Categoria: Cultura

  • Squali di venti metri, balene e giraffe: le (altre) meraviglie di Tropea

    Squali di venti metri, balene e giraffe: le (altre) meraviglie di Tropea

    Tropea è senza dubbio la città turistica calabrese più famosa al mondo. Storica e amata meta del turismo italiano, europeo e globale, Tropea ha legato le sue fortune al mare turchese che la bagna e a una virtuosa tradizione ricettiva, supportati egregiamente dalle sue bellezze artistiche e architettoniche – il Santuario di Santa Maria dell’Isola sull’omonimo promontorio, la cattedrale con l’icona della veneratissima Vergine di Romania, i sontuosi palazzi nobiliari.

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    La Tropea da cartolina

    Una mare di Museo a Tropea

    Tropea ha con il suo mare un legame indissolubile che oggi trova una originale narrazione – con una sfumatura inusuale e, lo capiremo presto, del tutto inaspettata – al Museo civico del Mare.
    Inaugurato nel 2019, il Museo civico del Mare di Tropea (MuMaT) si trova all’interno del complesso di Santa Chiara – già convento e ospedale della cosiddetta perla del Tirreno –, in pieno centro storico, a pochi passi dall’Antico Sedile dei Nobili e dalla celebre balconata sul mare.
    Il MuMaT è gestito dal Gruppo paleontologico tropeano. L’ente, sorto col fine di valorizzare il patrimonio paleontologico della provincia di Vibo Valentia, è composto da Francesco Barritta (direttore del Museo), Giuseppe Carone (direttore scientifico e presidente del Gruppo), Vincenzo Carone (architetto che ha curato il progetto di allestimento), Luigi Cotroneo (curatore della sezione paleontologia), Francesco Florio (curatore della sezione biologia marina) e Tommaso Belvedere (responsabile delle collezioni).

    Undici milioni di anni fa

    Il sito culturale di Tropea espone i reperti recuperati nel corso delle trentennali indagini lungo la Costa degli Dei fino alla valle del fiume Mesima, con aree che hanno riservato eccezionali sorprese come la ricca falesia di Santa Domenica di Ricadi e il sito paleontologico di Cessaniti, un’autentica miniera per i paleontologi. Distante da Tropea circa venti chilometri, il giacimento di Cessaniti presenta sedimenti marini risalenti al Tortoniano, stadio stratigrafico del Miocene, compreso fra sette e undici milioni di anni fa, in cui si registrò un progressivo abbassamento del livello del mare.

    Resti di un cetaceo esposti nel Museo civico del mare a Tropea

    Una balena a Cessaniti

    È proprio nell’area del comune di poco meno di tremila abitanti dell’entroterra vibonese che dagli anni settanta in poi – con gli scavi avvenuti “usufruendo” del massiccio sviluppo edilizio della regione – si sono susseguite stupefacenti scoperte; su tutte, il rinvenimento dei resti di una balena (un esemplare della specie heterocetus guiscardii) risalenti a circa sette milioni di anni fa. Leida – così è stato battezzato il leggendario cetaceo – è riemerso nel 1985 a seguito degli scavi del Gruppo archeologico “Paolo Orsi”.

    La conservazione per questo infinito lasso di tempo è stata possibile grazie alla sabbia dei fondali mediterranei che ha innescato il processo di fossilizzazione dello scheletro e lo ha preservato sino ai nostri giorni. La balena, pezzo pregiato del Museo, si presenta assai più piccola rispetto agli esemplari del nostro tempo e all’epoca, date le ridotte dimensioni, rappresentava ancor di più un cibo prediletto per animali del mare più grossi quali il grande squalo bianco e l’orca.

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    Un Mediterraneo popolato da strane creature nelle sale del Museo civico del mare a Tropea

    Le giraffe di Calafrica

    Fra i reperti più importanti conservati al MuMaT ci sono anche due scheletri di sirenio (metaxytherium serresii), un mammifero acquatico erbivoro progenitore dei lamantini e dei dugonghi – mammiferi tipici degli oceani Atlantico e Pacifico – e probabilmente imparentato, alla lontana, con gli elefanti. E a proposito di mammiferi terrestri, per certo strabilierà il visitatore imbattersi nella vetrina che contiene un dente fossile di stegotetrabelodon syrticus, un elefante nordafricano distinto da quattro zanne lunghissime, e l’astragalo di un esemplare di bohlinia attica, un giraffoide vissuto nel Miocene superiore. Animali che non si penserebbe mai siano stati di passaggio nel nostro territorio. Si tratta di sbalorditivi ritrovamenti che supportano la tesi di un possibile combaciamento, in tempi remoti, fra le coste della Calabria e quelle dell’Africa settentrionale.

    Il riccio di mare dedicato al direttore del museo

    Una esposizione particolarmente ricca è quella dei clypeaster – dal latino clypeus (scudo tondo) e aster (stella) –, antenati miocenici dei ricci di mare che, come sostiene Giuseppe Carone, rappresentano un po’ il simbolo della paleontologia calabrese per la loro capillare diffusione sulla nostra fascia costiera. Assai ben conservati, questi organismi risultano molto utili per la datazione degli strati geologici. E parlandoci dei ricci, Carone, con deliziosa timidezza, ci rivela un dettaglio di cui andare orgogliosi tutti: il direttore scientifico del Museo è il solo paleontologo in vita cui è stato dedicato un fossile di riccio di mare. Il nome del resto animale in questione è amphiope caronei.

    Una conchiglia di grandi dimensioni fra le teche del museo

    Una teca di assoluto fascino, poi, è quella dedicata alla malacofauna. Qui sono esposti circa cento esemplari di conchiglie, talune estremamente rare come il guscio di un argonauta argo, mollusco discendente diretto della celeberrima ammonite, estinta circa 66, 65 milioni di anni fa, a braccetto coi dinosauri.

    Lo squalo di 20 metri 

    Cattureranno l’attenzione del pubblico anche i denti fossili di un megalodonte, squalo scomparso circa 2,6 milioni di anni fa che poteva raggiungere la lunghezza monstre di venti metri, e di uno squalo bianco, il carcharodon carcharias, il più grande pesce predatore del pianeta terracqueo. Beni paleontologici che ci raccontano di un Mediterraneo decisamente diverso da come lo vediamo oggi, di un mare tropicale in cui nuotavano animali i cui discendenti non circolano più nel nostro bacino.
    La meravigliosa biodiversità conservata e in mostra al Museo del Mare di Tropea non può che sorprendere il visitatore, ma allo stesso tempo lo stimola a instaurare un rapporto più consapevole con l’ambiente che lo circonda e, non dimentichiamolo mai, lo ospita. Temporaneamente.
    Presto il MuMaT, luogo straordinario in cui scoprire il Mediterraneo antico, si amplierà con ulteriori tre sale: due dedicate all’esposizione di altri reperti; un’altra, invece, vedrà sorgere una biblioteca dedicata al mare e alla paleontologia e biologia marina, accessibile a curiosi e studiosi da tutto il mondo. Prevista, inoltre, l’apertura di un cortile interno che ospiterà eventi e presentazioni di libri.

  • Frati scienziati: tre grandi dimenticati al servizio di San Francesco di Paola

    Frati scienziati: tre grandi dimenticati al servizio di San Francesco di Paola

    L’Ordine dei Minimi di San Francesco di Paola ha un grande torto storico.
    Infatti, resta quasi sconosciuta l’opera dei suoi tre più eminenti rappresentanti nella Francia del ’600. Ci si riferisce ai padri Emanuel Maignan, Jean Françoise Niceron e Marin Mersenne. Purtroppo questa “dimenticanza” occulta ancor oggi il grande apporto fornito da questi uomini allo sviluppo dell’arte, della matematica e della scienza nel corso di tutti questi secoli.
    I loro lavori, studiati nelle università di tutto il mondo, sono citati in testi e ricerche facilmente consultabili.

    L’Ordine dei minimi: una fabbrica di scienziati 

    Tuttavia, praticamente nessuno, soprattutto in Calabria, sa dire chi siano stati gli esponenti più autorevoli dell’Ordine dei Minimi. Ai tre religiosi nessuno ha dedicato una piazzetta o un vicolo, nemmeno a Paola.
    È il sintomo di una sottovalutazione del ruolo avuto dai Minimi in Francia.
    Eppure San Francesco desiderava che nel suo Ordine vi fossero «huomini letterati e di studi» perché così «sommessamente piace a Dio». I padri Maignan, Niceron e Mersenne hanno un comun denominatore: Descartes. E sulla sua scia crearono una vera e propria “poetica del dubbio”.

