C’è un filo bizzarro che lega in Calabria il brigantaggio, il Partito Comunista d’Italia, la Resistenza, le Nuove Brigate Rosse e Lotta Continua.
Non ci crederete: l’Alto Ionio cosentino. Che sulla mappa della Calabria è in alto a destra. In questo caso, andiamo oltre l’immagine geografica. Nel Sud profondo è più intensamente vera (e frequente) la regola della Gauche caviar, per cui le figure apicali della sinistra provengono da ambienti socio-familiari vocativamente di destra.
Antonio Gramsci
In principio fu Gramsci
Andiamo con ordine: la famiglia di Antonio Gramsci, si sa (ma mai abbastanza), proveniva da Plataci e qui aveva vissuto per non poco tempo.
L’intellettuale-simbolo della sinistra sbagliava, tuttavia, quando scriveva nelle sue stesse lettere che la famiglia vi fosse arrivata soltanto nel 1821. Macché Ottocento. Anche i Gramsci – come la maggior parte degli albanofoni calabresi – arrivarono tre secoli prima, durante le massicce e note migrazioni greco-albanesi.
Il suo trisavolo Gennaro (nato nel 1745 circa) sposava da queste parti l’italoalbanese Domenica Blajotta. Il bisnonno Nicola (nato nel 1769) vi moriva lasciando la vedova calabrese Maria Fabbricatore e un figlio, Gennaro, nato proprio a Plataci intorno al 1830.
Detto ciò, Gramsci resta di nascita sarda e forse già suo padre Francesco ebbe pochissimo a che fare con l’Alto Ionio calabrese. Però la suggestione è parecchia: una famiglia benestante e borghese dalla quale scaturirà il padre del comunismo italiano.
Lo stemma araldico su un balcone di palazzo Chidichimo ad Albidona
Chidichimo: dal latifondo ai briganti e poi le Br
Proletari di tutto lo Stivale (o quasi) mossi da chi affondava radici nel notabilato arbëreshë. Come non pensare, allora, agli altrettanto albanesi Chidichimo che proprio in quella zona – tra Plataci, Albidona, Alessandria del Carretto – mettevano le basi del loro incontrastato potere latifondiario?
Vogliamo illuderci che non vi fossero stati legami parentali tra le due famiglie? C’è una montagna di buoni motivi per dubitare. E allora seguiamo in questo filo bizzarro…
Fine Ottocento: una figlia del potente albidonese don Colantonio Chidichimo, la nobile Maria (ometto la sfilza di nomi), diventa consuocera dell’altrettanto nobile Maria Antonia Andreassi di Amendolara.
Maria Antonia Andreassi era la blasonata un po’ ribelle che offrì rifugio e copertura ai complici e ai favoreggiatori della banda del brigante Palma (Domenico Straface) di Longobucco.
Finisce qui? Nemmeno per idea. Le due consuocere diventeranno pure trisavole della sfortunata Diana Blefari Melazzi, più nota ai nostri giorni, ovvero la brigatista che si tolse la vita a quarant’anni, tormentata per altri e molteplici motivi personali e tare antiche, mentre si trovava in carcere per l’omicidio di Marco Biagi.
Diana Blefari
Da Ferruccio Parri a Carlo Rivolta
E la Resistenza? Eccola: il nonno della povera Diana aveva una sorella che divenne nientemeno consuocera di Ferruccio Parri.
Ma si può fare di meglio. Ad esempio, chiarire il nesso con Lotta Continua. Torniamo alle due antiche consuocere: la Chidichimo era anche sorella del bisnonno del compianto Carlo Rivolta, classe 1949, la penna più brillante di Lotta Continua.
Qui però fermiamoci un attimo. Altro che origini altolocate in capo a Gramsci… Carlo Rivolta fu l’ultimo rampollo – sfortunatissimo anche lui, per carità – di un piccolo impero fondiario di cui forse, avrebbe dovuto (e certamente potuto) cogliere assai più frutti. Su di lui sono stati scritti saggi e girati dei film. Tuttavia, secondo l’opinione di chi scrive, sembra un uomo dalle occasioni mancate o, meglio, sfruttate malissimo.
Di famiglia più che benestante (la madre era Isabella Chidichimo, già proprietaria anche della meravigliosa Masseria Torre di Albidona, il padre un ex repubblichino), Carlo Rivolta abbandona gli studi universitari per entrare – grazie all’intervento di sua madre – nell’ufficio stampa di Giacomo Mancini, intorno al 1969.
Carlo Rivolta
Carlo Rivolta e l’eroina
Di lì a Paese Sera e di testata in testata. Sempre con il fare da bohémien onnipotente che lo contraddistingue: capelli lunghi, salopette, zoccoli di legno, orecchino, musica reggae, soggiorni al Chelsea Hotel di New York (nella stessa camera in cui Sid Vicious aveva ucciso tre anni prima la fidanzata) e cani presi in vacanza a San Francisco (optional obbligatori di una Plymouth Satellite station wagon lì acquistata). Ma anche casa ai Parioli, grossissime motociclette, una Citroën DS blu (con la quale per sbaglio investe un tizio che muore sul colpo) e pistola Beretta (perché, diceva, «con i compagni non si sa mai»).
Scrive per Il Manifesto e, ancora giovanissimo, approda – con un contratto privilegiato – a La Repubblica e infine a Lotta Continua. Eppure è ritenuto di estrazione troppo borghese per l’estrema sinistra, e troppo estremista per i moderati. Carlo Rivolta si lancia così in una lunga inchiesta nel mondo dell’eroina, vissuta in modo tanto zelante da restarne vittima. Lasciò un racconto straziante, di un viaggio suo e della compagna Francesca Comencini (sì, la zia di Carlo Calenda), a Fasano nell’estate del 1981, in cerca dell’eroina da portarsi a casa.
L’articolo di Rivolta sul sequestro Moro per Repubblica
Radical chic nella masseria di Rivolta
Per capirci, nella masseria di Trebisacce, dove avevano lasciato Deaglio e Capuozzo e dove un altro loro amico morì per le esalazioni di gas in una delle antiche casette. Francesca lo ricorderà in un film non proprio straordinario, Pianoforte.
Morire a 31 anni quando hai il mondo nelle mani non è simpatico ma nemmeno furbo. Ora, un giudizio sulle sue qualità di giornalista? Difficile formularlo. Detto ciò, di Carlo Rivolta si può leggere tanto e niente parrebbe essere questa gran rivelazione.
Meglio sospendere ogni valutazione. Forse la cosa migliore è quella che il tempo (solo lui?) non gli permise di portare a termine, cioè quel suo vecchio progetto, sul modello di Vincenzo Padula, ma cent’anni dopo, e mai messo in piedi: “Il Catalogo dei cambiamenti del Sud”, una specie di Michelin del sociale. Peccato, Carlo. Peccato.
C’è quella epopea culturale che conosciamo con il nome aulico di Grand Tour. Una cosa che sta tutta nei libri, più che nelle sale dei musei, nelle collezioni archeologiche. Mi ero ormai fatto convinto che fuori non fosse durato niente. Neanche uno di quei vecchi cimeli e memorabilia. E con questi, nessun luogo privato o pubblico, custodito a futura memoria. Mi sbagliavo. Qualcosa di quel passato è rimasto. Sorprendentemente vivo e godibile, per chi ne ha voglia, beninteso, ancora oggi. Questo luogo è a Crotone. Nella Crotone un tempo Magna Grecia delle migliori annate, poi scivolata ai nostri tempi nel limbo avvelenato e rugginoso della ex Stalingrado del Sud. E non in museo. Per strada. Nel cuore della Crotone di oggi.
Se arrivate in piazza Pitagora, appena a ridosso dei popolari quartieri del centro storico, oggi colorato di presenze multietniche e negozi da suk, appena sotto i bastioni del grande castello di Carlo V, vi imbatterete in uno straordinario cimelio vivente della stagione del Grand Tour. Voltato l’angolo, a pochi passi dal Duomo che custodisce l’icona della venerata Madonna di Capo Colonna, e dalla storica Libreria Cerrelli, una nobile libreria indipendente, la più antica della Calabria, frequentata anche da Corrado Alvaro, c’è ancora un vecchio albergo, che fu anche il primo costruito in città.
Il Concordia a Crotone: da Lenormant a Gissing
Al civico 12 di piazza Vittoria, con ancora l’ingresso sotto i portici pitagorici che, unici in Calabria, fanno tanto Bologna, troverete oggi, come dal 1880, anno della sua probabile fondazione, al primo piano (il piano originario dello stabile costruito sopra i portici), le circa venti stanze che formavano il corpo del vecchio albergo Concordia. Che a quel tempo, nuovo di zecca, sfoggiava sulla balconata un’elegante insegna trascritta con vezzo francese, Hotel et Restaurant Concordia. Il Concordia in realtà era un albergo «semplice ma comodissimo, senza le finezze dei grandi alberghi, ma con delle camere sufficientemente pulite e discreta cucina». Ad uno straniero di passaggio poteva bastare. Lo descriveva così il suo primo illustre ospite straniero, l’archeologo francese François Lenormant che nel 1881 lo immortala nella sua descrizione di “Crotone moderna”, confluita poi nei tre grossi volumi de La Magna Grecia.
Norman Douglas soggiornò al Concordia di Crotone seguendo l’esempio di Gissing
Paesaggi e storie. Il Concordia sarà poi lo stesso albergo cittadino puntualmente segnalato per la rara clientela internazionale sulle puntigliose pagine del Murray’s Handbooks for Travellers e sulla celebre guida Baedeker per l’Italia Meridionale. Qualche decennio ancora e il Concordia accoglierà altri ospiti di riguardo tra le sue stanze. Non mancarono l’appuntamento con il Concordia firme come il francese Paul Bourget (1890), l’americano James Forman (1927), i britannici Edward Hutton (1915) ed Henry V. Morton (1969). Ma l’epopea del Concordia la fanno soprattutto due nomi di grandi personalità letterarie – il secondo richiamato qui dal primo. Vi sostarono, a cavallo di Otto e Novecento, due scrittori del calibro dei britannici George Gissing e Norman Douglas. Entrambi giunti a Crotone avventurosamente. Sebbene in condizioni economiche, di salute e con stati d’animo persino opposti.
La rinascita dopo l’abbandono
Una targa celebrativa apposta dal Rotary nel 2002 celebra con discrezione gli ospiti illustri passati dall’albergo. Accanto alla targa commemorativa, l’insegna del Concordia (nome celebrativo risorgimentale e post-unitario), coevo alla prima ben proporzionata addizione urbanistica in cui si collocava il nuovo albergo, costituita dalle “due belle strade porticate che tagliano in croce la parte inferiore della città”, è da poco tornata a campeggiare su un angolo della storica piazza Pitagora. Il Concordia è rinato infatti da poco dopo qualche decennio di abbandono e di oblio. Merito della famiglia Pezziniti che ne regge le sorti dalla metà del secolo scorso. Assieme, fa piacere ricordarlo, al più antico caffè-pasticceria di Crotone, il Moka. Anche quest’ultimo ha già di suo più di un secolo di storia cittadina alle spalle.
La targa del Rotary
Al Concordia non aspettatevi riverniciature alla moda, sofisticazioni e arredi di design. L’albergo, dopo qualche lavoro sulle vecchie e solide mura, con le volte riportate a vista, è rimasto praticamente quello di allora. In accordo con la sua atmosfera riposante, accogliente e demodé. Senza pretese, ma un porto sicuro per chi viaggiava, e viaggia, da queste parti. Lo snob aristocratico Norman Douglas, che passò dal Concordia due volte nel corso dei suoi viaggi al Sud, in Old Calabria, nel 1911 ne scriveva con soddisfatta degnazione: «Resto fedele al Concordia, l’edificio è migliorato, il cibo è buono e variato, i prezzi modici; il luogo è di una pulizia perfetta. Vorrei solo augurarmi che certi alberghi di provincia inglesi possano essere all’altezza del Concordia».
