Categoria: Cultura

  • Invasioni 2023, un luglio elettronico a Cosenza

    Invasioni 2023, un luglio elettronico a Cosenza

    Dopo qualche pausa qua e là negli ultimi anni, il 2023 segna il ritorno del Festival delle Invasioni a Cosenza, più moderno che mai eppure dal retrogusto nostalgico. La kermesse che ha caratterizzato le estati bruzie da una ventina d’anni a questa parte torna alle atmosfere post-punk e ai suoni elettronici degli albori. A dimostrarlo, la presentazione di oggi pomeriggio a Palazzo dei Bruzi, col programma svelato dopo settimane d’attesa.

    L’organizzazione del festival

    Il compito di organizzare il Festival che vide tra i suoi ideatori il compianto Franco Dionesalvi questa volta è toccato a Paolo Visci. È lui il direttore artistico di questa edizione, ma un contributo è arrivato anche dal consigliere comunale Francesco Graziadio. La logistica, invece, sarà cura di “L’altro teatro”, ossia Pino Citrigno e Gianluigi Fabiano.
    Invasioni 2023 sarà una due giorni di musica nel centro storico di Cosenza. I concerti si terranno infatti in piazza XV marzo e nella Villa Vecchia. Le date scelte dal Comune sono il 13 e il 14 di luglio.

    Cosenza, Invasioni 2023: il programma

    Questo il programma del Festival delle Invasioni 2023 a Cosenza:

    Giovedì 13 luglio:

    • The Bug feat Flowdan
    • Clock Dva
    • Bono/Burattini
    • Sonic Jesus
    • Alessandro Baris pres. Sintesi live a/v

    Venerdì 14 luglio:

    • Elektro Guzzi
    • Ghetto Kumbè
    • La Nina
    • Khompa pres Perceive Reality a/v
  • Bernardino Alimena: il sindaco che inventò la Criminologia

    Bernardino Alimena: il sindaco che inventò la Criminologia

    Il ricordo più visibile che gli ha dedicato Cosenza è una strada abbastanza importante, di cui condivide l’intestazione con suo padre Francesco. I più la conoscono perché c’è la sede dell’Azienda sanitaria provinciale e perché la sera ci si ritrovano i ragazzi, come si faceva una volta a piazza Kennedy.
    Altri ne ricordano il nome per averlo incrociato nella Parte generale di qualche manuale di Diritto penale, ma non ricordano il perché, tranne qualche giurista più anziano e colto. In realtà, Bernardino Alimena meriterebbe di più. Anche della retorica con cui lo celebra in qualche circolo .
    Per capire perché, partiamo da alcune domande banali (e basilari): delinquenti si nasce o si diventa? Perché si delinque? È vero che la tentazione fa l’uomo ladro?

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    Bernardino Alimena

    Emergenza criminale fin de siècle

    Rispondere, più che impossibile, sarebbe ridicolo: tuttora i criminologi si scervellano su questi argomenti. Ma a fine Ottocento, quando Alimena elaborava le sue teorie giuridiche, questi problemi erano ancora più pressanti: l’Italia non aveva fatto a tempo a nascere, che subito fu costretta ad affrontare la sua prima emergenza criminale.
    Il banditismo, già endemico in parecchie zone, si politicizza ed evolve in brigantaggio, la prima forma di criminalità organizzata. Soprattutto al Sud, ma anche in alcuni ex territori pontifici (Emilia e basso Lazio) e in Toscana.
    Anche il resto del Paese non scherza: le grandi città (Napoli, Milano e Palermo) sono insicure, i centri di provincia pullulano di microcriminalità e le carceri si riempiono.

    A complicare il tutto, c’è l’enorme pressione demografica: dall’Unità al 1890 gli italiani aumentano del 40%.
    Quel che è peggio, il Paese non ha strumenti adatti per affrontare quest’emergenza. Si pensi che per avere il primo Codice penale italiano ci vuole il 1871. Stesso discorso per l’omologazione del sistema carcerario e della Pubblica sicurezza.
    Questo basta a far capire l’importanza della generazione di giuristi (e non solo) di cui Bernardino Alimena fu un elemento di spicco.

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    Maria Oliverio detta Ciccilla, celebre brigantessa calabrese

    Bernardino Alimena figlio di patriota

    Alimena, classe 1861, nasce praticamente con l’Italia e respira da subito il Diritto penale: suo padre Francesco, oltre che patriota risorgimentale e deputato per tre legislature (dal 1882 al 1892), è un avvocato famosissimo, dall’oratoria travolgente. Il tipico principe del foro, insomma.
    Dopo aver studiato Giurisprudenza a Napoli (un classico per gli aspiranti giuristi dell’epoca) ed essersi laureato a Roma nel 1885, Bernardino prende un’altra strada. Frequenta poco i Tribunali, a cui preferisce la ricerca e si dà alla politica, dove, grazie anche al peso del suo cognome, ottiene risultati apprezzabili: diventa prima consigliere comunale di Cosenza e poi, nel 1889, sindaco. Il primo non di nomina regia ma eletto direttamente dai cittadini.

    Ma la teoria giuridica resta il suo pallino, come testimoniano le tante pubblicazioni e, soprattutto, gli incarichi accademici. Nel 1889 ottiene la libera docenza di Diritto penale a Napoli a cui aggiunge, l’anno successivo, quella in Procedura penale. Ma, a causa degli impegni della ricerca e (soprattutto) della politica, inizia i corsi solo nel 1894, con una prolusione dal titolo significativo: La scuola critica di diritto penale. Non la citiamo a caso: sin dal titolo, contiene l’abc dell’Alimena-pensiero.
    Il salto di qualità avviene nel 1898, quando il giurista cosentino ottiene la docenza straordinaria in Diritto penale all’Università di Cagliari e, infine, quella ordinaria nella medesima materia a Cagliari.
    Nel mezzo, c’è un popò di pubblicazioni dai titoli (e dai contenuti) pesanti. Più una serie di polemiche che hanno un bersaglio ben preciso: la Scuola positiva del Diritto penale, che in quel momento va per la maggiore, e, soprattutto, il suo fondatore, Cesare Lombroso.

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    Il monumento a Cesare Lombroso

    Il primo fu Lombroso

    La tradizione penale italiana ha avuto almeno tre grandi iniziatori: i milanesi Cesare Beccaria e Pietro Verri e il napoletano Gaetano Filangieri.
    Sono i capicorrente della Scuola classica, che concepisce il diritto penale come un sistema di difesa dell’individuo dal potere. A fine ’800 le loro tesi non servono più, se non a motivare le arringhe degli avvocati.
    Di fronte alla criminalità di massa, occorre altro. Vi provvede per primo, appunto, Cesare Lombroso, che formula la celebre tesi dell’atavismo criminale.

    Lombroso, che è un medico e non un giurista, ha essenzialmente un merito: sposta l’attenzione dal reato al reo. In altre parole, studia i delinquenti e mette in secondo piano i delitti. Il delinquente, secondo la teoria lombrosiana, è tale o perché costretto dalle circostanze, o perché ha tendenze naturali (innate ed ereditarie) a delinquere.
    Il primo è una persona normale, a cui si può applicare il diritto; il secondo è un deviante per nascita, che al massimo può essere isolato dalla società per il suo stesso bene.

    E qui arrivano gli aspetti più “piccanti” e controversi del pensiero lombrosiano. Innanzitutto, l’atavismo criminale, che si riconosce da alcuni difetti fisici del reo (la fronte bassa, gli arti tozzi, la celebre “fossetta occipitale mediana”, gli zigomi pronunciati, il mento troppo sfuggente o troppo prominente, ecc.).
    Da qui al rischio di un razzismo sotto mentite spoglie il passo sarebbe breve. Ma, ad onor del vero, va detto che Lombroso non l’ha mai fatto: non ha mai detto che un popolo o una razza è potenzialmente più criminale di un’altra.

    Il Museo Lombroso di Torino

    I limiti del positivismo

    I limiti di questo pensiero, semmai sono altri. Il positivismo, innanzitutto, minimizza il ruolo della volontà e del libero arbitrio: il delinquente nato non può che delinquere per vocazione. Poi riduce la funzione della pena a una sola cosa: la difesa sociale.
    In questa visione determinista, quasi meccanica, il ruolo del giurista è ridimensionato a favore di quello dell’antropologo.
    Il giurista, in altre parole, serve a punire o ad assolvere la persona normale, che è punibile (e quindi rieducabile) perché dotato di volontà e capacità di scelta. Lo scienziato serve a identificare il delinquente nato che, ripetiamo, può solo essere isolato. Fine della storia.
    Le teorie lombrosiane, per quanto celebri e dibattute, hanno inciso poco nel mondo giuridico. La loro vera utilità è stato lo stimolo alla polizia scientifica, inaugurata in Italia da Salvatore Ottolenghi, allievo di Lombroso. A questo punto, torniamo a Bernardino Alimena.

    Bernardino Alimena e la Terza scuola

    Reprimere i reati non è roba da medici o antropologi. Tocca ai giuristi. È, in parole povere, il concetto sostenuto da Alimena che, assieme a Emanuele Carnevale e Giovanni Battista Impollimeni, fonda la Terza scuola o Scuola critica.
    Questa è un mix tra le due correnti precedenti. In pratica, Alimena&Co saccheggiano qui e lì ed elaborano una visione più avanzata e meno rigida sia del garantismo settecentesco sia del positivismo lombrosiano.
    Il primo concetto su cui agisce Alimena è il libero arbitrio, che per lui è la capacità di fare ciò che si vuole. Per Lombroso, al contrario il libero arbitrio è capacità di volere una cosa anziché un’altra. Nello specifico di delinquere o meno, cosa che è preclusa al delinquente nato.

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    Salvatore Ottolenghi

    Bernardino Alimena vs Cesare Lombroso

    Ancora: per i positivisti lombrosiani, il comportamento antisociale del delinquente è tale solo in rapporto alle regole della società. Per Bernardino Alimena, invece, i comportamenti antisociali sono valutabili in due modi: filosofico e morale, perché esiste comunque un senso assoluto del bene e del male, e sociale. Di questo aspetto, appunto, si occupa il Diritto penale.
    Ma quando un delinquente è davvero imputabile? Per Lombroso sono imputabili, cioè possono rispondere dei reati ed essere puntiti, solo le persone sane. Per Alimena, invece, sono imputabili tutte le persone capaci di autodeterminarsi e suscettibili di essere dirette anche attraverso la pena. In altre parole: chi teme la pena può sempre essere punito (e, se possibile, recuperato). Ciò vale anche per le persone con tendenze naturali a delinquere. Quindi i criminali atavici, secondo Alimena, sono una minoranza borderline e non la maggioranza dei delinquenti, come invece sostengono i lombrosiani.

    Un duello internazionale

    Tutto questo, oggi sembra facile perché è acquisito. Ma nella seconda metà del XIX secolo è una novità dirompente.
    Non a caso, il dibattito tra lombrosiani e terza scuola si svolge dappertutto: in particolare all’estero. Bernardino Alimena partecipa a vari congressi che si svolgono a Parigi (1889 e 1895), San Pietroburgo (1890), Bruxelles (1892 e 1900) e a Budapest (1905).
    In questi dibattiti, l’intellettuale cosentino non si limita a criticare Lombroso e la sua scuola. Ma formula proposte pratiche interessanti: tra queste l’istituzione delle giurie popolari e la riforma delle carceri minorili. Tra i tanti altri impegni di Alimena, val la pena di segnalare la partecipazione alla commissione incaricata di redigere il Codice penale del Regno del Montenegro, che nel 1910 proclama l’indipendenza dall’Impero Ottomano.

