Categoria: Cultura

  • Gerace grand tour: sentirsi viaggiatori in Calabria

    Gerace grand tour: sentirsi viaggiatori in Calabria

    Prima di salire verso Gerace facciamo due passi per le strade di Locri e passiamo da piazza Zaleuco. Poi sul lungomare vediamo la statua dedicata a Nosside. Zaleuco è considerato il primo legislatore della sua città e del nostro Occidente, anche se sulla sua opera abbiamo notizie indirette. Lui stesso è un personaggio leggendario. Di Nosside invece, posteriore di alcuni secoli, ci sono arrivati i versi, era una poetessa. Le hanno intitolato un premio letterario di poesia, giunto quest’anno alla XXXVIII edizione. Ogni anno viene pubblicato un volume, un’antologia dei testi in concorso.

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    Zaleuco di Locri

    Zaleuco e i garantisti

    Su Zaleuco, invece, non mi pare si organizzino eventi. In un paese come il nostro, allergico alle regole, come potremmo celebrare il primo che ha provate a darcele, queste benedette regole? Oltretutto le punizioni per i trasgressori erano davvero severe e noi, intanto, ci siamo trasformati nel paradiso dei garantisti.
    Pare che Gerace sia stata fondata dagli abitanti di Locri, in epoca medievale, quando le coste erano diventate paludose e insicure in tutta la regione. Per oltre dieci secoli la nuova città ha costituito il centro amministrativo e politico del territorio circostante. Poi circa un secolo fa, dalle alture le persone hanno cominciato a scendere in pianura, per stabilirsi lungo la Statale 106 e la linea ferroviaria. Così Gerace ha perso un po’ di abitanti, come tutti i paesi dell’interno.

    Zaino in spalla

    Solo dieci chilometri separano i due centri, ma sembrano due mondi lontani. Per le strade di Locri abbonda un’edilizia piuttosto disordinata, tra un palazzo e l’altro sopravvivono alcuni edifici liberty. Le coste calabresi sono state descritte come un’esposizione ininterrotta di materiali per l’edilizia, e la patria di Zaleuco non fa eccezione. A Gerace prevale la pietra, molti edifici imponenti, massicci, segnalano l’importanza passata di questa cittadina, mentre si sale verso la splendida cattedrale. Tante abitazioni sono vuote, in vendita o in abbandono, eppure le strade ripide sono percorse da visitatori italiani e stranieri, in questo giugno ancora non troppo caldo. I pullman depositano giù, fuori dalla prima porta, le comitive in visita, che prendono posto sul treinino turistico per scalare le varie parti del centro storico, fino al castello. Nonostante l’età media non proprio giovanissima i visitatori sono allegri come studenti in gita. Si notano anche coppie di mezza età, zaino in spalla, fisico asciutto, in marcia sotto il sole, come dovrebbero fare i veri viaggiatori. Non ci sono solo gruppi di passaggio, esistono alcune strutture alberghiere e diversi bed and breakfast che garantiscono una certa ricettività.

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    Gerace vista dall’alto (foto pagina facebook ExploreGerace)

    La difesa bizantina

    Gerace è greca, ma la sua grecità non è quella di Nosside e Zaleuco, non c’entra la Magna Graecia. Gerace nel Medioevo faceva parte, come gran parte della Calabria, dei territori bizantini, del grande impero con capitale Costantinopoli, che si estendeva fino al Mar Nero. Anche dopo la conquista normanna dell’Italia meridionale, nell’XI secolo, le comunità greche hanno difeso per secoli la propria identità, riunite intorno ai vescovi e ai monaci. Poi una alla volta hanno dovuto cedere, il rito latino ha sostituito quello greco per la liturgia. A quel tempo non si badava al politicamente corretto né al dialogo interreligioso.
    La memoria bizantina rimane evidente in alcune architetture religiose, a Gerace e nei dintorni, non siamo lontani da Stilo e da Bivongi, il territorio è costellato di chiese rupestri, di piccoli monasteri ed eremi basiliani. Edifici e paesaggi evocano il Peloponneso, la Tessaglia, le montagne dell’Epiro.

    Barlaam da Seminara, vescovo di Gerace

    I manuali di letteratura italiana citano sempre Barlaam da Seminara come il personaggio che ha riportato la conoscenza del greco tra i letterati del Trecento, ma non scrivono mai che era un vescovo, vescovo di Gerace e prima della nomina episcopale monaco nel monastero di Sant’Elia a Galatro. Molto stimato anche presso la corte di Bisanzio, da cui riceve cariche e riconoscimenti. Barlaam, vescovo nominato dal pontefice romano, era anche un ambasciatore, inviato presso la corte di Costantinopoli per migliorare i difficili rapporti con la chiesa greca. Cattolici e ortodossi erano già separati e reciprocamente ostili, ma ancora tra il Trecento e il Quattrocento ci furono tentativi di riavvicinamento.
    I gruppi di turisti, tra una chiesa e l’altra (Gerace conta cento chiese) acquistano dolci tradizionali, i rafioli glassati di zucchero del Biscottificio Limone, semplici e buoni, e sostano nei bar disposti strategicamente nelle zone più frequentate.
    Vale la pena di visitare Gerace, anche se questa volta l’incontro più significativo è stato quello con Simone Lacopo.

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    Edward Lear

    Il grand tour a Gerace

    Simone ha quarant’anni, ma ne dimostra meno. Affabile, premuroso, ci accoglie all’hotel Palazzo Sant’Anna e, in un paio di chiacchierate, tra una passeggiata e l’altra, ci racconta la sua vita, intrecciata con quella del luogo dove vive e lavora. Ci dice che ha fatto studi tecnici e ha iniziato a lavorare nelle strutture ricettive occupandosi degli impianti elettrici e della rete internet. Così ha capito che gli sarebbe piaciuto lavorare proprio in questo settore, si è iscritto a Lingue all’università, ma ha continuato a lavorare nel fine settimana e d’estate. Poi per la tesi di laurea, in letteratura inglese, ha scelto il periodo vittoriano, perché i viaggiatori inglesi sono stati molto importanti per far conoscere la Calabria e Gerace nel mondo.

    Infatti ci sono delle targhe a ricordo della presenza di Edward Lear; nell’agosto 1847 fu ospite della famiglia Scaglione in un bel palazzo poco più giù della cattedrale. Nel piccolo museo civico sono esposte le sue litografie e i disegni a cui si dedicò in quelle giornate.
    Avrebbe potuto continuare a lavorare a Londra, Simone, dopo la laurea, ma ha preferito tornare qui, dove vive la sua famiglia, qui dove la nonna Laura gli raccontava le storie del paese, le leggende, le tradizioni. Simone ha registrato negli anni i canti religiosi della tradizione locale che ascoltava, quando si riunivano a casa della nonna, le anziane del quartiere. E poi ha travasato le vecchie cassette sui supporti digitali, per custodirli meglio.
    Prima di andare via ci porta nella piccola chiesa attigua all’hotel.

    Quando nel palazzo vivevano le monache di clausura seguivano la liturgia dietro le sbarre, che ancora sono visibili sia nell’hotel che nella chiesa. Nella sagrestia è ancora visibile la ruota per gli esposti, i bambini abbandonati, affidati alle suore dalle madri che non avevano la possibilità di occuparsene.

    Nostalgia dei vecchi viaggiatori vittoriani

    Poco sotto il convento sorgono due antichi ospedali, in uno dei quali aveva sede anche un Monte di Pietà. Dal Palazzo Sant’Anna e dalla passeggiata sottostante si gode un ampio panorama, le spiagge di Locri, Siderno e altri centri limitrofi. Da Locri pare siano arrivate le colonne che ancora oggi reggono le volte della cattedrale, nel Medioevo si faceva così. Le basiliche e i palazzi romani sono stati edificati smantellando gli edifici pagani. Gerace trasmette questo senso di continuità della storia, anche stando seduti al bar del Tocco o al ristorante “La broccia”. Non abbiamo a disposizione i tempi dilatati dei viaggiatori del Grand Tour, che si concedevano alcuni anni per conoscere con calma le regioni più estreme d’Europa e del vicino Oriente. Ci dobbiamo accontentare, ne vale comunque la pena.
    Talmente ricca e complessa la storia in questo tratto di Calabria che ci si smarrisce, il primo legislatore d’Occidente, una poetessa di venticinque secoli fa, un vescovo che era di casa alla corte di Costantinopoli e che ha riportato la conoscenza del greco tra i primi appassionati dei classici, alla ricerca dei manoscritti dispersi.

    L’esempio di Simone

    E poi, una volta tanto, una bella storia dei nostri giorni, quella di Simone, che ha studiato per imparare a fare bene il suo lavoro. Che conosce i monumenti della sua città. Che ha registrato la voce della nonna per non perdere le sue storie. E a casa della nonna progetta di aprire un bed and breakfast e di chiamarlo col suo nome, le stanze di Laura. Per farla vivere di nuovo di voci e suoni, la casa, come la ricorda lui. Bisognerebbe portarlo in giro nelle scuole, uno così, a raccontare cosa si può fare, nella propria vita, con un po’ di impegno e di motivazione. In bocca al lupo, Simone.

  • Colonia Federici, un tesoro in Sila tra speranze e abbandono

    Colonia Federici, un tesoro in Sila tra speranze e abbandono

    Qual è l’animale (uomo escluso) che uccide più persone ogni anno sul nostro pianeta? Non pensate a feroci predatori: è la zanzara. Il primato era ancora più indiscusso fino a qualche decennio fa, quando la malaria imperversava anche dalle nostre parti. Non c’era ancora il DDT, le aree paludose da bonificare erano tante e per curare le febbri trasmesse dall’insetto il chinino non era abbastanza per tutti.
    Nell’Italia post unitaria, a cavallo tra ‘800 e ‘900, la poverissima e incolta Calabria era tra le regioni più colpite. Così si decise di curare in una colonia la malaria con… l’aria della Sila. E centinaia di bambini si salvarono. Succedeva tra Camigliatello e Moccone, in un posto splendido e abbandonato da anni: la Colonia Silana Federici.colonia-silana

    La nascita del sanatorio

    Siamo a fine giugno del 1910 quando la Colonia apre i battenti, il terreno – tre ettari – su cui sorge l’ha donato il Comune di Cosenza, che aggiunge anche le spese per arredi e trasferimento, personale sanitario e un contributo annuo di 3.000 lire. Nonostante gli aiuti, però, le cose non sono semplicissime all’inizio. Come ricostruisce Francesca Canino in un articolo di qualche anno fa, la farmacia più vicina dista 20 km, mancano illuminazione e riscaldamento e per avere l’acqua tocca rifornirsi alle fontanelle disseminate nella zona. Ma quelli che hanno dato vita alla colonia non demordono e le cose presto migliorano. Proprio a Federici negli anni ’40 arriveranno i primi termosifoni di tutta la Sila.