    San Francesco di Paola e Luigi IX di Francia

    L’abisso delle scienze: Marin Mersenne

    C’è un soprannome che dà la misura dell’importanza di Marin Mersenne: “Abisso di tutte le scienze”. E questo “abisso” contiene un primato: la scoperta dei numeri primi perfetti.
    Mersenne nacque a La Soultière nel 1588 e morì a Parigi nel 1648.
    Dopo aver studiato Teologia alla Sorbona entrò nei Minimi (1611) per insegnare filosofia. In seguito si stabili nel convento parigino dell’Annunziata, dove restò fino alla morte.
    Fu insegnante a Nevers ed ebbe rapporti stabili con i principali esponenti culturali del tempo: Cartesio, Hobbes, Fermat, Huygens, Torricelli, Gassendi. Fondò l’Accademia delle Scienze che si proponeva di rinnovare il mondo della ricerca nel campo universitario.

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    Marin Mersenne

    Un cervello universale dell’Ordine dei Minimi

    I contributi scientifici di Mersenne sono enormi: vanno dall’esegesi biblica alla filosofia, dalla meccanica alla teorica musicale e all’acustica, dalla geometria all’ottica, dalla pneumatica alla linguistica.
    Da segretario della repubblica delle lettere dell’epoca, partecipò in maniera determinante al dibattito sui problemi del vuoto, soprattutto durante il suo soggiorno in Italia (1644) dove assistette ad alcuni esperimenti barometrici e li discusse con i principali esponenti di questo filone scientifico.
    Nel 1624 pubblicò L’empietà dei deisti ed ebbe un rapporto scientifico forte con Galileo Galilei, che difese nei momenti più difficili e di cui fu traduttore e divulgatore. Inoltre fu precursore della teoria musicale con la pubblicazione de L’armonia universale (1636), in cui affrontò i problemi acustici degli strumenti musicali dal punto di vista fisico e matematico.

    Con Cartesio contro Hobbes

    Infine, Mersenne polemizzo con le sue Meditazioni metafisiche (1636) contro le formulazioni di Hobbes e Gassendi sulle dottrine cartesiane.
    Fede, vissuta con grande indipendenza dai sistemi metafici (compreso quello aristotelico) e scienza, praticata con grande lucidità. Un binomio perfetto con cui il religioso cercò Dio tutta la vita.

    L’arte si fa scienza: Jean Françoise Niceron

    Jean Françoise Niceron nacque a Parigi nel 1613. A 19 anni entrò nel convento dell’Ordine dei Minimi di Trinità dei Monti a Roma.
    Lì insegnò matematica e studiò filosofia e teologia. I suoi interessi principali furono l’ottica, la catrottica e la diottrica. Passò la maggior parte della vita nella città dei papi, tranne alcuni periodi in cui visitò le province francesi del suo Ordine su incarico del padre generale Lorenzo da Spezzano.
    Padre Niceron si impegnò nella divulgazione delle opere dei principali uomini di scienza della Francia e sperimentò gli assunti galileani. Miscelò le problematiche della filosofia con quelle dell’ottica in La perspective curieuse au Magie artificielle des effets l’optique, dea la catoptrique, et de la dioptrique, un trattato di grande diffusione. Fece scoperte determinanti per la spiegazione dell’illusione prospettica e della “magia” raffigurativa degli oggetti.ordine-dei-minimi-tre-padri-scienziati-san-francesco-di-paola

    L’anamorfosi e altri trucchi

    Inoltre, fornì gli elementi essenziali per l’anamorfosi e inaugurò un vero e proprio movimento di ricerca che fece scalpore nelle arti figurative, soprattutto la pittura, i cui effetti hanno contribuito allo sviluppo dell’arte, in particolare di quella moderna.
    La morte prematura, avvenuta a soli 33 anni, gli impedì di terminare il suo secondo lavoro, Thaumaturgus Opticus. Lo completò padre Mersenne.
    Niceron non fu solo un teorico: realizzò le sue intuizioni dipingendo due affreschi anamorfici: San Giovanni Evangelista a Pathmos (1642), a Trinità dei Monti e la sua replica a Parigi (1644) nella Casa dei Minimi in Place Royale, che fu ultimata però da padre Emanuel Maignan.

    La prospettiva curiosa

    Queste due opere, e La Maddalena in contemplazione, realizzata con la stessa tecnica, non sono più visibili per l’incuria della conservazione. Altre opere di Niceron sono conservate nella Pinacoteca di Palazzo Barberini a Roma.
    Il trattato La perspective curieuse, si rivolge in prevalenza agli artisti per fornire un indirizzo allo studio delle geometrie raffigurative. È un’opera poderosa, divisa in quattro libri con una prefazione in cui si elogiano la matematica e la fisica. Al di sopra di tutto resta però l’ottica, che tocca l’astronomia, la filosofia, l’architettura e la Pittura.

    L’anamorfosi di San Francesco di Paola nel convento di Trinità dei Monti

    Emmanuel Maignan: un fisico dell’Ordine dei Minimi

    Emmanuel Maignan nacque a Tolosa che nel 1601 ed entrò a diciotto anni nell’Ordine dei Minimi in Francia. Appassionato di matematica, approfondì da autodidatta le sue conoscenze sulla materia.
    Insegnante di filosofia e teologia a Roma presso il convento del Pincio, Maignan frequentò eminenti figure del mondo delle scienze come Gaspare Berti, Raffaele Magiotti e Athanasius Kircher.
    Con loro cominciò alcuni esperimenti per determinare l’esistenza del vuoto, che influenzarono anche Torricelli.

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    Capitole Toulouse – Grand escalier – Buste d’Emmanuel Maignan

    Ancora sull’anamorfismo

    Maignan si interessò anche di pneumatica e ottica. Ma si dedicò principalmente alla fisica, come attesta il trattato Cirsusphilosophica destinato alle scuole del proprio Ordine.
    Nella seconda edizione di questa opera si ritrovano gli scritti relativi alle dissertazioni con Cartesio. Più longevo dei suoi confratelli, Maignan morì a Tolosa all’età di 75 anni. Nel libro Perspective horaria, il religioso studia le deformazioni delle figure, e contribuisce allo sviluppo dell’anamorfismo.
    Questa tecnica consisteva nell’«esporre un meraviglioso e preciso artifizio per deformare, in maniera molto semplice e rapidissima su qualunque superficie murale o voltata, un’immagine rappresentata su una tavoletta, in modo che, vista da un punto si ricomponga otticamente e appaia nitida, chiara e simile al prototipo; vista invece da vicino, o frontalmente sparisca, lasciando apparire qualcos’altro di ben diverso e tuttavia ben rappresentatoۚ».
    Queste alterazioni visive si riscontrano nell’affresco dello stesso Maignan a Trinità dei Monti, che immortala San Francesco di Paola nel miracolo dell’attraversamento dello Stretto di Messina.

  • Urania: scienza e hi tech a Villa Rendano

    Urania: scienza e hi tech a Villa Rendano

    Che ci fa Urania a Villa Rendano?
    Già: Urania è una musa, figlia di Zeus e Mnemosine, protettrice della geometria e dell’Astronomia.
    Ma non è solo mitologia. Urania è anche letteratura: alzi la mano chi non ha mai sfogliato uno dei volumetti della mitica collana di fantascienza.
    L’Urania di Villa Rendano è un robottino prodotto dal graphic computer, che ricorda (altra citazione fanta-dotta) Maria, la profetessa di Metropolis, ma stavolta con le fattezze più gentili.

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    Una sala del percorso multimediale

    Urania: un percorso multimediale a Villa Rendano

    Ma tra mitologia e fantascienza, che in questo caso indicano la stessa materia, c’è la scienza, quindi la cultura.
    Infatti, Urania è anche la nuova, recente iniziativa di Villa Rendano, inaugurata di recente su impulso della Fondazione Attilio e Elena Giuliani. Si tratta di un percorso multimediale che arricchisce Consentia Itinera, il museo, multimediale anch’esso, dedicato a Cosenza, che è uno degli asset della Villa.
    Ma andiamo con ordine.

    La presentazione di Urania a Villa Rendano

    Pubblico e parterre delle grandi occasioni e dibattito denso e animato come si deve.
    Urania è partita in pompa magna con i saluti di Walter Pellegrini, editore e presidente della Fondazione Giuliani, e le presentazioni degli addetti ai lavori che hanno reso possibile l’iniziativa.
    E cioè: Anna Cipparrone, la direttrice di Consentia Itinera, Peppino Sapia, docente Unical e responsabile di AgoraLab, un progetto per la divulgazione della cultura scientifica, Roberto Ferrari, direttore del Museo Galileo, Giovanni Di Pasquale, il responsabile della ricerca relativa al progetto, e Gianfranco Confessore e Giuliano Corti, i suoi produttori.