    Nicola I del Montenegro

    Un notabile in carriera

    La parte più conosciuta della vita di Bernardino Alimena è essenzialmente la carriera politica, che tuttavia è poca cosa rispetto all’attività intellettuale.
    Oltre alla presenza di lungo corso nel consiglio comunale di Cosenza – che Alimena non ha mai mollato, nonostante la sua attività frenetica in giro per il Paese e in Europa – si segnalano due sue candidature alla Camera.
    La prima è del 1909. Alimena vince nel collegio della sua città con l’appoggio dei cattolici, che gli assicurano 999 voti al primo turno e 1.598 al secondo. Tuttavia, il neodeputato non fa in tempo a sedere alla Camera che la giunta per le elezioni gli contesta presunte irregolarità elettorali e annulla il voto.
    Ci riprova nel 1913 e becca più voti: 3.737, che però non gli bastano, perché nel frattempo il corpo elettorale si è allargato.

    Rapporti che contano

    Tanta popolarità deriva da due fattori: l’attaccamento alla città e l’impegno culturale, profuso con l’Accademia cosentina, di cui diventa presidente, e attraverso il Circolo di cultura, fondato assieme a Pasquale Rossi.
    Anche l’appartenenza al notabilato dell’epoca ha il suo peso. Al riguardo, non è certa l’appartenenza di Bernardino Alimena alla massoneria. Ma i rapporti che contano li ha tutti. Ad esempio, con Luigi Fera e Bonaventura Zumbini, di cui sposa la nipote Maria nel 1897.
    Muore nel 1915, poco dopo l’entrata in guerra dell’Italia.
    Lascia uno stuolo di ammiratori, tra cui Alfredo Rocco, astro nascente della scienza penale e futuro autore dei codici penale e di procedura penale. Rocco definirà Alimena «soprattutto un cultore di psicologia e sociologia criminale, non giureconsulto in senso stretto». Come dire: troppo colto per essere solo un giurista. Mica male come complimento.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Giacomo “Big Jim” Colosimo: il re lenone

    Giacomo “Big Jim” Colosimo: il re lenone

    Si chiamava Colosimo, Giacomo Colosimo, e a Chicago era arrivato da… Colosimi, piccolo centro del Savuto cosentino al confine con la provincia di Catanzaro. Ma lì in Illinois avevano cominciato presto a conoscerlo con altri due nomi. Il primo era Big Jim, per la stazza non indifferente. Il secondo, Diamond Jim: adorava ostentare pietre preziose sul pomo del bastone, il fermacravatta, la cintura, il bavero di giacche e cappotti, persino le ghette.
    Ma come aveva fatto quel giovane calabrese emigrato negli States in cerca di fortuna a trasformarsi in Diamond Jim? La risposta sta in due parole: Chicago Outfit.
    La moda, però, con questa storia non c’entra nulla. L’Outfit di Big Jim Colosimo è la mafia di Chicago. La chiamano così, comanda nella Windy City da oltre un secolo. E l’ha creata proprio lui.

    Hinky Dink e Bathouse: Big Jim Colosimo si prende il Leeve di Chicago

    Giacomo arriva a Chicago con papà Luigi e mamma Giuseppina nel 1885 e all’inizio ci prova pure a guadagnarsi il pane onestamente. Consegna giornali, fa lo sciuscià, lavora alle ferrovie. Ma per arrotondare passa presto a furti ed estorsioni mentre, sulla carta, fa lo spazzino. È con quest’ultimo lavoro che conquista i favori di due dei politici più corrotti che Chicago abbia mai avuto: Michael Hinky Dink Kenna e John Bathouse Coughlin.
    Sono loro a comandare nel Levee, il distretto del vizio della viziosissima Chicago, e Big Jim Colosimo gli procura un bel po’ di voti oltre a raccogliere per i due aldermen il pizzo nel quartiere.

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    “Hinky Dink” Kenna e “Bathouse” Coughlin

    Il re lenone e la regina Victoria

    Il calabrese ha carisma da vendere e pochi scrupoli. Gli piacciono tre cose: i soldi, le donne, l’Opera. Grazie alle prime due scopre la sua vera “vocazione” criminale: fare il magnaccia.
    È così che comincia a farsi un nome in certi ambienti e conosce Victoria Moresco. Lei è la tenutaria di due bordelli a Levee. È obesa, più anziana ed è pazza di lui. Jim fiuta l’occasione e nel giro di una settimana la sposa, diventando il gestore delle sua attività. Per ogni cliente che paga 2 dollari “a consumazione”, lui ne incassa 1,20. E i clienti sono tanti. Sempre di più.

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    Victoria (prima a sinistra) e sua sorella con Jim e famiglia

    Circa dodici mesi dopo le nozze, le case del piacere a Levee sotto il controllo di Big Jim Colosimo sono diventate trentacinque. In pochi anni se ne aggiungeranno centinaia, non solo in città. I bordelli più famosi sono il Saratoga e il Victoria, lo chiama così in onore della sua signora. E poi ci sono bische, scommesse, bar e saloon a rimpinguare ulteriormente le casse. I giornali locali lo chiamano vice lord, il Signore del vizio.

    La tratta delle bianche

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    Big Jim Colosimo, il re del vizio a Chicago

    Big Jim e le sue ragazze soddisfano le esigenze di qualsiasi cliente, da quelli che possono spendere pochi spiccioli ai più ricchi e perversi. Nel 1908 buona parte dell’underworld della città è nelle sue mani e anche la “Chicago bene” è di casa nei suoi locali.
    Il suo impero si fonda soprattutto sulla prostituzione, settore che nella metropoli nordamericana degli anni ’10 muove un giro d’affari stimato in 16 milioni di dollari dell’epoca e “impiega” oltre 5.000 persone.
    Per un business del genere servono continuamente forze fresche. Così tra il 1904 e il 1909 Big Jim Colosimo si dedica alla tratta delle bianche tra Chicago, St. Louis, Milwaukee e New York insieme a Maurice e Julia Van Bever, una coppia proprietaria di due bordelli vicini ai suoi.

    La Mano Nera

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    Il fac simile di una tipica lettera della Mano Nera negli States ai primi del ‘900

    Si stima che i tre facciano arrivare in quegli anni oltre 6.000 ragazze, quasi sempre minorenni, nel Levee. Le rapiscono, le drogano, le fanno stuprare dai loro uomini. Poi le mettono a lavorare in qualche casa chiusa o le vendono a qualche altro pappone per farle prostituire in strada. Per Big Jim è un affare da 600mila dollari all’anno, una cifra monstre ai primi del ‘900.
    Tutto quel denaro lo trasforma in Diamond Jim e, come spesso accade negli ambienti malavitosi, quell’ascesa irresistibile si rivelerà fatale per lui.
    A Colosimo nel 1909 arriva una lettera. C’è scritto che deve pagare 5.000 dollari se non vuole guai. E in fondo al foglio c’è una firma che può dare problemi anche a uno come lui che ha sul proprio libro paga gran parte della polizia e della politica locale: una mano nera.

    La Mano Nera è un insieme tanto eterogeneo quanto temibile di criminali italiani che vessano i propri connazionali in America. Nella sola Chicago, tra il 1895 e il 1905, ha ucciso oltre 400 persone che hanno rifiutato di piegarsi alle sue richieste. Colpisce anche fuori dagli Usa se necessario e i calabresi lo sanno bene.
    Big Jim Colosimo stesso ha lavorato per la Mano Nera nei suoi primi anni a Chicago. È del mestiere, insomma, e sa che se acconsente a pagare gli arriveranno presto nuove lettere e richieste di somme sempre più alte. Decide di sborsare il denaro la prima volta, ma azzecca la previsione e la Mano Nera non tarda a rifarsi viva. Stavolta di dollari ne vuole 50mila, il decuplo, e ne vorrà ancora di più se il re dei bordelli accetterà nuovamente di pagare.

    Big Jim Colosimo e l’arrivo di Johnny Torrio a Chicago

    Così Big Jim ne parla con Victoria e lei lo mette in contatto con suo nipote a New York: Giovanni “Johnny” Torrio. Ha già fatto parecchia strada nella malavita della Big Apple, lo chiamano The Fox, la volpe, o Papa Johnny per la sua capacità di mediare tra capi. Le arti diplomatiche di Johnny a Chicago però non balzano subito all’occhio, anzi.

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    Johnny Torrio

    Organizza un incontro con tre emissari della Mano Nera, ma ad aspettarli ci sono i sicari di Torrio che li freddano sotto un ponte. Un anno dopo fa eliminare un altro rompiscatole, Sunny Jim Cusmano. E sorte simile attende anche una prostituta-schiava scappata da un bordello di Colosimo che vuole testimoniare contro di lui in tribunale. È nascosta a Bridgeport, Connecticut, in attesa del processo quando alla sua porta bussano alcuni uomini. Si presentano come agenti federali, la fanno salire su una macchina, le scaricano dodici pallottole in corpo.
    Processo sulla tratta delle bianche chiuso.

    Il Colosimo’s e Dale Winter

    La serenità ritrovata non è l’unico beneficio dell’arrivo di Johnny. Big Jim si dedica sempre di più al locale dei suoi sogni, il Colosimo’s, che ha aperto nel 1910 al 2126-28 di South Wabash Avenue, il miglior ristorante di tutta Chicago. Ci puoi trovare seduto il grande Enrico Caruso e al tavolo accanto un gangster sanguinario o un membro del Congresso. E dal 1913 ci canta lei: Dale Winter.

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    L’interno del Colosimo’s, il ristorante di Big Jim

    A Colosimo l’ha fatta scoprire un giornalista che l’ha ascoltata cantare nel coro di una chiesa metodista da quelle parti. Viene dall’Ohio, ha una ventina d’anni, sogna di esibirsi all’Opera ed è molto carina. Big Jim se ne innamora. La porta nel suo locale e ne fa la stella, le paga lezioni di canto coi migliori insegnanti. E Dale, a sua volta, lo trasforma: il re lenone ora indossa abiti meno sgargianti, mette da parte i gioielli e i modi bruschi, studia meglio l’inglese che non ha mai davvero imparato. E a Chicago qualcuno inizia a chiedersi: Big Jim Colosimo si è rammollito?

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    1917, la pubblicità di una serata al Colosimo’s con Dale Winter protagonista

    Big Jim Colosimo e il Chicago Outfit

    Rammollito o meno, gli affari proseguono alla grande però. A occuparsi di tutto è Johnny Torrio, ormai braccio destro dello zio, dal suo ufficio nel Four Deuces, un bordello da pochi soldi con annesse bisca e sala torture che ha aperto poco distante dal Colosimo’s. Johnny non beve, non fuma, non va a donne e ogni sera, se può, la passa con sua moglie a casa. Non ama sporcarsi le mani e ha sempre l’idea giusta.

    Quando il sindaco democratico nella prima metà degli anni ’10 prende di mira il Levee e manda la Buoncostume a chiudere i bordelli, lui dissemina le ragazze in migliaia di appartamenti sparsi per il quartiere. E a poco a poco gli altri “imprenditori del settore” si mettono sotto l’ala protettrice di Big Jim Colosimo e Johnny Torrio: è nato il Chicago Outfit.

    I due iniziano ad aprire nuovi casini fuori città, lungo il confine con l’Indiana. Sono autentiche roadhouse del piacere da cui clienti e prostitute – si alternano 90 ragazze al giorno – possono varcare in un attimo la frontiera in caso arrivi la polizia e schivare l’arresto. Ad avvisare Johnny e i suoi di eventuali pericoli sono i benzinai lungo la strada, che fanno affari d’oro con tutte quelle macchine da quelle parti.

    1919: «We’ll stay with the whores, Johnny»

    L’anno della svolta è il 1919. Con l’elezione del nuovo sindaco repubblicano William Hale Thompson nel 1915, il Chicago Outfit ha di nuovo chi gli consente di spadroneggiare in città da qualche anno. Ma nel ’19 entra in vigore il Volstead Act, la legge che dà il via al Proibizionismo. E nello stesso tempo Big Jim decide di lasciare sua moglie Victoria, la zia di Johnny, per sposare Dale.
    «È quella giusta», dice al socio per spiegarli la scelta, quello commenta: «Sarà il tuo funerale».