    A mandare avanti le cose ci sono cosentini come il dottor Domenico Migliori, cui per un periodo sarà intitolata la Colonia Silana Federici, ma un ruolo di assoluto rilievo lo hanno i piemontesi: Bartolomeo Gosio, luminare della lotta alla malaria, che ha voluto quel centro in Sila e, soprattutto, Virginia Angiola Borrino e Giuseppina Le Maire.
    Borrino è una pediatra, prima donna titolare di una cattedra universitaria di Medicina, che Gosio ha voluto sull’altopiano calabro per occuparsi dei bambini malarici messi peggio. Le Maire, invece, un’educatrice e attivista che collaborerà a lungo con Umberto Zanotti Bianco per il riscatto del Sud Italia e della Calabria. Giuseppina, fonderà anni dopo anche una scuola rurale a Cetraro, e a Camigliatello insegnerà ai bambini le elementari regole d’igiene a loro ignote.

    La malaria in Calabria e la colonia in Sila

    In Sila, insomma, la malaria si sconfigge anche attraverso l’educazione dei più piccoli e, di riflesso, dei loro familiari. Fino a quegli anni, infatti, i principali rimedi contro le febbri si richiamavano alla medicina tradizionale, se non alla magia. Barbieri e magare praticavano salassi, ai malati si davano da bere infusi di vario genere. Qualcuno beveva gusci di noce tritati e bolliti nel vino con limone e bergamotto. Altri mettevano fichi d’India vicino al focolare o facevano pipì al mattino sui cucuzzielli acriesti maturi, pensando di trasferire alle piante la malattia. A Castrovillari i devoti si rivolgevano così alla Madonna d’Itria in cambio della guarigione: «Madonna mia ‘i l’Itria, chi stai ‘nganna a’sta jumara fammi passà ‘sta freva ‘i quartana c’u jurnu tuju non vugghiu mangia’ panu».colonia-malaria-sila

    I metodi della Colonia Silana Federici non tardarono a mostrarsi più efficaci. E la struttura crebbe di anno in anno, grazie alle donazioni che arrivarono. Ci furono contributi dalla regina Elena in persona, così come dalla Croce Rossa, dalla Fondazione Carnegie, dal Consiglio Nazionale delle Donne Italiane, dall’Associazione Donne di Cremona, dalla marchesa Lucifero di Crotone. Il marchese Berlingieri offrì un padiglione, un altro lo regalò l’ingegnere Barrese. Le Maire donò una campana e la contessa Adorno fece erigere una chiesetta in legno per ricordare suo figlio Enrico, aviatore morto nel corso di un’esercitazione.

    Malaria o tubercolosi, si va in colonia in Sila

    La Colonia Silana Federici nel frattempo era diventata un ente morale e il fascismo aveva sostituito l’intestazione a Domenico Migliori con una al quadrunviro Michele Bianchi. I bambini guarirono a centinaia e si andò avanti così anche dopo la guerra, quando nella struttura iniziarono a occuparsi anche di tubercolosi. La malaria, in Sila come nel resto d’Italia, era ormai praticamente scomparsa. Salvo rari casi isolati di viaggiatori di ritorno da qualche paese africano, l’abbiamo debellata definitivamente nel 1970.

    Sarà forse per questo che proprio in quel decennio a Camigliatello la struttura ha iniziato lentamente a andare in malora. Per un po’ ci ha tenuto corsi di formazione la Regione, poi si è dibattuto a lungo su chi fosse il vero proprietario della struttura. Vandali e scorrere del tempo nel frattempo hanno fatto il loro mestiere, con la colonia sempre più malridotta.
    Sindaci hanno dato vita a petizioni online, giornalisti e associazioni hanno sollevato periodicamente il problema del deterioramento progressivo degli immobili. Che hanno un valore notevole, non solo dal punto di vista storico e sociale. Per anni però non si è mosso nulla.

    Una nuova vita, ma senza fretta

    Poi, a inizio 2021, sulle pagine web dell’Ente Parco e di vari quotidiani locali arriva l’annuncio: il ministero dell’Ambiente ha stanziato oltre 3 milioni di euro per il recupero della struttura. Che è del Comune di Spezzano, ma ad occuparsene, sarà, appunto il Parco. Nuova vita per l’ex colonia? Le premesse non mancherebbero. A Federici, si legge nei comunicati di due anni e mezzo fa, dovrebbe nascere «una Scuola di formazione della montagna, destinata alla specializzazione degli operatori, ma pure allo studio e al monitoraggio del bosco, al fine di completare l’Inventario Forestale del Parco Nazionale della Sila». Il tutto condito da efficientamento energetico, foresteria, un centro cultura.

    «Siamo pronti – assicurò il Parco per l’occasione – a iniziare questa sfida bellissima, l’ufficio tecnico è già al lavoro sulla progettazione». Trenta mesi dopo, però, a Federici non c’è traccia di cantieri, se non una rete di protezione che col recupero della struttura non ha nulla a che vedere. I soldi, ci hanno assicurato dal Parco, non sono a rischio, il finanziamento è confermato ma è arrivato solo di recente. La progettazione va invece per le lunghe. Il ritardo di Roma nell’erogazione dei fondi ha impedito di fare granché finora. E le parole di gennaio 2021? «Annunci», appunto, ci confessano con un certo candore. Sperando che i fatti li seguano presto.

    Le immagini all’interno dell’articolo sono tratte dalla pagina Facebook dell’associazione culturale Mistery Hunters o dagli archivi fotografici dell’Istituto Superiore di Sanità.

  • Quattromani: il padre cosentino della letteratura italiana

    Quattromani: il padre cosentino della letteratura italiana

    Nobile, benestante quindi con possibilità di studiare cose “astratte” e “inutili”. E sarebbe un modo per liquidare Sertorio Quattromani in poche battute.
    Ma oltre che ingenerosa, questa liquidazione sarebbe inutile: non spiegherebbe perché una via importante del centro storico di Cosenza è dedicata a lui. E non spiegherebbe perché questo umanista cosentino riceve ancora tanto interesse fuori dalla Calabria dagli addetti ai lavori.
    Filologo e filosofo, Quattromani ha diviso la maggior parte dei suoi 62 anni di esistenza tra la critica letteraria e la divulgazione del pensiero del suo maestro: Bernardino Telesio. E ha un altro merito: aver tolto l’ego dall’Accademia della sua città, nata come Parrasiana, diventata poi Telesiana e, solo sotto la sua gestione, Cosentina.
    Un modo per dire che l’Accademia è della città. Ma anche per affermare che i cosentini che l’avevano fondata erano una élite coi controfiocchi.

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    Il frontone dell’Accademia Cosentina

    Quattromani: un notabile del ’500

    Sertorio Quattromani non è un pioniere come Aulo Giano Parrasio. Le sue biografie, che si basano essenzialmente su un epistolario professionale degno di dieci grafomani longevi, lo raccontano come un personaggio pignolo, metodico e zelante.
    Come uno di quei professori di cui si subiscono i metodi e l’antipatia da studenti ma che non si finisce mai di ringraziare dopo.
    Non è neppure un pensatore della statura di Telesio, il primo grande rinascimentale. Anzi, tutto lascia pensare che Quattromani non abbia osato troppo anche perché schiacciato dalla mole intellettuale del filosofo cosentino. Che tra l’altro figura tra i suoi maestri e nella sua parentela.
    Notabilato e cultura: sono i primi due elementi utili per inquadrare il Nostro.

    Ritratto di Aulo Giano Parrasio

    Quattromani e la Cosenza che conta

    Come per molti notabili, anche nel caso di Quattromani le date sono incerte.
    Nasce, comunque, a Cosenza nel 1541. E vale subito la pena di spendere due paroline sulla genealogia che, per lui, fa tutt’uno con l’araldica.
    Suo padre Bartolo, feudatario della Sila Grande cosentina, è a sua volta rampollo di una famiglia di nobiltà “privilegiata” (cioè di borghesi nobilitati) originaria di Aprigliano e piena zeppa di giuristi, soprattutto notai, e vescovi. Una volta nobilitati, i Quattromani si stabiliscono a Cosenza e fanno parte in maniera stabile del Sedile, cioè il Senato cittadino. Dove siedono spesso assieme ai Telesio, con cui si imparentano. Infatti, Elisabetta D’Aquino, la mamma di Sertorio, è lontana parente di Bernardino Telesio. Ma non finisce qui: la moglie di Bernardino Telesio, nonno del filosofo, è Giovanna Quattromani.
    Fin qui, non c’è una vera differenza tra il patriziato cosentino e le altre nobiltà di provincia della Penisola, perché tutte le famiglie che “nascono” tendono a legarsi fino all’endogamia. La vera differenza è il livello culturale, decisamente alto, dell’élite bruzia dell’epoca, che si divide tra le cariche e le biblioteche e, soprattutto, ha un ruolo sociale davvero forte.
    Già: Antonio Telesio, figlio di Bernardino senior e quindi zio del filosofo e parente in doppia linea di Sertorio, è un accademico di grido, che lascia il Sedile solo per far carriera a Roma.