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    La presentazione del progetto Urania a Villa Rendano

    L’esordio

    L’esordio, o sarebbe meglio dire l’anteprima, di Urania si è svolta nelle sale del piano superiore di Villa Rendano (il piano nobile, si sarebbe detto una volta), dove una serie di filmati con effetto 3d hanno introdotto gli spettatori a una storia delle scienze in pillole, raccontata in maniera chiara ma non semplicistica.
    Tra l’altro con un bel filo conduttore: il silicio.

    Il progresso trasparente

    Il silicio è uno dei componenti del vetro, il primo motore tecnologico del progresso. Ed è uno degli elementi chiave degli iperconduttori su cui si basa la tecnologia digitale. Cioè la vita di oggi.
    Dal vetro degli specchi antichi a quello del telescopio di Galileo. Fino ai primi chip e agli attuali microprocessori. Il salto, anzi, il volo è di millenni. Ma Urania, la robottina, lo racconta con grazia ed eleganza, grazie all’animazione digitale raffinata.
    Il tutto dura pochi minuti. Poi tornano le luci nelle sale senza tempo della Villa.

  • Pasqua Citeriore: acqua nova, cuculi, cuzzupe e muccellati

    Pasqua Citeriore: acqua nova, cuculi, cuzzupe e muccellati

    Nel 1876, Vincenzo Dorsa, insegnante di latino e greco al liceo Telesio di Cosenza, scriveva sulla Pasqua nella Calabria Citeriore:

    «Ed eccoci alla Pasqua. La precede ed inaugura il sabato santo, col fantoccio di cenci, la vecchia dalle sette penne, che si lacera o brucia, coi pani ornati dell’uovo di rito, con l’acqua nuova che si attinge alle fontane. L’acqua e l’ovo adunque col sole di primavera trionfante dell’inverno, nella occasione della Pasqua, ricordando la origine del mondo che si rinnova mercè l’opera riparatrice di Cristo. Perciò in Calabria ogni famiglia si provvede allora dell’acqua nuova: la ripone in un orciolo nuovo, e questo adorna di nastri e di fiori, munisce di un briciolino di sale appesovi a un filo come rimedio contro le malie, e manda al prete per benedirla.

    Di poi ciascuno della famiglia, cominciando dai genitori, ne saggia un poco; e quando le campane della Chiesa suonano a festa per celebrare la resurrezione di Cristo, di quell’acqua spruzzano la casa, dicendo ad alta voce: esciti fora sùrici uorvi, esciti forza tentaziuni, esca u malu ed entri u bene, e picchiano imposte di porte e di finestre, casse e le altre masserizie, invocando così la buona fortuna e l’abbondanza».

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    Fontana di San Giuseppe a Castrovillari (foto Gianni De Marco)

    Pasqua, Cosenza e la sua provincia

    Il racconto di Dorsa sulla Pasqua a Cosenza e dintorni proseguiva così: «In tali momenti l’affetto da scabbia a Cetraro si getta a bagnarsi nel mare vicino, credendo acquistare con questa purificazione la sua guarigione; a san Pietro in Guarano scende a bagnarsi nel fiume, però di notte, prima dell’alba della domenica e senza proferire parola alcuna. Ed albeggiando la Pasqua le contadine di Aprigliano scendono al loro Crati col cucùlo adorno di uova, rivoltano le pietre che trovano alla riva, si siedono e innanzi a quelle acque mangiano di quel pane e di quelle uova. L’acqua nuova intanto si conserva come cosa sacra, e poiché si crede rimedio contro le malie se ne spruzza anche sul fuoco o sulla lucerna quando la legna o il lucignolo scoppiettano, per iscongiurare tali infauste manifestazioni del fuoco che parla, come dice il Calabrese».

    Oltre all’acqua, poi, c’era l’uovo. «I pani pasquali – prosegue Dorsa – sono rattorti a spire, di forma o lunghi o a corona, con un uovo o più, ma in numero dispari, e in qualche luogo colorate di rosso. Hanno diversi nomi: muccellati (lat. buccellatum), culluri o cudduri, cullacci o cucùli, cucùdi, cannilieri, lunghi circa due palmi, cuzzupe, ecc. Se ne fanno dono alle famiglie in lutto e ai bambini: a questi, se maschi si dà un cucùlo o un canniliere, se femmina uno di forma lunga raffigurante un corpicino, con l’uovo nel viso, che la bambina ravvolge in fasce, e gli copre di cuffietta e nastri il capo. A Castrovillari si chiama ciuciu, in Altomonte ciùcciulu, in Longobardi martiniellu, diminuitivi forse dei corrispondenti nomi propri, come in Roma si chiamavano càjoli, da Cajus, le ciambelle raffiguranti immagini di bambini.

    Il racconto di Dorsa sulle tradizioni locali si faceva più analitico: «Riassumendo le cose esposte; poiché Cristo nel linguaggio simbolico cristiano fu detto il sole della vita dell’anima, in contrapposizione al sole fisico, di cui i pagani celebravano il ritorno primaverile, e risorse in tempo appunto di primavera, è naturale che le genti di allora nel solennizzare la memoria di quel grande avvenimento cristiano gli avessero applicate le mitiche tradizioni immedesimate coi loro costumi, confondendo così in un simbolo la quaresima e la stagione invernale, la resurrezione di Cristo e quella del sole sepolto nel cielo nuvoloso dell’inverno.

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    I germogli di grano portati nei sepolcri a San Giovanni in Fiore

    Pasqua, Cosenza e i sepolcri

    È perciò che a Cosenza dura tuttavia l’uso di offrire ad ornamento dei sacri sepolcri de’ piattellini di grano di fresco seminato e spuntano per efimera germinazione: sono questi i così detti orti di Adone, che offrivano le donne fenicie e le greche, come simbolo della vita che rinasce, nella festa commemorativa della morte e resurrezione del dio Adone, mito solare. È perciò che la pasqua diventava persona mitica nel linguaggio popolare, dice alla quaresima: esci tu vecchia arraggiata, ca trasu iu pasca arricriata; come la quaresima aveva detto già congedando il carnevale: esci tu porcu ‘nzunzatu (lordo di sugna), ca trasu iu netta pulita».

    Alcune tradizioni legate alla Pasqua di Cosenza e della sua provincia si sono perse e altre sono rimaste. Nei paesi era presente una coscienza collettiva, un sostrato culturale tramandato oralmente di padre in figlio, una forza nascosta che dettava norme e regole sociali e faceva sentire gli individui parte di un gruppo. Le comunità erano rette da una serie di modelli indipendenti dalla psicologia dei singoli e che gli uomini accettavano anche se in contrasto con i propri interessi. Si trattava di un complesso inconscio e profondo, radicato nell’esperienza vissuta, stabile e resistente al punto da condizionare la stessa struttura sociale, fatto da istanze sovra-individuali che determinavano il comportamento dei membri della collettività e garantivano legami continuativi con i padri.

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    Processione dei Misteri a Rossano Calabro, oggi Corigliano-Rossano

    La vita sembrava essere governata da regole sociali immutate e immutabili che aiutavano gli individui a sentirsi parte della comunità. Ma gli uomini non sempre si uniformavano alla cultura collettiva fissata nel tempo. Recepivano e assimilavano continuamente novità di pensiero che provenivano dall’esterno. Le montagne e le scarse vie di comunicazione sembravano isolare i paesi dal resto del mondo, ma tutto questo non impediva le relazioni con le altre comunità e il processo di assimilazione di altre culture. Perfino nei borghi più sperduti conoscenze diverse penetravano e finivano per essere ritenute nonostante gli abitanti fossero restii ad accogliere e interiorizzare nuove idee. Le mentalità, all’apparenza immobili, seguivano un loro ritmo evolutivo senza interrompere la continuità che le legava al passato. Pratiche religiose, credenze e miti erano destinati a sotterranee trasformazioni; mutavano di significato di pari passo alla sensibilità comune e si adattavano progressivamente alle nuove realtà.