Gissing e il Concordia di Crotone
All’opposto, non un effimero souvenir di viaggio, ma luogo rivelativo di una più profonda esperienza umana, diventerà il Concordia per un vittoriano solitario, George Gissing, che a Crotone approda nel novembre 1897.
Gissing fu l’ultimo degli inglesi e dei grandi viaggiatori a visitare, le regioni dell’estremo Sud della Penisola al tramonto di un secolo che, sotto l’incalzare del moderno, stava definitivamente cancellando anche nelle regioni del Sud più ‘archeologico’, problematicamente unificate al resto della nazione, l’ultimo riflesso dell’antica Land of Romance. «Cosa ne è stato delle rovine della Croton magnogreca? In questa piccola città di provincia, dalla fisionomia spoglia e malinconica, oggi nulla è rimasto visibile della sua gloriosa e trapassata antichità».
L’insegna del Concordia, oltre un secolo dopo il pernottamento dello scrittore inglese
Squattrinato e malfermo di salute, Gissing dedica a Crotone quasi metà del suo libro di viaggio. Restò nelle stanze del Concordia una quindicina di giorni. Giorni, e notti, cruciali. Fermato a Crotone da un improvviso attacco di febbre polmonare, conseguenza della tubercolosi che lo affliggeva sin da giovane, la malattia di cui morì a soli 46 anni in Francia, in uno sperduto sanatorio ai piedi dei Pirenei.
Riccardo Sculco
Qui fu salvato dall’intervento provvidenziale di un bravo medico, il dottor Riccardo Sculco che se ne prese cura – «il mio amico dottore» – (Sculco fu poi a più riprese anche sindaco progressista della città), e da poche «gentili e affettuose persone». Che altre non erano se non le cameriere, le povere serve di locanda e le grisettes impiegate al Concordia. «La gente dell’albergo Concordia, nonostante la terribile povertà e rozzezza, si dimostra molto gentile e premurosa nei miei riguardi. Due o tre di queste si presentano di continuo nella mia stanza per vedere come sto e per poter solidarizzare, simpatizzando con me».
La Calabria più vera dalla bolla dell’albergo
Il Concordia e la febbre polmonare divennero così il suo punto di osservazione sulla città. Il ritratto che fa della popolazione cittadina e della gente che in albergo si occupava di lui e dei clienti, è il cuore stesso di Verso il mar Ionio, la sua più autentica e inaspettata iniziazione al Sud povero. Una Calabria dal vero in cui egli si aggirerà spaesato, fra le quinte di un paesaggio naturale e umano reso ancora più surreale dalla malattia, inasprito dalla storia e dalle circostanze personali.
Sarà tuttavia questo per lui l’esame di realtà più perspicace, l’esperienza dell’altrove più fertile e umanamente partecipe, l’impressione vitale meno libresca e astratta. Precipitato in una condizione di estremo pericolo, solo, debole e malato, si rimette a ciò che fatalmente può accadergli lì, tra quella mura, in mezzo a gente estranea. Questione di vita o di morte: «Avevo la febbre. Quella febbre. La situazione si faceva grave, più grave che mai, e mentre la febbre continuava a salire, ebbi un solo pensiero: piansi amaramente la circostanza beffarda che quella ricaduta della mia malattia fosse sopraggiunta tra capo e collo proprio lì dove mi trovavo adesso. Poteva accadere ovunque: ovunque ma non a Cotrone». Eppure…
Una cartolina di Crotone con un panorama d’epoca
Ciò che Gissing ricorda e scrive in quelle circostanze estreme, nonostante lo spettro incipiente della morte, suona sempre affettuoso, ironico e disincantato, intriso di un’umanità curiosa e bonaria. Eppure la realtà da cui veniva sopraffatto poteva apparirgli persino crudele.
Sul Concordia, poi, salta fuori ben altro. «A giudicare dalla monotonia e dalle ristrettezze del menù servito ai tavoli del ristorante, il tenore di vita medio in città doveva essere ben misero e stentato. Le pietanze da portata e i pochi piatti che erano in lista componevano un menù meschino, poverissimo e ripetitivo. E peggio ancora, era tutto cucinato in un modo infame. Il vino del posto, un vinaccio locale, non aveva nulla di raccomandabile. Era molto forte, impossibile da reggere, e sentiva più di narcotico che di succo d’uva».
Dieci giorni d’angoscia e scoperte
Seguono dieci fatali giorni di infermità al Concordia, in compagnia dell’angoscia. «Mi sembrava una beffa davvero miserabile ritrovarmi qui e giacere ora immobile e ammalato di tisi sulle rive del Mar Ionio. Una vera sfortuna. Non poter uscire di nuovo a veder brillare il sole caldo in un cielo tanto più bello e migliore di quello del lontano Nord». Ma con la malattia si apre anche la porta di una diversa percezione dell’umanità circostante:
«La gente della casa, l’intero personale, dagli sguatteri di cucina alla padrona dell’albergo, sarebbero apparsi, ne sono certo, poco più che dei selvaggi. Sporchi nella persona e sotto ogni riguardo, di abitudini maleducate, assolutamente rozzi nel loro contegno, sempre a litigare e a inveire l’uno contro l’altro, e peggio sommamente privi di ogni necessaria qualificazione o attitudine per i compiti che in quel pubblico esercizio sostenevano di svolgere. In Inghilterra basterebbe l’aspetto sciatto con cui si presentano a far rivoltare di disgusto un pubblico di inflessibili moralisti e benpensanti. Tuttavia, facendo appello alla mia migliore buona volontà e conoscendoli meglio, un po’ alla volta la mia disposizione d’animo verso di loro mutò decisamente.
Lo scrittore e viaggiatore George Gissing
Superando la distanza con cui potevo giudicarne la miseria e le azioni per me incomprensibili, ho poi scavalcato anche la prima fase di insofferenza per quella gente così diversa da me. Ho visto il loro lato buono e ho imparato a perdonarne i difetti, conseguenza naturale di uno stato di autentica arretratezza e di primordiale miseria. Ci vollero due o tre giorni buoni e molta pazienza prima che il loro comportamento rozzo e sbrigativo, le maniere brusche e indelicate, si ammorbidissero verso di me in cordialità: una cordialità veramente umana, priva di formalismi ma autenticamente disinteressata.
Fu proprio quello che avvenne. Quando si seppe che non avrei dato loro soverchie seccature, che avevo bisogno solo di un po’ di attenzione in più per la mia salute precaria, e in materia di cibo e cure, la buona volontà e la simpatia umana di quella buona gente ebbero la meglio per aiutare scarsità irrimediabili e l’inettitudine senza speranze».
Meglio morire in Calabria che a Londra
Gissing sembra così divenire via via più consapevole nella bolla del Concordia del legame indivisibile che intercorre nelle relazioni umane tra persone e luoghi. Un sentimento dell’altrove persino più significativo di quello determinato dalla conoscenza delle vicende storiche o da percezioni di ordine squisitamente estetico. Solo l’esperienza del “luogo”, in forza del suo carattere determinato, permette di conoscere più a fondo l’individuo in rapporto con l’ambiente. Solo attraverso essa si coglie tutta la potenza di questi condizionamenti. Gissing è un uomo di educazione classica, tollerante, di mentalità aperta, persino ironico e lungimirante. L’immersione nel paesaggio umano di cui è ospite al Concordia in questi frangenti del suo viaggio al Sud, ne faranno davvero un uomo diverso.
Londra, 1868: una strada del quartiere Shoreditch
A distanza di anni, ricordando l’angoscia della malattia patita a Crotone, rifletteva così: «Ammetto, tuttavia, che allora quel pensiero di morte mi fece soffrire molto più di adesso che ci penso. Dopotutto, resto convinto che un povero di Cotrone ha comunque dei vantaggi rispetto al proletario che abita in una catapecchia dei sobborghi di Londra. E pensai comunque che per me, dopotutto, sarebbe stata comunque cosa più grata morire lì in un tugurio sul Mar Ionio che in uno di quei luridi scantinati di Shoreditch in cui non ebbi mai pace».
Lo straniero
Lirico e malinconico, il capolavoro di scrittura di viaggio di Gissing così alterna luce e oscurità, vita e morte, paganesimo e cristianesimo. Ma egli resta soprattutto un ritrattista formidabile degli incontri umani, dei luoghi e delle persone, che popolarono il suo viaggio. Come quella povera serva del Concordia – «un essere umano che a fatica potrei chiamare donna», che ad un certo punto, “al capezzale del mio letto da infermo, cominciò a rivolgersi a me in modo incomprensibile, con rabbia, urlando nel suo dialetto oscuro e fangoso. Passò un minuto o due di terrore, prima che riuscissi a cogliere il senso di quel suo sfogo furibondo, incomprensibile e addolorato. Mi chiedeva, agitata e piangente, se era giusto che una “povera cristiana” venisse maltrattata così, dopo aver “tanto, tanto lavorato!”.
Quello sfogo piangente e belluino era il suo modo di fare appello alla mia simpatia, di muovermi a compassione umana per la sua povera storia, per quella vita miserabile: non era venuta di sicuro a maltrattarmi. No. Voleva solo che il signore malato, lo straniero, l’ascoltasse. Che qualcuno come me le desse per una volta ragione della sua condotta, di tutta quella sofferenza ingiustamente patita. Dopo pochi istanti il peso esorbitante di quel suo dolente resoconto si impadronì di me. Era come se una povera bestia da soma schiacciata dalla fatica, sotto un carico insopportabilmente pesante e vessatorio, avesse improvvisamente trovato la strada per tradurre in un rudimentale linguaggio, inarticolato e ancora subumano, la sua ribellione sbraitata contro il destino infelice a cui era stata condannata dalla sua condizione di oppressa.
Una stanza del Concordia oggi. Sulla parete, il ritratto di uno dei suoi primi ospiti illustri: François Lenormant
La ascoltai a lungo. Si calmò, infine. Scrutai tra le pieghe di quel viso affranto, tra i segni di quel volto corrugato e malinconico, scavato dalla fatica e dallo sconforto. In qualche misura i miei sforzi di rendermi partecipe del suo disagio, quel mio dare ascolto alle sue sofferenze senza infingimenti, di parlarle con calma rispondendole gentilmente, riuscirono. Alla fine del nostro colloquio, la donna si voltò per andarsene via, mi guardò e mi disse ancora per una volta sospirando, “Ah, Cristo!”. Quell’ultima esclamazione fu pronunciata con un accento più dolce, con un po’ di sollievo. E non risuonò, mi parve, del tutto priva di gratitudine».
Il posto più vicino al paradiso
Sorprendentemente, nonostante quel che gli accadde, per Gissing proprio la Calabria povera e malvissuta del 1897, da poco unificata al resto dell’Italia, si rivelerà «dopotutto,il posto più vicino al paradiso dove avessi mai sperato di giungere». Non a caso proprio tra le stanze e dopo l’incontro con la gente del Concordia Gissing conclude le sue riflessioni sulla verità del suo viaggio e dei suoi incontri con l’umanità dimessa e povera che popola anche i recessi più irrilevanti e svisti dell’estremo Sud di cui farà dopotutto una paradossalmente lieta e assillante esperienza umana, con un rimprovero, infine. Ma rivolto a se stesso: «Perché ero venuto qui, se non perché amavo questa terra e la sua gente? E non avevo io già ottenuto la ricompensa, tanto più riccamente corrisposta, quanto immeritatamente ricevuta in dono da loro per questo mio amore?».
Un parco culturale per Gissing nel Concordia di Crotone
Fanno bene gli attivisti di Italia Nostra di Crotone a chiedere di estendere il vincolo di Bene culturale a difesa della memoria vivente del Concordia. E a progettare, a partire da quelle stanze fatidiche, insieme al Comune di Crotone, un Parco Culturale da dedicare a George Gissing e ai suoi compagni di viaggio e ospiti crotonesi del Concordia. Basta per capirne il fascino dormirci dentro una notte, in compagnia dello spirito benigno del vittoriano solitario.
È proprio vero come scriveva già Norman Douglas, che tra le mura del Concordia è rimasto per sempre qualcosa di speciale: «L’ombra di George Gissing aleggia ancora in quelle stanze e in quei corridoi». Provate a passare dal Concordia, la sentirete anche voi.