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    Sertorio Quattromani

    Una provincia cosmopolita

    Non c’è nulla di meglio che acculturarsi in famiglia. Per Sertorio Quattromani l’espressione vale alla lettera: appena quindicenne, frequenta le lezioni che il cugino Telesio tiene periodicamente all’Accademia.
    È in buona compagnia: tra gli uditori ci sono Agostino Doni, medico e filosofo che avrebbe fatto carriera a Basilea, e, giusto per restare in famiglia, il filosofo (un po’ oscuro e decisamente dimenticato) Giovan Paolo d’Aquino, cugino di Sertorio per parte di madre.
    Da buon intellettuale cosentino, il giovane Quattromani ha un imprinting progressista (quasi cattocomunista, secondo gli standard dell’epoca): prima di ascoltare il grande Telesio, ha come precettore Onorato Fascitelli, un benedettino molisano dalle simpatie valdesi che, tuttavia, fa carriera. Infatti, diventa vescovo di Isola Capo Rizzuto a metà ’500 e a dispetto delle sue idee.
    Con questo popò di bagaglio, che la Cosenza bene non avrebbe mai più raggiunto, al Nostro non resta che cambiare aria, per migliorare. Infatti, va a Roma.

    Quattromani supertopo di biblioteca

    A Roma, Quattromani dimostra il suo talento eccezionale di topo da biblioteca. Si esercita nella Biblioteca Vaticana, dove divora di tutto, dai classici greci e latini ai grandi poeti italiani, Petrarca in particolare.
    Su quest’ultimo, il cosentino ha un’intuizione geniale, con cui riscrive la storia, allora nascente, della letteratura italiana. Secondo lo studioso, infatti, Petrarca si sarebbe ispirato ai poeti provenzali e volgari per comporre il suo Canzoniere.
    Per provare la propria intuizione, Quattromani non esita a ricorrere alle “pastette”. Quelle dei compatrioti, come l’alto prelato e nobile Vincenzo Bombini, allora impegnato nel Concilio di Trento assieme a Tommaso Telesio, arcivescovo e fratello del filosofo.
    E quelle, forse più efficaci, dell’editore Paolo Manuzio, che convince papa Pio IV a mettere a disposizione di Quattromani tutte le biblioteche capitoline. Dopo aver ingurgitato questa impressionante mole di opere, il Nostro decide di raggiungere Bernardino Telesio, che nel 1565 si trova a Napoli per divulgare e difendere la sua opera.

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    Papa Pio IV

    Telesio nei guai con la Chiesa

    Si è già capito che la Chiesa ha avuto un’influenza determinante anche nella nascita dell’umanesimo più laico.
    Tuttavia, la Chiesa dell’epoca di Telesio e Quattromani, non è più quella cosmopolita e, a modo suo, progressista della generazione precedente.
    È una Chiesa irrigidita e incalzata dalla Riforma, che sceglie, col Concilio di Trento, il razionalismo e punta tutte le sue fiches su Aristotele. Non proprio l’ideale per i nuovi filosofi alla Telesio, che invece si ispirano ai presocratici per costruire i propri sistemi di pensiero, più o meno “rivoluzionari” e comunque di rottura proprio con l’aristotelismo.
    Nello stesso periodo, il pensatore cosentino inizia la riedizione delle sue opere e tutto lascia pensare che Quattromani sia andato a Napoli per aiutare il maestro.
    Ma stavolta le amicizie e le parentele che contano possono poco: i libri di Telesio, ripubblicati nella Capitale nel 1570, finiscono all’Indice. Quattromani si dà da fare per evitare la condanna e fa pressioni su Bombini, diventato nel frattempo protonotaro apostolico della Curia romana sotto Pio V e Gregorio XIII.
    Ne esce un compromesso superclericale: le opere restano all’Indice dei libri proibiti, ma con la formula ambigua “Donex expurgentur”, cioè fino a quando non saranno ripuliti. Da vietati, i libri telesiani diventano “vietatini” (quindi leggibili più o meno sottobanco). Analoga fortuna non l’avranno gli altri grandi pensatori dell’epoca, Bruno e Campanella, molto più espliciti del cosentino e, soprattutto, molto meno protetti.

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    La statua del filosofo Bernardino Telesio a Cosenza in piazza XV Marzo

    Quattromani torna a Cosenza

    Finalmente il Nostro rientra a Cosenza per restarvi, salvi vari viaggetti a Roma e Napoli, puntualmente registrati nelle sue lettere.
    Da buon rinascimentale, Quattromani coltiva un epistolario monumentale, dove racconta sé stesso e i suoi studi. Scrive a tutti e dappertutto: da Roma, Cosenza, Cerisano ecc. E fa l’intellettuale a tempo pieno. Traduce (o “volgarizza”, come si diceva allora) i classici latini in quantità industriali, come se non ci fosse un domani.
    E si dà un gran da fare nell’Accademia Telesiana (già Parrasiana), dov’è braccio destro del suo maestro.
    Alla morte di Telesio (1588), che aveva trasformato l’Accademia in un club filosofico, Quattromani prende le redini dell’istituzione, la riorganizza e le dà un’impronta più letteraria, forse meno rischiosa della filosofia.
    Ma la filosofia comunque non sparisce: né dall’Accademia né dalle preoccupazioni di Sertorio, che omaggia il suo maestro con La filosofia di Bernardino Telesio ristretta in brevità, un “bignamino” del pensiero telesiano, dedicato per l’occasione a Ferrante Carafa, il duca di Nocera.

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    Immagine di Cosenza all’epoca di Sertorio Quattromani

    La fine e l’eredità

    La biografia di Sertorio Quattromani non è particolarmente emozionante. L’intellettuale cosentino non è un “rivoluzionario” né un “riformista”: è solo uno studioso acuto e capacissimo, che ha fatto (bene) il proprio mestiere al riparo del notabilato a cui apparteneva e non ha mai messo in discussione il “sistema”. Non in maniera pubblica, almeno.
    La data precisa della morte, causata dai soliti acciacchi dei benestanti (tra cui l’immancabile gotta) è incerta. Lo studioso Luigi De Franco ipotizza il 10 novembre 1863, che è poi la data del testamento.
    A dispetto di un’immagine piuttosto polverosa, Quattromani ha un merito serio: aver contribuito all’affermarsi della lingua italiana, che identifica nella parlata dell’alta Toscana (per capirci, la stessa utilizzata dagli speaker più bravi).
    L’eredità fisica più importante è costituita dalla sua biblioteca, lasciata alla nipote, figlia della sorella Giulia: la poetessa e accademica cosentina Lucrezia della Valle.
    Ma questa è un’altra storia.

     

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Santi, filosofi e vaccari: la Sila di Aghia Sophia

    Santi, filosofi e vaccari: la Sila di Aghia Sophia

    ‘A Sila va capita. Sentirete questo ritornello a Cosenza ogni qual volta si chiama in causa il Gran Bosco d’Italia. È un modo per dire che l’altopiano calabrese non è un posto per tutti, non è il solito divertimento effimero stile “costa tirrenica”, dove – a parte la bellezza universale del mare quando si ha la fortuna di trovarlo pulito – si replicano abitudini e si frequentano le stesse persone incontrate la mattina precedente in città. Insomma, non è la solita minestra. Sulla verità di questa affermazione c’è chi ha qualcosa da obiettare. Io non ho nessun dubbio, invece. Difendo la bellezza di un posto unico, con l’aria più pulita del mondo. Lo dice una ricerca giapponese. I nipponici, come sapete, sono precisi e affidabili. Gli credo sulla fiducia.

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    Franco “Bifo” Berardi

    Bifo e gli altri

    Tutte queste parole per dire che oggi 24 e domani 25 giugno è in programma la terza edizione di Aghia Sophia Fest. Un programma di tutto rispetto: da Franco Berardi, in arte Bifo – agit prop e intellettuale eretico -al talk con la coppia Rezza-Mastrella che dialogherà con l’attore e drammaturgo Ernesto Orrico. Poi musica (tanta), laboratori di fumetti, escursioni, attività per grandi e piccoli. Il programma completo è sulla pagina Facebook del festival.

    Da Corazzo a quasi Lorica

    Lo scorso anno era a Corazzo, tra i ruderi gioachimiti, oggi Aghia Sophia Fest sbarca nel Parco nazionale della Sila, a pochi chilometri da Lorica. E la possibilità di incrociare quegli splendidi esemplari di cuazzi nivuri, teste nere avvistate in determinati periodi tra quei boschi. Non parlo di giganti della montagna né lupi, ma di prelibati porcini che i cercatori di funghi trovano tra i pini del luogo. Chi va per Aghia Sophia può imbattersi anche in loro se è fortunato. Ma non si avventuri troppo lontano, in quota il rischio di perdersi con facilità è sempre dietro l’angolo. Buona regola applicabile a tutte le latitudini.

    Il capitolo “origini” ci porta all’Unical. Giuseppe Bornino, direttore artistico di Aghia Sophia Fest ex aequo con Silvia Cosentino, spiega come tutto ebbe inizio: «In principio fu Il filo di Sophia, collettivo di studenti e studentesse che nel 2008 ha iniziato a fare attività autogestite e poi si è trasformato in associazione culturale partita all’ateneo di Arcavacata e poi transitata al teatro dell’Acquario».

    Il lago Arvo

    Heidegger in Sila

    «Siamo in un territorio particolare, – argomenta Bornino – la Sila Grande. Terra di santi, filosofi e vaccari. Si riesce in maniera serena e tranquilla a isolarsi da impegno, bulimia, performance. La Sila risponde molto di più al principio del piacere che a quello di prestazione per citare Freud e Marcuse. Si fanno delle cose per il pure piacere di farle». Si vede che Bornino è un prof di filosofia. Al liceo di Amantea, sottolinea.
    Continua la lezione: «La Sila è un territorio mistico dove il rapporto con il divino, che non è solo di natura religiosa, si sente e si vive. È un posto disseminato di sentieri interrotti come direbbe Martin Heidegger. Ti imbatti in una radura che si apre improvvisamente». Heidegger non poteva sapere che la sua radura si traduce con liberino nel dialetto degli autoctoni come me. Non di rado tra i liberini spuntano proprio i già citati e amati funghi per chi ha occhi e fiuto per scovarli.