    Pasqua, Cosenza e la cultura contadina

    Non bisogna confinare le mentalità del mondo popolare nel campo di una storia immobile, in un quadro statico e angusto, considerarle un semplice terreno di coltura e di persistenze arcaiche. È ingenuo pensare che la cultura dei contadini fosse spontanea e si riproducesse di generazione in generazione senza un disegno, che si acquistasse senza sforzo sin dalla nascita, mentre quella dei colti fosse capace di produrre conoscenze perché prodotte dalla ragione e trasmessa da specialisti del sapere. Prese dallo sforzo quotidiano per la sopravvivenza, le classi subalterne sembravano riprodurre meccanicamente abitudini e consuetudini, ma in realtà erano produttrici di culture diffuse con mezzi semplici quali l’oralità.

    Nei villaggi esisteva una complessa dialettica tra gruppi sociali che, di volta in volta e a seconda delle convenienze, si sviluppava sul piano della conservazione o dell’abbandono di pratiche e credenze antiche. Il patrimonio culturale di un territorio nei suoi vari aspetti, rammemorazione compresa, è frutto di una continua lotta. Spesso si considera la memoria di una comunità come un organismo dotato di uno spirito unico, un crogiolo che contiene i ricordi di tutti. In realtà accade spesso che gruppi d’individui non trasmettono le loro esperienze alle generazioni successive, che nel processo di ricostruzione del passato alcuni fatti sopravvivano e di altri si perda ogni traccia.

    Gli uomini non sono in grado di ricordare tutto, ma neanche di dimenticare tutto. Memoria e oblio vanno insieme, l’una non può fare a meno dell’altro. Il tempo, lentamente e inesorabilmente, lavora per fondare certe memorie, per esaurirne il potenziale o, addirittura, per eliminarle. Ricordare e dimenticare è frutto dell’incessante lavoro d’invenzione e reinvenzione della memoria, risultato di continui scontri e patteggiamenti, tanto a livello individuale che collettivo, tra ciò che bisogna ricordare e ciò che bisogna dimenticare.
    Le mentalità si modificano: a volte possono sembrare salde e incontaminate, altre mutano bruscamente per rispondere a nuove sensibilità. In alcuni periodi credenze e valori prima dominanti cessano di esserlo, in altri si avvicendano tra sentimenti opposti, in altri ancora si sovrappongono o s’incastrano tra loro.

    La memoria subisce una continua metamorfosi e una reinvenzione. Gli individui e i gruppi sociali selezionano, reinterpretano e rifondano il passato alla luce di quello che sono diventati, ricordando il passato lo ricreano e gli attribuiscono un senso in relazione alla loro idea del presente. Le credenze si tramandano di generazione in generazione, ma nel processo interpretativo della tradizione subiscono una variazione; le narrazioni sono mutuate da storie che vengono rielaborate e adeguate a nuove realtà, a cui gli individui apportano il proprio personale contributo.

  • Il fascismo nel pallone: le oscure vittorie azzurre negli anni ’30

    Il fascismo nel pallone: le oscure vittorie azzurre negli anni ’30

    Calcio e fascismo. Ne parla un libro coraggioso di Giovanni Mari edito da Storie di People.
    Già il titolo, Mondiali senza gloria, emette un giudizio senza attenuanti sulle vittorie della nazionale italiana di calcio ai Mondiali del ’34 e del ’38. È un argomento delicato, il Calcio nel nostro Paese. E lo è, in particolare, a proposito degli Azzurri, e se si avanzano, più che dubbi, certezze sulla bontà delle loro vittorie. L’assenza di gloria è un’affermazione secca, non è seguita da un punto interrogativo per mitigarla.

    Calcio e fascismo: un affare di propaganda

    D’altra parte Giovanni Mari – giornalista del Secolo XIX definito «appassionato di propaganda politica» – nella quarta di copertina, riempie molte delle 184 pagine del libro di informazioni in grado di dissolvere la nebbia che ha avvolto quelle vicende per tanto tempo.
    Mari usa una documentazione vasta e “terza” rispetto a quella disponibile in Italia. Lo ha spiegato lui stesso rispondendo alle sollecitazioni di Ernesto Romeo, dell’Arci–Circolo Samarcanda, e di Giuliana Mangiola, presidente della Sezione Carlo Smuraglia dell’Anpi, organizzatori dell’incontro tenutosi a Reggio Calabria nei giorni scorsi.
    L’autore ha consultato organi di stampa stranieri del tempo, proprio per non incappare nell’informazione pilotata dal regime fascista e da Mussolini in prima persona.

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    La nazionale in nero ai Mondiali del ’38

    La destra e il passato che non passa

    Il libro prende spunto dal calcio per parlare di storia, di politica, di passato ma anche di presente. Infatti, è uscito prima della vittoria della Destra alle elezioni del 25 settembre.
    Questa data segna l’inizio di una serie di atteggiamenti, dichiarazioni e i posizioni che hanno messo in luce il rifiuto di questo schieramento di fare finalmente i conti col passato. Al riguardo, l’ultima perla della premier è la dichiarazione della presidente del Consiglio sull’eccidio delle Fosse ardeatine, quando l’ineffabile Giorgia ha letteralmente riscritto la Storia catalogando semplicemente come Italiani, e non come antifascisti, ebrei, oppositori del regime, le 335 vittime della rappresaglia nazifascista.

    Fascismo e calcio: tutto pur di vincere

    Mari, d’altra parte, non fa sconti a nessuno. E in maniera senz’altro condivisibile denuncia come ascrivibile all’intero popolo italiano – con note e significative eccezioni – l’atteggiamento ambiguo, autoassolutorio, superficiale mostrato nei confronti del fascismo e dei suoi crimini a danno degli stessi italiani e dei Paesi che esso ha trovato sulla sua strada.


    Grazie a una poderosa ricerca, l’autore ha verificato come per la manifestazione del ’34, tenutasi in Italia, sia stato attivato ogni strumento per obbedire al diktat del duce per ottenere prima l’organizzazione del torneo e dopo la vittoria azzurra:

    • Garanzia di tolleranza zero sul fronte dell’ordine pubblico, dopo i problemi in Uruguay nel ’30, in continuità, d’altra parte, con quanto il regime aveva fatto fin dal suo avvento:
    pressioni sugli altri contendenti;
    • utilizzo di ingentissimi fondi pubblici, in una situazione pesante dal punto di vista economico, per ingraziarsi la Fifa e le altre federazioni;
    corruzione dei designatori degli arbitri e degli arbitri stessi, che consentì ai calciatori italiani di praticare un gioco violento per eliminare gli avversari e di ottenere decisioni smaccatamente favorevoli durante le partite;
    minacce ai giocatori maggiormente rappresentativi delle altre nazionali per non farli partecipare ad incontri decisivi;
    • utilizzo di giocatori stranieri naturalizzati italiani in spregio alle regole fissate dalla Fifa.

    Il duce e il pallone: un matrimonio d’interesse

    Il trionfo del duce fu totale, e la stampa, sportiva e non, agì da megafono per lo strombazzamento che ne seguì, con i consueti cori a sostegno della tesi della superiorità dell’italica stirpe.
    Inutile dire che questa tesi si trasferì presto dai campi di gioco a quelli di battaglia per essere clamorosamente smentita.

    Mussolini in posa tra gli azzurri

    Il duce, tra l’altro, non amava per niente il calcio. Semmai, era affascinato dagli sport olimpici e da quelli che riteneva nobili: boxe, scherma, tiro, ippica. E infatti il regime non inserì il pallone tra le pratiche obbligatorie.
    Tuttavia, ne aveva intuito le potenzialità per dare ulteriore impulso all’irreggimentazione delle masse, loro sì malate di calcio, allora come ora.

    Non solo calcio: il fascismo alle Olimpiadi

    Mari racconta altre vicende oscure sono legate alle Olimpiadi del ’36, quelle di Berlino e delle vittorie in serie di Jesse Owens che ferirono Hitler.
    L’Italia, che aveva aggirato il divieto di portare in Germania i professionisti facendo iscrivere all’università i giocatori più forti, vinse in finale contro l’Austria.
    Quello stesso anno, Mussolini, oramai succube del suo vecchio seguace, subì senza fiatare l’Anschluss, dopo aver fatto per anni a paladino del Paese annesso. La scomparsa dal panorama calcistico del Wunderteam, la super squadra austriaca, fu digerita dal condottiero italiano nello stesso modo. Quindi l’Anschluss aveva eliminato anche una temibile concorrente per il ’38. Perciò il sogno di uno storico bis in Francia diventava verosimile.