La Calabria era una delle maggiori produttrici di manna. Pregiatissima e purissima, simile alla cera e dolce come il miele, la preziosa manna si esportava all’estero dove si vendeva come dolcificante naturale e regolatore intestinale.
La raccolta della manna incuriosì i viaggiatori stranieri più di ogni altra attività produttiva della regione. Le loro informazioni sull’industria sono ricche di dettagli: i luoghi e il periodo in cui si raccoglieva, chi erano i proprietari degli alberi, quanti erano e quanto guadagnavano gli operai, le tecniche di estrazione e di produzione, i tipi di manna e le sue proprietà in campo medico, come si commercializzava e quanto profitto si ricavava dalla sua vendita.
La manna migliore in Calabria? Sullo Jonio
Duret de Tavel, Auguste de Rivarol, Orazio Rilliet, Gerhard vom Rath, Francesco Lenormant nell’Ottocento scrivevano che la manna più pregiata si raccoglieva dall’olmo o frassino selvaggio delle montagne vicino Corigliano e Rossano, al di sotto della zona dei faggi e delle querce. L’albero poteva fruttificare regolarmente all’età di dieci anni e la sua produzione continuava per trenta o quaranta, pur diminuendo molto negli ultimi anni.
Incisioni su un albero per la raccolta della manna
Verso la fine di luglio i contadini praticavano con un falcetto tagli orizzontali nel tronco dell’albero profondi circa un centimetro. Quindi sistemavano ai piedi foglie di acero o di fico d’india per raccogliere il succo vischioso che scendeva da ciascuna apertura. Questo succo qualche volta trasudava naturalmente sul tronco e sui rami, senza la necessità di provocarne lo stillicidio intaccandone la corteccia. La manna gocciolava da mezzo dì alla sera, sotto forma di un liquido incolore e trasparente. Si raccoglieva la mattina, quando il fresco della notte l’aveva disseccata dandole consistenza.
Il succo che restava attaccato sul tronco e sui rami, conservandosi più puro, dava la qualità superiore, chiamato in commercio “manna in lacrime”. La “manna comune”, più ordinaria e meno ricercata, era quella che si raccoglieva sullo strato di foglie steso a terra per accoglierla nella sua caduta.
Guai a chi la tocca
I viaggiatori scrivevano che la manna era una delle più pesanti e inique corvée che il suddito doveva al sovrano. E «guai a quel contadino nella cui casa fosse stata trovata una quantità anche minima». Il re dava in appalto la produzione della manna a una Compagnia. Questa vessava i disgraziati campagnoli, «costretti a svolgere la raccolta in condizioni e con una sorveglianza davvero barbare».
Nel 1786, Johann Heinrich Bartels, illuminista tedesco di Amburgo, annotava sulla produzione della manna nella provincia di Cosenza:
«Con la manna prodotta in gran quantità in questa zona, specialmente nella parte orientale della provincia, si alimenta, com’è noto, una ricca attività commerciale. Solo il Re può però racoglierla, non i feudatari. Ad essi spetta il compito di provvedere alla raccolta materiale all’epoca prestabilita, nei mesi di luglio e agosto. La raccolta dura sulle cinque settimane. Durante tutto questo tempo tutti coloro che vengono chiamati dal feudatario per raccogliere la manna sono tenuti a mettere da parte i loro affari privati e a lavorare solo per il Re. Nel caso trasgrediscano a questo divieto, sono passibili di pene durissime.
Un produttore di manna dei nostri giorni
Per tutto questo ricevono un risarcimento di 3 carlini al giorno. A dire il feudatario riceve per ogni uomo che impiega 5 carlini, ma ne trattiene due per sé. Per volere del Re la raccolta della manna viene sempre data in appalto. Per evitare furti, il governo è tanto geloso di questo prodotto che per tutto il tempo della raccolta si vedono in giro per i boschi gli sbirri, la cosiddetta Guardia, coi fucili spianati pronti a far fuoco su chiunque si azzardi da quelle parti senza l’accompagnamento di una persona abilitata. I raccoglitori possono mangiare quanta manna vogliono, ma pagano con la vita il minimo furto».
Le incisioni sugli alberi
Bartels descriveva poi nei dettagli le tecniche di produzione della manna in Calabria: «Il modo in cui viene prodotta la manna è duplice, in parte richiede la mano dell’uomo, in parte no. Nel primo caso si fanno delle incisioni sul tronco dell’albero dalle quali fuoriesce la manna che viene raccolta in piccoli recipienti. Le incisioni sono orizzontali e si fanno a poca distanza l’una dall’altra, da un pollice e mezzo a due. La lunghezza dell’incisione forma con l’altezza un rettangolo equilatero. L’incisione che si produce con un coltello a forma di piccola falce ha una profondità di mezzo pollice. Ai piedi dell’albero, per raccogliere la manna che fuoriesce dalle incisioni, si sistemano le grandi foglie spinose dei fichi d’India, una pianta che cresce in quantità sui bordi delle strade, e fa da siepe come da noi il roveto, foglie che seccando diventano concave.
Fiori di frassino, l’albero che produce tra le migliori qualità di manna
Per evitare che la manna goccioli per terra, sotto la prima incisione si fa una fessura alla quale si attacca una foglia sui cui gocciola la manna prima di finire nel recipiente a terra. Si comincia ad incidere l’albero dal basso e poi a poco a poco si procede verso l’alto, e, se la stagione lo permette, si fanno delle incisioni anche sui rami grandi. Se all’epoca della raccolta piove o il tempo è mite, la raccolta è meno abbondante del solito in quanto la mancanza di caldo rallenta la fuoriuscita della linfa e la pioggia lo lava via. Il colore rassomiglia alla cera che gocciola da una fiaccola e ha un sapore dolce di miele. Nel secondo caso l’uomo si limita a raccogliere quel che viene fuori col calore del sole».
La manna in Calabria: falsi miti e segreti
L’illuminista concludeva soffermandosi sugli aspetti economici della questione, tra convinzioni da sfatare e misteri contabili. «È sbagliato però credere che la manna sgorghi dalle foglie: sgorga, come nel primo caso, dal tronco, e scivola lungo il tronco o, nel caso le foglie ne ostacoli il corso, lungo le stesse foglie. Scorre liquido e puro come acqua e, quando il vento lo raffredda, si fissa in palline che o restano attaccate al tronco o si fermano sulle foglie – da qui la leggenda che sgorgherebbe dalle foglie. Come potete facilmente immaginarvi, gli insetti, le formiche, le lucertole, le api ecc. ne vanno ghiotti. La manna ricavata col solo aiuto del sole è, a detta di tutti, la migliore. È così che la producono gli orni e i frassini, anche se in quantità ridotta.
Manna raccolta ai piedi di un albero
La manna ricavata dall’orno è di colore bianco, simile a cera bianca, quella ricavata dal frassino va più sul giallo. Mi hanno assicurato che questa manna si vende a 7 talleri l’oncia, o a 50 talleri per 6 once. Per me sarebbe stato più importante avere il dato preciso della quantità complessiva della manna raccolta e delle entrate del Re; ma, a quanto pare, in questo paese queste informazioni vengono custodite con uno zelo tale che di fatto se ne preclude l’accesso ad uno straniero Quanto grande sia il profitto lo potete dedurre da questo dato: soltanto a Campana e a Bocchigliero, due piccole località della Calabria Citeriore se ne raccoglierebbero 30.000 libre all’anno».
Giudizio di Paride, dipinto da Pieter Paul Rubens intorno al 1638
In passato, però, i pomodori avevano una cattiva reputazione per le proprietà organolettiche. Nel Seicento, studiosi come Benzo, Durante e Mattioli scrivevano che davano scarso nutrimento. E che, una volta maturi, si potevano consumare solo se conditi con pepe, sale e olio, perché «dolciastri e disaggradevoli». Soderini, in un noto trattato del 1851 su orti e giardini, nonostante i pomodori ormai si coltivassero ovunque, sosteneva che non fossero buoni da mangiare «ma solo si poteva cercarne d’avere per bellezza».
Il pomodoro si fa largo
Ma ignorando le raccomandazioni dei botanici, spinti dalla fame e dal bisogno, superando qualsiasi diffidenza o paura, i contadini piantavano i pomodori. E alcuni cuochi cominciarono a utilizzarli nei loro piatti. Per conferire un bel rosso alla «zuppa alla mosaica», i cuochi consigliavano di usare salsa di pomodoro setacciata e in inverno pomodori secchi tritati o «quelli in bottiglia». Alcuni suggerivano un «timpano» formato da strati di pomodori crudi e vermicelli freschi con sale, pepe e olio, strutto o butirro.
Nel Settecento si faceva la conserva di pomodori «solida» e «liquida». Quella solida si otteneva bollendo i frutti maturi in una caldaia con chiodi di garofano, pepe, cannella e sale. Una volta tolti semi e bucce, si facevano ribollire sino a ridurli a una pasta densa con la quale si formavano dei «bastoncelli».
Quella liquida si preparava lessando i pomodori, riducendoli a marmellata e mettendoli in barattoli di terra verniciati e ricoperti d’olio.
Reggio esporta, Catanzaro fa polpette
In Calabria il pomodoro si seminava in diversi territori tanto da essere citato in una statistica del 1805 come l’unica pianta «americana» messa a coltura nella regione.
Negli anni seguenti i contadini cominciarono a coltivare i pummadori in maniera intensiva. I più comuni erano quelli a «frutto piccolo rotondo», utilizzati per la salsa, e quelli «a pruno» che si appendevano e duravano sino a primavera. Si usava anche spaccarli a metà, coprirli di sale, seccarli al sole e infilzarli formando delle corde. Oppure tagliarli, salarli, metterli in un vaso per quattro giorni, passarli al setaccio, aggiungere chiodi di garofani, lasciarli al sole e, una volta asciutti, metterli in vasi vetrati.
Pomodori in essiccazione sotto il sole
Verso la metà dell’Ottocento, negli orti di Reggio Calabria la coltura predominante era quella dei pomodori, sia perché si prestavano bene alla rotazione dei terreni, sia perché si vendevano in gran quantità nella vicina Sicilia.
In un noto manuale di cucina del 1819 il pomodoro era utilizzato nelle «polpette alla catanzarese», simili agli odierni involtini di carne. Si consigliava di scegliere un pezzo di manzo e levare accuratamente «pelli» e nervi. Quindi, tagliarlo a fette sottili e stendervi un impasto di lardo tritato, provatura «marzolina» a dadi, pepe, noce moscata, zibibbo senza «pipini» e prezzemolo. Le fettine si arrotolavano, si legavano con un filo e si cuocevano in una «cazzarola» con lardo, prosciutto, cipolla, erbette e un pezzo di butirro. Una volta colorite, alle «polpette» si aggiungeva un po’ di farina, mezzo bicchiere di vino bollente e si copriva il tutto con brodo di carne o sugo di pomodoro. A fine cottura, occorreva scolare, togliere il filo e sistemare gli involtini nel piatto coperto con salsa ben «disgrassata» e passata al setaccio.
Il pomodoro nel… passato
I pomodori nelle case contadine erano adoperati in minestre, zuppe o insalate, mentre sulle mense dei ricchi erano serviti ripieni di carne o pesce. Dopo aver tolto la pelle e i semi calandoli nell’acqua bollente, si farcivano con carne «passata e pesta» e si cuocevano in un colì di vitello. Erano serviti anche ripieni di salpicón di animelle, erbette e spezie e, una volta infarinati e dorati, rosolati al forno con parmigiano e butirro. Altri cuochi imbottivano i pomodori con un impasto di burro, gialli d’uova, «provatura» grattata, cipolla, acetosa, targone, menta, prezzemolo, sale e pepe, li friggevano e li coprivano con un colì di prosciutto condito con erbe. Altri ancora li riempivano con rognonata di vitello arrostita e tritata, gialli d’uova, formaggio e spezie. Dopo averli infarinati, passati nel pane e parmigiano grattato, friggevano l’intingolo nello strutto e lo servivano con crostini.