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    Giuseppe Bornino, co-direttore artistico di Aghia Sophia Fest

    Aghia Sophia Fest: baldoria e riflessione

    Al fondo Aghia Sophia Fest non è solo quei due giorni di baldoria e riflessione. Bornino sottolinea in una specie di sindacalese condito di ironia: «Vogliamo creare una piattaforma culturale a vocazione silana che rimanga». Sembrano parole di un politico. Non si candiderà, però. Poi spunta fuori la componente antagonista: «La nostra è un’azione di stampo anticapitalistico, non abbiamo come mira il guadagno. Obiettivo è l’emancipazione culturale del territorio. Per noi è essenziale il rapporto gli autoctoni: il commerciante, l’ente, l’istituzione, ma anche il cittadino comune».

    E cosa resterà? «Qualcosa di importante» – dice: «Stiamo lavorando al primo ecomuseo dedicato ai diritti sociali». Artisti provenienti da diverse parti del mondo verranno in residenza nella zona di Lorica, dialogheranno con gli abitanti e il paesaggio, realizzeranno opere site specific. Ci crediamo molto. E intanto ci godiamo questi due giorni.

  • Parrasio: il papà giramondo dell’Accademia Cosentina

    Parrasio: il papà giramondo dell’Accademia Cosentina

    Di Aulo Giano Parrasio si sa molto. Ma non tutto quel che si sa è preciso.
    Ad esempio, il luogo di nascita, che di solito è autorevolmente indicato in Figline Vegliaturo, un paese di poco più di 1.200 abitanti a sud-est di Cosenza.
    Tuttavia c’è chi ipotizza che il luogo di nascita dell’intellettuale cosentino fosse, invece, Serra Pedace, che ora fa parte di Casali del Manco e non confina neppure con Figline. E non manca chi pensa a Cosenza.
    Più certi il giorno di nascita, 28 dicembre 1470, e i dati familiari, che forniscono un identikit socio-economico piuttosto dettagliato di Parrasio.
    Nato come Giovanni Paolo Parisio, il Nostro era figlio di Tommaso, un giurista molto apprezzato e discendente dei feudatari di Figline, e della nobildonna Bernardina Poerio.
    Si tratta, nel suo caso, di una nobiltà decaduta, in seguito alle lotte feroci tra angioini e aragonesi, e costretta a riciclarsi nelle professioni liberali.

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    Ritratto di Aulo Giano Parrasio

    Parrasio umanista mediterraneo

    Per papà Tommaso la scappatoia è la laurea “in Utroque”, per Giovanni Paolo, invece, è la filologia.
    Infatti, va a lezione di latino e greco da Crassio Pedacio e da Tideo Acciarino Piceno, un illustre studioso marchigiano arrivato a Cosenza nel 1880 al servizio dei Sanseverino e rimastovi per dieci anni.
    Poi, come tutti i rampolli delle famiglie bene, cambia aria e va prima a Lecce e poi a Corfù, per approfondire il greco. Quindi ritorna a Cosenza, dove prova ad aprire una scuola sull’esempio dei suoi maestri. Ma, evidentemente, le cose non vanno troppo bene. Ed ecco che Parisio, il quale nel frattempo ha latinizzato il suo nome in Parrasio, cambia di nuovo aria e nel 1491 va a Napoli. E lì scopre un mondo.

    La cultura al Sud

    A questo punto, serve una piccola operazione verità. Innanzitutto, non è vero che nel medioevo la cultura classica fosse scomparsa.
    Si era, più semplicemente, inabissata la letteratura greco-romana. Ma il latino e il greco sopravvivevano, anche a livello di massa, perché i due più grandi best seller dell’epoca erano scritti in latino e greco. Ci si riferisce alla Bibbia e al Corpus Juris Civilis.
    Ancora: nel Sud Italia il greco restava piuttosto diffuso, sia nelle classi colte sia a livello religioso. Si pensi, giusto per fare un esempio, al ruolo del monaco basiliano Barlaam di Seminara (che, tra le varie, fu anche maestro di Boccaccio).
    Il Sud, a cavallo tra medioevo e rinascimento, è ancora un territorio importante e conteso: è il centro del Mediterraneo, ancora non “scavalcato” dalle rotte atlantiche. Napoli e Palermo sono due capitali di tutto rispetto che surclassano Roma e non hanno nulla da invidiare a Firenze. Le élite meridionali sono in genere aperte e cosmopolite e scommettono non poco sulla cultura. Parrasio è uno degli ultimi esponenti di questa nobiltà che lancia le ultime fiammate prima di declinare.

    Il monaco Barlaam di Seminara

    Parrasio nella Napoli degli Aragona

    Vuoi per le origini nobili, vuoi per sensibilità culturale della nobiltà napoletana, vuoi perché Napoli è accogliente, Parrasio si sente subito a casa.
    Si lega a Giovanni Pontano, un umanista umbro al servizio degli Aragona. Pontano vuol dire senz’altro cultura: riscuote un grande successo nei circoli “dotti” ed è il fondatore dell’Accademia Pontaniana. Ma significa anche politica.
    Parrasio approfitta di entrambi gli aspetti: entra nell’Accademia e, soprattutto, a corte, dove riceve la protezione di re Ferdinando II di Aragona, che lo riempie di riconoscimenti e quattrini.
    Troppo bello per essere vero? Forse. Soprattutto, troppo bello per durare: Ferdinando muore nel 1496 senza eredi. Gli succede lo zio Federico, che di sicuro non simpatizza con lo staff del nipote. Infatti, l’intellettuale cosentino abbandona Napoli e si rifugia a Roma. Ci resta giusto il tempo di farsi notare dal clero-che-conta e, soprattutto da Pomponio Leto, un umanista che lavora per il papa ma vuole restaurare la religione imperiale. Leto iscrive Parrasio nella sua Accademia Romana. Per fortuna sua, quest’ultimo lascia la città dei pontefici per tempo, cioè nel 1498. Altrimenti sarebbe finito nella retata dei papalini contro l’Accademia.
    La meta successiva di Parrasio è Milano. Un must per i calabresi di tutti i tempi…

    Ferdinando II d’Aragona, re di Napoli e duca di Calabria

    Parrasio e i veleni tra intellettuali

    Il cosentino arriva nella Milano degli Sforza, dove domina Ludovico il Moro, a inizio 1499.
    Qui conosce Alessandro Minuziano, un foggiano di origini oscure, che fa l’editore. In realtà, Minuziano è un superfaccendiere. Filologo geniale e – secondo i critici – un po’ arronzone, il pugliese gestisce una biblioteca e un pensionato di studenti. Ha buone entrature a corte, ma fa troppe cose. Perciò ha bisogno di un collaboratore.
    Assume quindi Parrasio, di cui nota l’estrema abilità nella scrittura latina, e lo usa come ghost writer.
    Tuttavia il rapporto tra i due si incrina, a causa di un terzo incomodo: il cattedratico Emilio Ferrario, che disistima Minuziano e non lo nasconde affatto. Anzi, arriva ad accusare il pugliese di aver stravolto Cicerone e si fa beffe di lui con dei versi micidiali.
    Parrasio, all’inizio si schiera con Minuziano.

    Una carriera in ascesa

    L’arrivo dei francesi a Milano cambia le carte in tavola. Ferrari, legatissimo agli Sforza, deve lasciare la città e la cattedra di Eloquenza. Parrasio, che gode del favore dei francesi, ne prende il posto. E inizia a far concorrenza al suo ormai ex mentore.
    Minuziano, che evidentemente è la classica malalingua, mette in giro calunnie pesantissime. A suo dire, Parrasio sarebbe scappato da Napoli perché colpevole di omicidio. E non basta: lo accusa anche di pederastia.
    Ma il cosentino, per quanto amareggiato, tira dritto. Anzi, si lega all’ateniese Demetrio Calcondila, una specie di Machiavelli dei Balcani rifugiatosi a Milano in seguito a gravi problemi politici, e ne sposa la figlia Teodora. E ottiene la protezione di Étienne Poncher, vescovo di Parigi e membro influente del Senato meneghino.

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    Demetrio Calcondila

    I meriti di Parrasio

    Un piccolo intermezzo per rispondere a una domanda banale: quale fu l’importanza vera di questa generazione di umanisti, di cui Parrasio fu la classica punta di diamante?
    Con non poca retorica, parecchi storici attribuiscono a questi intellettuali il merito di aver recuperato il meglio della cultura classica.
    In realtà, le cose sono più complicate, perché quella cultura non era mai andata persa. L’aveva salvata la Chiesa, in particolare i monaci, che per secoli avevano copiato e conservato manoscritti.
    Parrasio e i suoi colleghi hanno, semmai, un altro merito: la divulgazione di questa cultura in chiave laica. E attenzione: a questo processo non è estranea la stessa Chiesa, che si serve volentieri dell’opera di questi umanisti.
    Lo prova il rapporto tra Parrasio e Poncher. Grazie ai buoni uffici del vescovo francese, il cosentino cura le riedizioni di Ovidio e Claudiano ed entra nei giri politici che contano. Ovviamente, questo tipo di rapporti tra Chiesa e intellettuali contiene il classico boccone avvelenato: questi filologi laici sono più spregiudicati e pubblicano di tutto, a partire dai presocratici e proseguendo con opere esoteriche.
    Questa spregiudicatezza darà le basi al pensiero filosofico successivo, che prenderà direzioni di rottura con il sistema ecclesiastico (Telesio) o sconfinerà nell’eresia e nell’anticlericalismo (Campanella), con conseguenze a volte tragiche (Bruno). Ma questa è un’altra storia.