    Jesse Owens trionfa alle Olimpiadi di Berlino (1936)

    «Vincere o morire»: i Mondiali del ’38

    L’Italia, precisa Mari, a quel punto era una delle favorite perché oggettivamente ben attrezzata. Il clima però, era profondamente diverso: gli esuli italiani contestavano la loro stessa nazionale, che si presentava con una maglia nera col fascio littorio che, per visibilità, aveva soppiantato lo stemma sabaudo.
    Era la nazionale del fascismo, fautore delle disgrazie loro e delle loro famiglie. Mussolini inviò, per la finale con l’Ungheria, un telegramma nel suo stile: «Vincere o morire».

    Il c.t. ungherese interpretò queste parole affermando che, perdendo, avevano salvato la vita agli italiani e, probabilmente, anche a loro stessi.
    «La vittoria mondiale dichiarava, secondo la comunicazione di regime, una indiscutibile e assoluta superiorità italiana, non tanto nel talento, ma nella costruzione stessa del successo e del genio umano», scrive Giovanni Mari.
    E prosegue: «era la chiave che avrebbe portato l’Italia a occupare il posto che meritava nel consesso mondiale: se era stata capace nel pallone, poteva essere capace in qualsiasi campo».

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    Arpad Weisz, l’allenatore del Bologna epurato in seguito alle leggi razziali

    L’epurazione razziale colpisce il pallone

    Il disastro era ormai dietro l’angolo, preceduto dalle leggi razziste che anche nel mondo del calcio fecero il loro sporco lavoro. Ne fece le spese, tra gli altri, l’allenatore ebreo ungherese Arpad Weisz, artefice di due scudetti del Bologna, deportato e morto ad Auschwitz insieme alla moglie e ai figli.
    Il clima era quello che traspare da un brano de Il Calcio illustrato, secondo cui «che (gli allenatori israeliti stranieri danubiani) debbano fare le valigie entro sei mesi non ci rincresce: finiranno di vendere fumo con la loro arte imbonitoria propria della razza (…) La bonifica della razza avrà più che salutari conseguenze calcistiche».

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    Il ct Vittorio Pozzo alza la Coppa Rimet dopo la vittoria ai Mondiali di Francia (1938)

    La stampa supina

    Chi sa di calcio, tuttavia, sa anche che proprio tali personaggi portarono la sapienza tattica e tecnica danubiana in Italia, con benefici ed innegabili effetti su tutto il movimento calcistico.
    Il libro di Giovanni Mari è un’opera densa, non riassumibile in poche cartelle. Meritano attenzione le tante considerazioni di ordine generale che contiene. Ad esempio, sulla politica fascista (non solo) nello sport. Oppure sull’atteggiamento prono della stampa e di alcuni protagonisti per troppo tempo idolatrati (il c.t. Vittorio Pozzo e il telecronista Niccolò Carosio, in testa alla lista). E sulla continuità che ignobilmente contrassegnò il dopoguerra nel calcio e non solo.

    Dittature e calcio dopo il fascismo

    Il fascismo divenne, nella percezione collettiva, una parentesi sventurata, un cancro sviluppatosi in un corpo sostanzialmente sano.
    La svolta fu determinata dall’alleanza con la Germania. Gli italiani erano “brava gente”, che non collaborò coi nazisti, o lo fece obtorto collo, nel progetto della Soluzione finale.

    Il generale Videla premia la “sua” Argentina nei Mondiali del ’78

    Non manca qualche interessante riflessione sull’utilizzo dello sport nei regimi autoritari in generale. Ad esempio, quelli comunisti, o di altri Paesi come l’Argentina di Videla o, da ultimo, il Qatar.
    Un’opera importante, soprattutto in un periodo in cui il tema è tornato di stretta attualità, in cui il Governo e importanti pezzi dello Stato sono nelle mani di chi un giorno sì e l’altro pure alimenta, con parole e atti, una narrazione tesa a manipolare la Storia, o a negarla del tutto.

  • I Sarti Volanti di Annarosa Macrì atterrano a Villa Rendano

    I Sarti Volanti di Annarosa Macrì atterrano a Villa Rendano

    Proseguono gli incontri di Villa Rendano promossi dalla Fondazione Attilio e Elena Giuliani.
    Al riguardo, il 29 marzo si è svolta la presentazione di Sarti Volanti (2023), il quarto libro pubblicato dalla giornalista Annarosa Macrì per i tipi di Rubbettino.
    Un parterre tutto al femminile per raccontare (ovviamente senza spoiler) un romanzo esistenziale.

    Un parterre in rosa

    La vecchia gloria della Rai e storica collaboratrice di Enzo Biagi, è stata accompagnata, per l’occasione, da Antonietta Cozza, giornalista e consigliera con delega alla Cultura del Comune di Cosenza, Livia Blasi, anchorwoman del Tg3 Calabria, e dalla dirigente scolastica Mariella Chiappetta.
    Una piccola nota è obbligatoria: Sarti Volanti è un libro al femminile ma non un libro rosa.
    Intendiamoci, parla anche d’amore, ma non cerca l’impatto sentimentale. E parla soprattutto di quel complesso dramma che è la vita, letto nella controluce del rapporto tra madre (la sarta Rosa) e figlia (Amélie).

    Da sinistra: Antonietta Cozza, Livia Blasi, Annarosa Macrì, Mariella Chiappetta

    Storie parallele

    Per citare un vecchio successo degli Audio 2, si potrebbe parlare di “Specchi Riflessi”: le vicende di Rosa, che ripara abiti, e di Amélie, studentessa che invece corregge tesi, sono due parallele, che si richiamano di continuo e, appunto, si riflettono a vicenda. Ma, come da definizione, non si incrociano.
    Anzi, spiega Macrì, il romanzo è volutamente un po’ “sfilacciato” e “smagliato”, per dare al lettore il ruolo più attivo di interprete. Cioè, per restare nella metafora, di “sarto”.

    L’ispirazione

    I sarti volanti sono gli eredi di una tradizione “umile”: non confezionano gli abiti, come i loro colleghi più griffati, ma li riparano.
    Qui e lì sopravvivono alcune botteghe specializzate. Ma, soprattutto nelle grandi città, è emersa una forte concorrenza: gli immigrati (soprattutto indiani e bengalesi) che, armati di forbici, ago e filo, riparano i tessuti just in time nelle loro bancarelle più o meno improvvisate e a prezzi stracciatissimi.
    Riparare una storia, quella raccontata da Macrì, o ricucire un abito sono cose simili e diversissime allo stesso tempo: la vita diventa racconto logorandosi, così come i tessuti si consumano e strappano a furia di essere indossati. Anzi: più li si indossa, più li si rovina.

    Il dibattito

    Niente spoiler, si è detto. E va dato atto alle tre relatrici di ver mantenuto la parola: si sono trattenute a stento dal raccontare il romanzo.
    Semmai, ci hanno girato attorno: si sono focalizzate sui dettagli e hanno lanciato, qui e lì, impressioni varie.
    Insomma, tutto quel che serve a incuriosire il lettore potenziale e ad arricchire chi ha già letto il libro o lo sta leggendo.
    Ed ecco, ad esempio, che Livia Blasi coglie una «ispirazione religiosa», che nobilita una narrazione comunque laica. Ed ecco che Mariella Chiappetta, emozionatissima, parla del binomio amore-morte, tipico di certi filoni esistenziali. Ma soprattutto individua un elemento originale: la narrazione “circolare” su cui si basa Sarti Volanti.

    Una conferma

    Anche Sarti Volanti conferma che Annarosa Macrì funziona benissimo come autrice di romanzi lontani dal suo brillante approccio giornalistico.
    Così è stato per il suo premiatissimo Da che parte sta il mare (2014), così promette quest’ultimo racconto avvincente. Non resta che leggerlo.

  • Vena di Maida, il paese delle porte arbëreshe

    Vena di Maida, il paese delle porte arbëreshe

    Da una quarantina d’anni si è diffuso in Calabria il costume di dipingere con monumentali affreschi le mura, gli esterni dei palazzi, i portoni dei paesi con l’auspicio di dare loro nuova linfa vitale. Non è un’operazione semplice, ma pare che l’idea, oramai ben radicata, stia dando i suoi frutti. Uno degli ultimi esempi è quello di Vena di Maida, frazione arbëreshe del comune di Maida fondata, affidandosi ad alcune fonti, nella seconda metà del Quattrocento, nell’ambito della diaspora albanese dai Balcani successiva alla conquista turca di Costantinopoli e alla morte dell’eroe Giorgio Castriota Scanderbeg, capo della rivolta contro gli Ottomani.