In alcune zone si usava spezzettare la polpa del pomodoro, aggiungere spezie, noce moscata, butirro, ricotta e gialli d’uova, formare crocchette della lunghezza di un dito, infarinarle e friggerle. Certi cuochi mischiavano la polpa del pomodoro con butirro, spezie, parmigiano, pane grattato, polvere di cannella, gialli d’uova, panna di latte, zucchero di canna, corteccia di portogallo e, una volta ridotta a crema si faceva assodare al forno in una casseruola unta di butirro e spolverata con pan grattato. Altri farcivano i pomodori con un colì di gamberi, acciughe ed erbette, condendoli con olio e salsa di tartufi, oppure riempiti con un trito di acciughe, prezzemolo, origano e aglio, insaporiti con sale e pepe, coperti con pan grattato e cotti al forno.
Un’intuizione geniale, ripescata a partire da inizio millennio, e una vita avvolta nel mistero, su cui si sono accaniti decine di studiosi. Di Antonio Serra si sanno pochissime cose. Si sa senz’altro che fu un giurista per formazione, come testimonia il pomposo titolo di doctor in Utroque (cioè nei diritti Civile e Canonico).
Si sa, inoltre, che Serra fu cosentino, probabilmente di Dipignano. Tuttavia, senza certezze. E si sa che visse a cavallo tra XVI e XVII secolo. Ma da un dettaglio non proprio irrilevante: pubblicò il suo capolavoro, nel 1613, mentre era imprigionato nel carcere della Vicaria a Napoli.
Per il resto, ci sono solo indizi e illazioni.
Il ritratto di Serra e il frontespizio del suo trattato
L’attualità del pensiero di Antonio Serra
Partiamo dall’aspetto, forse più importante dell’opera di Antonio Serra: l’eccezionale longevità del suo pensiero, riemerso di prepotenza nel dibattito dello scorso decennio sul Mezzogiorno.
L’artefice di questa attualizzazione è Vittorio Daniele, professore ordinario di Politica economica presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro.
Nei suoi saggi, Daniele lancia una tesi che anima tuttora il dibattito sorto in seguito al centocinquantenario dell’Unità nazionale e suscita qualche entusiasmo negli ambienti culturali e politici legati a certo revisionismo antirisorgimentale. Prima dell’Unità, sostiene Daniele assieme a Paolo Malanima, non esisteva un grande divario economico tra Nord e Sud. Le cose cambiano dopo, col decollo industriale del Settentrione.
In seguito, il prof di Catanzaro approfondisce i motivi di questo divario: il Mezzogiorno è rimasto indietro non per (sola) colpa delle scelte politiche ma (soprattutto) a causa della sua posizione geografica svantaggiosa. In altre parole, e a dispetto di tanta retorica sulla “centralità mediterranea”, il Sud è un territorio marginale che, comunque, non può sviluppare più di tanto. Cosa c’entra Serra in tutto questo?
Vittorio Daniele
In fondo al Mediterraneo
Daniele riprende di peso un’intuizione forte contenuta nel Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e argento, scritto in carcere dall’economista cosentino.
L’intuizione di Serra si riferisce allora al Regno di Napoli, che versa in difficoltà economiche.
Schiacciato in fondo al Mediterraneo e quasi isolato, il Regno, spiega lo studioso, è «un sito pessimo», perché «non bisogna mai passare da quello ad alcuno per andare in altro paese. Sia di qualsivoglia parte del mondo, e voglia andare in qualsivoglia altra, non passerà mai per il Regno se non vi vuol passare per suo gusto e allungare la strada».
Insomma, a distanza di cinque secoli, il Serra-pensiero tiene banco.
Antonio Serra pioniere dell’economia politica
Ovviamente il pensiero di Serra non si limita solo a questa intuizione longeva, che comunque getta le basi della geografia economica.
In realtà, secondo l’economista cosentino, le caratteristiche che possono generare ricchezza sono sette, divise in due grandi gruppi: cause naturali e cause accidentali. Serra considera come cause “naturali” solo la presenza di miniere.
Le cause accidentali, a loro volta, si dividono in due sottogruppi: “accidenti proprii” e accidenti “communi”. I primi sono peculiari di ciascun Paese e si riducono a due: la posizione geografica, appunto, e la produzione agricola. I secondi, invece, sono tipici di tutti gli Stati e cambiano solo per quantità e qualità. E sono: la diffusione di manifatture, il volume dei commerci, l’intraprendenza e la qualità dei popoli e, infine, la politica. In pratica, il capitale umano. Secondo Serra, proprio la politica fa la differenza, perché può dare gli impulsi necessari alla vita civile e (quindi) allo sviluppo economico.
Considerato il periodo storico, si può affermare che il Breve trattato di Serra stia all’economia come Il principe di Machiavelli sta alla politica.
Un busto di Antonio Genovesi
L’economia dopo Antonio Serra
Di economia, prima di Serra, avevano scritto in tanti, ma nessuno l’aveva mai considerata un ramo a sé dello scibile.
Un po’ di cronologia può aiutare a capire meglio l’importanza di questo pensatore.
La nascita dell’Economia politica ha una data convenzionale: il 1776, l’anno in cui Adam Smith licenzia il suo La ricchezza delle nazioni.
Smith ha, essenzialmente, un precursore: Antonio Genovesi, che ottiene la prima cattedra italiana di Economia a Napoli nel 1754.
L’intuizione dell’Università di Napoli è preceduta di poco dai re di Prussia, che patrocinarono, ad Halle, una cattedra di Ökonomische, Polizei und Kameralwissenschaft (1727). Antonio Serra precede questo processo scientifico e accademico di almeno 114 anni. Se non è pionierismo il suo…
Vita misteriosa di Antonio Serra
Nonostante ciò, di Serra si sa davvero poco. Ad esempio, non si sa con certezza dove sia nato e quando.
Anche la sua origine a Dipignano è un’ipotesi, magari più forte delle altre. Infatti, spiega lo storico Luca Addante, gli unici dati certi sono stati a lungo quelli riportati dal frontespizio del Breve trattato, dove l’economista appare come «dottor Antonio Serra di Cosenza». Il che potrebbe non voler dire molto: tutti i notabili dell’epoca si dichiaravano abitanti dei capoluoghi, sebbene fossero nati fuori dalle mura.
Questo vale anche per Cosenza e i suoi casali (tra questi, appunto, Dipignano).
Sulle origini di Serra c’è stata, in realtà, una lunga disputa: secondo alcuni (Gustavo Valente in particolare) l’economista era originario di Celico, secondo altri (è la tesi di Augusto Placanica) di Saracena. Mentre Davide Andreotti lo fa nascere a Cosenza. Ma prende una stecca clamorosa sul presunto anno di nascita: 1501.
Fosse vera questa data, Serra avrebbe dovuto avere 112 anni di età nel 1613, quando era in galera e scriveva il Breve trattato.
L’ipotesi di Dipignano è avallata dalla recente scoperta di un documento notarile del 1602, che parla di un Antonio Serra di Dipignano. E sarebbe confermata da un altro documento notarile, stavolta napoletano, del 1591, nel quale si parla di un Antonio Serra, dottore in Utroque e proprietario di un fondo e case a Dipignano.
In questo caso, i conti tornano: nel 1591 Serra avrebbe avuto almeno vent’anni e nel 1612 aveva fatto quel po’ di carriera sufficiente a ficcarlo nei guai e a ispirargli il Breve trattato.
Pedro Fernàndez de Castro y Andrade, viceré di Napoli
Un capolavoro dalla galera
Con un certo amore per la retorica rivoluzionaria, Francesco Saverio Salfi provò a legare la vicenda umana di Antonio Serra a quella di Campanella, che negli stessi anni era finito nei guai per aver ideato un tentativo di “rivoluzione” in Calabria.
In pratica, Serra sarebbe stato tra i congiurati e sarebbe finito in galera per questo.
Ancora una volta, i documenti smentiscono l’ipotesi. Serra finì alla Vicaria, come ha ricostruito tra gli altri Luigi Amabile, perché sospettato di falso monetario. In altre parole, gli avrebbero trovato dei pezzi d’oro, probabilmente grezzo. Per questo reato, per cui all’epoca si poteva finire al patibolo, il carcere era il minimo.
Serra dedicò il Breve trattato a Pedro Fernàndez de Castro y Andrade, viceré di Napoli, probabilmente per cacciarsi dai guai. Ma inutilmente. Riuscì, invece, a incontrare Pedro Téllez-Giron, il successore di Fernàndez nel 1617. Ma l’incontro si risolse in chiacchiere e Serra tornò in galera. Considerando l’età presumibile (forse sessant’anni) e la durata media della vita dell’epoca (poco sopra i cinquant’anni), tutto lascia pensare che l’economista sia morto alla Vicaria, anche se non si sa quando.
L’economista Erik Reinert
Antonio Serra: sfigato in vita, eroe da morto
È una regola tutta italiana, ancor più meridionale: riconoscere la grandezza di qualcuno solo dopo la vita. Infatti, perché si prendesse sul serio Antonio Serra è dovuto passare un secolo dalla morte presunta.
Oltre a Salfi, si accorse di Serra l’abate Ferdinando Galiani, altro grande pioniere dell’economia, che lo citò nel suo Della Moneta (1751),
Poi altro silenzio, interrotto da Benedetto Croce, che non lesina elogi all’economista cosentino. Antonio Serra deve la sua seconda giovinezza a un big dell’economia contemporanea: il norvegeseErik Reinert, che lo cita come massima fonte d’ispirazione assieme al piemontese Giovanni Botero, coevo e forse coetaneo dello studioso calabrese.
Questa rinascita del pensiero “serriano” ha un valore particolare, perché avviene all’interno di un filone di pensiero che si pone come alternativo all’attuale liberismo.
Non è davvero poco, per un calabrese che ebbe il colpo di genio in galera.
Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.
QUESTO FILM È DEDICATO ALLA MEMORIA DEL DODICENNE, MEDAGLIA D’ORO, GENNARO CAPUOZZO, AL VALOROSO POPOLO NAPOLETANO ED A TUTTI GLI ITALIANI CHE HANNO COMBATTUTO PER LA LIBERTÀ.
Con questa scritta, coi caratteri proprio in maiuscolo, si chiude il film Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy, prima proiezione del ciclo “Resistenza e Resistenze” organizzato dalla sezione ANPI C. Smuraglia di Reggio Calabria e dal circolo Arci Samarcanda, in collaborazione con il circolo Zavattini. «Quattro proiezioni – secondo la presidentessa del circolo ANPI Giuliana Mangiola – per riflettere sulla Resistenza come opposizione ad ogni azione tesa a calpestare i diritti della persona, i valori della libertà e della democrazia. Una rassegna che vuole denunciare quelle forme di sopraffazione con le quali l’altro non è più il prossimo ma il mezzo, lo strumento utile per ottenere potere e affermazione».
Le Quattro giornate di Napoli: la resistenza si allarga
Del film, e del suo grande valore artistico, abbiamo parlato col presidente del circolo Zavattini, Tonino De Pace, e ne riferiremo più avanti. Prima vogliamo invece analizzare l’oggetto dell’opera, l’episodio dal punto di vista storico. E chiederci anche il motivo per il quale esso non abbia avuto la rilevanza che avrebbe certo meritato.
Un momento delle Quattro giornate di Napoli
Nel suo manuale di Storia contemporanea il reggino Rosario Villari riporta così le Quattro giornate di Napoli: «A Napoli, intanto – una città che aveva subito nel modo più tragico le conseguenze della guerra, dei bombardamenti aerei, della penuria alimentare e dello sconvolgimento della vita civile – la popolazione, esasperata dalle violenze e dalle angherie delle truppe tedesche, insorgeva battendosi valorosamente e vittoriosamente nelle strade per quattro giorni (27-30 settembre 1943). Era uno dei primi episodi della Resistenza italiana, che coincideva con una diffusa presa di coscienza antifascista in tutto il paese e con la trasformazione dell’antifascismo da atteggiamento di gruppi relativamente ristretti in un vasto movimento di massa».