    L’odierna piazza Parrasio, nel centro storico di Cosenza

    Parrasio intellettuale girovago

    A Milano l’aria diventa pesante per Parrasio: Poncher è richiamato in Francia. Gli subentra Jeoffroy Charles, che prende a benvolere il cosentino, ma ha meno potere per tutelarlo.
    Per questo, Parrasio decide di tagliare la corda. Girovaga tra Vicenza, Pavia e Venezia. Poi, stanco e acciaccato dalla gotta, nel 1511 torna a Cosenza con molti libri e pochi quattrini. Perciò, per sbarcare il lunario fonda una scuola privata: è l’Accademia Parrasiana. Questa istituzione ha un bel successo che, forse, va oltre le intenzioni del fondatore: una generazione dopo la prende in mano Telesio e la ribattezza Accademia Telesiana. Poi la gestione passa a Sertorio Quattromani, che le dà il nome con cui è tuttora nota: Accademia Cosentina.
    Ma i quattrini scarseggiano e il Nostro deve rimollare Cosenza. Stavolta per Roma, dove papa Leone X gli affida una cattedra di eloquenza.
    Stavolta Parrasio non ha nemici, tranne la salute, che lo costringe a tornare a Sud, prima a Napoli, dove gode della protezione di Isabella d’Este, infine a Cosenza, dove arriva moribondo e si spegne il 6 dicembre 1821.
    Ha cinquantuno anni portati malissimo e, alle spalle, un’esistenza passata tra biblioteche e politica che ne vale almeno quattro.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Colta? Sul fatto: la solita Cosenza (Iva esclusa)

    Colta? Sul fatto: la solita Cosenza (Iva esclusa)

    Tempo fa, in occasione di poco rincuoranti risultati elettorali, un amico mi scriveva «in Calabria il feudalesimo non è stato abolito ma si è semplicemente evoluto». Descrizione indiscutibile. L’irrecuperabilità della situazione è conclamata, a Cosenza come altrove. Basterebbe un cambio di mentalità? E quante generazioni occorrono? Una mutazione genetica vera e propria? Una glaciazioncella riequilibratrice?

    Cosenza e la politica

    Recentemente, tra le mie tante scherzose utopie politiche (che chiaramente farebbero ridere i miei colleghi giuristi, e quantomeno i costituzionalisti) si affacciava questa: esiste l’Unione Europea? Bene. Ne facciamo parte? Bene. Allora che gli amministratori di ogni Paese siano destinati, a turno e a sorte, e a tempo determinato, ad amministrare un altro Paese anziché il proprio. Vediamo se qualcuno è capace di raddrizzarci. Vediamo se siamo capaci di fare schifezze dove storicamente attecchiscono con più difficoltà (ehm… su questo mi sa che siamo già collaudati). E vediamo se certa mentalità da quattro soldi continua a proliferare. Beaux rêves

    A Cosenza c’era addirittura uno che si candidava giusto perché gli era crollato un palazzo davanti casa. Bisogna arrivare a questo. Alla fine, ma proprio alla fine, qualcosa che smuove il sentire civico si trova. C’era un politicante locale che mi faceva sapere per conto terzi di volermi nella sua lista (a me anonima nullità – specie a Cosenza –, residente da quasi trent’anni in un’altra Regione) per poi parlarmene a quattr’occhi in maniera molto meno che poco rassicurante. Il classico “giro in macchina” di registro mafiosesco, perfetto per un film di Scorsese ma sgradevolissimo per la vita reale.

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    Una scena da “Quei bravi ragazzi” (Martin Scorsese, 1990)

    Cose tipiche e insopportabili

    Quest’è, questa è ancora la mentalità. E trent’anni fa la percezione che avevo di Cosenza era addirittura migliore di quella odierna.  Sembrava una città almeno familiare, ora pare più volgare, più litigiosa, supponente all’inverosimile, tendenzialmente incapace, con una cultura media di livello piuttosto discutibile. Una città piena di troppa gente che non svolge i compiti per cui è pagata e di disoccupati la cui voce non importa a nessuno. Di finti intellettuali (che spesso gestiscono male tanti soldi veri) che non conoscono quasi mai gli argomenti di cui parlano; di istituzioni assolutamente sorde e autocelebrative (e mi raccomando, per contattare i referenti bisogna scrivere su Facebook, mica sulla PEC istituzionale). Una città di approssimazione, maleducazione… devo continuare?

    Mi viene in mente la favolosa poesia di Remo Remotti su Roma (Mamma Roma Addio), in cui il romanissimo attore infilava una dietro l’altra tutte le cose tipiche e perciò ormai insopportabili della Città Eterna. Ecco, lo si dovrebbe e potrebbe fare anche per Cosenza. Ma forse l’elenco sarebbe troppo lungo.

    Cosenza dalle mille contraddizioni

    «E me ne andavo da questa Cosenza…», comincerebbe così. Da quella Cosenza degli Alimentari e Diversi, dalla Cosenza delle graffe, del càrrefur e dei profìtterol scritti e pronunciati così. La Cosenza del collega che è uscito un momento per fare un’Ambasciata e degli Accademici imbalsamati (immedesimazione nelle mummie?). Degli impiegati entrati con la dueottocinque e degli operatori culturali improvvisati e tendenti alla magniloquenza da quattro soldi (IVA esclusa). La Cosenza del cilicio, dei focolarini, dei numerari e dei soprannumerari della follia. La Cosenza dei laici che votano i cattolici, “sotto il grembiule il cilicio” e un piede furbamente in due scarpe diverse.

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    Un articolo di qualche anno fa su una Cosenza sempre attuale

    Degli editori che editori non sono, dei dilettanti di genio che pontificano di tutto, dalla grafica alla pedagogia, dalla fotografia alla storia, dalla gastronomia alla politica. Dei sedicenti intellettuali in pantaloni di velluto rosso che tentano ridicolmente di imbastire conversazioni a gambe accavallate. La Cosenza del tribunale in cui i giudici devono per forza dire «attesoché» dieci volte al giorno. Dove «il pm nulla osserva». E dove l’avvocato pavido «ricorda innanzitutto a se stesso prima che alla Corte» e poi scivola sulla questione che «ci attaglia», sui «duri di comprensorio» sulla «congerìe», “sul” Zanardelli e sulle “barracche”.

    Baracche e corso Mazzini

    Già, le baracche… S’è ripulito Gergeri e via Reggio Calabria, ché di pasoliniano c’era già troppo nel centro storico e c’è ancora. E però, più del centro storico, quelle due baraccopoli mi facevano venire in mente un episodio di Dino Risi, Due cuori e una baracca (1973), con Giannini e un’improbabile Laura Antonelli strabica. L’episodio fu una prova generale dell’autore Ruggero Maccari per il successivo film Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola (1976), quello con Manfredi, con tanto di vecchia nonna intenta a fumare la pipa in baracca e ripetizione di identici nomi. Chiusa parentesi. Una volta scesi dalla macchina per dare un’occhiata da quelle parti, lo squittio dei topi sembrava un cinguettio diffuso. Non ho idea di quanti potessero essere.

    Quanto a proletariato in via d’estinzione, un certo chioschetto che fa cuddrurieddri e vecchiareddre in una certa piazza della città può offrire veramente il meglio di sé nelle sere d’agosto: ottimo punto di osservazione privilegiato su una certa naïveté genuina, direi quasi “bio”, che si va perdendo. E poi è anche un melting pot di nuovi arrivi: giovani famigliole dell’Est, o indiane, o dell’Estremo Oriente, non ancora contaminate dal bisogno (né dalla possibilità) di fare le vacanze fuori città. Un luogo che mette pace.
    Al contrario, su Corso Mazzini tocca fare lo slalom in mezzo a quattro ragazzetti tamarri anziché no, autoctoni, risaliti da qualche traversa un po’ più a valle, km zero, con i monopattini quando va bene ma soprattutto con le bici elettriche dagli pneumatici extra large (perché non si sa mai).

    È cambiato anche il dialetto

    Ho notato che nel tempo è cambiato pure il dialetto. Più sguaiato, le vocali accentate sono sempre più aperte, spalancate, divaricate, al limite dell’autocaricatura. Una volta il dialetto lo si imparava a scuola, dai compagni di classe, per appuntarsi al petto un necessario attestato di machismo che l’italiano a queste latitudini non garantisce. Il tutto mentre le anziane maestre si ostinavano – mai capito il motivo – a dire «Frìuli», «qualsièsi», «perièdo», «austrièco».
    Alle Poste Centrali, invece, due ore di fila sono ottime per l’osservazione delle facce e per capire come mai siamo nel Bruttium: il teatro anatomico dello zoomorfismo.

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    Ammonimento in un ufficio pubblico cosentino (foto L.I. Fragale)

    E non basta l’onnipresente, proverbiale pioggia cosentina, per lavare i peccati di questa città. La pioggia, a proposito… ma è possibile che, appena spunta il sole, mezza popolazione si metta a fare jogging? I commercianti cosentini del settore “abbigliamento sportivo” continuano ad accendere un lume a chi inventò viale Mancini. Da allora, un’impennata inarrestabile nelle vendite di tute e affini. L’estate scorsa, addirittura, avvistato tizio con bastoncini da trekking.

    Cosenza da Atene a Sparta

    Invece, la Biblioteca Civica restava deserta. Millecento ingressi all’anno quando andava bene (eppure a Cosenza dicono quasi tutti d’essere grandi depositari di cultura, acquisita in chissà quali sudate ricerche) e quando veniva presentato qualche discreto libro, gli invitati dovevano essere trascinati per l’orecchio o, possibilmente, per la gola.

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    L’ingresso della Biblioteca Civica

    Non è un male esclusivamente cosentino, per carità: l’Italia galleggia sull’ignoranza. La gente, a seconda della fascia d’età, si divide tra giovani sguardi bassi sul cellulare, medi e anziani rimbambimenti tra televisione e social network, commentandosi a vicenda gli aforismi copincollati o le catene di Sant’Antonio. Così passano le vite. Così le vite passano. Facendo cose vuote, in un impalpabile abbrutimento.
    Poi ci si sorprende – e nemmeno abbastanza – che la sedicente Atene della Calabria ne sia diventata la mera Sparta.

    Miseria e nobiltà

    Non solo pigrizia, ma pure vergogna. Piccoli Comuni di tutto il Mezzogiorno sono riusciti negli ultimi decenni a far pubblicare i lavori di qualche studioso locale che ha avuto la pazienza di studiare il Catasto Onciario del proprio paese di provenienza. Brevissima spiegazione semplificata: il Catasto Onciario era una specie di censimento con acclusa dichiarazione dei redditi, redatto nella seconda metà del Settecento, oggi utilissimo per le ricerche storiche e genealogiche. Vi siete chiesti come mai un capoluogo come Cosenza, patria d’arroganza, non ha mai avuto nessuno che ne pubblicasse il relativo Onciario? Ve lo dico io: perché significherebbe mettere alla berlina molta presunta nobiltà ottocentesca e buona parte di una Cosenza oggi apparentemente bene, ma in realtà decisamente parvenu. Ma proprio decisamente.