    Da qualche mese, Vena di Maida ospita un percorso artistico a cielo aperto che rimembra e magnifica le sue antiche tradizioni albanofone.
    Il murale – da non confondere col deturpante graffitismo – è un’opera d’arte pubblica offerta alla collettività. Ma è anche una forma di comunicazione che, ridando tono a strutture e angoli disabitati, interloquisce più direttamente con le classi rurali, coi ceti meno avvezzi agli incontri con l’arte, e che sovente si fonda su una chiara connotazione sociale e ideologica.

    In principio fu Diamante

    La vicenda dei murali – o murales – in Calabria cominciò già nel 1981 quando a Diamante, comune dell’Alto Tirreno Cosentino, partì la cosiddetta Operazione Murales su spinta del pittore Nani Razetti e col placet del sindaco di allora Evasio Pascale. Fu una scommessa vincente: oggi, con oltre trecento affreschi a illuminare i suoi vicoli, Diamante è una tra le cittadine più dipinte d’Italia e tra le località turistiche di maggiore notorietà della Calabria e dell’intero Meridione.
    Nel corso di questi ultimi quarant’anni, l’impresa adamantina ha registrato svariate repliche quasi sempre sul solco di quella onesta ottica di valorizzazione, salvaguardia e riqualificazione dei luoghi.

    Una delle opere nei vicoli di Diamante (foto “Diamante Murales 40”)

    Discorsi ben conosciuti e una terminologia che è stata adottata anche dalla politica e di cui, purtroppo, talvolta ci si riempie la bocca – e così diamo senso al precedente “quasi sempre” –, ma che eticamente, e forse pure fiabescamente, convergono verso quel desiderio comune di riabitabilità dei luoghi, di far sì che essi siano riguardati, nel duplice senso suggerito da Franco Cassano ne Il pensiero meridiano: di avere riguardo, cura dei posti e di tornare a guardarli veramente come luoghi vivi e non come presepi da percorrere un festivo all’anno; luoghi palpitanti che ancora potrebbero dare all’umanità che ospitano.

    Murales: arte e memoria alla portata di tutti

    Sia chiaro: consci che queste iniziative non debbano essere vissute col furore della apologia del “piccolo mondo antico” e che i nostri non sono né la sede né il tempo per confezionare un giudizio su un’operazione ancora nuova, possiamo sostenere senza tema di smentita che, anche tramite i moderni mezzi di comunicazione sociale, per il suo forte impatto e la sua carica popolare l’arte del murale permette a una platea sempre più vasta di conoscere luoghi mai sentiti prima e che fino a non troppi decenni fa soltanto una ridotta cerchia di eletti – studiosi, viaggiatori, persone fornite di una cultura specifica – poteva essere in condizione di conoscerli.

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    Altre due porte coinvolte nel progetto a Vena di Maida

    In una visione di ampliamento, di omogeneità della conoscenza, perciò, questo è di certo uno strumento valido – non l’unico, non il principale, non il solo possibile da mettere in atto, seppur tra i più semplici e immediati – per non lasciare scivolare negli inghiottitoi della storia paesi spopolati e ruderi che un tempo hanno conosciuto “altra vita e altro calore”, per dirla con Cesare Pavese, e per impedire che essi possano entrare – e con ottime probabilità restare, sino alla perdita della memoria storica – nel lungo elenco dei paesi fantasma, termine tanto alla moda che piace ai fotografi della domenica che in quei luoghi abbandonati da Dio e dagli uomini non ci vivrebbero neppure per ventiquattro ore.

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    Liliana, l’ultima abitante di Cavallerizzo (foto Alfonso Bombini 2021)

    In buona sostanza, la sana e non propagandistica operazione di riqualificazione dei luoghi non può che avere un doppio obiettivo, uno a medio e uno a breve termine: quello di attrarre nuovi possibili abitatori e quello di fare restare i prodi, ultimi abitatori indigeni, ché «restare è un’arte, un’invenzione, un esercizio che mette in crisi le retoriche delle identità locali», come afferma l’antropologo Vito Teti nel suo Nostalgia (Marietti, Bologna 2020).

    Vena di Maida da Dumas padre ai murales

    E pure questa volta abbiamo divagato. Ritorniamo perciò a Vena di Maida, centro che oggi conta circa ottocento abitanti e che, sotto i Borbone, tra il 1831 e il 1839 fu comune a sé, breve parentesi entro la quale però a visitarla fu, nel suo fortuito passaggio a dorso di mulo in Calabria dell’autunno del 1835, da Alexandre Dumas padre che strabiliò dinanzi alla bellezza del costume tradizionale delle donne venote. Quella sosta oggi è ricordata con una targa affissa sull’antico caseggiato dirimpetto alla Chiesa arcipretale di Sant’Andrea Apostolo.

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    Una delle Porte d’artista a Vena di Maida

    Nell’estate del 2022 la piccola comunità arbëreshe – una delle trentatré tuttora presenti in Calabria –, grazie al patrocinio del Comune di Maida e alla direzione artistica di Massimo Sirelli – artista poliedrico, diplomato in Digital e Virtual Design all’Istituto Europeo di Design di Torino, autore di recente di una serie di murali a tema magnogreco tra Bivongi, Cinquefrondi, Locri e Monasterace per celebrare il cinquantenario del ritrovamento dei Bronzi di Riace –, è stata coinvolta in un progetto che ha visto undici artisti dipingere le porte del paese con linea guida la sua identità albanese.

    Le porte d’artista a Vena di Maida

    Porte d’artista è il nome del progetto che, sempre la scorsa estate, ha interessato altri due paesi del Catanzarese, Sersale e Uria (frazione di Sellia Marina), e che in questi giorni sta aggiungendo un’altra tappa: Marcellinara. Tra gli artisti, tutti calabresi, coinvolti nel progetto, oltre Massimo Sirelli: Antonio Burgello, Marco “Moz” Barberio, Claudio “Morne” Chiaravalloti, Vincenzo “Zeus” Costantino, Martina Forte, Andrea “Smoky” Giordano, Immacolata Manno, Alessia Moretti, Roberto Petruzza e Maria Soria.

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    Un’altra porta dipinta nella frazione albanofona di Maida

    Tra i murali freschi di tinteggiatura per le stradine di Vina (questo il toponimo arbëreshë di Vena di Maida) si riconoscono la veste tradizionale che piacque a Dumas, l’aquila nera a due teste della bandiera albanese, figlia diretta del sigillo di Scanderbeg, ma anche immagini contemporanee come quella che ricorda il glottologo di Cirò Marina Giuseppe Gangale.

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    Il ritratto di Giuseppe Gambale

    Dopo Verbicaro, Rogliano, Favelloni Piemonte, Plataci – comune del Pollino i cui affreschi sono improntati pure sulla sua cultura arbëreshë –, San Pietro Magisano, Sant’Agata del Biancodi recente dipinta con un magnifico ciclo murale dedicato a un suo figlio illustre, lo scrittore Saverio Strati –, un altro paesino calabrese gioca la carta dell’arte di strada per scongiurare il rischio che secoli di incontri, commistioni etniche e linguistiche e tradizioni uniche possano essere spazzati via e che il degrado originato dall’abbandonato fisico dei luoghi possa cancellarne la memoria.

  • Lettere dal Sud, l’epistolario inedito di Vittorio de Seta

    Lettere dal Sud, l’epistolario inedito di Vittorio de Seta

    Lettere dal Sud/ Vittorio De Seta è il titolo del libro, curato da Eugenio Attanasio, edito dalla Cineteca della Calabria nella ricorrenza del decennale della scomparsa (2011-2021). Una pubblicazione che raccoglie lettere inedite, diari, articoli, conversazioni e testimonianze ripercorrendo alcuni momenti più significativi, del regista e dell’uomo, valendosi di contributi autentici e qualificati di intellettuali, giornalisti e persone che lo hanno conosciuto realmente, nella ricorrenza del centenario della nascita, 1923/2023 alla Libreria Mondadori di Cosenza venerdì 31 marzo alle 18.

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    Il libro su De Seta a cura di Attanasio

    È un prodotto editoriale importante che giunge al termine di un lungo lavoro effettuato dalla Cineteca della Calabria sul regista, del quale la Cineteca custodisce l’opera omnia, ed iniziato vent’anni fa con la prima ristampa dei documentari 1954-59, proseguito nelle scuole con i progetti di alfabetizzazione e di divulgazione del cinema antropologico, e che oggi storicizza l’impegno della Cineteca nel tenere viva la memoria e indirizzare nuovi cammini di studio e ricerca. Non solo un percorso culturale ed una eredità intellettuale della Cineteca della Calabria ma anche una grande amicizia tra Vittorio De Seta e Eugenio Attanasio che ha incluso anche ricordi personali della figlia Francesca e della nipote Vera Dragone, attrice e cantante, esponente di una famiglia che si divideva tra il cinema del nonno Vittorio e il teatro della nonna Vera Gherarducci.