La città liberata senza aiuti esterni
Nel Dizionario di Storia de Il Saggiatore alla voce “Quattro giornate di Napoli (28 settembre – 1° ottobre 1943)” troviamo questa descrizione: «Episodio di resistenza armata contro l’occupazione tedesca, alla vigilia dell’arrivo delle truppe anglo-americane. L’insurrezione non fu organizzata da un centro militare e politico ma fu la somma di molte iniziative individuali o di gruppo, anche di giovanissimi; vi morirono sessantasei cittadini, tra cui undici donne». Non è poco.
Villari segnala che l’episodio è uno dei primi della Resistenza italiana. Dà anche conto di un suo tratto peculiare, la spontaneità, e sottolinea il valore dei napoletani che vi aderirono. Nel Dizionario, le Quattro giornate di Napoli sono traslate di un giorno, ma nel complesso, per lo spazio loro destinato, si deve tener conto che esso contiene 12.000 voci relative a tutta la storia del mondo intero.
Rimane un dato, incontestabile. Come abbiamo già scritto, il popolo italiano sa poco o nulla di una delle pagine più belle della lotta degli Italiani per la libertà. Dal 27 al 30 settembre del 1943, Napoli diede dimostrazione, con scarsissimi mezzi e altrettanto scarsa o nulla organizzazione, che era possibile scacciare i nazifascisti dalla città, tanto da presentarsi il giorno dopo, all’arrivo delle truppe alleate, già liberata. E tanto da meritarsi due medaglie d’oro al valor militare, una conferita alla città e una alla memoria di un ragazzino di neanche 12 anni, Gennaro Capuozzo.
Gennarino Capuozzo e le Quattro giornate di Napoli
Gennarino era nato nel 1932 in una delle case tipiche del centro storico di Napoli, nella quale abitava con i suoi cinque familiari. Suo padre era stato mandato in guerra nel 1941 e lui dovette darsi da fare per il sostentamento suo, della madre e dei tre fratelli. Dopo l’armistizio dell’8 settembre del ‘43, con il Re e Badoglio al sicuro a Brindisi, il Regio Esercito è abbandonato a se stesso, non sa più chi sono i nemici da combattere. I nazisti occupano Napoli e, giorno dopo giorno, aumentano la pressione sulla popolazione con angherie e soprusi di ogni genere. Gli alleati sono sbarcati a Salerno, ma la città non può aspettare perché il comandante cittadino dei nazisti assume il 12 settembre i pieni poteri, ordinando alla popolazione di consegnare le armi.
Lo sgombero della fascia costiera da parte dei nazisti
Il 22 i nazisti istituiscono un servizio di lavoro obbligatorio per i cittadini dai 15 ai 30 anni e impongono lo sgombero della fascia costiera. Il 27 i Napoletani iniziano ad attaccare i tedeschi con armi di ogni genere, ad alzare barricate, ad assalire i mezzi che trasportano prigionieri italiani. Tra gli insorti ci sono donne e bambini. Il giorno seguente i carri armati tedeschi, mandati dal comandante a fronteggiare la popolazione, sono fermati a a Capodimonte dai partenopei coi cannoni sottratti in precedenza agli occupanti. Messi alle strette, i tedeschi si arrendono e il 30 lasciano Napoli. Nella prima mattinata del 1° ottobre gli alleati entrano nella città, la prima a liberarsi da sola, senza l’aiuto di nessuno se non della dignità messa sotto i loro stivaloni dai nazisti.
Due medaglie al valore
Nella Storia collettiva, quella individuale ed eroica di Gennarino Cappuozzo. È il 28 settembre quando Gennarino si aggrega a un gruppo di ragazzi scappati dal carcere minorile che combatte contro i nazisti. Il 29 Gennarino Capuozzo e i suoi compagni decidono che la morte di 10 persone, uccise in un quartiere poco lontano, va vendicata. Avvistano un mezzo tedesco e lo attaccano. Il camion prova a scappare, ma Gennarino gli si avvicina e getta una bomba a mano contro il mezzo militare. Si avvicina e intima ai tre occupanti di scendere. E li fa prigionieri! Gennarino si sposta in un’altra zona della città. Qui, armato di mitragliatore e bombe a mano, si scaglia contro un carro armato. Una granata, a questo punto, mette a tacere per sempre il suo ardimento. Lo raccolgono col volto devastato e una bomba ancora stretta nel pugno.
Gennarino Capuozzo
La medaglia d’oro verrà consegnata alla madre, con una pergamena dove si legge: «Prodigioso ragazzo che fu mirabile esempio di precoce ardimento e sublime eroismo». L’altra medaglia verrà attribuita alla città di Napoli, che «col suo glorioso esempio additava a tutti gli italiani la via verso la libertà, la giustizia, la salvezza della Patria».
Questi i fatti che dovrebbero essere conosciuti, al pari di tutti gli eventi che hanno restituito la libertà e consegnato una vera democrazia all’Italia.
I dimenticati: Nanni Loy e le Quattro giornate di Napoli
Nanni Loy ha il merito di averli rappresentati magistralmente nella sua opera del 1962, che si segue dal primo all’ultimo fotogramma col fiato sospeso. «Nanni Loy – ci dice Tonino De Pace – è uno dei tanti registi che dopo la scomparsa l’Italia e il suo cinema hanno dimenticato abbastanza in fretta. È stato un regista molto attento alle regole dello spettacolo, ma al contempo anche un geniale innovatore. Il suo Specchio segreto, con l’allora sconosciuta (in Italia) candid camera, ha contribuito a rivoluzionare il mondo della televisione».
Una locandina del film di Nanni Loy
«Il film – afferma il presidente del circolo Zavattini – è uno dei pochi che raccontano la Resistenza al Sud e ha contribuito a rendere vivo il ricordo dell’insurrezione napoletana. Con la sua coralità reinterpreta lo spirito solidale della Resistenza. Protagonista del racconto è la città stessa con i suoi popolani, con le microstorie che compongono il quadro di un racconto drammatico che prende le mosse dal soggetto di Vasco Pratolini e dal libro, edito nel ’56, del giornalista Aldo De JacoLa città insorge: le quattro giornate di Napoli. Napoli e il suo popolo di scugnizzi ed eroici combattenti sono al centro della scena, con i loro volti e i loro drammi personali che si sommano a quelli della guerra».
«Nanni Loy – continua De Pace – ha realizzato un film avvincente, dal ritmo sostenuto, sorretto da una schiera di attori di primo piano: Gian Maria Volontè e Lea Massari, Jean Sorel e Aldo Giuffrè, e ancora le grandi Pupella Maggio e Regina Bianchi, un giovane Enzo Cannavale e Carlo Taranto. Un film che, a dispetto del suo valore culturale e cinematografico, critica e istituzioni hanno ingiustamente dimenticato quando, invece, riveste un ruolo centrale nella storia del nostro cinema proprio per essere uno dei pochi che racconta la Resistenza del Sud, ignorata o quasi, a sua volta, al pari del film di Loy, che la valorizza e la tramanda».
Insomma, un film da vedere, per il suo valore artistico e per avere una lettura e una conoscenza più complete della Resistenza italiana al nazifascismo.
Un pezzettino di Calabria vola al Cannes World Film Festival. Il regista cosentino Francesco Gallo ha trionfato nella categoria “Miglior film sportivo” con il documentario Le dee di Olimpia, un lavoro dedicato alle lotte di emancipazione femminile nei Giochi olimpici.
Incuriosita dal tema, non potevo esimermi dal cercare Francesco per conoscere più a fondo la sua opera. Prima, però, avevo bisogno di conoscere meglio l’artista che si cela dietro il documentario. L’intervista, quindi, parte con una domanda banale: chi è Francesco Gallo?
«Io sono uno storico dello sport, membro della SISS (Società italiana di Storia dello Sport). Ho studiato Cinema a Cinecittà e poi Storia all’università. E così cerco di unire tre passioni: la storia, lo sport ed il cinema. Tutti i miei documentari sono sportivi, ma sono un pretesto per far avvicinare le persone alla storia in maniera più esaltante. Le storie di sport esaltano gli spettatori e alcuni argomenti passano più facilmente al cuore e alla mente delle persone se c’è lo sport di mezzo.
Poi c’è la passione della scrittura, perché sono principalmente uno sceneggiatore. Scrivo tutti i testi dei documentari e nella struttura narrativa che utilizzo non ci sono interviste perché racconto per lo più storie internazionali. Quello che mi interessa è raccontare le storie degli ultimi, le storie di chi ha bisogno di luce sulle proprie lotte che spesso sono dimenticate».
Francesco Gallo
Prima di realizzare questo documentario, hai scritto un libro dedicato alle battaglie delle donne nella storia dei Giochi. Come ti sei avvicinato a questo tema?
«L’idea del libro era uscita in occasione delle Olimpiadi del 2016 di Rio de Janeiro. Ero al telefono con l’editrice e le dissi “se pensi a tutte le storie delle donne, ci viene fuori un libro a parte”. Lei mi fa: “Ecco, scrivi quello”. È nata così, quasi come una sfida. Ho dovuto iniziare a studiare da capo e andare a cercare solo fonti che riguardassero le atlete. In realtà, è quasi più corposo il documentario del libro».
Ma esattamente cosa racconta Le dee di Olimpia?
«Inizia alla fine dell’Ottocento con le prime Olimpiadi di Atene, dove le donne non ci sono. Proprio in quegli anni c’erano le lotte per ottenere il diritto al voto e queste lotte si sono riversate anche nei giochi. Le donne hanno detto: “non solo vogliamo votare, vogliamo anche gareggiare”. Non tutte le donne potevano accedere allo sport perché era vietato. In epoca vittoriana c’erano degli studi, ai tempi considerati scientifici, che dicevano che le donne non potevano andare in bicicletta perché rischiavano infezioni agli organi genitali, potevano addirittura approfittarne per onanismo e quindi non bisognava dare alle donne le biciclette. Da una parte, quindi, la scienza diceva assolutamente no e dall’altra parte, a livello sociale e culturale, per alcune donne di ricche famiglie era sconveniente. Ma erano proprio, in maniera ambivalente, le donne di ricche famiglie a potersi permettere di essere un po’ più ribelli e di accedere ad alcuni sport. La vela, ad esempio, o l’equitazione, il golf e il tennis sono sport di alta estrazione sociale, soprattutto all’inizio del Novecento e sono queste donne a essere le prime ad andare alle Olimpiadi».
Charlotte Cooper, oro olimpico a Parigi nel 1900
E poi cosa succede?
«Da qui arriviamo agli anni Venti. C’è questo grande buco che è la Prima guerra mondiale in cui alle donne hanno detto “uscite dalle case o dalle piste di atletica e andate a sostituire gli uomini, che sono al fronte, nelle fabbriche o nei campi”. Sembrava uno stop ma, invece, è stato un grande salto in avanti: gli uomini, tornati dal fronte, si sono trovati queste donne con le gonne più corte, perché dovevano stare nelle fabbriche e serviva facilità di movimento, voglia di libertà, che ovviamente non volevano perdere. Proprio nel decennio tra gli anni Venti e gli anni Trenta c’è stato un grande salto simboleggiato dalla nascita delle Olimpiadi femminili. La dirigente francese Alice Milliat, contro le parole di Pierre de Coubertin che continuava a sostenere che le donne non devono assolutamente partecipare ai Giochi, dice di organizzare delle Olimpiadi per sole donne. Non solo c’erano migliaia e migliaia di spettatori, ma davano a tantissime donne la possibilità di partecipare».
Numeri paragonabili a quelli degli uomini?
«Nel documentario, anno dopo anno, ho evidenziato il numero di atleti uomini e di atlete donne. È andato via via aumentando fino a Tokyo 20-21, in cui siamo più o meno in parità.
Nel periodo in cui il fascismo e il nazismo volevano che le donne tornassero ad essere angeli del focolare, proprio l’Italia con Ondina Valla vince la prima medaglia d’oro. Poi abbiamo questo salto della Seconda guerra mondiale, perché la guerra è drammatica ma molto spesso è una molla per l’avanzamento sociale e culturale».