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    Cosenza, anni ’50: anonimi spettatori al tirassegno (archivio L.I. Fragale)

    Proviamo invece a osservare le vecchie foto che venivano scattate automaticamente nei tirassegno dei luna park tra gli anni ’40 e ’60. Provate a non fare caso al tiratore immortalato, al vostro parente che faceva centro. Guardate gli spettatori, perlopiù passanti casuali. Notate la necessaria attenzione che prestano in quell’istante, che li rende tutti involontariamente dei figuranti sbalorditivi, delle comparse straordinarie (anzi meravigliosamente ordinarie). A raccoglierle, ne verrebbe fuori il perfetto teatro umano dell’Italia del dopoguerra. Che era pur meglio di questa.

     

  • Angeli e demoni, la lunga notte di San Domenico

    Angeli e demoni, la lunga notte di San Domenico

    In una delle sale che si aprono accanto alla sagrestia di San Domenico a Cosenza, ambienti antichi ma piuttosto rimaneggiati e ingombri, vedo appesa alla parete una stampa. Ne ho una uguale a casa, una riproduzione dell’immenso convento domenicano di Soriano Calabro, nel Vibonese, prima che fosse distrutto ripetutamente dai terremoti. Oggi a Soriano è ancora leggibile il perimetro gigantesco dei chiostri, che si estendevano intorno alla chiesa superstite, ricavata da uno dei transetti della grande costruzione originaria.

    San Domenico e gli Oblati: missionari a Cosenza

    La Calabria è costellata di rovine gloriose. Il convento di San Domenico a Cosenza ha superato i secoli, le inondazioni, le requisizioni che l’hanno trasformato in caserma, con interventi arbitrari sulla struttura e dispersione degli arredi. Ma è ancora in piedi, a pochi passi dalla confluenza dei fiumi Crati e Busento, uno dei luoghi più suggestivi della città.
    Da anni i padri domenicani sono andati via. Sono arrivati a sostituirli gli Oblati di Maria Immacolata, una congregazione nata in Francia, nell’Ottocento, e diffusa in tutto il mondo, perché sono dei missionari. Evidentemente hanno deciso che a Cosenza c’era bisogno di missionari votati al sacrificio, come dargli torto?

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    Il rosone all’ingresso della chiesa di San Domenico a Cosenza

    La lunga notte

    Per parlare delle loro missioni hanno aderito alla Lunga notte delle chiese, un’apertura straordinaria, di sera, il 9 giugno scorso, con visite guidate e musica, un aperitivo solidale per raccogliere fondi per le loro missioni. Visto che ormai le università si propongono di notte (i ricercatori devono improvvisarsi intrattenitori per reclutare i futuri studenti), i musei pure, anche le congregazioni religiose devono adeguarsi ai tempi e aprire le porte al popolo della notte. Proprio il contrario di quello che le regole prescrivevano: quando si è fatta una certa si chiude e basta. Chi c’è c’è.

    Scomparse

    Arrivo in piazza Tommaso Campanella che l’aperitivo solidale è in corso. Anche nel locale accanto fanno l’aperitivo, a quest’ora il centro di Cosenza è tutto un aperitivo. Un tempo qui c’era un negozio di cordami e attrezzi vari. Leonida Repaci, che conosceva bene la città, ha ambientato un suo racconto, Magia del fiume, proprio in questa zona, in una delle case cresciute sul convento, accanto alla facciata e al suo splendido rosone.
    Anche Dante Maffia ha dedicato alcune pagine di un suo libro, Il romanzo di Tommaso Campanella, al convento cosentino, al tempo in cui il giovane fra’ Tommaso leggeva i libri della biblioteca domenicana. La biblioteca è svanita, non si sa dove siano finiti i manoscritti e i libri a stampa; si ipotizza che una parte dei testi delle biblioteche ecclesiastiche cosentine siano arrivati, dopo le soppressioni ottocentesche, negli scaffali della Biblioteca Civica.

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    L’interno della Biblioteca civica di Cosenza

    Cosenza, la cappella del Rosario a San Domenico

    L’apertura notturna mi sembra una buona idea, vedo tanta gente che dalla piazza comincia a entrare in chiesa, entro anch’io e mi ritrovo in un piccolo gruppo. Ci sono diverse guide, con la pettorina che si usa in queste occasioni. Cominciamo dalla cappella del Rosario che, ci spiega la guida, è più antica rispetto all’allestimento attuale della chiesa principale, più volte rimaneggiata nel corso dei secoli.

    Ci mostra le tele alle pareti e le immagini inserite nei riquadri del soffitto ligneo; alcune -aggiunge – mancavano già quando Cesare Minicucci visitò San Domenico e segnalò le perdite nel suo libro, Cosenza sacra, del 1933.
    Ma chi è questa signore tranquillo che ci sta accompagnando? Cosenza sacra di Minicucci è uno di quei libri che si potevano consultare, un tempo, in Biblioteca Civica e in pochi altri luoghi. Mi pare insolito che un volontario, per una serata, sia riuscito a procurarsi un testo così raro.

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    La cappella del Rosario

    Misteri

    Dalla cappella passiamo nella sagrestia, ancora riconoscibile l’architettura gotica, nonostante gli interventi piuttosto pesanti che sono evidenti. Tanti gruppi di visitatori si muovono da un locale all’altro, le altre guide sono in fibrillazione per consentire a tutti la visita, soprattutto quella a un luogo difficilmente accessibile e angusto, lo scolatoio.
    Ma il nostro gruppetto non si affretta, il misterioso Virgilio ci sta illustrando le figure del coro ligneo della sagrestia. Le illumina una per una con la torcia del cellulare, per farci cogliere i particolari. Figure maschili con il seno, fauni, Adamo ed Eva con teste di creature lussuriose, e gambe che si sono trasformate in rami e foglie, come in certi racconti mitici.

    Questo coro è un mistero, dice la nostra guida, perché nell’epoca in cui è stato realizzato non si richiamavano più questi motivi medievali, e anche nel Medioevo sono piuttosto rari, rintracciabili in luoghi lontani da Cosenza. La distruzione di molti archivi religiosi rende ardua la ricostruzione delle vicende artistiche, l’individuazione delle maestranze che hanno lavorato qui. Molto interessante, appena ci si accosta ai nostri monumenti saltano fuori intrecci strani, come se da queste parti arrivasse gente da ogni parte del mondo. Probabilmente era così, la piccola Calabria si trovava comunque in mezzo alle terre allora conosciute.

    Luca Parisoli, docente di Storia della filosofia medievale all’Università della Calabria

    Cosenza e i penitenti di San Domenico

    Passa un ragazzo che lo saluta: «Buonasera professore!». Rapida indagine: si tratta del professore Luca Parisoli, docente di Storia della filosofia medievale all’università della Calabria. E con altri incarichi accademici e tante pubblicazioni. Gli Oblati hanno schierato l’artiglieria pesante, per l’occasione. Mi spiega che oblato è pure lui, ma laico, mi dice dopo.
    Dopo, dicevo, perché prima ci espone cos’è lo scolatoio verso cui siamo diretti. Una signora del gruppo ha un’esitazione, perde il sorriso quando sente che in questo scolatoio, un locale circolare con dei sedili di pietra forati, venivano posti a scolare, a perdere gli umori, il grasso e la carne, i corpi dei monaci dopo la morte. In modo da ritrovarsi con gli scheletri puliti e pronti all’inumazione. Periodicamente i frati andavano a pregare presso i corpi dei confratelli in disfacimento, per tenere a mente che per i cristiani la vita sulla terra è solo un breve cammino, prima dell’atra vita, quella eterna.

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    Lo scolatoio

    Il professore ammette che, sì, non doveva essere uno spettacolo piacevole, ma un monaco deve riflettere su certe cose. E poi nei secoli passati il rapporto con la morte era molto più tranquillo rispetto ai tempi nostri. Le persone morivano come mosche, non se ne faceva un dramma.
    La signora rinuncia alla discesa nello scolatoio, forse pensa che sia un luogo sinistro. Io come aspirante reporter vado senza esitazione (anni fa ho visitato quello nel Castello di Ischia, all’interno del convento delle Clarisse). Prendo una ginocchiata tremenda sul muretto che bisogna scavalcare, i rischi del reporter di una certa età. Lo scolatoio è molto semplice, spoglio, il pavimento coperto di terra battuta.

    Scelte radicali e tentazioni ovunque

    La notte delle chiese è un’iniziativa efficace, ma le chiese sono chiese, questi non sono percorsi nel mistero, però possono aiutare a capire quanta distanza ci separa da una scelta radicale come quella di lasciare il secolo. Così dicevano, una volta. Morire al mondo. E poi morire nel corpo e stare nello scolatoio a ricordare ai confratelli più giovani perché stanno lì.
    I domenicani e le altre famiglie religiose nel mondo continuavano a starci, a prendere posizione sulle vicende del mondo. Tommaso Campanella, oltre che studiare e riflettere, fece una serie di cose che lo portarono a un passo dal boia. Per salvarsi finse di essere pazzo e fu tenuto in prigione per molti anni. Congiurare contro il governo spagnolo comportava seri rischi. Anche scrivere libri come La città del Sole poteva portare problemi.

    La Città del Sole, l’opera più famosa del filosofo Tommaso Campanella

    Me ne esco dallo scolatoio con molta precauzione, ripasso dalla sagrestia con le sue misteriose figure. Il prof ha preso in consegna un altro gruppetto di volenterosi emuli di Indiana Jones. Sta illuminando con la torcia un punto sotto una panca del coro, una figura demoniaca, per ricordare ai frati che la tentazione può presentarsi ovunque, anche mentre si recitano i salmi. Una signora, per vedere meglio, si è inginocchiata come una penitente, come Dante nel Paradiso Terrestre mentre veniva purificato, mondato. Ormai la cultura richiede una certa prestanza fisica. I partecipanti a un evento come questo sanno che devono essere pronti a tutto. Spero che la signora riesca a rialzarsi.