    Gli esordi in Calabria di Vittorio De Seta

    Nell’opera si racconta dei viaggi e dei lunghi ritorni nel meridione di un maestro del cinema che ha saputo raccontare cinquant’anni di società italiana con lo sguardo dell’antropologo e la sensibilità dell’artista. La sua avventura comincia nel 1954 tra Calabria e Sicilia, quando il giovane Vittorio De Seta inizia la sua prestigiosa carriera di documentarista, in trasferta da Roma dove ha lasciato la giovane moglie, Vera, alla quale racconta, in un piccolo epistolario qui raccolto, le cose che gli succedono davanti agli occhi. Incontri epocali, come quello con Alan Lomax e Diego Carpitella, che ha suscitato dibattiti tra gli etnomusicologi, per le collaborazioni e l’utilizzo delle musiche. Il regista e i due ricercatori compiono un percorso parallelo di ricerca, tra musica e documentazione antropologica, che viene citato ancora oggi per la ricchezza dei materiali.

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    Alan Lomax

    Qui gli si rivela di una realtà, quella del meridione, fatta di contadini, pastori, pescatori, minatori, affascinante, misteriosa, dove si lotta contro la natura per sopravvivere, a lui, studente di architettura che ha provato, senza restarne particolarmente coinvolto, il mondo del cinema di fiction con Jean Paul Le Chanois. Vittorio De Seta organizza riprese con le tecniche del cinema americano dell’epoca: il grande formato cinepanoramico, il cinemascope il 35 mm colore, l’assenza della voce fuori campo, laddove per il documentario si utilizzava al tempo il bianco e nero, il formato quadrato, il voice over che spesso appesantiva la visione.

    Ma soprattutto capisce con straordinaria intuizione che di lì a qualche anno quella vita ancora arcaica si sarebbe trasformata, che i pescatori dello stretto si sarebbero motorizzati per cacciare il pescespada, che nelle campagne sarebbero arrivati i trattori, anzi il deserto, perché l’industrializzazione avrebbe richiamato le masse bracciantili per farli diventare operai.

    L’altra faccia del boom economico

    Questo mutamento nella società italiana viene accuratamente studiato oggi grazie al lavoro di Vittorio De Seta e altri documentaristi che scelgono questa porzione di paese dimenticata. Il viaggio tra Sicilia, Sardegna, Calabria dura cinque anni per girare dieci preziosi documentari, autoprodotti, che segnano la carriera e lo preparano al passaggio al lungometraggio. Banditi ad Orgosolo è salutato come il ritorno del cinema neorealista nell’Italia del primo boom economico. Debutta infatti insieme a Ermanno Olmi con Il Posto e Pier Paolo Pasolini con Accattone, contrassegnando un momento felice del cinema che racconta la realtà dei primi anni ’60, l’altra faccia del boom economico. iI tre resteranno amici e sodali culturalmente per tutta la vita a dimostrazione di una visione comune della società e dei problemi legati alla crescita esponenziale del benessere economico.

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    Una scena di Accattone

    Chi era Vittorio De Seta

    Ma chi era veramente Vittorio De Seta, rampollo di una nobile e ricca famiglia del Sud, intellettuale comunista e figlio di una madre dichiaratamente e convintamente fascista con la quale avrà un rapporto conflittuale, tanto da girare un film Un uomo a metà come tentativo di autoanalisi (sarà lui stesso a presentare lo psicanalista Barnard a Fellini). Nella pubblicazione lo stesso Vittorio De Seta parla di «cinema come metodo per capire delle cose», lui che era cosi fuori dagli schemi della produzione cinematografica da vendersi un palazzo a S. Giovanni in Laterano per fare un film che spacca il mondo della cultura italiana; chi lo accusa di decadentismo, chi di individualismo, ma Moravia e Pasolini escono per difenderlo con due bellissimi pezzi.

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    La locandina di Diario di un maestro

    È questo un momento di grande crisi per Vittorio De Seta, che emigra in Francia per girare L’Invitata con Michel Piccoli e l’amico Jacques Perrin, un film su commissione ma elegante, raffinato, intimista. Il ritorno in Italia alla regia con il Diario di un maestro è prepotente (anche questo raccontato in un diario di lavorazione giornaliero). Una preparazione meticolosa, due anni di lavoro per realizzare la sua opera eterna sul mondo della scuola, dei ragazzi di borgata, sull’utopia di insegnare in una maniera nuova. Quando la Tv lo trasmette realizza un indice di ascolto fuori da ogni previsione: per la prima volta infatti una produzione televisiva di grande successo arriva nelle sale, per le quali monta una versione apposita dalle tre puntate originali.

    Il ritiro a Sellia Marina

    Infine, il suo buen retiro in Calabria, dove si dedica all’agricoltura, nell’uliveto di famiglia a Sellia Marina, rompendo completamente con la vita precedente. Vittorio De Seta vuole mettere in pratica quello che ha appreso negli anni diventando imprenditore agricolo e coltivatore diretto. Ma la sua presenza, in quel lembo di penisola, non può passare inosservata e inizia ad accogliere, alla fine degli anni ottanta, giovani cinefili desiderosi di scoprire il suo cinema, essenziale, rigoroso, intransigente. Così dopo anni di completa eclissi viene riscoperto e stimolato a ritornare al cinema, in fondo, il suo mestiere di vivere, con il documentario In Calabria e poi con il suo testamento, Lettere dal Sahara, una commovente riflessione sulle nuove immigrazioni.

    Vittorio De Seta, il faro del nuovo cinema del reale

    Vivendo in Calabria, una regione ricca di contraddizioni, povera e marginalizzata ancora oggi, ritorna l’autore ispirato, diventa il faro del nuovo cinema del reale, dei giovani che si ispirano a lui, come Agostino Ferrente, Jonas Carpignano, Paolo Pisanelli. Torna a girare per l’Italia e per tutto il mondo: famosa la sua partecipazione al Tribeca film Festival nel 2005 e gli elogi di Martin Scorsese tra Bologna e New York. C’è chi ha paragonato il suo passaggio alla cometa di Halley, chi all’avvento di un nuovo Messia per le sue visioni profetiche, Vittorio De Seta resta una figura di riferimento per il cinema e la cultura italiana del ‘900. Questo libro, a differenza di altri, porge il ritratto dell’uomo oltre che del regista, con il bagaglio di intuizioni, ricchezze, spigolosità, che lo rendevano geniale e difficile, scontroso e tenerissimo allo stesso tempo.

    Mariarosaria Donato

  • Frank Gambale e  il grande jazz al Tau dell’Unical

    Frank Gambale e il grande jazz al Tau dell’Unical

    Ci sono un australiano, due francesi e un ungherese. Ma, soprattutto, c’è la grande musica in programma domenica 2 aprile alle 21 nel Tau dell’Unical. Il teatro dell’Università della Calabria ospiterà, infatti, il quartetto di Frank Gambale. Ossia un autentico mostro sacro del jazz contemporaneo.

    Frank Gambale e non solo: il resto del quartetto

    Non che i tre insieme a lui siano da meno. Ad accompagnare il chitarrista di Canberra ci saranno musicisti di indiscutibile talento e caratura internazionale. Primo tra tutti Hadrian Feraud, bassista francese che un genio come John McLaughin – col quale ha lavorato in passato – reputa una sorta di reincarnazione del mito di ogni bassista degno di questo nome: Jaco Pastorius. Detterà insieme a lui il ritmo un altro grandissimo: il batterista Gergo Borlai, che in carriera si è esibito, tra i tanti, con musicisti del calibro di Terry Bozzio, Scott Henderson e Al Di Meola. Dulcis in fundo, spazio alle tastiere per Jerry Lionide, uno che è salito per ben due volte – una sul gradino più alto – sul podio dei migliori pianisti del celeberrimo Montreal Jazz Festival.