Trebisonda “Ondina” Valla (seconda atleta da sinistra) e le ragazze della squadra italiana alle Olimpiadi del ’36
Cosa cambia per le donne?
«Le donne, dopo aver dato il proprio fondamentale contributo nella Resistenza europea, negli anni ’50 iniziano una salita infinita, che culmina con le istanze politiche e sociali degli anni ’60. Vediamo le donne che iniziano a vincere sempre di più nelle piste, ma anche nelle piazze con le lotte per l’aborto, per l’utilizzo della pillola, o della minigonna perché nel documentario c’è anche il costume. Mentre dall’America ancora tentavano di imporre modelli come la Barbie o le pin-up, l’Europa era più avanti. Era scoppiata anche la Guerra fredda e il modello occidentale si contrappone a quello sovietico».
E questo cosa comportava per le sportive?
«Nel ’52 Stalin dice “dobbiamo affrontare questa sfida anche in pista” e le donne sovietiche, quasi più degli uomini, accumulano medaglie edizione dopo edizione. Finché gli americani si chiedono perché le comuniste trionfino così tanto e come possa la piccola Germania dell’Est vincere quasi quanto gli Stati Uniti. Si dopano? Effettivamente, purtroppo, la risposta spesso era sì. Ed era un doping di Stato. Per questioni di propaganda politica dovevano per forza vincere, il numero di medaglie serviva a dimostrare che il modello sovietico era, anche dal punto di vista sportivo, superiore a quello dell’Occidente. Ragazze e ragazzine, per la maggior parte minorenni, erano costrette ad assumere anabolizzanti».
Con quali conseguenze?
«Molte di loro, una volta cresciute, hanno deciso di cambiare sesso, stavano praticamente diventando a tutti gli effetti degli uomini. C’è il famoso caso di Irina e Tamara Press, che la stampa americana sarcasticamente chiamava i fratelli Press perché sembravano davvero due uomini per la stazza e la muscolatura. Poi abbiamo il crollo del muro di Berlino, che cambia tutto.
Da allora c’è stata un’evoluzione tuttora in corso perché, malgrado ci sia una parità numerica in pista adesso la sfida è fuori dagli stadi. È nei palazzi del potere e della politica sportiva dove si decidono le leggi e i regolamenti sportivi».
Tamara e Irina Press
Quali sono le sfide dello sport oggi? E in che modo il genere e la razza interagiscono e diventano un limite per le atlete?
«Il discorso che ho fatto finora vale più che altro per noi, per l’Occidente. Se andiamo nei cosiddetti paesi del Terzo mondo, l’accesso allo sport è paragonabile a cento anni fa. Questo avviene per questioni sociali, culturali e religiose. L’Arabia saudita, per esempio, o la Siria e l’Iran non permettono alle donne di gareggiare perché le divise sportive non aderiscono ai precetti islamici. Ci sono stati casi, come l’alzatrice di pesi Amna Al Haddad, che ha deciso di gareggiare comunque col velo e ovviamente non è facile. Oggi, come abbiamo visto nell’edizione 20-21, le donne hanno capito che possono usare il palcoscenico olimpico per varie forme di protesta, come quella sull’abbigliamento».
Amna Al Haddad
Qualche esempio?
«Le ginnaste tedesche stanno protestando contro le tutine striminzite che sessualizzano il corpo delle atlete e a Tokyo hanno indossato delle tute che non lasciavano nulla da vedere. Anche nel beach volley ci sono ancora questi pantaloncini davvero minuscoli. Mi vengono in mente le tenniste che devono, per l’etichetta ottocentesca di Wimbledon, giocare vestendo sempre di bianco, così come gli uomini. Ma le tenniste dicono “come facciamo durante il ciclo? È una cosa che ci mette a disagio e condiziona anche le nostre partite”».
Poi c’è la questione delle violenze, che ha sollevato un polverone anche in Italia negli ultimi tempi…
«Molte atlete stanno protestando perché sono spesso vittime di abusi piscologici e sessuali o talvolta entrambi. Queste ragazze hanno pressioni psicologiche talvolta ingestibili e persino delle professioniste, come Naomi Osaka nel tennis o la ginnasta Simone Biles, hanno deciso di ritirarsi dalle ultime Olimpiadi perché non riuscivano a gestire questo carico di pressioni, che sono sia sportive che mediatiche. Poi non possiamo parlare delle Olimpiadi e della condizione delle donne in vista di Parigi 2024, senza pensare alla situazione in corso in Ucraina. La guerra sarà un elemento fondamentale che sposterà gli equilibri.
La ginnasta Simone Biles con uno dei suoi quattro ori olimpici
Esiste davvero una correlazione così forte tra politica e sport?
«Questo accade ed è sempre accaduto, fin dalla nascita delle Olimpiadi. Nell’antica Grecia chi vinceva le Olimpiadi diventava cittadino di Atene. Molto spesso si gareggiava sia per la gloria sportiva che per quella sociale. Perché essere cittadino ateniese era il massimo del vanto che si poteva avere nell’antichità»
Torniamo al presente e affrontiamo la polemica sulle atlete trans nelle gare sportive…
«Cambiano le modalità, ma il cuore della questione rimane sempre lo stesso. Da cento anni c’è il problema del test sessuale nelle Olimpiadi. Lo racconto anche nel documentario: tantissime donne travestite da uomini, o viceversa, come il caso tedesco di Heinrich Ratjen che si travestì da donna e gareggiò col nome di Dora Ratjen. Poi c’è stato il caso, come dicevo prima, di medicinali utilizzati per stravolgere le donne e farle diventare più forti e muscolose. Dalla fine degli anni Sessanta è stato introdotto il sex test per non far gareggiare chi si professava di un sesso invece di un altro. In questo caso le donne trans, che volessero partecipare ai giochi, dovrebbero avere la possibilità di partecipare ai giochi nel sesso in cui più si sentono di appartenere. Poi c’è tutta la storia dei regolamenti: un uomo che gareggia contro una donna, o viceversa, può essere più o meno svantaggiato ma, quando c’è una scelta personale, si deve dare alle persone la libertà di scegliere. È una scelta che va oltre la possibilità di vincere più medaglie».
Heinrich/Dora Ratjen
Non ci addentriamo oltre nei contenuti del documentario di Gallo e lasciamo a chi legge la possibilità di godersi la visione di Le dee di Olimpia.
Con una consapevolezza in più: anche lo sport è politica e lotta.
Veniva da Cirò, ma durante gli anni ’30 per i giornali negli Usa Salvatore Caridi era il Mussolini americano. La sua famiglia, in realtà, era originaria di Gallico (RC), poi si era trasferita in quel paese oggi del Crotonese e all’epoca ancora in provincia di Catanzaro. Salvatore era nato lì nel 1891 e proprio tra Cirò e Crotone aveva fatto le scuole prima di dirigersi verso Roma per laurearsi in medicina. Nella capitale, però, Caridi aveva sviluppato presto anche altre passioni: quelle per la guerra e la politica.
Salvatore Caridi, un soldato da medaglia
E così a 20 anni si era arruolato nella Legione garibaldina. Sotto la guida di Ricciotti Garibaldi, insieme ad un altro paio di centinaia di volontari desiderava combattere per la liberazione dell’Albania dai turchi, nonostante il niet in tal senso del governo italiano. E volontario, Salvatore Caridi, era partito anche per la Grande Guerra. Era già medico a quel punto e gli toccò svolgere la professione in prima linea. Da tenente, riportò più di una ferita mentre prestava i suoi soccorsi ai soldati, conseguendo per questo numerose decorazioni al valore militare. Poi, con la pace, tornò a fare il medico in Calabria. Ma durò poco.
1941, milizie fasciste e membri della Legione garibaldina in piazza Venezia a Roma
Da Cirò agli States
Guerre laggiù non poteva combatterne, ma la passione per la politica lo portò fino alla poltrona di vice sindaco. In quel ruolo, si dedicò soprattutto alla toponomastica cittadina dando sfogo all’amore per i conflitti con l’intitolazione di molte strade a martiri del Risorgimento e luoghi di battaglie delle guerre d’Indipendenza. Poi – sarà perché, diceva Churchill, gli italiani vanno alla guerra come fosse una partita di calcio e vanno a una partita di calcio come fosse la guerra – importò nella sua Cirò quel football arrivato da Oltremanica e destinato a conquistare il mondo.
Ma a Salvatore Caridi la Calabria e i tornei di pallone in paese andavano stretti. Perciò, fresco di specializzazione in ginecologia, si imbarcò nel 1921 alla volta di New York per stabilirsi a Union City. E occupare le cronache nella doppia veste di filantropo e di leader fascista.
Salvatore Caridi, il “Mussolini americano”
Salvatore Caridi durante un raduno nazifascista in America
Caridi, infatti, non divenne soltanto un punto di riferimento per tante donne italoamericane che dovevano affrontare un parto. Iniziò a creare circoli culturali dove celebrare l’amore per la patria. E di lì a poco le camicie nere, che già infestavano il Bel Paese, fecero la loro prima apparizione pure negli States. Da presidente del North Hudson Chapter of the Italian War Veterans il medico calabrese riuscì ad arruolare in queste pseudosquadracce a stelle e strisce centinaia di ex combattenti della Grande Guerra filofascisti emigrati come lui negli States. E così, insieme a Giuseppe Santi e la sua newyorkese Lictor Association, divenne punto di riferimento dei mussoliniani d’America.
I nazisti del New Jersey
Da quelle parti, d’altronde, l’anticomunismo che animava Salvatore Caridi ha sempre fatto proseliti, oggi come allora, così come l’ultradestra. Prova ne è il momento di “massima gloria” politica del ginecologo cirotano. Siamo nel 1937 e nel suo New Jersey si svolge un grande raduno. In un’area di circa 100 acri si ritrovano i nazisti del German American Bundsotto la guida di Fritz Kuhn. Si passeggia in Adolf Hitler Strasse, i bimbi si godono i giochi per junge e mädel. Sfilano uomini in camicia bruna e svastica d’ordinanza, circondati da migliaia di braccia tese.
Kuhn sul palco tra saluti fascisti e nazisti
Ai raduni di Kuhn partecipano anche le camicie nere della Lictor Association
Nazifascisti a stelle e strisce
Svastiche e Stars and Stripes
Una strada a Camp Seigfreid
Piccoli nazisti americani crescono
Nazisti sfilano in New Jersey
Fascisti italoamericani a un raduno organizzato da Kuhn
Cotanto parterre de rois ammira sul palco, oltre a Kuhn, anche esponenti del Ku Klux Klan e lo stesso Salvatore Caridi. È lì accompagnato da 5-800 camicie nere. Imita la postura del suo idolo, saluta «gli amici nazisti» e invita tutti i presenti a «tirare un pugno sul naso a chi offende Mussolini o Hitler». Sogna un fronte nero-bruno comune anche su questa sponda dell’Atlantico.
Salvatore Caridi, un Mussolini tra gli enemy aliens
Il nazifascismo oltreoceano cresce ancora per un po’. Kuhn riempirà il Madison Square Garden nel 1939 con un altro maxi raduno in cui celebrerà George Washington come «il primo fascista della storia americana». In sala i «Free America» si mescolano ai «Sieg Heil», fuori 1.700 agenti di polizia tengono a bada la folla. Poi però con l’entrata in guerra degli Yankees cambia tutto. Fossimo stati in un romanzo di Philip K. Dick, Caridi e Kuhn di lì a poco sarebbero finiti alla Casa Bianca o giù di lì. In un film di Landis, al contrario, a bagno nell’acqua.
Nella realtà il führer degli States finisce a Sing Sing e viene invece rispedito in Germania di lì a breve, dove morirà nel 1951. Al Mussolini americano toccano in sorte la reclusione nei campi destinati agli enemy aliens, i nemici stranieri, un po’ come succedeva in Australia anche a chi magari fascista non era e l’addio alla cittadinanza. Suo figlio Nino, nel frattempo, combatte i pupilli del padre nella US Army 10th Mountain Division.