    Notte e cultura

    Sono tornato fuori, in piazza Tommaso Campanella. Adesso i volontari offrono dolci, in premio, ai visitatori in uscita. E ricordano che San Domenico è sempre aperto e ci saranno altri momenti di incontro a Cosenza. Saluto il professor Parisoli e lo ringrazio per il tempo che ci ha dedicato. Adesso sono stanco, sono stato in piedi per oltre due ore, il ginocchio mi fa male. Mi trascino dignitosamente verso la macchina, questa vita culturale notturna mi sta distruggendo. Una volta potevi andare solo a qualche noiosa conferenza, ti sedevi e poi tornavi a casa per l’ora di cena, senza rischi ortopedici collaterali.

    Domani sera niente visite notturne, se proprio voglio vedere un convento mi guardo una puntata di Che Dio ci aiuti. Pare che nell’ultima serie Francesca Chillemi faccia la novizia, ma non so se la sceneggiatura virerà verso situazioni del tipo Gertrude-la monaca di Monza. Le tentazioni, il peccato, il pentimento e, poi, lo scolatoio.

  • Monongah: l’apocalisse dimenticata dei calabresi in West Virginia

    Monongah: l’apocalisse dimenticata dei calabresi in West Virginia

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    Tra i monti Appalachi esiste un posto che prende il nome da una parola in uso tra le tribù locali di nativi americani: Monongah. In italiano si traduce lupo. Quella stessa parola, seppure un po’ storpiata, si usa anche da un’altra parte nel mondo, a migliaia e migliaia di chilometri di distanza. In Calabria, a San Giovanni in Fiore, sui monti della Sila, terra di lupi. Lì però vuol dire un’altra cosa. Indica un luogo oscuro e pericoloso e se qualcuno ti augura di jire a minonga (o mironga), beh, non è che ti voglia troppo bene in quel momento.
    Ma cosa c’è dietro questa specie di miracolo linguistico e una traduzione così dissonante? Centinaia di morti – decine di calabresi – nel più grande disastro mai accaduto in una miniera statunitense. Una storia chiusa in un cassetto il più in fretta possibile e rimasta lì dentro per oltre un secolo.

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    La folla radunatasi all’ingresso della miniera 8 dopo l’esplosione

    Monongah, un silenzio lungo oltre un secolo

    Perché l’Italia si ricordasse dell’ecatombe dei suoi emigrati tra le viscere di quel paesino in West Virginia, infatti, c’è stato parecchio da attendere: 106 anni. Era il 2003, giusto vent’anni fa, e fu l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi in viaggio istituzionale negli States a interrompere il lunghissimo silenzio dello Stato su Monongah e i suoi caduti. Dal 6 dicembre del 1907 a quel momento non lo aveva fatto praticamente nessuno. Nonostante in quel lontano giorno siano morte oltre 360 persone, la metà delle quali emigrati dal Bel Paese. E nonostante quel bilancio sia la migliore delle ipotesi, perché nelle stime più pessimistiche – e, purtroppo, più attendibili – il numero delle vittime sale. Sempre. Anche fino ad arrivare quasi a 1.000.
    Uomini, ragazzi, bambini. Bruciati in pochi istanti. Spappolati dalle rocce. Coriandoli di carne neri come il carbone che li ha uccisi, sparsi da un’esplosione a centinaia di metri di distanza.

    Un villaggio di vedove e orfani

    Ai primi del ‘900 l’America cresce e ha un incessante bisogno di carbone per le sue industrie rampanti. Monongah è una company town, una baraccopoli simil villaggio piena di minatori, tirata su nei pressi di qualche ricco giacimento dalle grandi compagnie d’estrazione, in questo caso la Fairmont Coil Company. Ci vivono circa tremila persone, ma dopo quel 6 dicembre in paese ci saranno circa 250 vedove e un migliaio di orfani.
    Gli immigrati sono tanti, polacchi e italiani soprattutto. Sono arrivati fin lì per una paga che può arrivare fino a 75 cents al giorno per dieci ore di duro lavoro, soldi che poi spendono nei negozi di proprietà della compagnia stessa.

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    Gli abitanti di Monongah in disperata attesa di buone notizie sui loro cari

    Canarini in miniera

    Quei 3/4 di dollaro sembrano pochi spiccioli, ma per chi arriva da un posto come la Calabria di inizio ‘900 rappresentano un tesoro. Equivalgono a 3,75 lire al giorno, che sono quasi il decuplo della paga media nel Meridione per un bracciante agricolo. Uno stagionale in Calabria può svolgere al massimo 100 giorni di lavoro, guadagnando così 40 lire. In miniera non ci sono limiti di questo genere e se il fisico te lo consente in dodici mesi americani arrivi ad accumulare l’equivalente di vent’anni di guadagni italiani.
    Devi sgobbare come un mulo, però, e la tua vita è in mano a… un canarino. Per capire se l’ossigeno nei cunicoli è sufficiente i minatori si portano appresso una gabbietta con dentro quell’uccellino: quando il canarino ha problemi a respirare bisogna scappare. E farlo in fretta.

    Il grisù

    Non è tanto questione di non asfissiare, il pericolo numero uno nelle miniere di carbone si chiama grisù. Niente a che vedere col draghetto dei cartoni animati: è una gas inodore, più leggero dell’aria, che si forma nelle gallerie minerarie depositandosi in sacche sui soffitti. Quando la percentuale di grisù nell’aria supera il 2% il gas diventa infiammabile, dal 5,3% in poi esplosivo. Se poi va oltre il 15% e non è ancora esploso conduce all’asfissia, che paradossalmente, diventa l’ultimo dei problemi.
    Anche una piccola scintilla se c’è del grisù di troppo in giro può provocare una catastrofe. È per questo che nelle miniere sono in funzione enormi impianti di ventilazione, tengono la quantità di gas sotto controllo. Ma il 5 dicembre 1907 a Monongah è un giorno di riposo, si festeggia in anticipo la festa di San Nicola, in miniera non va nessuno. E – stando ad alcune testimonianze – qualcuno per risparmiare ha pensato di tenere quegli impianti a mezzo servizio.

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    I resti dell’impianto di ventilazione dopo l’esplosione della miniera 8

    Di chi è la colpa?

    Sarà quella la causa dell’esplosione il giorno dopo? Oppure, come sostiene la Fairmont Coil Company, una scintilla provocata da un errore umano di qualche sprovveduto? Nella miniera di Monongah si va avanti col cosiddetto buddy sistem: ogni minatore può portare con sé un aiutante, spesso il figlio o comunque qualcuno più giovane, per dargli una mano, poi divideranno la paga di giornata. E i buddies non conoscono tutti i segreti del mestiere, né si annotano nel registro delle presenze. Nelle viscere di Monongah con ogni probabilità ci sono centinaia di corpi senza nome. E quasi 120 anni dopo una risposta ufficiale al perché di quella tragedia ancora non c’è.

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    I soccorritori fanno una pausa all’esterno della galleria durante le ricerche degli eventuali sopravvissuti

    Terremoto a Monongah

    Di certo c’è solo che quando le gallerie 6 e 8 esplodono la terra trema fino a oltre 10 km di distanza e appare subito evidente che per chi era là sotto le speranze sono infinitesimali. I minatori non di turno cominciano a scavare alla ricerca dei compagni, altri ne arrivano da miniere nelle vicinanze. Non è semplice, l’ossigeno è poco pure per le squadre di soccorritori che si alternano rischiando la pelle a propria volta. Ma si va avanti per giorni, con donne e bambini intorno ai pozzi densi di fumo nero a piangere e sperare.

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    Nel cimitero cattolico del villaggio si scava per far posto agli italiani e ai polacchi morti nelle miniere saltate in aria

    Dalle gallerie sono riusciti a scappare solo in 4. Tutti gli altri escono cadaveri. A centinaia, spesso irriconoscibili perché bruciati o mutilati. Lungo la strada principale di Monongah si accumulano le bare, occuperanno un’intera collina nel cimitero cattolico del Calvario. È il destino dei più fortunati, i resti di tanti loro compagni di sventura finiranno semplicemente in una fossa comune.

    Centinaia di vittime, decine i calabresi

    Tre mesi dopo la tragedia, con le indagini ancora in corso, una corrispondenza da Washington parlerà di 956 vittime, 596 in più dei 361 riportati nelle stime ufficiali. Analisi successive calcoleranno circa 500 decessi complessivi nell’esplosione delle due miniere. Gli italiani estratti dalle gallerie di Monongah risultano 171, il tributo più pesante lo paga il Molise con i suoi 87 morti. E poi c’è la Calabria. Nelle miniere 6 e 8 hanno perso la vita decine di nostri corregionali. I comuni che ebbero delle vittime furono:

    • Caccuri: Francesco Loria;
    • Castrovillari: Francesco Abate, Carlo Abate, Giuseppe Abate;
    • Falerna: Domenico Cimino;
    • Gioiosa Jonica: Pasquale Agostino, Tommaso Borzonia;
    • Guardia Piemontese: Francesco Contino;
    • Morano Calabro: Francesco Gaetani;
    • San Nicola dell’Alto: Domenico Guerra, Carmine La Rosa, Francesco La Rosa, Michele Rizzo;
    • Strongoli: Francesco Todaro.

    Un Natale di lacrime a San Giovanni in Fiore

    Storia a sé fa San Giovanni in Fiore, capitale della Sila ma anche dell’emigrazione calabrese di quegli anni. Non ci fu Natale nel 1907 a Monongah, scrisse un giornale del West Virginia, ma non ci fu nemmeno nel paese dell’abate Gioacchino. C’erano 32 compaesani morti in miniera in America da piangere:

    • Francesco Abbruzzino
    • Francesco Antonio Basile
    • Giovanni Basile
    • Salvatore Basile
    • Saverio Basile
    • Giuseppe Belcastro
    • Serafino Belcastro
    • Antonio Bitonti
    • Pasquale Bitonti
    • Rosario Bitonti
    • Giovanni Bonacci
    • Giovanni Bonasso
    • Giuseppe Covello
    • Luigi De Marco
    • Antonio De Vito
    • Giuseppe Ferrari
    • Antonio Foglia
    • Antonio Gallo
    • Raffaele Giramonte
    • Francesco Antonio Guarascio
    • Francesco Saverio Iaconis
    • Giovanni Iaconis
    • Pasquale Lavigna
    • Givanbattista Leonetti
    • Salvatore Lopez
    • Salvatore Marra
    • Giovanni Oliverio
    • Antonio Olivito
    • Domenico Perri
    • Tommaso Perri
    • Francesco Saverio Pignanelli
    • Pietro Provenzale
    • Luigi Scalise
    • Antonio Silletta
    • Francesco Urso
    • Gennaro Urso
    • Antonio Veglia
    • Leonardo Veltri
    • Leonardo Giuseppe Veltri

    I risarcimenti

    La Fairmont fece di tutto per non assumersi la responsabilità del disastro e le autorità statunitensi si lavarono le mani altrettanto volentieri dell’intera questione dopo poco tempo. Alcuni governi europei che avevano perso loro cittadini a Monongah chiesero risarcimenti, ma non l’Italia.
    Una raccolta fondi per le vittime servì a racimolare in tutto 150mila dollari, poco più di un decimo messo dalla compagnia d’estrazione. Gran parte di quei soldi non si sa che fine abbia fatto. Qualche vedova ha ricevuto 200 dollari; qualche figlio rimasto orfano prima di compiere 16 anni pochi dollari in meno; il resto chi lo sa.

