla con Hartmut Rosa, «che risuona quando brillano gli occhi all’insegnante e agli studenti, dove non c’è silenzio, ma un brusio dinamico, uno spazio di dissenso possibile nella costruzione collaborativa della conoscenza. Insomma il contrario della scuola dell’alienazione»

    Scuola e politica

    C’è sempre qualcuno che grida che “a scuola non si fa politica”. E invece sì, si fa eccome. Quando si sceglie una pagina da leggere, un film da vedere, un quadro da guardare in silenzio, si fa politica. Quando si racconta la Storia si fa politica, nei confini tracciati sulle carte geografiche c’è la politica. Nei versi di Dante non meno che in quelli di Dino Campana o del calabrese Franco Costabile c’è politica. Tra i banchi di scuola si fa la nuova umanità, per questo studiare resta la forma di politica più potente.

     

     

  • Lamezia, la Fiat 600 e la casa messa a nudo

    Lamezia, la Fiat 600 e la casa messa a nudo

    “I trogloditi di Africo”: il titolo di un articolo pubblicato su “L’Europeo” nel 1948 è senza appello, come altrettanto impietose sono le foto di Tino Petrelli a corredo, che il tempo ha trasformato in icone neorealiste della miseria. Ce n’è una, oltre quella più famosa della classe con i bambini scalzi e la carta geografica della Calabria alle spalle, che mi è tornata alla memoria in questo momento, scattata all’interno di un ambiente che la famiglia condivide con un letto, un maiale ed una capra. So bene che a più di qualcuno il parallelo sembrerà eccessivo, ma l’associazione fra questa foto e quella del crollo della facciata di una palazzina di Lamezia Terme, avvenuto qualche giorno fa, ha un suo legame concettuale.

    La casa di Lamezia: la frattura simbolica

    La cronaca di eventi come terremoti, attentati, o fughe di gas ci ha abituati alla visione di interi palazzi sventrati che offrono la propria intimità al nostro sguardo come teatri dalle scenografie di vita interrotta. Cucine e letti disfatti, armadi aperti come confessionali forzati: gli interni più privati diventano scena pubblica, la rivelazione improvvisa di uno spazio intimo che insieme alla frattura dei muri porta con sé la frattura della distanza simbolica tra l’interno e l’esterno, ponendoci di fronte ad un intreccio complesso tra psicologia dello sguardo, estetica del disastro e tensione etica.

    Se da un lato la visione delle rovine suscita empatia e compassione per la quotidianità interrotta, dall’altro la stessa visione può alimentare un piacere segreto, una fascinazione che rientra in quella che Susan Sontag ha descritto come “l’attrazione del disastro”, dove l’atto del guardare si situa in una zona ambigua, oscillante tra compassione e consumo estetico della sofferenza. Sintomo, quest’ultimo, della tensione moderna tra documentazione e spettacolarizzazione che rinnova ogni volta l’interrogativo sui limiti morali del nostro desiderio di vedere, assai vicino, talvolta, ad una sorta di voyeurismo.

    Lamezia, la casa col punctum di Barthes

    Ma pur volendo distogliere lo sguardo da intruso, c’è qualcosa di diverso nel crollo di Lamezia, un dettaglio da punctum barthesiano che mi tiene incatenato a quell’immagine. Un elemento perturbante che emerge da quello spaccato di quotidianità agendo come una frattura semantica: una vecchia Fiat 600, apparentemente partecipe della normalità dello spazio domestico come in quel tempo non troppo lontano documentato da Petrelli. In realtà si tratta sicuramente di uno spazio dedicato a rimessa ma non solo, condiviso probabilmente con damigiane, bottiglie di pomodori e suppressate appese a stagionare, ma comunque contiguo alla casa.

    Epperò quell’accostamento tra casa e macchina, come in passato fra casa e animali, rimanda a una specificità culturale, soprattutto nel meridione d’Italia, dove in molti contesti la casa non era/è semplicemente un contenitore separato dalla vita economica e sociale, ma un organismo esteso, secondo una logica di prossimità e custodia: ciò che è prezioso, vitale o identitario viene collocato all’interno.