I nazisti si dirigono verso i Madison Square Garden sotto gli occhi della polizia
Le camicie brune sfilano a New York
Il Madison Square Garden pieno di nazisti
L’intervento di Fritz Kuhn con l’immagine di George Washington alle sue spalle
Le proteste all’ingresso del Madison Square Garden
Kuhn, terzo da sinistra, condotto in prigione dopo l’arresto per appropriazione indebita nel 1939
Cose buone
Una volta libero a guerra conclusa, Salvatore Caridi è tornato spesso in Calabria da New York, dove si è spento quasi novantenne nel 1980. Come nella vulgata sul dittatore di Predappio, il ginecologo calabrese nel suo paese come oltreoceano ha fatto anche cose buone. Niente treni in orario per lui o creazioni di istituti previdenziali già esistenti, però. Caridi in New Jersey è stato protagonista di numerose iniziative nel sociale a tutela degli immigrati italoamericani. Da ricordare, in tal senso, il suo impegno nella fondazione di un convalescenziario a Jersey City per i meno abbienti. C’è anche il suo nome tra quelli che la comunità italiana ha inciso sul basamento della statua di Cristoforo Colombo nella Hudson Bay, riporta l’Icsaic.
La camicia era nerissima, l’anima forse no.
Il racconto del fenomeno escursionistico in Aspromonte è una storia che intreccia diversi operatori e altrettante generazioni. Ciò che le unisce non è solo la passione per i sentieri. È il senso della riscoperta, del riconoscimento e della ricerca di uno sviluppo altro che esula dalla logica del consumo di massa. Questo viaggio che comincia ad Antonimina, passa da Bocale e finisce a Reggio Calabria.
Uno scorcio del centro storico di Antonimina
Racconta di tre generazioni di escursionisti che, inconsapevolmente, stanno fornendo un contributo cruciale alla valorizzazione e alla crescita dei territori dell’Aspromonte.
Si tratta di Nicola, di Diego e di Luca. Ritornati o restati che, dal 1995 ad oggi, si sono messi in cammino prima soli e poi seguiti da un pubblico sempre più attratto dai cammini e dal trekking.
Era già stato Luca Lombardi ad ammonirmi dal non pensare che l’Aspromonte conservasse questa verginità. Dalle storie di questi tre protagonisti è sortito un quadro che ha una storia trentennale. E che, col tempo e il mutare di certi stili, ha creato un comparto in cui operano molteplici realtà. Il viaggio di questa puntata non risiede tanto nello spazio, quanto nel tempo.
Nicola Pelle
(San) Nicola di Antonimina
Appena sopra Locri, aggrappata alla montagna è appollaiata Antonimina. Un toponimo greco, un luogo “ricco di fiori” di 1.200 abitanti, con il suo culto per San Nicola di Bari e la sua varia di legno massello, un ritmo di vita quieto sopravvissuto ai terremoti del 1783 e del 1908. Antonimina è terra di pastorizia, uliveti, acque termali e caciocavallo, fratello del più famoso di Ciminà.
Arrivo lì con Luca Lombardi ai primi di marzo in una giornata umida e annuvolata. Me la trovo di fronte come un grazioso presepe dominato a sinistra dal maestoso Monte San Pietro. Nicola Pelle, fondatore di Boschetto Fiorito e guida ambientale, ci aspetta in piazza. Il suo sorriso lo precede: «Benvenuti! Andiamo a prendere un caffè, prima di tutto».
Non so bene se Nicola sia un restato o un ritornato, ma mi dice che questa è la sua nuova vita. «Ho unalaurea in ingegneria informatica all’Unical, i miei programmi erano di partire per il Nord. In effetti ho vissuto fuori, convinto di dovere seguire uno schema che è il topos dei ragazzi calabresi. Poi ho scelto di tornare ad Antonimina. Collaboro ancora con il settore fotovoltaico di Siderno, ma punto a vivere solo di montagna. Adesso sono felice perché sono pagato per fare quello che mi piace».
Nicola Pelle e Luca Lombardi
Luca ride mentre camminiamo tra i viottoli che si imbudellano fin quasi nel ventre dell’Aspromonte. Li seguo arrancando. «Antonimina è un paese che, come molti altri, ha subito la piaga dello spopolamento. L’accoglienza diffusa, il nostro primo motore realizzato sfruttando la possibilità di creare ospitalità nelle nostre seconde case, ha riportato nuova vita. Chi viene qui è alla ricerca del selvaggio, dell’incontaminato, quasi dell’esotico. La sciura milanese che abbiamo ospitato qualche tempo era rimasta sbalordita dal fatto che la sconosciuta vicina di casa le avesse bussato alla porta con una tazza di caffè caldo da offrirle. Non riusciva a capacitarsi di un gesto simile. La ricchezza di Antonimina e delle esperienze che regaliamo è anche questa».
Aspromonte trekking: Boschetto Fiorito
Nicola, assieme a un gruppo di amici, appassionati di escursionismo, è tra gli animatori dell’associazione Boschetto Fiorito che promuove pacchetti dedicati a quello che definisce il turismo lento: «Accompagnando gruppi di italiani e stranieri che battevano i sentieri aspromontani, avevamo necessità di dare ospitalità. La ritrosìa dei miei compaesani guidati dal presupposto de “la casa è mia e non la do a nessuno”, ha piano piano ceduto il passo all’entusiasmo e agli affari. Siamo partiti così. A questo si sono affiancate le attività escursionistiche, il noleggio di attrezzature e materiale outdoor – ciaspole, tende e mountain bike elettriche per il cicloturismo – e l’accompagnamento in percorsi dedicati al turismo naturalistico, complice la vicinanza con il Monte San Pietro. Con un bando siamo riusciti a prendere in gestione una vecchia casermetta della forestale costruita ai primi del ‘900 e successivamente ristrutturata dal Comune in zona Zomaro. Un punto nevralgico per chi percorre il Sentiero Italia o la ciclovia, data la carenza di ricettività. Da lì non ci siamo più fermati, continuando ad arricchire la nostra offerta con le escursioni domenicali».
Dalla montagna al museo di Reggio
Arrivati a una terrazza che domina la vallata di fronte a cui svettano i Tre Pizzi del Monte San Pietro, Nicola di Antonimina si affaccia e il suo sguardo si perde. D’improvviso si volta e mi chiede: «Guarda quelle rocce. Non ti viene voglia di arrivare fin lì? Io ci salgo almeno una volta alla settimana e ogni volta mi chiedo come mai i locali siano così poco interessati al loro territorio. Per me è paradossale che lavoriamo più con gli stranieri che con gli autoctoni, pigri e meno curiosi. Ma parte del nostro lavoro è anche quello di incuriosire, di ravvivare la memoria, come i nostri genitori hanno fatto con noi. Stuzzicare i palati stranieri con l’esca dell’esotico è più semplice, vuoi perché il loro diventa più facilmente un viaggio dello spirito, vuoi perché il fascino del selvaggio e dell’incontaminato per popoli nordici come gli scandinavi, abituati a una montagna più curata e antropizzata, scaturisce naturalmente. La pandemia ha invertito il trend. Abbiamo avuto meno stranieri e più italiani. Il nostro modello di escursionismo non si limita alla montagna per la montagna, ma arriva alle visite al Museo Archeologico della Magna Grecia di Reggio Calabria dove sono custoditi molti reperti rinvenuti in questi territori, a Locri o Ianchina. Facciamo fare un viaggio a tutto tondo per compenetrare appieno i luoghi battuti. Un turismo che non è solo lento, ma bifronte: prevede una parte paesaggistica e una culturale capace di connettere biunivocamente entrambe le esperienze».
Il mare a due passi dalla montagna: meraviglie del trekking d’Aspromonte
Il fortino greco di Bregatorto
Nicola è tra coloro che nel 2015 hanno partecipato come volontari ai sondaggi di scavo che hanno scoperto l’esistenza del Fortino di Bregatorto, tra le più vaste fortificazioni greche mai rinvenute nell’area della Magna Grecia. Si tratta di una struttura militare nell’area del Puntone di Bregatorto posizionata sul percorso che collegava l’antica Locri alle sue colonie tirreniche.
Lo studio (qui la versione in inglese) pubblicato dal professor Paolo Visonà sulla rivista Fastionline dell’Associazione di Archeologia Classica, spiega che la fortificazione fu costruita per sorvegliare il passaggio che conduceva alle subcolonie locresi sull’altro versante. Simili strutture furono realizzate dai Greci di Rhegion e Kaulonia a Serro di Tavola (Sant’Eufemia), San Salvatore (Bova Superiore) e Monte Gallo (Placanica).
Lo studio ha fatto ipotizzare che i Locresi si servissero di un sistema di difesa del territorio basato su una serie di punti di controllo, situati alla periferia della Chora e protetti da massicci circondati di mura. Le indagini topografiche condotte tra il 2013 e il 2015 da un team della Foundation for Calabrian Archaeology e dell’Università di Kentucky miravano a verificare questo modello e ad identificare altri siti simili.
Me lo racconta mentre saliamo al rifugio: «Sono stati rinvenuti resti di fortificazioni, vasellame, e scarsamente metallo, data l’estrema umidità della zona. Alla fine è stato tutto reinterrato. Era impossibile partire con una vera e propria campagna di scavi senza fondi».
A spasso tra i sentieri innevati in Aspromonte
Il Turismo Lento come orizzonte di crescita
La carenza di fondi, la cattiva suddivisione delle competenze, la mancanza di una chiara strategia di sviluppo e valorizzazione del territorio e dei suoi patrimoni contribuisce a rallentare un processo di rinascita che è in atto sottotraccia da anni e che contrasta con ladisattenzione delle istituzioni.
Basti pensare alla questione dei caselli e dei rifugi che resta una ferita aperta. Esiste una molteplicità di strutture spesso abbandonate o in rovina e suddivise per competenza tra Comuni, Comunità Montane, Calabria Verde e, collateralmente, Ente Parco. La mappatura più completa è stata curata da Alfonso Picone Chiodo, autore veterano della montagna, e realizzata dal CAI.
Un patrimonio per il quale mancano spesso i fondi e le responsabilità di gestione vengono rimbalzate da un ente all’altro anche a causa di procedure burocratiche farraginose in cui è complesso districarsi.
«In Aspromonte ci sono tante realtà che forniscono servizi di qualità. Parlo di piccole imprese e di associazioni che hanno costruito un modello dal basso tarato sulle caratteristiche di un territorio che non insegue il consumo del turismo, ma che ha comunque necessità di crescere economicamente. Se è vero che la Calabria ha una vocazione turistica, non è possibile né corretto calare dall’alto format preconfezionati che non le si addicono. Il modello aspromontano è quello del turismo lento, fatto di qualità prima che di quantità, di incontaminato, di selvaggio, di borghi, di natura, di memoria. Dobbiamo mantenere, non snaturare. La connessione tra tutti noi operatori dimostra nei fatti che, anche se un sistema di cooperative non esiste formalmente, la collaborazione spontanea e il mutuo soccorso non mancano. Puntiamo a un turismo di nicchia, ma sappiamo bene che per raggiungere certi obiettivi servono almeno tre elementi: il coordinamento con le istituzioni, la conservazione della memoria e la trasmissione dei nostri patrimoni. Credo che l’operazione più riuscita sia oggi la Ciclovia dei Parchi della Calabria – 545 km di percorsi ciclabili ben realizzati dal Dipartimento Tutela dell’ambiente della Regione Calabria e il settore regionale Parchi -. A parte questa iniziativa le istituzioni appaiono distanti anni luce dalla realtà che viviamo. Senza dialogo e sinergia, per me che sono anche una guida, è impensabile raggiungere obiettivi comuni e condivisi. Così come è impossibile avviare un modello cooperativo strutturato. Mi chiedo perché».