    Una manifestazione contro il Proibizionismo nell’America degli Anni ’20: «Vogliamo la birra»

    Non va meglio quando parlano di alcolici. Secondo Johnny Torrio il Volstead Act è il più grande regalo che lo Stato potesse far loro: quelli che bevevano – e sono tanti – vorranno bere ancora di più ora che è vietato e a dissetarli di nascosto e a caro prezzo saranno proprio lui e Big Jim. Con la polizia locale già al loro servizio e gli immobili che hanno, si prospettano affari d’oro. Ma stavolta a gelare l’altro è Big Jim: «We’ll stay with the whores, Johnny», continuiamo con le puttane.

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    Una retata della polizia durante il Proibizionismo

    Il Proibizionismo prima o poi passerà, prostituzione e gioco d’azzardo ci saranno sempre, spiega il boss al suo vice. Sono già milionari così e non ha senso rischiare problemi con i federali per fare altri soldi, insiste. Ma non lo convince. Per quanto Johnny voglia bene allo zio Jim, gli affari sono affari. Big Jim Colosimo è disposto a investire poche migliaia di dollari in una distilleria clandestina, ma nulla più, quel business non è roba per il Chicago Outfit.

    Un nuovo ragazzo in città

    Ad affiancare Torrio in quei giorni c’è un nuovo ragazzo. Gli guarda le spalle perché la precedente guardia del corpo ha provato a ucciderlo ma restarci secca è toccato a lei. Arriva da New York, dove The Fox gli ha fatto da “maestro” di strada prima di trasferirsi a Chicago. Lo manda Frankie Yale, al secolo Francesco Iuele, calabrese di Longobucco a cui il nipote di Victoria Moresco ha affidato i suoi affari nella Grande Mela al momento di partire per l’Illinois. Di nome fa Alphonse Gabriel, ma tutti lo chiamano Al o Scarface, lo sfregiato, perché un coltello gli ha lasciato un ricordino sul volto. Il cognome? Capone. Anche lui, la storia è piuttosto nota, pensa che contrabbandare alcolici non sia un affare a cui rinunciare.

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    Al “Scarface” Capone

    A marzo del 1920 Big Jim divorzia da Victoria e le versa 50mila dollari affinché non abbia più nulla da pretendere. Pochi giorni dopo sposa Dale Winter in Indiana e se ne va in luna di miele. Torrio, nel frattempo, fa il Papa Johnny: parla col resto della mala di Chicago e coi suoi ex capi newyorkesi. Quando vengono a sapere che Colosimo ha di nuovo pagato la Mano Nera per paura che qualcuno facesse del male a Dale concordano tutti: si è rammollito. E non sarà certo un debole come l’ex Diamond Jim a tenerli fuori dall’affare del secolo. Johnny ha l’ok per farlo fuori.

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    Jim e Dale poco dopo il matrimonio

    Delitto al ristorante italiano

    La mattina dell’11 maggio 1920 a casa Colosimo squilla il telefono. È Torrio, dice a Jim che nel pomeriggio alle 4 sono in arrivo due carichi di whiskey per il suo amato ristorante, ma lui non potrà esserci. Tocca a Colosimo aspettare i corrieri. Ci va smadonnando in italiano per tutto il viaggio, racconterà il suo chauffeur alla polizia. Al Colosimo’s di quella consegna nessuno sa nulla, però. Jim aspetta fino alle 4:25 e si avvia verso l’uscita. Spunta un uomo dal guardaroba, gli ficca un proiettile dietro l’orecchio e sparisce per sempre.

    Pochi giorni dopo una bara da migliaia di dollari, tutta in bronzo, attraversa Chicago tra una folla oceanica. Ci sono migliaia di fiori ad accompagnarla, due bande musicali, nove aldermen, due membri del Congresso, un senatore, membri dell’ufficio del governatore, il direttore dell’Opera. Il funerale non è stato in Chiesa, però, e non c’è spazio per la salma nel cimitero cattolico. Il divieto arriva dall’arcivescovo George Mundelein in persona, ma solo perché il defunto è un divorziato.
    Big Jim Colosimo finisce in una cappella tutta per lui nel cimitero di Oak Woods a Chicago. Sulla lapide la data di morte è sbagliata (o forse, in fondo, non troppo): 1919.

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    La folla di fronte al Colosimo’s durante i funerali di Big Jim

    Chi ha ucciso Big Jim?

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    Frankie Yale

    Lascia dietro di sé due grandi misteri. Il primo è quello su chi lo abbia materialmente ucciso. Capone anni dopo racconterà a Charles MacArthur di essersene occupato di persona. Eppure il sospettato principale di quel delitto ancora oggi senza colpevoli ufficiali resta Frankie Yale. Era a Chicago quel giorno, lo hanno beccato alla stazione mentre prendeva un treno per New York. E l’unico testimone del delitto, un cameriere del Colosimo’s, ha dato una descrizione dell’assassino che pare combaciare perfettamente con lui. In giro si dice che Torrio abbia promesso a Frankie 10mila dollari in cambio di quel favore.

    Era Yale il tizio che, dopo aver mangiato un gelato e bevuto un drink all’albicocca, ha lasciato scritto dietro lo scontrino un misterioso saluto «So long Vampire, so long Lefty» ed è riapparso dal guardaroba con un revolver in mano prima di dileguarsi? Il cameriere si rifiuterà di confermarlo in aula. Quanto a Frankie, torna a New York e resta lì fino al 1937, quando una raffica di mitragliatrice Thompson consegna all’oblio eterno la sua versione dei fatti.

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    Il coroner simula per i giurati la dinamica del delitto Colosimo nel suo ristorante

    Dove sono i soldi?

    L’altro grande mistero è che fine abbia fatto l’immenso patrimonio di Diamond Jim. Dopo l’omicidio i suoi avvocati trovano solo 67.500 dollari in contanti e titoli e poco meno di 9.000 in gioielli nelle proprietà di Colosimo. Pensavano che solo a casa ci fosse a dir poco mezzo milione. Nessuno scoprirà mai dove sia il resto del malloppo.
    Dale Winter prova a chiedere l’eredità, invano: una legge dell’Illinois vieta a chi divorzia di risposarsi prima di un anno, il suo matrimonio con Big Jim è nullo. La famiglia Colosimo le dà 60mila dollari in titoli e diamanti e altri 12mila li consegna a Victoria, tagliando ogni ponte con le due donne.

    Chicago e l’eredità di Big Jim Colosimo

    Torrio controllerà Chicago fino al 1925, prima di cedere al suo alunno migliore il comando dopo aver subito un attentato dagli irlandesi nel North Side. Qualche anno dopo passerà il tempo a dare consigli a un altro suo allievo di gioventù newyorkese, Lucky Luciano. Morirà nel 1957 su una sedia da barbiere, d’infarto però.
    Capone, sempre più violento anche per la sifilide contratta in uno dei bordelli di Big Jim, diventa presto il pericolo pubblico numero uno per la stampa statunitense e l’FBI di Hoover. In galera ci finirà qualche anno dopo, nel 1932, ma per evasione fiscale. Libero ma ormai demente per la malattia, si spegnerà nel 1947.
    Il Chicago Outfit, invece, è più vivo che mai ancora oggi.

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    La tomba del gangster calabrese
  • Due eventi internazionali che raccontano la Calabria meglio di mille sagre

    Due eventi internazionali che raccontano la Calabria meglio di mille sagre

    «Emme’ a Dario, Saverio e Settimio su Rainews!!!».

    Spesso, in Calabria, perché un “evento” – scusate la parola – “culturale” – scusate la parola/2 – sia riconosciuto come tale serve un passaggio sulla Rai – fosse anche quella regionale («Compa’ ti ho visto al tg3»). In questo caso era il circuito nazionale e gli screenshot dei tre dioscuri – sì, è un paradosso – di Scena Verticale e della Primavera dei Teatri hanno riempito le chat ammirate dei cosentini in preda o meglio vittime del vorticoso zapping domenicale tra conflitto russo-ucraino, cronaca nera morbosa e celebrazione kitsch dello scudetto partenopeo.

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    Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano

    Dal Pollino a New York

    Domenica sera finiva a Castrovillari Primavera dei teatri, 23esima edizione, mentre oggi inizia e finisce a New York l’evento – scusate la parola/3 – in occasione dell’uscita della prima compilation della Respirano Records, l’etichetta che il cosentino Luigi Porto ha fondato nella Grande Mela in pieno lockdown: la compilation ospita artisti di NYC e Cosenza. Si tratta di «un lavoro di ricerca durato un paio d’anni, ma abbiamo messo insieme dei bei pezzi e alcuni sono secondo me dei capolavori, alcuni di artisti sconosciuti al grande pubblico, stili differenti ma affini all’art rock/psichedelia», spiega Porto, che da oltre dieci anni lavora e vive di musica a Manhattan (sì, si può fare!).

    Cervelli in fuga per scelta

    In queste ore va lì in scena il release party nello studio della Respirano (nata nel 2021 da un’idea dello stesso Porto, in seguito affiancato dal compositore newyorkese Ray Lustig), una “monthly studio” night con un giro di diversi artisti che ruotano attorno, una sorta di mini Factory incentrata uptown Manhattan. Sette progetti newyorkesi e cinque made in Cosenza nella prima compilation, intitolata No Need To Fear: piedi nell’isolotto più bello del mondo, ma testa e braccia e cuore saldamente in Calabria, o nelle varie subcolonie occupate da cervelli (e strumenti) in fuga, spesso per scelta e non per necessità come invece piacerebbe e farebbe comodo a certa narrazione lacrimevole.

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    New York

    Connettere New York e Cosenza

    Non per essere ombelicali, ma tra i nomi degni di nota oltre a Porto segnaliamo i bruzi Gintsugi – al secolo Luna Paese, cosentina di nascita che da tempo vive in Francia – con le sue atmosfere intimiste e dilatate; Al The Coordinator, ovvero Aldo D’Orrico, poliedrico cantautore e chitarrista nato e cresciuto a Cosenza; Remo De Vico, compositore e sound designer anche lui nato e cresciuto a Cosenza, dove ha fondato il laboratorio elettroacustico del Miai; infine Paolo Gaudio, batterista, compositore e sound designer, classe 1991, che invece vive e lavora a Milano.
    Per una volta non è la fuffa de «il/la cosentin* che fa le sue cose all’estero» ma è proprio un lavoro internazionale che connette Nyc con Cosenza. Bravi.

    Primavera dei teatri: un dovere morale

    Primavera dei Teatri, al contrario, non è una performance di una serata bensì quella che definiremmo una manifestazione lunga, riconosciuta e storicizzata. E soprattutto ospitata da sempre in Calabria, toponimo che indica la location – scusate la parola/4 – ma anche il sostegno istituzionale.
    Eppure la novità di quest’anno è stata tornare «alla sua collocazione primaverile, anche prendendoci il rischio di non attendere l’avviso pubblico regionale sugli eventi – spiegano Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano – che da anni sostiene economicamente il festival per due terzi del suo budget. Primavera dei Teatri, che apre ogni anno la lunga stagione festivaliera in Italia, deve poter assolvere alla funzione di presentare e accompagnare i debutti nazionali. (…) Inoltre (…) nasce da un dovere morale verso i cittadini di una regione carente di offerte culturali. (…) La grande sfida è stata e rimane quella di avvicinare la gente comune» al palcoscenico e a ciò che gli ruota intorno.

    Ospiti da tutta Italia

    Se a New York ci sono i cosentini come ospiti, a Castrovillari gli ospiti sono le compagnie teatrali di tutta Italia. Il festival diretto da La Ruina, De Luca e Pisano ha presentato oltre 40 momenti di spettacolo dal vivo tra teatro, danza, musica e performance accompagnati da residenze creative, workshop, reading, presentazioni di libri e convegni: 16 debutti assoluti, 4 anteprime, 4 coproduzioni e 3 progetti internazionali. Lo stesso De Luca ha proposto il suo Re Pipuzzu fattu a manu – Melologo calabrese per tre finali con Gianfranco De Franco, mentre La Ruina ha portato in scena il suo ultimo lavoro Via del Popolo, nelle stesse ore in cui veniva candidato come migliore novità al premio Le Maschere del Teatro italiano.