    Padre Briggs e il ricordo di Monongah

    Di Monongah nessuno ha più parlato per quasi un secolo. Solo il prete del paese, padre Everett Francis Briggs, ha provato a tener vita la memoria dei minatori morti negli USA col supporto della rivista Gente d’Italia. È grazie a lui e al viaggio di Ciampi che quell’ecatombe di nostri connazionali è tornata alla ribalta anche da noi, seppur con 106 anni di ritardo.

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    A Monongah oggi c’è un ponte intitolato a padre Briggs

    Negli anni seguenti a San Giovanni in Fiore hanno realizzato una scultura in ricordo dei propri caduti e stretto un gemellaggio con Clarksburg, la città attualmente più vicina al luogo del disastro. La Regione Molise ha donato una campana e la Calabria ha dato una mano alla realizzazione di un monumento tra le poche case che restano oggi a Monongah. Stando a Wikipedia il comune di Falerna ha contribuito con 150 euro.

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    Il monumento all’Eroina di Monongah realizzato nel 2007 col contributo della Regione Calabria

    Il monumento in questione è dedicato all’Eroina di Monongah e, nonostante la targa non lo riporti, è probabile che ad ispirarlo sia stata Caterina Davia. Secondo un articolo di qualche anno fa su Little Italy, altra rivista per italoamericani, era la vedova di un minatore scomparso nel disastro. Suo marito è rimasto lì sotto per sempre e lei ogni giorno è andata all’ingresso della miniera a raccogliere un pugno di terra per poi depositarlo davanti casa. Per ventinove anni di fila.

  • Cosenza Wine District: la Villa Vecchia si trasforma in cittadella del vino

    Cosenza Wine District: la Villa Vecchia si trasforma in cittadella del vino

    Torna venerdì 30 giugno alla Villa Vecchia il Cosenza Wine District, una grande festa del vino calabrese nel centro storico del capoluogo bruzio. Spazio dunque agli incontri tra consumatori, winelovers e produttori, con oltre quaranta cantine del panorama regionale  presenti all’appuntamento. A organizzare la manifestazione sono Saturnalia aps e Feed It, col supporto di due partner istituzionali: il Comune di Cosenza e la Regione Calabria – Dipartimento Agricoltura.

    Cosenza Wine District, una cittadella del vino calabrese

    Cosenza Wine District è nato lo scorso anno come evento collaterale in occasione del Concours Mondial de Bruxelles che ha fatto tappa in Calabria.  Nel giro di pochi mesi è diventato un grande momento di confronto e valorizzazione del vino calabrese, capace di focalizzare l’attenzione anche sul segmento dell’enoturismo. Un filone di sviluppo importante, quest’ultimo, capace di attrarre tanti appassionati verso le esperienze da vivere nelle cantine o attraverso i consorzi della rete regionale del vino.

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    Il pubblico nell’edizione dello scorso anno

    La Villa Vecchia di Cosenza dunque si trasformerà ancora una volta in una cittadella del vino calabrese. Lungo i suoi viali sarà possibile scoprire la ricchezza e la varietà interpretativa dei vitigni autoctoni della Calabria. Produzioni che ormai hanno saputo conquistare i mercati, ma anche le giurie dei più importanti concorsi nazionali e internazionali.

    Non solo vino per nuove collaborazioni

    Ma l’appuntamento al Cosenza Wine District sarà anche con l’arte. In programma esibizioni di musicisti – grazie alla joint venture con il festival Alterazioni – e performance di arte di strada per una serata evento unica nel suo genere. Il tutto accompagnato dal migliore street food della regione.

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    Alcuni stand della passata edizione del Cosenza Wine District

    La manifestazione vuole focalizzare l’attenzione degli appassionati di tutto il Sud attorno alle potenzialità del vino calabrese. Si pone come spazio multiforme per far dialogare i protagonisti della scena enologica con i settori affini come il food, l’intrattenimento e le arti in genere, generando cosi forme nuove di collaborazione per realizzare sviluppo sui territori.

    Cosenza Wine District: le rivendite per partecipare

    Per partecipare all’evento è necessario acquistare un ticket che dà diritto all’ingresso e alla degustazione di sei vini a scelta libera. È già partita la prevendita su eventbrite o presso i rivenditori ufficiali nel territorio cosentino:

    • Fresco foodbar
    • Cheers
    • Tennis Club Cosenza,
    • Quipò più di un bar (Mendicino),
    • Pane storto lab,
    • Chiappetta sport village,
    • Bar Tabacchi Nani 11,
    • Cinque Sensi Store (Rende),
    • Tre cipolle sul comò
  • Freud a San Fili, lessico famigliare di Pigi Ciambra

    Freud a San Fili, lessico famigliare di Pigi Ciambra

    Un palermitano a San Fili, il paese delle magare dove vive Brunori, può fare molte cose. Sposarsi, mettere radici, pensare e realizzare un progetto fotografico che nel 2023 è diventato un libro dal titolo Lullaby and last goodbye, edito da 89Books. Vincendo un prestigioso premio in Giappone: il Tifa, Tokyo International Foto Awards, primo posto nella categoria “People”.

    Nel 2013 Pierluigi “Pigi” Ciambra inizia questo racconto per immagini. Rivolge verso le sue figlie l’obiettivo della sua macchina fotografica e ne esce fuori molto di più di un diario familiare. Ha subito la forza di essere riconoscibile come prodotto culturale in grado di superare il contesto domestico. E ne è testimonianza l’attenzione riservatagli in giro per l’Italia e non solo.

    Pierluigi Ciambra

    Era mio padre

    Non c’è solo l’amore di un padre e la voglia di documentare la crescita delle sue figlie. Dietro vive il canto dell’infanzia di Ciambra. I profumi e la luce di Palermo, gli abbracci di un papà che gli trasmette la passione per la fotografia. Pierluigi lo perde troppo presto. Da allora si è portato dietro questa mancanza. Un lutto di un genitore così giovane quando sei così piccolo lascia un segno indelebile dentro. Gli anni passano ma senti di dovere fare qualcosa, riprendere in qualche modo quel percorso drasticamente interrotto. Senti la necessità di elaborare il lutto a modo tuo. E non ti aiuterà un libro di Freud per uscire fuori da quel buco nero. Una delle alternative al lettino dello psicanalista può essere riannodare i fili col tuo linguaggio.

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    Uno degli scatti del progetto fotografico di Pierluigi Ciambra

    Pierluigi Ciambra: il mio diario familiare

    «Quando sono nate le mie figlie – commenta Pierluigi Ciambra – mi sono rivisto in lui. Ho capito il suo desiderio, anzi la sua esigenza, di conservare la memoria di quegli attimi. Così ho iniziato a fotografarle quotidianamente. Le bambine crescono e scoprono un mondo ai loro occhi incontaminato, e lo fanno con la libertà di chi svela enormi misteri senza schemi e congetture, con l’ingegno istintivo della curiosità infantile, coinvolgendoti nella loro realtà fiabesca. Raccontare il loro sguardo sul mondo e, al tempo stesso, mettere a nudo la mia ricerca interiore e il processo di riconciliazione con il mio passato sono le motivazioni alla base di questo mio progetto fotografico».

    La formazione di Pierluigi dà il senso del suo percorso: diploma al corso di fotografia all’Istituto europeo di Design di Roma e poi laurea in Antropologia alla Sapienza. Lullaby and last goodbye nasce anche in questo contesto di studio e buone letture, dove il punto di partenza è l’inevitabile confronto con chi ha già fatto del diario familiare una storia universale.

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    L’immaginario onirico di Lullaby and last goodbye

    Da Alec Soth a Tarkovskij

    Nell’intervista rilasciata sul portale web del Tokyo international foto awards si definisce un un «photobook Nerd che ama leggere saggi di fotografia e monografie, non solo dei grandi fotografi, ma anche dei di quelli meno conosciuti.
    Lullaby and last goodbye si porta dentro almeno una canzone dei Cure e un pezzo di tanti progetti fotografici amati da Pierliuigi: Picture from Home di Larry Sultan , Sleeping by the Mississippi di Alec Soth, e poi Immediate Family di Sally Mann, The adventures of Guille and Belinda and the enigmatic meaning of their dreams di Alessandra Sanguinetti.
    Ma c’è anche tanto cinema nei suoi scatti. Da Stanley Kubrick, citato in una delle immagini più potenti, fino al suo regista preferito: il russo Andrej Tarkovskij e il suo tempo sospeso.

    C’è vita oltre Instagram

    Sono le 17:45 di un pomeriggio qualsiasi a Cosenza, la città che ci tiene ad essere chiamata Atene delle Calabrie. Alle 18 la Ubik ospita la presentazione di Lullaby and last goodbye. Lentamente la gente arriva. I fotografi Andrea Bianco e Claudio Valerio di lì a poco dialogheranno con Pierluigi. Il solito rito del firmacopie, qualche chiacchiera con gli amici, i curiosi. «Un libro di fotografia?» Domanda un passante. Sì, c’è vita oltre Instagram per buone foto e storie che meritano di essere raccontate.

    Da sinistra Andrea Bianco, Pierluigi Ciambra e Claudio Valerio