Diego Festa
Misafumera, Aspromonte trekking
Nicola e il suo gruppo sono partiti dalla sensibilizzazione e dalla formazione, specie dei più giovani: giornate ecologiche, attività coi bambini, escursioni di promozione del territorio. «La parte economica è venuta dopo e non è ancora soddisfacente, mentre quella sociale continua ad esserci. Sono i nostri due polmoni, camminano di pari passo e l’uno è vettore dell’altro». La storia che mi racconta è il prosieguo di quella di Diego Festa, antesignano e memoria dell’escursionismo aspromontano, attivista e fondatore della srl Misafumera. Diego è un restato.
«Nato alla marina di Bocale, ho iniziato a frequentare l’Aspromonte nel 1995 con il CAI e dal primo giorno sono rimasto folgorato dal tesoro che ho trovato. A quel tempo chi presidiava il territorio erano le organizzazioni GEA, Gente in Aspromonte, e CAI. Nel 1997 ho frequentato il corso per Guida Ambientale Escursionistica legata a Sentiero Italia. Eravamo agli albori e io sono entrato in punta di piedi: la montagna non era frequentata e noi venivamo guardati come alieni. Tutto è cominciato con l’incontro di Antonio Barca e Aldo Rizzo. Abbiamo costituito un’associazione e siamo partiti. I pochi che allora andavano a camminare erano impreparati sotto ogni punto di vista. Man mano, attraverso il CAI, iniziarono ad arrivare i primi gruppi di escursionisti dal Nord Italia. Così è cominciato tutto».
L’esplosione dell’escursionismo in Aspromonte
Oggi Misafumera è un ente economico che si occupa di escursionismo in tutto il Sud Italia, dalla Costiera Amalfitana a Lampedusa, ma conserva l’anima sociale da cui è partito. Negli anni si è battuto per la tutela del territorio e la difesa del suo ambiente, partecipando a campagne antibracconaggio, al rilievo, catasto e manutenzione dei sentieri in Aspromonte. Ha realizzato diversi progetti di educazione ambientale con le scuole del territorio reggino e partecipato a varie iniziative per la sua tutela.
«Negli anni l’escursionismo in Aspromonte si è trasformato: si è abbassata l’età media, è fiorito il senso per la montagna. Nell’ultimo decennio c’è stato uno stravolgimento: dal 2016 una vera e propria esplosione della domanda raccolta dai tanti gruppi come Boschetto Fiorito che abbiamo incoraggiato ad operare. Non c’è dubbio che Internet abbia spinto molto questo processo. Ciò ha favorito uno sviluppo culturale che è oggi tutto in mano alla nuova generazione. Seppur più lentamente che in altri territori, il cambiamento è in atto».
I colori dell’Aspromonte
Le istituzioni assenti
Diego è tra quelli che biasima le istituzioni. Ed è convinto che chi fa da sé faccia per tre: «Parlare di interesse degli enti locali o di amministrazioni per la montagna è una follia. O meglio, l’interesse c’è ma è collegato alle nomine. Un esempio per tutti, ormai datato, il ridimensionamento del Parco approvato dal Ministero e dall’Ente Parco: 10.000 ettari in meno, con un’area a tutela integrale che oggi lambisce il confine esterno del Parco e i territori dei Comuni che creano corridoi fin dentro il suo cuore. Spesso mi chiedo come stia proseguendo il progetto per la reintroduzione del Nibbio reale del 2021, a che punto sia la programmazione per altre progettualità, che strategia abbiano i Comuni e la Città metropolitana. Non riesco a darmi una risposta. Percepisco piuttosto un deficit di comunicazione e di confronto, una difficoltà a coinvolgere gli operatori nella co-progettazione. A quanto posso vedere l’unica cosa ben fatta e riuscita è la Ciclovia. Talmente ben fatta che è citata in diverse guide di settore. Non succede così spesso per la Calabria».
PerlAspromonte: tutelare e riscoprire i patrimoni
Misafumera è qualcosa che ritorna anche nella storia di Luca Laganà, cestista professionista reggino con un passato a Reggio Emilia e un presente a Reggio.
È un ritornato, fondatore dell’associazionePerlAspromonteche, i prossimi 13 e 14 maggio, organizza a Gambarie il Festival Mana GI. É tra gli ultimi arrivati nel settore dell’escursionismo. «Mi trovavo a Monte Misafumera, avamposto Nord della montagna, quando ho incrociato quelli che oggi sono diventati i miei soci. Si è cominciato a parlare di cosa potessimo fare per il nostro territorio durante la stagione degli incendi. Siamo partiti con una raccolta fondi in crowdfunding con cui abbiamo acquistato attrezzi, guanti, scarponi antincendio da fornire a chi era impegnato nelle spegnimento. E abbiamo promosso la campagna di sensibilizzazione “Artisti Uniti per la Calabria”, producendo insieme a Christian Zuin, dj veneto trasferitosi a Monasterace il brano Per Rinascere . Oltre all’escursionismo, lavoriamo per formare e sensibilizzare la cittadinanza assieme alle Guide del Parco, Plastic Free e tante altre realtà. Il trekking non è solo un’attività diportistica, ma uno strumento per divulgare la memoria e la ricchezza culturale del nostro territorio. Il prossimo week-end sarà l’occasione per condividere esperienze e rafforzare una rete che c’è, ma è ancora troppo chiusa e deve crescere. Bisogna investire di più in cultura e tutela del patrimonio. Non a caso, uscirà presto il mio primo libro Cara Reggio, ti presento…, dedicato ai reggini che vogliono riscoprire il loro territorio. Non può esserci futuro senza consapevolezza del passato».
Le risorse del tutto nel niente
Questo paradigma del vuoto e del pieno – che da una parte ha tolto e dall’altra ha custodito -, del tutto nel niente, della ricchezza nell’abbandono, delle radici, della memoria è il filo rosso che collega le storie e le esperienze di Nicola, Diego e Luca. Tra attività sociali e ricerca di un modello di crescita economica disegnato sulle caratteristiche proprie dei loro territori, il turismo lento si fa strada. Diventa una cultura diffusa con cui riscoprire da dove veniamo, chi siamo e dove stiamo andando.
Servono ancora molti tasselli per comporre il puzzle. Bisogna dissipare certe ombre per portare più luce, formando alla bellezza, al rispetto e alla tutela. Prima di tutto però serve chiarezza: attendiamo di capire come si siano concluse le indagini sugli incendi del 2021 e come sia stato affrontato il problema dello smaltimento abusivo di amianto con discariche abusive individuate nel 2014, nel 2019 e ancora nel 2021.
Un problema che rischia di distruggere l’immaginario di incontaminato per cui l’Aspromonte viene visitato e desiderato. E l’escursionismo, con le sue generazioni che si passano il testimone battendo migliaia di ettari di territorio palmo a palmo, tra ricchezze naturalistiche e patrimoni culturali troppo spesso dimenticati e sottovalutati da istituzioni ed enti locali, può tracciare un sentiero da percorrere.
Nelle scorse ore, e proprio mentre scrivevo, è stata messa in atto la più importante operazione internazionale contro la ‘ndrangheta mai realizzata. Oltre 200 arresti con esponenti di spicco finiti in galera in tutta Europa e i titoli delle pagine dei giornali di mezzo mondo dedicati alla criminalità dell’Aspromonte che, dalla Locride, allungava le sue braccia in mezzo mondo. É ormai noto come la strategia dei boss sia quella di tenere un basso profilo a casa: i territori di appartenenza devono versare nel sottosviluppo per restare schiavi del dominio criminale. Sostenere e narrare la vivacità della nuova economia che ho raccontato può invece segnare un punto a favore di crescita e legalità.
Se l’equilibrio è un mistero, come recita una sua canzone, figuriamoci tutto il resto. Un caffè veloce, quelle sigarette masticate tra i denti più che fumate. Passo felpato e veloce, come si addice a un’ala sinistra, oggi la chiamerebbero punta esterna. Un tempo giocava pure a calcio. Non male, dicono. Dice. Proprio in quel ruolo.
Daniele Moraca è un personaggio da Memorie dal sottosuolo, come quelle stanze inabissate sotto l’ingresso dell’autostrada che ha ribattezzato Cotton Club studio. Vai a sapere perché!
Gli anni passano, i capelli restano lunghi. Non come quelli di Amedeo Minghi che svaniscono tra i decenni. Una metamorfosi continua fino a somigliare sempre di più allo scrittore e alpino Mario Rigoni Stern. Cercate su google una sua foto se non ci credete.
Un particolare del Cotton club studio di Daniele Moraca
Cotton club Moraca
La tana di Daniele Moraca è il Cotton Club studio. Un luogo dell’anima prima di essere un perimetro di muri e oggetti. Chitarre e Dylan Dog, vinili e foto cinefile, libri di Calvino e Kamasutra. Divanetti ormai sprofondati sotto il peso di chissà cosa. Una pianola confinata sulla sinistra fa molto anni 80. Ogni tanto si siede e tira fuori qualche nota, quando si rompe le scatole di pizzicare corde.
«Cotton Club studio nasce nei primi anni Novanta. Eravamo nei magazzini a suonare. Si avvertiva già la discesa inesorabile di una città, di un Paese. Ho trovato la mia casa nella casa, oppure la casa sull’albero, fai tu».
Cinema e cantautori
«Ho amato il cinema in bianco e nero. Il Neorealismo in primis. E poiCitto Maselli, scomparso da poco. Forse era il 2000, organizzai una rassegna su di lui a Lamezia. Venne con la moglie, fu una settimana incredibile. Un combattente, uno che non si è piegato alle mode della settima arte».
Ma esiste una identità musicale di Moraca? «Esce fuori – dice – dalle mie canzoni, da quelle degli altri che canto. Le contaminazioni fanno parte di ciascuno di noi. Tenco, Indrigo, Dalla, De André. Quanta storia della musica c’è in personaggi del genere».
Da sinistra Sasà Calabrese, Dario De Luca e Daniele Moraca al Cotton Club studio
Quei bravi ragazzi
Da tre anni non ci siamo fermati. È una cosa molto bella. Con Sasà Calabrese e Dario De Luca siamo impegnati in questo ciclo di concerti dedicati proprio a Lucio Dalla e Fabrizio De André che non smette di appassionare il pubblico in tutta Italia.
Daniele Moraca inizia a suonare a 9 anni grazie a suo fratello Paolo in quel di Colosimi, piccolo paese montano. Come da copione gli ha «messo in mano una chitarra, una Eco». Sale sui palchi delle Feste dell’Unità, quando ancora avevano un senso e una religione laica da difendere.
Gli esordi a 13 anni. La prima canzone in assoluto è Quell’uomo. Il titolo segna già il cammino di un musicista che guarda dentro e si guarda dentro.
Un pugno nello stomaco
Sarajevo è il classico pugno nello stomaco per Moraca. «Ogni tanto spunta quel dolore. Sono stato in Bosnia per un concerto patrocinato dall’Unione Europea. Non dimenticherò mai tutte quelle tombe e una città che portava ancora i segni della polveriera balcanica».
L’esperienza nelle Isole Faroe non è stata solo una tappa musicale. Si è trattato di un «viaggio di studio e ricerca quando collaboravo con Cesare Pitto, professore e antropologo dell’Università della Calabria». Oggi Moraca insegna nelle scuole superiori. Sempre con un chitarra in spalla, immancabile anche in classe.
Daniele Moraca sul palco del Festival delle Serre a Cerisano
Una canzone per te
Si racconta attraverso una canzone: «Non basterebbero tutte (ride ndr). Ma ne scelgo una. Si chiama Un disegno perfetto, esplora la bellezza dell’infanzia e parla del figlio che non ho mai avuto e mi sarebbe piaciuto abbracciare». Questo abbraccio è per «tutti i bambini», compresi quelli che hanno «perso la vita a pochi metri dalla spiaggia di Cutro».
E l’amore? Quello vissuto, perso, svanito? «Ho cantato questo sentimento in tante liriche. Ma adesso mi fermo al capolinea di una canzone su tutte: Ho semplicemente rimosso».
Chi e cosa ha rimosso non è dato saperlo. Resta tra i tanti misteri nascosti sotto la polvere di Cotton club studio.
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