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    Gianfranco De Franco

    Primavera dei teatri oltre le «splendide cornici»

    Contro i numeri zero delle sagre mordi e fuggi con tanto di neomelodico nella «splendida cornice» di un borgo magari resiliente – scusate la parola/5 –, ecco invece una mole non indifferente di nomi, cifre – stilistiche e di presenza – e copertura mediatica che smentiscono il mantra delle prefiche calabre («qui non si può fare nulla»).
    Capannoni abbandonati restituiti alla fruizione artistica, tributi in morte a Renato Nicolini e Franco Scaldati e in vita alla iconica – scusate la parola/6 – Patrizia Valduga. Momenti di sogno, silenzio e aggregazione, riflessione, risate e commozione.
    Certo serve sostanza ed esperienza per riempire di magia un festival. «Che lavoro fai?». «L’attore». «Ok, ma il vero lavoro?». «Questo. Questo che vedi». Anche in Calabria si può.

  • Poveri a San Giovanni in Fiore, schiavi in Brasile: l’Opera Sila e i negrieri di Pedrinhas

    Poveri a San Giovanni in Fiore, schiavi in Brasile: l’Opera Sila e i negrieri di Pedrinhas

    Avevano promesso loro un pezzo di terra nel cuore della Sila, dov’erano nati e cresciuti. E quella terra la ottennero. Solo che a migliaia di chilometri di distanza. Dall’altro capo dell’oceano. In mezzo al nulla.
    È una storia di menzogne e sfruttamento, sacrifici e sogni infranti, quella delle famiglie che l’Opera per la valorizzazione della Sila (Ovs), all’inizio degli anni ’50, inviò da San Giovanni in Fiore in Brasile per fondare una città, Pedrinhas. E ha i tipici ingredienti delle storie di fallimenti targati Italia: interessi politici, poveracci fregati, annunci distanti anni luce dalla realtà.

    La riforma agraria, l’Opera Sila e Pedrinhas

    opera-sila-pedrinhasIl Ventennio fascista si è concluso da poco, lasciando in eredità macerie e povertà. Nonché un ente, l’Icle (l’Istituto nazionale di credito per il lavoro italiano all’estero) che ha creato Mussolini e fino a quel momento ha gestito con scarsi risultati e parecchi denari i flussi migratori dalla Penisola al resto del mondo. Nella neonata Repubblica parte la riforma agraria, una battaglia contro il latifondo per una più equa distribuzione delle terre ai contadini. Ma in Calabria, più che altrove, le cose vanno a rilento.
    La legge Sila, che prevede gli espropri ai ricchi possidenti locali, è del ’51. A San Giovanni in Fiore l’Ovs, nata quattro anni prima, prende possesso di quasi 3.300 ettari di terreno. Diciotto anni dopo quelli ridistribuiti saranno ancora poco più della metà, circa 1.800. E il malumore nella “capitale della Sila”, dove il rosso è il colore politico più in voga, inizia presto a farsi largo.

    La soluzione arriva da un accordo che il nostro governo e quello carioca hanno siglato nel ’47: l’Italia invierà manodopera in Brasile, in cambio di forniture varie. Sembra il modo di prendere due piccioni con una fava: i contadini avranno la terra che spetta loro, seppur in un altro continente, e, con la scusa di aiutarli, ci si libererà pure di qualche rompiscatole di troppo spedendolo all’altro capo del mondo. L’Opera Sila, a forte trazione democristiana, non si lascia sfuggire l’occasione e lancia l’operazione Pedrinhas.

    Dal manifesto a… l’Unità

    E così sui muri dei paesi silani, nel dicembre del ’51, appare un manifesto che inizia così: «La terrà è poca e non basta a soddisfare le esigenze di vita e di lavoro di tante famiglie di contadini della Sila. Per superare queste difficoltà, l’Opera per la valorizzazione della Sila ha concordato con la I.C.L.E., in uno spirito di cordiale collaborazione, un programma di emigrazione organizzata che inizia la sua attuazione il 2 dicembre. In tal giorno alcune famiglie partiranno da San Giovanni in Fiore dirette verso il Brasile, generoso ed ospitale, ove riceveranno una terra ed una casa. L’atto di solidarietà nazionale, che ispira la riforma, trova così un’eco nel gesto di solidarietà del Paese amico che accoglie i nostri lavoratori».

    Quel 2 dicembre non è una data casuale: è il giorno in cui arriva in Sila l’onorevole Luigi Gui, sottosegretario all’Agricoltura, insieme al presidente dell’Ovs Vincenzo Caglioti per una cerimonia in cui è la propaganda a farla da padrona. Sono 52 le famiglie, spiegano i due, che partiranno dalle montagne calabresi verso il Brasile. «Riformatori o negrieri?», titolerà L’Unità a distanza di qualche giorno.

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    Giacomo Mancini in una foto d’epoca

    Pedrinhas e l’Opera Sila in Parlamento

    Giacomo Mancini ricorderà quella giornata pochi mesi dopo alla Camera, definendo l’operazione Pedrinhas «un’indegna farsa» per celare «l’attività negriera» dell’Opera Sila. In effetti, la terra da distribuire in Sila all’epoca era più che sufficiente per non costringere ad emigrare proprio nessuno. Dello stesso avviso il comunista di Acri Francesco Spezzano, che dal suo scranno in Senato tuona contro l’Ovs: «Da Opera di applicazione della riforma fondiaria, da Ente esecutivo della riforma fondiaria, si è trasformato in ente di organizzazione dell’espatrio in massa dei contadini. Potrei dire anzi, che, per diminuire la pressione dei contadini, da ente di riforma si è trasformato in ente di vendita di carne italiana».

    Brasil…a: dal latifondo al deserto rosso

    A 550 km dalla capitale São Paulo, a 50 dalla città più vicina, in una sconfinata distesa di terra rossissima, fertile ma in gran parte ancora da bonificare, arrivano i primi italiani. Sono 143 famiglie provenienti da 16 regioni diverse, nove arrivano dalla provincia di Cosenza. Ma la parte del leone della nascente colonia l’avranno i veneti, in particolare quelli che arrivano da San Dona’ di Piave.
    Guida, spirituale e non solo, di Pedrinhas sarà infatti Ernesto Montagner, prelato partito insieme ai sui parrocchiani verso quel remoto angolo di Brasile. E “l’atto di nascita” della cittadina italo-brasiliana è proprio la posa della prima pietra della chiesa di San Donato nel bel mezzo del minuscolo paese a settembre del ’52, anche se il primo nucleo di operai italiani è lì già da dodici mesi. I sangiovannesi arrivano il 23 dicembre dello stesso anno.

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    I primi italiani ad arrivare in Brasile per la fondazione della città

    Le speranze di un futuro migliore lasciano presto il posto alla durissima realtà. Il clima torrido è un inferno per i silani e la vita brasiliana è ancora peggio di quella tra i monti calabresi.
    A raccontare la delusione è Virgilio Lilli, inviato sul posto dal Corriere della Sera nel ’54. «Quando le famiglie trasportate sulle belle navi giunsero a Pedrignas (confini Stato Paranà-Stato San Paolo), trovatesi di fronte alla terra rossa incolta, alle case ancora deserte, al silenzio della terra tropicale (malgrado l’altezza), scoppiarono in pianto. Anche le donne di quelli che resistettero piansero sei mesi di fila, tutte le notti; poiché avevano intravisto il lusso, il conforto, la felicità, in mare, ed ora si scontrarono con la dura vita degli inizi. Quanto ai deboli, arrivarono gridando che volevano tornare a casa e ottennero un giorno di tornare a casa».

    «Tutto quello che ci hanno fatto lo devono pagare»

    È ancora Mancini a far conoscere al Parlamento le condizioni dei coloni, leggendo alcune loro lettere inviate ai familiari in Calabria dal Brasile.
    «Cara madre, ti scrivo con un po’ di ritardo, causa che ho voluto prima vedere la situazione. Qui tutto male. Ci hanno imbrogliato bene, a cominciare dalla paga che non basta solo a me per il sapone e per qualche pacchetto di sigarette, perché qui è un caldo che non si resiste. Ci danno 35 cruzeiros che ammontano a mille lire italiane; 500 se le trattengono al giorno per la mensa e le altre se ne vanno così: sapone prima base, perché qui è una terra rossa che siamo diventati tutti rossi. Quindi questo anno ci debbo stare, perché c’è il contratto che ognuno di noi ci dobbiamo fare un anno di lavoro; appena finisco sono con voi. Un anno di sacrifici, ma tutto quello che ci hanno fatto a noi i signori lo devono pagare».

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    Contadini al lavoro nella neonata Pedrinhas

    «Fuori dalla civiltà umana»

    Un altro colono sangiovannese si rivolge così al marito di sua sorella: «Caro cognato, in quanto mi dite che avete inoltrato domanda per venire in Brasile ti prego di rinunciare subito. Le nostre condizioni sono molto tristi in quanto non abbiamo niente di buono. L’acqua viene tirata dai pozzi; è filtrata, un’aria tropicale e un caldo insopportabile. Come paga non abbiamo niente; come vi ho già scritto che abbiamo 35 cruzeiros, 15 di mensa, 10 se li trattengono per il viaggio, e possiamo mandare il quaranta per cento del guadagno ma non dobbiamo fare nient’altro né fumare, né bere una birra né sapone; fatevi voi il conto se possiamo mandare soldi a casa; e non possiamo neanche scrivere a nostro piacere: per i francobolli ci vogliono 6 cruzeiros. Caro cognato qua si vive fuori dalla civiltà umana, non c’è distinzione di giorni, né domeniche, né feste, sono tutti i giorni uguali. Sono andato alla direzione della nostra compagnia e ci ho detto che ci rimpatria subito così sono io che vi devo raggiungere».

    Fuga dalla schiavitù

    I contadini silani a Pedrinhas sono tra i primi a ribellarsi. Minacciano di dare fuoco alle case appena costruite e nel giro di un anno si ritrovano praticamente tutti al porto di Santos per tornarsene in Sila. Le fughe dalla colonia sono solo all’inizio. A settembre del 1953 oltre 150 coloni italiani scappati da Pedrinhas sono a São Paulo in attesa di rimpatrio. Le famiglie vanno via in piena notte, incuranti di aver abbandonato casa, attrezzi, bestiame.
    Un anno dopo 170 coloni già ingaggiati con contratti capestro lasciano Pedrinhas, denunciando di aver subito un trattamento da schiavi. Restano per mesi nella Hospedaria de Imigrantes di São Paulo dove li trattano «peggio dei prigionieri», abbandonati da tutti. Rosario Belcastro, futuro dirigente della DC e della Cisl calabrese, pur di farsi rimpatriare preferisce spacciarsi per comunista agli occhi della polizia brasiliana, finché questa non lo accompagna alla frontiera e lo rispedisce in Sila.

    Basta Pedrinhas: l’Opera Sila e i passaporti strappati

    I calabresi a restare a Pedrinhas sono pochissimi, come ricostruisce Pantaleone Sergi in un articolo per il Giornale di Storia Contemporanea del 2016 che ripercorre il progetto brasiliano dell’Opera Sila. Ci sono Biagio Talarico, che è arrivato lì con altri familiari presto rientrati tra i monti calabresi, e il sarto Francesco Mascaro. Entrambi, però, si trasferiscono dopo pochi anni in città più grandi. E c’è Francesco Romano, che resiste invece in mezzo a quella terra roxa «che penetra ovunque, si respira nell’aria, s’attacca ai panni e alla pelle, colora di rosso ogni cosa, segnando tutto col suo marchio inconfondibile».pedrinhas-paulista-06-1-opera-sila

    Poco tempo dopo lo raggiungerà anche un fratello, ultimo dei “bra-silani” di quel poco riuscito tentativo di emigrazione programmata. E gli altri lavoratori ingaggiati in Calabria? Niente più Pedrinhas per loro, riferirà ancora Mancini in Parlamento: si sarebbero presentati negli uffici dell’Opera Sila per poi stracciare il passaporto in faccia ai funzionari dell’ente «che, per incoscienza o per cinismo», si erano dati da fare «per fornire altra carne di lavoratori di San Giovanni in Fiore al Brasile generoso e ospitale di Caglioti».