    La 600, icona della motorizzazione di massa e della modernizzazione italiana del dopoguerra, rappresenta una traccia biografica e culturale fortemente connotata, e la sua collocazione in uno spazio a portata di sguardo, contiguo a quello domestico, la trasforma in reliquia, oggetto d’affezione e al tempo stesso testimonianza di una temporalità sospesa, quasi un fossile domestico investito di una nuova aura simbolica. Non più strumento di spostamento, poggiata sui cavalletti al posto delle ruote, ma deposito di memorie, feticcio familiare che abita lo spazio come un ospite ingombrante ma accettato.

     La casa sventrata a Lamezia, vite e fragilità

    Nel più ampio contesto della mise en scène forzata della palazzina messa a nudo, i cui interni appaiono espressione di una comunità socialmente omogenea, quell’auto si presta a incarnare un simbolo di identità e di memoria collettiva della piccola comunità che è un condominio, raccontando una storia più ampia di vita, di cura e di perdita che appartiene a tutti noi. Alla fine, quelle stanze aperte come vite esposte ci ricordano la nostra fragilità; guardarle è guardare noi stessi, e capire quanto sottile è il confine fra certezze e perdita.

  • Roseto Capo Spulico e l’amor patrio da ombrellone

    Roseto Capo Spulico e l’amor patrio da ombrellone

    Negli ultimi giorni il Fatto Quotidiano ha dato spazio a un paio di articoli in merito a una presunta gravità del danno paesaggistico che si starebbe causando per via dei lavori in corso sul 3° Megalotto della Strada Statale 106. Quelli che interessano il tratto di costa ionica in corrispondenza del castello di Roseto Capo Spulico. Nel primo di questi due articoli sono stato fin troppo magnanimamente menzionato dall’ottimo Marco Lillo per aver pubblicato, anni fa, un mattone di libro sulla storia di Roseto.

    Ora vorrei ribattere al suo collega Tomaso Montanari, il quale lunedì 18 agosto ha ripreso l’argomento. E vorrei farlo non tanto in quanto autore del citato saggio né in quanto – come Lillo – originario anch’io di lì, sebbene solo per metà ma dalla bellezza di circa 25 generazioni. Ma piuttosto in veste di conoscitore abbastanza consumato sia della viabilità che del paesaggio, appunto, della nostra Penisola (chi ha seguito la mia rubrica in questo giornale può ricordare di cosa parlo).

    Montanari, bravo ma distratto

    Colpisce come Montanari, che di base è proprio uno storico dell’arte, sottolinei il dato paesaggistico senza menzionare la questione archeologica (se conoscesse quel territorio saprebbe che con enorme probabilità gli attuali scavi avranno riportato alla luce qualcosa, e nulla se ne è saputo e molto dovrebbe sapersene). Ma soprattutto colpisce come si allinei anch’egli al corrente piagnisteo che, a parer mio, andrebbe un tantino ridimensionato (a meno di non voler creare un caso per soffiare sul vento contrario alla costruzione del Ponte sullo Stretto…).

    Dico che andrebbe ridimensionato per due motivi: è giusto protestare ancora oggi ma sarebbe stato certamente molto più giusto e soprattutto utile farlo quando i progetti venivano presentati, anni e anni fa, e poi approvati (nel 2007, sotto il governo Prodi II), e poi pubblicati (persino scaricabili gratuitamente dalla rete). Protestare così tardi rischierebbe soltanto – lo si sapesse almeno fare davvero – di bloccare i lavori e direi che se c’è una cosa di cui il Mezzogiorno non ne può proprio più sono i lavori lasciati a metà. E poi perché protestare è saggio e sacrosanto quando si ha un’alternativa da proporre. E qui non c’è.

    Il paese di Roseto

    Un tratto di strada stretto e pericoloso

    Nel caso specifico, quel preistorico tratto di strada sta antipatico al 90% degli utenti (oltre che pericoloso per quant’è stretto) a causa dei suoi rallentamenti biblici e dell’impossibilità di sorpassare a meno di non aver già fatto testamento. Ad amarlo siamo rimasti forse solo io e altri quattro nostalgici che ancora evitiamo le autostrade per tutta una serie di questioni idealistiche che tralascio e che siamo gli ultimi ad amare grandi opere & affini. Ma bisogna ammettere che davanti alla necessità e alle mancanze di alternative c’è poco di che cavillare: che quel tratto di strada fosse da ampliare è certo. Le alternative erano solo due: quella attuale, 239 miseri metri di sottopassaggio in corrispondenza dell’unica e pertanto indispensabile e insostituibile salita che porta al centro storico; oppure quella pure ipotizzata inizialmente, che prevedeva una lunghissima galleria poco più all’interno rispetto alla costa.