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    Il Frank Gambale Quartet

    Un modello per i più grandi

    La star del concerto al Tau, però, non può che essere Frank Gambale. Basterebbe citare quello che dicono di lui artisti come il compianto (e un po’ calabrese) Chick Corea: «Tutto ciò che tocca con la sua chitarra diventa oro, lo è sempre stato. Frank è il mio chitarrista preferito». Oppure l’opinione di divinità delle sei corde come Pat Metheny: «Mi piacerebbe prendermi un mese di pausa e studiare con Frank Gambale». L’australiano, infatti, ha letteralmente inventato e dato il suo nome a un nuovo modo di usare il plettro e suonare la chitarra: la Gambale Sweep Picking Technique. Una piccola grande rivoluzione che ne ha fatto un esempio da seguire anche per un figlio d’arte come Dweezil Zappa: «Studiare la tecnica Sweep Picking di Frank Gambale mi ha permesso di suonare le parti più difficili della musica di mio padre che lui stesso non suonò».

    Frank Gambale al Tau dell’Unical

    Dagli anni ’80 ad oggi Frank Gambale ha pubblicato oltre 300 canzoni e una ventina abbondante di album, tutti con quello stile che Rolling Stone – la bibbia del rock, più o meno – ha definito «feroce» per intensità. Nella sua musica hanno trovato spazio il jazz e il rock, con incursioni nel funk e il rythm&blues e contaminazioni che richiamano sonorità latine e brasiliane. Un artista a tutto tondo, insomma, che con i suoi virtuosismi alla chitarra ha scritto pagine importanti e portato un vento di freschezza nella scena jazz (e non solo) degli ultimi decenni.

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    L’interno del Tau

    Non capita tutti i giorni di ospitare musicisti di questo valore alle nostre latitudini. Un motivo in più per non perdere il suo concerto domenica 2 aprile al Tau dell’Unical e la rassegna JazzAmore che vedrà il Frank Gambale Quartet tra i protagonisti. Costo del biglietto: 20 euro.

  • Una villa romana fantasma nel cuore di Rende

    Una villa romana fantasma nel cuore di Rende

    Se nel lontano 1887 le autorità avessero proseguito la ricerca sui resti romani trovati a Rende, forse la storia della città del Campagnano sarebbe stata diversa.
    Quei resti appartenenti a un’antica villa, che risaliva al primo secolo dopo Cristo, si trovano a contrada Molicelle, grosso modo tra il Centro Polifunzionale dell’Università della Calabria e via Settimio Severo.
    Li avessero scavati allora, l’intera zona sarebbe stata musealizzata e forse l’Unical non sarebbe sorta (o sarebbe sorta altrove).
    Di questa villa “fantasma”, scoperta e dimenticata nel classico battito di ciglia, resta un’importante documentazione, conservata negli archivi di Stato di Roma e Cosenza. Vecchi fascicoli che hanno raccolto polvere per decenni, anch’essi a loro modo “rovine” della memoria collettiva.

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    L’archeologa Rossella Schiavonea Scavello

    La riscoperta della villa romana di Rende

    Queste rovine le ha scavate un’archeologa, Rossella Schiavonea Scavello, fresca di dottorato presso l’Unical.
    La studiosa ha dato un primo resoconto della sua particolare ricerca, fatta con macchina fotografica e scanner anziché con pala e piccone, in La scoperta di una villa romana in contrada Molicelle, un saggio pubblicato nel 2015 nella raccolta Note di archeologia calabrese, edito da Pellegrini.
    Ma veniamo al racconto di questa vicenda archeologica a dir poco bizzarra.

    Il cavaliere, i contadini e le oche

    Oggi Magdalone è un toponimo, che indica una zona a cavallo tra Rende e Montalto Uffugo.
    Nel 1887 era un cognome importante: quello del cavalier Giovanni Magdalone.
    Nato nel 1833 e imparentato per parte di madre con Donato Morelli, patriota e supernotabile di Rogliano, il cavaliere possedeva praticamente tutta Arcavacata e una buona fetta del centro storico di Rende.
    I suoi contadini, diretti da un tale Francesco Pellegrini, menzionato come «custode delle oche», fecero la scoperta e la comunicarono a Magdalone, che a sua volta la comunicò al prefetto di Cosenza.

    La planimetria di contrada Molicelle a fine ‘800

    La villa romana fantasma

    Cos’avevano trovato, probabilmente per caso, i contadini di Magdalone? Innanzitutto i resti di un muro esterno, lungo 12 metri e largo 50 centimetri, che doveva essere l’edificio principale di questa struttura.
    Poi, vicinissimi, i residui di un colonnato e dei capitelli in stile jonico, più la prima chicca: un pavimento a mosaico fatto di tanti quadratini bianchi e neri.
    A tre metri di distanza, un trapetum, con due anfore interrate, simili a quelle ritrovate a Pompei. Infine, delle monete con l’effige di Augusto, delle statuine di marmo e un satiro in bronzo.
    Più una seconda chicca, che “apparenta” questa villa fantasma a quella di piazzetta Toscano, nel centro storico di Cosenza: dei tubi in ceramica con un marchio: Clemes Gauri, che probabilmente portavano l’acqua calda in un bagno termale.
    Questo logo d’epoca, secondo Scavello, potrebbe riferirsi a una famiglia importante di San Pietro in Guarano, che gestiva una fabbrica di materiali per l’edilizia. E quindi forniva tutti i ricchi intenzionati a costruire nel Cosentino.

    I resti romani di piazza Toscano prima di essere coperti dall'attuale struttura
    I resti romani di piazza Toscano prima di essere coperti dall’attuale struttura

    Villa o monastero?

    Il tutto, a cinquanta centimetri sotto terra. Per secoli ci si era coltivato sopra e nessuno si era accorto di nulla, o quasi.
    Fatto sta che Giovanni Magdalone, eccitato per la scoperta, si rivolge alle autorità. E queste affidano le ricerche a un big dell’archeologia dell’epoca: Luigi Viola, direttore del Museo di Taranto impegnato nello stesso negli scavi di Torre Mordillo a Spezzano Albanese.

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    L’archeologo Luigi Viola

    Viola visita gli scavi di Molicelle assieme al prefetto il 16 giugno del 1887 e certifica che quei resti sono di età romana. In questo modo, mette la parola fine a un piccolo giallo, scatenato da Fedele Fonte, sacerdote e scrittore dell’epoca.
    Secondo Fonte, quelle rovine sarebbero appartenute al monastero dei Santissimi Pietro e Paolo, andato distrutto nel 1500. Questa notizia, riportata dai giornali dell’epoca, fa un certo scalpore. Soprattutto, attira a Molicelle torme di popolani convinti di assistere a un miracolo.
    In realtà, di questo monastero esistono tracce storiche che indicano una zona diversa: contrada Rocchi. Molto rumore per nulla, quindi.

    Una scoperta minore?

    Partita col botto, la scoperta di Magdalone si arena e, pian piano, perde d’interesse. Forse perché la Calabria di allora ha un altro scoop archeologico che attira tutte le attenzioni (e le risorse). Si tratta di Sibari, di cui in quegli stessi anni entrano nel vivo gli scavi.
    In fin dei conti, quella di Molicelle è “solo” una delle tante villae di cui si sospetta l’esistenza nel Cosentino. Alcune sono state più “fortunate”: ad esempio, quella di Muricelle, a Luzzi, scavata nel 1989, e quella di Squarcio, a Bisignano, scoperta nel 2014.
    Di Rende, invece, nessuna notizia. Tranne quelle trovate da Scavello che ha ricostruito con pazienza tutto il carteggio ottocentesco.
    Viola promette una relazione, almeno per consentire la pubblicazione della scoperta. Tuttavia, sollecitato dalle autorità nel 1894, fa un passo indietro: non ha il personale, si giustifica, che possa scriverla. E la storia finisce qui.

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    La pianta della villa “fantasma”

    I reperti perduti della villa Romana di Rende

    E che fine hanno fatto le monete, i tubi di ceramica e le statue? Persi, o meglio privatizzati: sono finiti agli eredi del cavalier Magdalone.
    E cosa resta degli scavi? Quasi nulla: se li è ripresi la terra. Tutto da rifare.
    «Le uniche tracce provengono dalle riprese aeree dell’aeronautica militare contenute in Google Earth, nelle quali si notano ancora le planimetrie», spiega Rossella Scavello. Inoltre, ci sono «le testimonianze di alcuni anziani del luogo».

    Ma riprendere a scavare è un’altra cosa. Soprattutto, presenta altre difficoltà: «Con la nascita dell’Università, l’area si è parecchio urbanizzata, quindi occorrerebbe sapere dove scavare di preciso». Allo scopo, si dovrebbe iniziare «con metodi non invasivi: le riprese dei droni, il magnetometro e il georadar».
    Nulla di infattibile o di troppo costoso. Certo, servirebbe la classica buona volontà. Ma questa è un’altra storia…