    Pedrinhas Paulista, 2023

    Settantuno anni dopo la sua fondazione, Pedrinhas Paulista è una cittadina di circa 3.000 anime, il doppio rispetto agli anni ’50, in buona parte di origini italiane. Le stradine si incrociano con Avenida Brazil e Avenida Italia, arterie principali del paese, e pare si viva anche bene da quelle parti. Di certo, meglio che agli inizi. Ci sono statue di centurioni e della Lupa capitolina che allatta Romolo e Remo. Una targa ricorda i nomi dei primi coloni e i loro sacrifici per tirare su il villaggio. Accanto alla chiesa di San Donato c’è il Memorial do Imigrante. Un grande arco, un colonnato e gli stemmi dei posti da cui arrivarono i “padri fondatori”, Regione Calabria inclusa.

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    Il Memorial do Imigrante: sotto l’arco, secondo da sinistra, si intravede lo stemma della Calabria
  • Francesco De Luca, il massone che anticipò Calderoli

    Francesco De Luca, il massone che anticipò Calderoli

    Come ho già ricordato, a Girifalco sorse la primissima loggia massonica d’Italia, la Fidelitas (anno Domini 1723, appena sei anni dopo la fondazione della loggia madre a Londra). E lì vicino, a Parghelia, nacque pure Antonio Jerocades, l’abate eretico tra i primissimi “grembiuli” della Penisola. Si può aggiungere un terzo vertice e formare – com’è giusto (e perfetto) che sia – un triangolo: un massone di spicco nacque infatti a Cardinale, lì tra le montagne a metà strada tra Pizzo e Soverato, a due passi da Serra San Bruno e da quella Chiaravalle Centrale che decenni fa era – per i bibliofili – sinonimo di Frama-Sud sul colophon di certi volumi ormai introvabili. Si tratta di Francesco De Luca.

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    Cardinale in una foto di qualche decennio fa

    Da Catanzaro a Napoli e ritorno

    Giustamente ci si chiederà: “quale Francesco De Luca?”, dal momento che credo si tratti della combinazione onomastica più diffusa in Calabria… Si tratta di quello nato il 2 ottobre 1811 in casa del farmacista liberale Martino De Luca e di sua moglie Maria Carello. Una famiglia solida e prolifica, la loro, dato che il piccolo Francesco avrà poi altri nove fratelli più piccoli (Eugenio, Giovanna, Vincenzo, Elisabetta, Isabella, Sebastiano, Caterina, Domenico e Giuseppe Maria). E, soprattutto, una famiglia di formazione illuministica e positivistica. Non a caso, Francesco fu indirizzato subito agli studi e si diplomò al Liceo Galluppi di Catanzaro per poi laurearsi in Fisica – ovviamente a Napoli – nel 1832 e in Diritto – sempre a Napoli – nel 1835.

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    Palazzo Loffredo, ex sede del Real collegio di Potenza

    Tuttavia, nonostante il milieu borghese e le entrature che certamente non gli saranno mancate, Francesco De Luca non torna vincitore dai concorsi per l’insegnamento – né in Fisica né in Diritto Civile – presso il Real Collegio di Potenza. Ripiega quindi verso il capoluogo natio, dove si dedica all’insegnamento privato.
    Decurione di Catanzaro, questa fin troppo libera docenza gli concede però il tempo di scrivere alcune opere di matematica, metrologia ed economia nonché di incominciare a svolgere la meno libera professione d’avvocato – anche per conto del Ministero delle Finanze – presso la Gran Corte Civile delle Calabrie, patrocinando poi anche in Cassazione nell’ambito del diritto commerciale.

    Francesco De Luca, il ribelle anticlericale

    Fin qui nulla di tanto strano: sembrerebbe la normale biografia di un medio notabile di provincia. Ma c’è dell’altro: Francesco De Luca non aveva mai troncato i contatti con l’ambiente politico liberale napoletano né poi con quello mazziniano. Amico di Francesco De Sanctis e dei patrioti Luigi Settembrini, Carlo Poerio e Camillo De Meis, partecipa infatti ai moti risorgimentali difendendo le barricate alzate dai popolani, il 15 maggio 1848, dinanzi alla chiesa napoletana di Santa Brigida, sul retro dell’attuale Galleria Umberto I. Fu questa esperienza rivoluzionaria che gli suggerì di scrivere un saggio, Della educazione politica de’ popoli del Regno di Napoli (Stamperia e cartiere del Fibreno, Napoli 1848). Al suo interno De Luca esprimeva l’avversione verso l’assolutismo e la gerarchia ecclesiastica, auspicava che tutti i beni di questa passassero ai Comuni e che si limitasse il numero dei prelati.

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    “Il 15 del maggio in Napoli”, litografia di Ferdinando Perrin (1851) sui moti del 1848

    Comincia dunque a delinearsi meglio la sagoma di un Francesco De Luca anticlericale e ribelle. Proprio per questi scritti lo arrestano nel 1852 con l’accusa di “detenzione di carte, stampe e libri criminosi e varie lettere di corrispondenza con persone emigrate”. Prosciolto e scarcerato dietro cauzione nel 1853, assieme ai suoi fratelli Vincenzo e Domenico, De Luca raggiunse la Francia passando attraverso la Corsica, e stabilendosi in esilio a Parigi presso il fratello Sebastiano.

    La proposta a Garibaldi

    Ma nel 1859 Francesco De Luca è già di nuovo a Napoli, gomito a gomito con Giuseppe Garibaldi al quale propone la soluzione federalista. Auspica la nascita di una Camera del Meridione che avrebbe evitato il plebiscito unitario, ritenuto pericoloso per la fusione delle terre meridionali al contesto subalpino. Eh, quale illuminazione e lungimiranza!
    Fu così che De Luca divenne Consigliere Provinciale nel 1861. Nello stesso anno venne eletto al Parlamento nelle file della Sinistra, nel collegio di Serrastretta, rimanendo alla Camera fino alla morte (rieletto poi anche nei collegi di Napoli, Chiaravalle Centrale, Molfetta e Minervino Murge).

    Francesco De Luca, un meridionalista alla Camera

    Alla Camera fu difensore degli interessi del Mezzogiorno, nonché uno dei maggiori esperti nelle questioni economiche e finanziarie: presentò tre progetti di legge, “Sul riordinamento della compilazione Statistica nel Regno d’Italia”; “Sui tributi diretti erariali”; e sulle “Modificazioni al sistema dei tributi diretti”. Vicepresidente della Camera nel 1866 nonché Vicepresidente e Presidente della Commissione generale del bilancio in sette diversi mandati, Francesco De Luca votò a favore del trasferimento della Capitale a Firenze e capeggiò il gruppo dei “deluchisti”, ovvero quella «Sinistra Giovane» particolarmente attiva nel votare in favore di leggi che venissero incontro al Meridione.

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    Francesco De Luca nei suoi primi anni da parlamentare

    Nel 1869 fece il possibile affinché da Serrastretta potesse transitare la nuova Strada Statale n.19 delle Calabrie ma prevalse la scelta proposta da Giovanni Nicotera, il quale impose il tratto stradale Soveria Mannelli – Decollatura – Platania – Nicastro – Maida. Quando, infine, la Sinistra Storica e la Sinistra Giovane presentarono un programma unitario, De Luca non accettò il compromesso a causa di – come scrisse De Sanctis – «soverchia rigidità  nei principii e per l’inflessibilità  del suo carattere, mirando diritto e sdegnoso delle linee curve».

    La massoneria e lo scontro con Carducci

    Fin qui la politica. E poi c’è la massoneria. Nel frattempo, infatti, Francesco De Luca si affiliò nel 1862 alla Loggia «Sebezia» all’Oriente di Napoli – su probabile suggerimento e invito dell’arciprete calabrese Domenico Angherà, che ne fu Maestro Venerabile fino al 1873 –, passando poi alla «Dante Alighieri». Nel dicembre 1862 fu tra i promotori del Gran Concistoro dei Sovrani Principi della Valle di Torino e fu membro del Gran Concistoro italiano costituito nel marzo 1863.

    Tenne inoltre la presidenza della Costituente massonica riunita a Firenze dal 21 al 23 maggio 1864, durante la quale Garibaldi si dimise dalla Gran Maestranza del Grande Oriente d’Italia. In quell’occasione lo stesso De Luca fu nominato nientemeno Reggente, in carica dal settembre 1864 fino al 18 maggio 1865.
    Durante tale riunione fiorentina delle diverse Logge massoniche italiane di diverso rito, De Luca ne auspicò una fusione che ammettesse anche candidati cattolici e socialisti. Un auspicio, questo, che lo portò a scontrarsi duramente con Giosuè Carducci, assolutamente fedele al massonismo più nazionalista e anticlericale.

    La quadratura del… triangolo

    De Luca divenne infine Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia il 28 maggio 1865, in chiara ottica antipapale. Ricoprì il ruolo fino al 20 giugno 1867, quando lo delegarono a rappresentare il Grande Oriente d’Italia al Congresso della pace di Ginevra. Tornò poi alla meno impegnativa carica di Maestro Venerabile presso la loggia “Masaniello”, ovviamente all’Oriente di Napoli. Durante il 1866 aveva peraltro costituito in Grecia, assieme a sette logge italiane, il Centro Massonico di Atene, all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia, che l’anno dopo diventò indipendente con il nome di Grande Oriente Ellenico. Niente male, insomma, per un intellettuale come tanti, arrivato dalla periferia del Regno.saverio-fera

    Ora, non vorrei rovinare la perfezione del triangolo di cui parlavo in apertura, ma se aggiungessimo un altro vertice potremmo anche fare quadrato e menzionare velocemente la vicinissima Petrizzi, patria di un altro Gran Maestro, di un’altra massoneria italiana, quella di Piazza del Gesù: Saverio Fera. Due Gran Maestri a 15km e una quarantina d’anni di distanza: primato mica da poco, per i figli di due minuscoli paesini quali erano Cardinale e Petrizzi rispettivamente nel 1811 e nel 1850.

    Francesco De Luca e i suoi fratelli

    Ma torniamo a De Luca: dei suoi fratelli, Vincenzo si distinse nella repressione del brigantaggio, Domenico fu oculista insigne, Giuseppe Maria geografo e socio dell’Accademia dei Georgofili, Eugenio docente presso l’Accademia Militare della Nunziatella e Sebastiano fu professore di Chimica nelle Università  di Pisa e Napoli, Direttore dell’Ateneo Italiano di Parigi e infine nominato senatore del Regno nel 1880 in quanto membro della Regia accademia delle scienze.

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    Cardinale, il monumento massonico in ricordo di Francesco De Luca

    Quanto a Francesco, ammalatosi nel novembre del 1873, morì a Napoli il 2 agosto 1875 e per sua espressa volontà fu sepolto nella Chiesa matrice di San Nicola, a Cardinale. Essendo tuttavia stato esponente di massimo rango della massoneria, l’arcivescovo di Catanzaro ordinò di tumularlo presso il cimitero comunale e senza esequie religiose. Con buona pace dell’arcivescovo, lo commemorarono alla Camera il 15 novembre 1875. Nel tempo gli hanno intitolato alcune vie a Serrastretta e a Palermiti (Catanzaro), nonché una piazza a Cardinale e la casa massonica di Catanzaro.

  • Mughini di lotta per un Mondo Nuovo a Cosenza

    Mughini di lotta per un Mondo Nuovo a Cosenza

    Sessant’anni fa, nel 1963, a Cosenza, viene pubblicato il primo dei Quaderni di cinema del circolo Mondo Nuovo. L’informazione si ricava dal terzo, dato alle stampe a Cosenza nel febbraio 1964. Un fascicolo di 54 pagine, con testi di Guido Aristarco, Pio Baldelli, Tommaso Chiaretti, Adelio Ferrero, Giampiero Mughini.