    Quelli che protestano dovrebbero sapere che la costruzione di quell’ipotetica galleria sarebbe andata incontro a impedimenti tecnici molto gravi e ampiamente documentati. E che sarebbe costata all’erario molto di più rispetto ai lavori attuali. Sembra poi che nessuno si sia premurato di confrontare le mappe della viabilità preesistente con quelle del progetto in corso. Perché questo mastodontico scempio, di cui si parla tanto, semplicemente non esiste. E ancor meno sussisterà quando i lavori saranno terminati.

    Tra poco potrebbe toccare alla ferrovia

    Preparatevi già da ora, anzi, perché prima o poi dovrà essere allargata anche la ferrovia, se la si vuole ancora. E quella sì che è a ridosso del castello. E lì si che cascherà l’asino. Oppure, in nome del paesaggio, dovremmo smantellare ferrovia e vecchia statale, tornando alla mulattiera tanto percorsa nel Settecento in lungo e poco in largo dai viaggiatori del Grand Tour? Mi viene da pensare a quelli che tuonavano contro l’impatto delle pale eoliche e poi però non avrebbero mai sfiorato un vecchio mulino a vento. Occorrerebbe un minimo di senso della storia, della non-centralità del tempo in cui ci capita di vivere. Chissà se ai tempi di Federico II qualche miope s’era lamentato perché il sovrano stava costruendo uno scempio di fortino militare-doganale in cima a una roccia nuda, a picco sul mare cristallino…Forse un Montanari l’avrebbe fatto.

    Effetti non desiderati

    Ma articoli come il suo, purtroppo, producono soltanto l’effetto – spero non voluto – di soffiare sull’analfabetismo funzionale che già lussureggia in questo dannato Paese: ho letto, dopo il suo intervento, commenti di persone pronte a battersi per non far distruggere il castello (ma chi vuole toccarlo?), dispiaciute perché in galleria non si vedranno né il mare né il castello e fuori li si vedrà troppo poco (a meno di non guidare a occhi chiusi – che non è prudente –, il castello e il mare si vedranno eccome e, a mali estremi, si potrà sempre percorrere la vecchia strada), indignate perché il fatto che il castello sia privato puzzerebbe un po’: cari signori, quel castello è sempre stato privato, a esclusione di quando fu fatto costruire nella teoria delle fortificazioni militari del Regno, ma sono trascorsi più di sette secoli….

    Un’altra immagine della fortezza a picco sul mare

    Il bene che lo Stato  non volle comprare

    Passato poi di feudatario in feudatario, è stato poi per secoli adibito soltanto a dogana e osteria, con tanto di antiche storie picaresche poco edificanti (non immaginatevi principi azzurri e svenevoli castellane dalle lunghe trecce. Tutt’altro). E rimase poi nelle mani di privati pure dopo l’abolizione della feudalità. E sapete come mai? Perché nonostante già nel 1915 le Belle Arti avessero notificato il vincolo, lo Stato ha rifiutato nero su bianco di esercitare il diritto di prelazione che vantava sul bene, in occasione dell’unica compravendita tra privati (si veda la risposta del ministro Vizzini, del 28 gennaio 1988, all’interrogazione del senatore Garofalo). E dire che lo si poteva acquistare, all’epoca, a un prezzo tutt’altro che esorbitante…

    Un particolare della Calabria Citra di Antonio Boulifon (1694-1714)

    Andiamo a Roseto, finché c’è…

    Montanari tiene invece a farci sapere di aver citato lodevolmente il castello in un libro per i licei, e noi commossi prendiamo atto della notazione degna di una pagina del libro Cuore. E poi conclude questa sorta di tema per le vacanze esortando: “Andiamo a vedere Roseto Capo Spulico, finché c’è”. Ora: direi che attribuire ai lavori in corso addirittura la prossima scomparsa di tutto il paese di Roseto, marina e centro storico, mi pare un tantino di cattivo gusto e non vorremmo che a Roseto fossero costretti a fare scongiuri. San Rocco – veneratissimo nel paese ma anche patrono di viaggiatori e selciatori – potrebbe prendersela molto a male. No, ecco, Roseto ha bisogno di turisti, non di tuttologi e nemmeno – per dirla con Enrico Panunzio – di “miseristi in casco coloniale, che si sono fermati a Eboli, dietro i caciocavalli”. E, soprattutto, non di menagrami.