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    Antonio Lombardi, tappezziere e agit prop

    Antonio Lombardi, animatore del circolo Mondo Nuovo, presenta il terzo numero dei Quaderni, dedicato ai problemi della critica della settima arte, precisando che il secondo fascicolo è stato stampato in 500 copie, «testimonianza del successo della nostra iniziativa e in direzione della diffusione e della divulgazione della cultura cinematografica». Nello stesso testo Lombardi annuncia che il quarto numero è già in preparazione e sarà dedicato a Cinema italiano 1943-1963.

    Da Fellini a Moretti

    Per tutto il periodo della sua attività, tra il 1960 e il 1980, il circolo Mondo nuovo dedica una particolare cura al cinema, organizzando rassegne di film e dibattiti, a cui interviene un pubblico non solo giovane (i fondatori del circolo sono ragazzi poco più che ventenni). Si era nella stagione d’oro, registi italiani come Fellini, Visconti, Antonioni, Pasolini e tanti altri erano studiati e imitati, premiati nei concorsi internazionali.
    In una registrazione relativa alle origini del circolo, Antonio Lombardi, circa venti anni fa, mi aveva raccontato le sue prime incursioni nel mondo della critica cinematografica, nel clima di grande emozione suscitato dai fatti di Ungheria del 1956. Quel momento rievocato di recente da Nanni Moretti ne Il sol dell’avvenire, che spinse tanti intellettuali e semplici militanti ad allontanarsi dal Partito comunista italiano e a cercare nuove strade. In quel clima di delusione, di ripensamento, di ricerca di nuove modalità espressive, si costituisce il gruppo di amici, a Cosenza, che darà vita a Mondo nuovo, che sorge ispirandosi all’omonima rivista fondata da Lucio Libertini.

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    Vittorio De Sica, icona e maestro del cinema

    La Ciociara che divide

    Ragazzi appassionati di politica e del nuovo linguaggio del cinema, così racconta Lombardi:
    «A proposito di Chiaretti nel 1960 facemmo una discussione, a Mondo nuovo, su La ciociara di De Sica, tratto dall’ultimo per me grande romanzo di Moravia. Per me il film valeva poco. Chiaretti invece ne scrisse in termini positivi, allora per la prima volta presi la macchina da scrivere e mandai una lettera a Chiaretti, che Libertini pubblicò insieme alla replica di Chiaretti (Libertini mi conosceva, era venuto a Cosenza ad inaugurare Mondo nuovo). Chiaretti nella replica mi invitava a leggere le posizioni critiche di Galvano Della Volpe nella sua Critica del gusto. Insomma queste riviste non ortodosse mi hanno formato, riviste nate da posizioni minoritarie, come quelle di Libertini, polemico con la dirigenza socialista fin dal 1948, quando si era schierato con Tito contro Stalin, e fondato l’Unione socialista indipendente, un piccolo partito, durato fino al 1956».

    Una Olivetti sgangherata

    Lombardi senza nessuna timidezza va, dal suo primo intervento, oltre i confini della sua città, è convinto che sia necessario, da subito, allacciare rapporti con gli intellettuali e gli autori, partecipando agli incontri più innovativi e importanti, come quelli a Porretta Terme. Sarà sempre questo il suo modo di operare, diretto e personale, con la Olivetti ormai sgangherata che ha utilizzato fino alla fine, per molti anni dopo la chiusura del circolo.Il testo di Tommaso Chiaretti pubblicato sul Quaderno numero 3, La critica cinematografica tra industria culturale ed organizzazione di partito, è la relazione tenuta a Porretta Terme al convegno Cinema e critica oggi (10-12 settembre 1963). Lo stesso vale per il testo di Guido Aristarco, Realismo, decadentismo e avanguardia nel cinema contemporaneo.

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    I Quaderni di cinema partoriti nella fucina di Mondo Nuovo

    Nella registrazione già citata Lombardi racconta: «Nel 1964 ho fatto un viaggio importante, prendendo contatto con persone come Chiaretti, chiedendogli di collaborare con Giovane critica» di Giampiero Mughini.
    Insomma abbiamo dedicato qualche pagina a Chiaretti, che in quel momento non se la passava bene. Questo viaggio nasceva da uno precedente, nel 1963, quando sono stato invitato a Porretta Terme, al Festival del cinema libero, in cui si alternavano proiezioni e dibattiti. Il Festival del 1963 era dedicato alla critica cinematografica, Aristarco era invitato a parlare dell’avanguardia, Chiaretti sul rapporto tra organizzazione partitica e industria culturale.

    Intellettuali, borghesi, avanguardisti

    C’era anche Giuseppe Ferrara, che ancora non era passato alla regia. Dibattito animatissimo, con una frattura tra gli intellettuali di sinistra, tra chi propendeva per un’integrazione nel sistema dell’industria culturale. E chi invece voleva mantenere le distanze. Era in discussione ben altro, non la critica cinematografica, Mughini non colse questo aspetto. Il nocciolo della questione era la possibilità di fare opposizione di sinistra in Italia. Il capofila della critica ad Aristarco era Lino Miccichè, critico cinematografico de L’Avanti. Sui Quaderni di Mondo nuovo abbiamo pubblicato integralmente la relazione di Aristarco, e lui non perdeva occasione di citarla. Dibattito proseguito a lungo sui giornali, intanto sono andato in giro per capire cosa di pensava in giro.
    L’intervento di Chiaretti, Le ragioni dell’avanguardia, a questo proposito mi aveva colpito anche l’intervento di un altro critico, Mario De Micheli, autore de Le avanguardie artistiche del ‘900. Si dibatteva dell’avanguardia sempre a partire dalla crisi dello stalinismo. Il problema non era solo liquidare l’avanguardia come prodotto borghese, decadente, De Micheli e Chiaretti rileggono la crisi che tra gli intellettuali si apre nel 1848 e giunge al culmine nel 1871.

    Questi intellettuali non arrivano a posizioni veramente rivoluzionarie, ma sono degli irregolari, a livello artistico questa è l’avanguardia. Molti critici ritengono che il realismo moderno non sia la continuazione del grande realismo borghese ottocentesco. De Micheli e altri pensano a un incontro tra le manifestazioni dell’avanguardia, con le rotture dei linguaggi tradizionali, solo da questa sintesi nasce il moderno realismo rivoluzionario. Ad esempio Majakovskij e Brecht, con il futurismo e l’espressionismo.

    Mughini per Mondo Nuovo

    Mondo nuovo aveva stretti legami con il Centro universitario cinematografico, CUC, di Catania, animato da Giampiero Mughini, che invia agli amici cosentini un suo contributo per il Quaderno, Vecchio e nuovo nella critica cinematografica.
    Gli autori del terzo numero dei Quaderni di cinema sono critici militanti, noti e affermati già in quegli anni, spesso al centro di polemiche roventi, accompagnate da risvolti giudiziari. Nel 1953 Guido Aristarco, direttore di Cinema nuovo, viene arrestato per vilipendio delle forze armate, per aver pubblicato sulla rivista da lui diretta un soggetto cinematografico, L’armata sagapò, relativo alla condotta dei militari italiani in Grecia durante la seconda guerra mondiale. Aristarco e Renzo Renzi, autore del testo, trascorrono quarantacinque giorni nel carcere militare di Peschiera. Sono condannati a scontare rispettivamente quattro mesi e mezzo e otto mesi, ma rimessi in libertà grazie alla mobilitazione della stampa e dell’opinione pubblica.

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    Il regista e attore Nanni Moretti

    Quel che resta del cinema a Mondo Nuovo

    Nonostante la diffusione in centinaia di copie dei Quaderni di cinema non sono riuscito a trovare gli altri numeri, il primo, il secondo e il quarto, quelli che sicuramente sono stati pubblicati. Nemmeno nelle biblioteche pubbliche sono consultabili, almeno non risultano nel Sistema bibliotecario nazionale, SBN. Potrebbero trovarsi forse in qualche fondo librario non catalogato. Come accade spesso per gli archivi dei gruppi e delle associazioni, gli animatori del circolo, ragazzi estranei alla cultura ufficiale, all’epoca non si preoccupavano di depositare le copie dei propri stampati, né evidentemente di consegnarli direttamente alle biblioteche pubbliche.
    Questo terzo fascicolo, recuperato fortunosamente, apre le porte di un mondo ormai lontano, per certi versi superato, gravato da schematismi ideologici oggi incomprensibili. Ma ci conduce nel cuore del dibattito politico e artistico degli anni Sessanta, seguito con interesse a Cosenza da centinaia di persone. Come nelle palazzine del quartiere romano, dove Silvio Orlando nell’ultimo film di Nanni Moretti, si interroga sul suo ruolo di segretario di sezione del P.C.I. davanti al dramma del popolo ungherese.

    Probabilmente sarebbe ancora possibile reperire queste pubblicazioni in qualche biblioteca privata, anche molto lontano da Cosenza, dato che il circolo Mondo nuovo e Antonio Lombardi in particolare, intratteneva una fitta corrispondenza con centri e persone di ogni parte d’Italia. Sarebbe un modo per recuperare uno dei tanti tasselli dispersi della vita culturale cittadina, non per municipalismo, ma al contrario per documentare i legami e gli scambi che da Cosenza si intrecciavano con le più vivaci energie del tempo.

  • Cosa fa la gente tutto il giorno? Intanto ascolta e legge Cameron a Cosenza

    Cosa fa la gente tutto il giorno? Intanto ascolta e legge Cameron a Cosenza

    Ma dove sta la differenza tra un racconto e un romanzo? Risponde a questa domanda Peter Cameron con la sua consueta asciuttezza: «Nel primo caso il lettore arriva subito nella scena, nel secondo ci sistemiamo, ci accomodiamo e prendiamo qualcosa». Da bere. Il sottinteso era davvero facile da capire.
    Lo scrittore americano ha parlato del suo ultimo libro (Cosa fa la gente tutto il giorno?), ospite del Premio Sila ‘49 di scena ieri a Palazzo Arnone, sede della Galleria Nazionale di Cosenza. Un “colpaccio” letterario internazionale per un premio che rappresenta uno dei punti di riferimento per la scena culturale calabrese. E del resto il nome di Cameron è lì a testimoniarlo.

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    Enzo Paolini, presidente della Fondazione Premio Sila

    Saluti di Enzo Paolini, presidente della Fondazione Premio Sila. Poi subito l’intervista al narratore che si divide tra New York («energia di chi crea») e il Vermont. Caos e pace. Un po’ la sintesi della scrittura.
    Intervistato dall’agente letterario Marco Vigevani, ha sentenziato: «Non ci sono personaggi banali, dipende sempre dalla prospettiva con la quale li guardi».

    Un racconto a Cosenza?

    Non poteva mancare una domanda tutta cosentina di Vigevani. «Come ambienterei un racconto a Cosenza? In realtà – risponde lo scrittore – per me è davvero molto difficile rispondere a questo interrogativo, d’altronde io non scrivo in maniera consapevole: devo aspettare che qualcosa in me sedimenti, che le immagini diventino storie. Tuttavia – conclude – adesso che ho avuto modo di ascoltare le mie parole in italiano, grazie alle letture dei miei libri, capisco perché a queste latitudini io piaccia molto: i miei romanzi e i miei racconti sono molto più belli nella vostra lingua».

    È così, dunque, che il Premio Sila ’49 apre alla letteratura straniera, con un incontro che inorgoglisce ed entusiasma tutti. Compresi la direttrice del Premio Gemma Cestari e il presidente della Fondazione Premio Sila Enzo Paolini che chiudono con queste parole: «Peter Cameron ci ha dimostrato amicizia, siamo molto contenti che sia qui. Le storie che scrive a New York e in Vermont abitano nei nostri cuori, potrebbero essere state scritte a Cosenza, sono universali. Non le dimenticheremo, così come non dimenticheremo questo momento, il primo, con uno scrittore di fama internazionale, di una lunga serie».

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    Pubblico numeroso a Palazzo Arnone per Peter Cameron

    Tra i suoi libri, compaiono testi come Anno bisestile, Il weekend, Andorra, Un giorno questo dolore ti sarà utile, In un modo o nell’altro. Autore molto amato in Italia. E il grande successo di pubblico dell’evento organizzato dalla Fondazione Premio Sila ne è prova. Così come il lunghissimo firma copie prima di lasciare Palazzo Arnone. Goodbye mister Cameron.

  • Pesce spada, l’imperatore dello Stretto

    Pesce spada, l’imperatore dello Stretto

    Piovene scriveva che la maggior parte dei calabresi aveva una cultura montanara più che marinara. Contemplavano il mare dalle alture dei loro paesi, senza esservi mai stati vicini. La pesca non si praticava molto in Calabria per la mancanza di porti. Solo in alcuni centri come Parghelia e Scilla l’attività di mare era sviluppata.
    Galanti ci informa che i marinai di Scilla erano trecento e veleggiavano su feluche a due alberi che trasportavano merci fino a duecentocinquanta cantaia. Ciascuna imbarcazione aveva un equipaggio di venticinque marinai che partivano in ottobre per vendere e acquistar prodotti di vario tipo.

    Commerciavano soprattutto stoffe, alici salate, mandorle, pasta di “rigorizia”, uva passa, manna, limoni, essenza di bergamotto e “portogalli”.
    Una volta nei porti dell’alto Adriatico, soprattutto Venezia e Trieste, vendevano le loro merci. Inoltre acquistavano prodotti importati specialmente dalla Germania e dalla Svizzera per rivenderli in Puglia e in Calabria.

    La pesca e il problema del sale

    Lungo i villaggi della costa c’erano poche imbarcazioni e la pesca si esercitava solo nei mesi in cui il mare era calmo. D’inverno si vedevano solo barche che provenivano dalla Sicilia, dalla Puglia e dalla Campania. Malpica annotava che i pescatori di Sorrento si stabilivano a Schiavonea, portando con sé mogli e figli, all’inizio dell’inverno e andavano via al cominciare dell’estate. Con le loro agili barche, non avevano timore ad affrontare il mare tempestoso, ma spesso la pesca era infruttuosa e portavano a casa solo debiti.pesce-spada

    L’attività della pesca, ricordava Galanti, era poco sviluppata anche perché risultava difficile smerciare il pesce fresco in quanto il trasporto richiedeva molto tempo. Si mangiava pesce quando la distanza lo permetteva. Il mare era ricco di acciughe e sarde, ma il sale fossile, ottimo per salare le carni, non era adatto per conservarle. La carenza e il costo eccessivo del sale rappresentava un serio problema. A Crotone, ad esempio, quando la pesca dei tonni era abbondante, molti pesci venivano bruciati o ributtati in mare perché era impossibile salarli o venderli.

    Pesce spada, l’imperatore dei mari

    Oltre al tonno, la pesca più importante e spettacolare in Calabria era quella del pesce spada. Nel 1862, Lombroso scriveva che erano numerosi i pescatori che si dedicavano alla sua cattura. Erano divisi in piccole società di 10 o 20 membri e il loro linguaggio era «d’antichissimo conio greco».
    Il pesce spada (xiphias gladius), l’imperatore dei mari, era una “bestia” lunga da sei a otto piedi. Il peso variava dalle due alle trecento libbre e, talvolta, raggiungeva i quattro quintali. La spada attaccata alla testa del corpo filiforme ne faceva un mostro.

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    Pescatori a Scilla

    Nel 1791, Stolberg annotava che, nel mare di Scilla, lottavano incessantemente con i «cani di mare». Un giorno le onde avevano scaraventato sulla spiaggia un pesce spada e un pescecane. Il primo aveva infilzato il secondo, ma non riuscendo a ritrarre la “sciabola” e impossibilitato a nuotare liberamente, era morto insieme a lui. I marinai raccontavano che il pesce furioso per la ferita dell’arpione a volte si lanciava contro le barche sfondandole con la spada. Per questo stavano sempre in guardia, soprattutto se l’animale era di taglia considerevole e la ferita leggera.

    Il pesce spada e l’incantesimo in greco

    Alcuni studiosi sostenevano che il pesce spada arrivava sulle coste della Calabria nel mese di giugno per poi spostarsi sulle coste della Sicilia. Altri scrivevano che a partire dal mese di aprile fino alla fine di giugno, entrando nello Stretto, seguiva la costa sicula per poi costeggiare la Calabria. Il pesce spada si muoveva sempre sulle orme della femmina, che non perdeva mai di vista e un viaggiatore notava che questo sentimento naturale comportava quasi sempre la rovina dell’uno e dell’altra.

    Il marinaio che li scorgeva ne approfittava: i suoi colpi cadevano prima sulla femmina, giacché dal momento in cui questa era colpita il maschio non pensava più a fuggire.
    Brydone raccontava che i pescatori dello Stretto, alquanto superstiziosi, pronunciavano frasi in greco come «incantesimo» per attirare il pesce spada vicino alle loro barche. E che se per disgrazia l’animale li sentiva parlare in italiano, si tuffava di botto sott’acqua per non comparire più!

    Come catturare il pesce spada

    In realtà la pesca del pesce spada era molto complessa e sperimentata nel corso dei secoli. Per catturarlo i marinai usavano i luntri, barche con un albero dall’altezza notevole terminante con una piattaforma, dove stava il giovane incaricato ad osservare i movimenti del pesce.

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    Un luntro dipinto da Renato Guttuso

    Queste imbarcazioni, lunghe diciassette-diciotto piedi, avevano la prua più larga e più alta della poppa per facilitare i movimenti del lanciatore: scelto fra gli uomini più forti e abili, era armato di una fiocina, la cui asta, fatta di legno durissimo, era lunga almeno dodici piedi. Il dardo terminale, che i locali chiamavano freccia, era lungo sette-otto pollici e provvisto di due orecchie mobili di ferro.
    Una volta entrata nel corpo del “mostro”, la freccia non poteva essere estratta che dalla mano dell’uomo
    .

    Sulle coste della Calabria, alcune persone si arrampicavano sulle rocce e sugli scogli che costeggiavano la riva per avvistare il pesce e segnalarlo con urla e bandierine ai compagni sulle barche. Il lanciatore, in piedi sulla prua, con l’arma in mano, cercava di tenere l’animale sotto tiro. Quando era alla portata della lancia, aspettando il momento favorevole, lo infilzava e lasciava libera la corda. Il pesce spada ferito, perdendo le forze risaliva in superficie, i pescatori lo avvicinano con un gancio di ferro all’imbarcazione e lo portavano a riva.
    La caccia al pesce spada attirava e affascinava studiosi e viaggiatori che annotavano in maniera dettagliata la tecniche per catturarli. Citiamo le descrizioni di Polibio, Grasser e Bartels.

    Polibio

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    Un antico mosaico sulla cattura del pesce spada

    A questo proposito racconta Polibio il modo con che si pescano i pesci spada intorno al promontorio di Scilla. Posta in sito acconcio una barca, la quale serva come di spia, si cacciano in mare molti schifi a due remi, in ciascuno de’ quali sono due uomini, uno per governarlo co’ remi, e l’altro in prora armato di un’asta per ferire il pesce. Al segno che da l’esploratore, che viene il pesce spada, il quale suole con un terzo del corpo star sopra l’acqua, lo schifo gli si appressa, e quello che tiene l’asta, gliela caccia da vicino nel corpo, e subito ritirandola ne rimane la punta fitta nel pesce, perché sendo fatta a guisa di amo, è attaccata all’asta in maniera che facilmente si lascia nella ferita, lanciata che è.

    A quel ferro è congiunta lunghissima cordicella, la quale tanto vanno allentando, ferito che è il pesce, fin a tanto che dibattendosi, sforzandosi di fuggire, si stanchi; allora lo tirano al lido, ovvero lo raccolgono nello schifo, se pure non è troppo pesante, e grande. Se avviene che l’asta cada in mare, non però si perde; perciocchè essendo fatta di quercia la tira bensì sott’acqua, ma fa insieme che dall’altro capo l’abete, come più leggero, s’innalzi, ed agevolmente si possa ripigliare. Avviene anche talvolta, che quello dei remi nello schifo sia ferito dalla grandezza della spada che ha il pesce, e dalla forza con cui la vibra, ond’è che questa pesca sia pericolosa non meno della caccia de’ cinghiali.

    Jacob Grasser (1606)

    Nei pressi del mare c’è un torrione o una guardiola, dove ad un uomo di vedetta vien dato l’incarico di segnalare l’arrivo dei pesci spada. Fa parte della natura di questi pesci tenersi con un terzo del corpo fuori dell’acqua. Quando ciò avviene, i pescatori si distribuiscono in tutta la zona con le loro imbarcazioni, in modo che in ogni singola imbarcazione si vengono a trovare due persone: una con due remi alla guida della barca, l’altra a prua con in mano una fiocina. Appena la vedetta indica il punto dove si trova il pesce, la barca vicina lo raggiunge a remi, mentre un pescatore veloce lo colpisce con la fiocina che viene subito tirata indietro per cui il ferro, che è provvisto di una punta ricurva a mo’ di amo, resta conficcata nel pesce e nella ferita.arpione-pesce-spada

    Quest’uncino è fatto in modo che la punta ricada all’ingiù. Al ferro è fissata una corda di una certa lunghezza che permette al pesce, ancora convinto di poter sfuggire alla cattura, di voltolarsi e muoversi con una certa libertà sino a stancarsi. Quindi lo trascinano a riva o, se non è troppo grande, ché talvolta se ne trovano di una lunghezza superiore a dieci cubiti, lo tirano sulla barca […] Il pesce spada è così violento ed irruente che spesso con la lunga spada riesce a ferire il rematore. È per questo che la pesca è pericolosa come una caccia al cinghiale, ed è anche difficile pescarlo con le reti dal momento che con la spada riesce a strapparle. Appena lo si è pescato, lo si fa a pezzi e lo si mette sotto sale come un tonno. Dicono che la sua carne sia molto delicata ma un po’ difficile da digerire.

    Johann Heinrich Bartels (1786)

    Secondo il racconto di Strabone si utilizzavano due imbarcazioni, una delle quali provvista di un albero su cui sedeva un uomo che aveva il compito di avvistare il pesce. Una volta avvistato il pesce che spuntava con le pinne dalla superficie del mare, l’uomo allertava i suoi compagni indicando loro come raggiungerlo. Subito una seconda imbarcazione si metteva al suo inseguimento mentre un uomo con una fiocina in mano si portava d’un balzo sulla prua.pesce-2

    Appena il pesce, che nel frattempo si era messo a giocare con l’ombra della barca, giungeva a tiro, l’uomo gli lanciava, ferendolo, la fiocina fissata ad un bastone legato a sua volta ad una corda. Nella fuga il pesce trascinava con sé la fiocina col bastone, e, quando le forze lo abbandonavano, veniva recuperato con la corsa e caricato sulla barca. Questa, all’incirca, la descrizione di Strabone; ed è questo anche il modo in cui si opera ancor oggi – con una piccola innovazione che rende più semplice l’operazione. Per attirare ed osservare il pesce, si manda avanti una feluca di una certa dimensione ad un albero, seguita da due piccole imbarcazioni. Appena si avvista il pesce, una di queste imbarcazioni viene mandata avanti con un piccolo equipaggio e un fiociniere. Lo strumento, una punta di ferro fissata ad un bastone, è rimasto immutato.spada-ponte

    Mentre il pesce, ferito, fugge via, la corda fissata al bastone della fiocina viene allentata; e, appena ci si accorge che il pesce ha perso le forze, ecco sopraggiungere la seconda imbarcazione al seguito della feluca, la cosiddetta barca della morte, che insegue il pesce finché questo ce la fa a fuggire, e lo recupera appena muore. Questa pesca si pratica di norma nei mesi di giugno, luglio e agosto.

  • Tarantolati di quaggiù, ecco il morso della Calabria

    Tarantolati di quaggiù, ecco il morso della Calabria

    Il tarantismo in Calabria era diffuso come in Puglia e, nel corso dei secoli, oggetto di studio da parte di scienziati, medici e letterati. Già nel Seicento diversi studiosi stranieri come Kirchmajeri, Muller, Jonston e Madeira scrivevano che le perniciose tarantole nei mesi di giugno, luglio e agosto tormentavano gli agricoltori calabresi causando un «corybanteo furore».

    Il fisico inglese Thomas accennava a un certo spider il cui veleno veniva curato dagli abitanti delle Calabrie con una pratica magica attraverso musica, canti e danza. Negli stessi anni, Epifanio raccontava che la regione era invasa dai velenosi falangi tanto che in alcune zone i locali ricavavano dalle loro tele una seta bianca anche se, richiedendo molta spesa e lavoro, non era molto redditizia.
    Agli inizi del Settecento il viaggiatore inglese Berkeley annotava che il tarantolismo, malattia provocata dal veleno della lycosa tarantula che sconvolgeva la mente era diffuso specialmente nei paesi pugliesi e calabresi. Francesco Saverio Clavigero affermava che se le campagne romane erano infestate da vipere e le coste adriatiche da zanzare, quelle calabresi erano invase dalle temibili tarantole.

    Il ballo di San Vito

    Pietro Le Brun raccontava che le ariette eseguite nei villaggi della Calabria per guarire i numerosi morsicati dal ragno si chiamavano «canzoni di san Vito», il taumaturgo in grado di neutralizzare il veleno di quegli insetti. Gianrinaldo Carli sottolineava che in diverse comunità della regione gli avvelenati dalle tarantole, per risvegliarsi dal torpore, erano costretti a piroettare al suono di varie melodie per alcuni giorni fino al completo risanamento. Qualche anno dopo il naturalista Minasi raccolse numerose tarantole nei suoi terreni di Scilla e fece addentare piccioni, galline, lucertole e gatti per dimostrare l’inefficacia del veleno. Era esperto dell’insetto, che descrisse minuziosamente, e si racconta che regalò all’imperatrice delle Russie Caterina II un paio di guanti con bozzoli dell’aracnide ridotti in seta.

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    La lycosa tarantula

    Tarantola e tarantelle

    Nell’Ottocento, l’interesse nei confronti del tarantismo calabrese aumentò notevolmente e i racconti sul rito di guarigione erano spesso contrastanti. Carcano scriveva che la regione era infestata dalle «tarantelle» che, mordendo in tempo d’estate, mettevano addosso una «rabbia» che spingeva a saltellare. Le vittime di quel ragno erano numerose e, poiché per guarire era necessaria la musica, vi erano molti suonatori ben retribuiti che svolgevano questo lavoro. Il medico Antonio Pitaro riferiva di aver assistito a due casi di tarantolismo e raccontava che i contadini per soccorrere le vittime ponevano sulla ferita il falangio schiacciato e due monete bagnate con saliva.

    De Tavel, ufficiale francese, appuntava nel suo diario che tra i calabresi era diffusa la credenza che per neutralizzare il veleno della tarantola bisognava ballare la tarantella, una bizzarra danza in cui, alla maniera dei «selvaggi», compivano contorsioni e gesti indecenti che degeneravano in una specie di delirio. Spizzirri raccontava che un giovane del suo paese morso da una tarantola fu condotto da un chirurgo il quale applicò sulla ferita un bottone rovente senza che ciò apportasse alcun sollievo.

    Bagni di vino

    Il padre mandò a chiamare un noto ciaravularo di Mendicino, che recitò alcuni carmi, sistemò sul capo dell’infermo un mantello di lana e gli fece fare dei bagni di vapore di vino dentro al quale aveva fatto bollire rosmarino e altre erbe. Il ragazzo dopo tre giorni guarì.
    La prolifica e spiritosa scrittrice Chaterine Grace Frances Gore, i cui romanzi erano alla moda in Inghilterra, dedicò un lungo racconto a una tarantolata calabrese. Il dottor Magliari asseriva che in Calabria le tarantole era velenosissime e spingeva gli infermi a saltellare tarantelle diverse da quelle della Puglia; in alcuni paesi, invece, i sanitari curavano gli avvelenati senza liuti e chitarre, usando soprattutto vapori di vino aromatizzato con varie piante.
    Pugliese informava che a Crucoli, nella Calabria Ulteriore, si praticava ancora l’uso di sanare i trafitti della tarantola facendo ballare gli ammalati fino all’esaurimento delle forze al suono della chitarra.

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    Illustrazione della tarantella suonata e ballata nel Meridione d’Italia

    Salta e suda che ti passa

    Vergari annotava che le tarantole in Calabria erano numerose e i dottori per guarirne il morso usavano l’aceto ammoniacale e farmaci che favorivano la sudorazione, ma il rimedio più diffuso rimaneva quello di far saltellare il paziente per farlo sudare. Il medico Giovanni Nigro di Rossano comunicava che a Cropalati due ragazzi morsicati dalla lycosa tarantula erano guariti con la danza protratta per un mese mentre il dottor Volpe di Nicastro riferiva che in una contrada infestata da tarantole la gente eliminava il veleno mettendo i pazienti in una stufa e allietandoli con chitarre battenti e cantilene.

    In una ricerca condotta sul «male del ragno», Achille Costa sosteneva che diversi territori calabresi erano infestati dai terribili falangi e i morsicati avevano una tendenza al pianto o al riso. I contadini chiamavano le tarantole «schette», «vedove» e «maritate» e le catturavano con un frustolo di paglia avvolto in poca seta: lo calavano nella tana e ne prendevano di gigantesche simili a quelle pugliesi.

    La melodia della tarantola

    Sempre nell’800, Marzano raccontava che in Calabria, la tarantola che mordeva nella stagione estiva produceva smania e irrequietezza e gli infermi, ascoltando la musica, erano spinti ad un convulso volteggiare. Per liberarsi dal veleno del terribile insetto si doveva trovare la melodia dell’aracnide e per questo motivo i parenti assoldavano esperti suonatori di pifferi, zampogne, chitarre e tamburelli.

    Ai primi suoni di questi «schiamazzosi» strumenti, la tarantolata emetteva lunghi sospiri, si contorceva, si dimenava e, all’incalzare del ritmo, si alzava dal letto e iniziava una danza frenetica e delirante. I giovani del vicinato si alternavano a ballare con l’ammalata fin tanto che, affranta dalla stanchezza, questa cadeva esausta tra un fiume di sudore che ne leniva i patimenti. Una volta riposata, la donna cominciava nuovamente a sgambettare in maniera furibonda al suono della tarantella e, dopo tre giorni, si metteva a letto ormai guarita.

    Vedove e zitelle

    Spesso, per animare vieppiù il ballo, alla musica si univa il canto delle comari in cui si rimproverava la tarantola «malandrina» di aver portato la povera ragazza alla rovina. Alla fine del secolo, Pignatari scriveva che i calabresi credevano nel morso del falangio curato col ballo non meno dei pugliesi e dei napoletani e pensavano che se la tarantola era vedova il morsicato preferiva danzare con persone vestite a lutto mentre se era zitella o maritata non badava ai colori. A tal proposito lo studioso notava che, a differenza di quanto sosteneva Aldovrandi, le tarantolate non avevano mai mostrato predilezione per il rosso e il verde, né avevano avversione per il nero poiché le gonne e i giubbetti delle contadine erano colorati con l’indaco.

    A Vena, un villaggio albanese, Francesco Bubba durante il rito di guarigione per il veleno del ragno volle cambiare sette vestiti abbigliandosi da signore, da prete, da sposo, da signora e da campagnola.

    Quando la banda passò

    Agli inizi del Novecento, secondo alcune testimonianze, il tarantismo era ancora presente in Calabria. Lorenzo Galasso di Nicotera, parroco di Comparni, una piccola frazione di Mileto, asseriva che nelle sue zone il volgo era convinto che la tarantola fosse velenosa e, se l’intossicato non guariva tramite il ballo, era messo in un forno ben caldo per circa un’ora. Raccontava di aver visto una giovinetta in salute che, punta dall’insetto, era diventata pallida come la morte e, nonostante spiegasse che altre erano le cause del male, i suoi familiari corsero a chiamare dei suonatori: appena questi cominciarono a suonare, la donna iniziò a gridare e ballare.

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    Il tarantismo ha attraversato la storia e la cultura del Meridione d’Italia

    La gente riteneva che la morsicata chiedesse abiti da signora, da signorina o da zitella a secondo che la tarantola fosse maritata, zitella o vedova. Secondo l’opinione diffusa, inoltre, bisognava esaudire le richieste delle morsicate e una di loro era così capricciosa che, non soddisfatta degli orchestranti, richiese una banda musicale intera. L’attarantata ballando doveva fare le stesse cose del falangio che l’aveva trafitta fino a tramortire l’insetto che era nel suo corpo e per questo motivo a volte ballava giorno e notte anche per quindici giorni.

    L’estrema unzione

    Nel momento in cui stava per arrivare la morte del ragno, la giovane sembrava entrasse in agonia, barcollava nella stanza sostenuta dalle amiche e, con un fil di voce, voleva ceri accesi e un sacerdote per l’estrema unzione. Il parroco riferiva che un giorno, chiamato da una famiglia del paese, trovò una femmina stesa a terra e i parenti seduti tutt’intorno pretesero che la ungesse perché così richiedeva l’agonia dell’aracnide.

    Intimorito per il tono minaccioso chiese perdono al Signore e con l’olio fece dei segni sulla fronte dell’avvelenata e la benedì con l’aspersorio che avevano portato delle vicine. La tarantata chiuse gli occhi come se fosse davvero morta e le donne continuarono a piangere ma dopo un po’ improvvisamente si alzò in piedi guarita.
    Un altro prete, mentre stava dando l’assoluzione a una tarantolata di settant’anni vide che la moribonda, all’udire dei suoni provenienti dall’esterno, si alzò dal letto e come una indemoniata si mise a saltellare e accanirsi contro di lui con fare minaccioso tale da costringerlo a scappare.

    Interviene il Comune di Mileto

    Galasso informava, inoltre, che nella comunità di Comparni erano state punte dalle tarantole quarantacinque persone e, poiché ogni attività in paese era ferma, per avere cibo bisognò chiedere aiuto al comune di Mileto.

    Per un mese nel paese non si fece altro che suonare, cantare e ballare come in una festa e una fanciulla, che presa d’invidia dalle compagne che ballavano si era aggregata a loro, fu picchiata dal padre con un nodoso bastone. Molta gente pensava che le tarantolate fossero furbe donzelle che volevano farsi ammirare come ballerine ma ciò non era molto credibile perché nessuno desiderava dimenarsi per tanto tempo, senza contare che il rito richiedeva una spesa notevole per famiglie che non potevano permetterselo.

    Il morso della tarantola

    Adriano affermava che la fantasia dei campagnoli calabresi, eccitata da una esagerata suggestione e fomentata dalle più assurde credenze, continuava ad attribuire alla puntura della lycosa tarantula un grave avvelenamento che si manifestava con la taràntula, una danza convulsiva ed irrefrenabile. Così il volgo chiamava indifferentemente con lo stesso nome sia l’animale che gli effetti del suo morso: L’à muzzicatu ‘a tarantula, è stato morsicato dalla tarantola; e tena la tarantula, è affetto da tarantismo.

    Raffaele Lombardi Satriani aggiungeva che i contadini individuavano la tarantola pecurara e quaddarara: nel primo caso il sofferente doveva ballare al suono della zampogna; nel secondo caso si doveva accompagnare il ballo con una lira o battendo con una mazza su una pentola. Il morsicato doveva indossare vestiti diversi a secondo se il falangio era di color nero o rosso: se il ragno era di color nero, gli abiti della tarantolata dovevano essere neri, perché si credeva che la tarantola fosse vedova; se invece era screziato di rosso, gli abiti dovevano essere di zita o di zitu (sposa o sposo).
    La comare, ritenuta esperta delle segrete cose, aveva un ruolo fondamentale durante il rito: assegnava i compiti ai ballerini, sceglieva le armonie degli strumenti e dirigeva un coro in cui si diceva che la «signora tarantola» aveva trafitto la poveretta al piede e con i piedi sarebbe stata schiacciata.