Categoria: Cultura

  • Le Invasioni degli ultraflop

    Le Invasioni degli ultraflop

    C’era La Niña (e non solo) e cantava anche bene: tanto di cappello alla sua virata finale sull’acustico, scelta intelligente vista l’esiguità dei presenti.
    C’era pure la pinta: con 5 euro potevi prenderne una di birra fresca in una Villa vecchia con quasi più bagni chimici che avventori, a pochi metri da una pleonastica distesa di forze dell’ordine intente a controllare il deserto.
    Ma nemmeno la Santa Maria avrebbe potuto compiere il miracolo di riempire piazza XV marzo a Cosenza venerdì per la seconda serata del redivivo Festival delle Invasioni. Non c’era riuscita, d’altra parte, nemmeno la laica quanto magica parola capace di attrarre a tutte le latitudini masse da ogni dove: gratis.
    Conferma inequivocabile che Cosenza e l’arte vivono da tempo una relazione complicata.

    invasioni-cosenza-guardie
    Polizia stradale, provinciale, municipale, Carabinieri, Finanza e ambulanza alla Villa Vecchia di Cosenza per Invasioni

    Top of the flop

    Il “dramma della solitudine” si era consumato già la sera prima, con una diserzione di massa epocale: meno di 30 biglietti venduti e Rendano Arena – così avevano ribattezzato l’area ai piedi della statua di Telesio per l’occasione – che, complici le temperature, ricordava più il Sahara che un concerto in piazza. Un risultato per Cosenza paragonabile in altri ambiti solo a successi come il primo viaggio del Titanic o al Mineirazo ai Mondiali brasiliani del 2014.
    Così da Palazzo dei Bruzi avevano provato a mettere una pezza a poche ore dal probabile secondo, tragico, vuoto: niente più biglietto da pagare e ingresso libero come in tante edizioni del passato. Toppa tardiva e, secondo molti, peggiore del buco. Comunque di dubbia utilità: queste Invasioni a Cosenza avevano fatto storcere il naso prima ancora che cominciassero, tant’è che gli spettatori sono sì decuplicati rispetto alla sera prima, ma sempre 2-300 (poliziotti, infermieri e artisti inclusi) in tutto saranno stati i presenti nei momenti di piena.

    Il Comune di Cosenza: Invadete Invasioni!

    Il primo a temere il fiasco era stato, su queste stesse pagine, il consigliere comunale di Cosenza che più si era impegnato nell’organizzazione di queste Invasioni, Francesco Graziadio. Avvertiva «una certa diffidenza per i nomi non proprio conosciutissimi» nei giorni scorsi e non si sbagliava. Impossibile non notarlo lì in prima fila, la birra mezza vuota, appoggiato alle transenne con sguardo sconsolato.

    Attorno a lui nessun big dell’amministrazione, soltanto quei pochi cittadini che avevano risposto al disperato appello sui social del Comune di poche ore prima seguito al flop di giovedì sera: «Oggi è importante che sia la nostra città ad invadere il suo festival, riscoprendo non solo le avanguardie musicali presenti in cartellone, ma soprattutto facendo proprio un appuntamento che acquista il suo senso solo grazie alla presenza e alla partecipazione».

    graziadio-invasioni-cosenza
    Francesco Graziadio ai piedi del palco durante il concerto de La Niña

    Tutta colpa del biglietto?

    L’appuntamento con l’acquisizione di senso al momento è rimandato al 2024, presenza e partecipazione hanno optato per altri programmi serali. In compenso, non mancherà il tempo per riflettere su una serie di errori da non ripetere in futuro.
    Non tanto quello di aver chiesto di pagare un biglietto (con l’immancabile codazzo di polemiche a riguardo): a Cosenza i ticket per Invasioni non sono una novità assoluta, sebbene la stragrande maggioranza delle venti edizioni precedenti siano state interamente gratuite.
    E forse nemmeno quello di aver puntato esclusivamente su nicchie musicali di indubbio valore per gli appassionati del genere, ma non certo calamite di folle oceaniche. I grandi nomi a Invasioni ci sono sempre stati, ma a Cosenza si sono esibiti anche artisti meno noti eppure capaci di attirare e conquistare lo stesso il pubblico. E quelli di quest’anno non avevano nulla da invidiare ad altri colleghi passati dal medesimo palco in precedenza.

    ghetto-kumbe-cosenza-invasioni-2023
    I Ghetto Kumbè a Cosenza sul palco di Invasioni 2023

    Cosenza, tu chiamale se vuoi… Invasioni (ma erano altro)

    Il vero problema, probabilmente, è che le Invasioni – e non da questa edizione – sembrano sempre più solo un brand per Cosenza. Un’etichetta da appiccicare a un concerto estivo qualsiasi– che la musica sia alternativa o commerciale poco conta – convinti che solo di quello si tratti. E che basti solo quello perché vada tutto bene. Tra i pochi in piazza ieri erano in tanti a ripeterlo, un motivo ci sarà.
    Non c’entra la nostalgia, è proprio lo spirito del festival a essere ormai un fantasma. Era successo con Mario Occhiuto sindaco, seppur a piazze piene, tant’è che si era affrettato a richiamare Franco Dionesalvi nell’organizzazione nel tentativo di rimediare. E si è ripetuto anche stavolta sotto Franz Caruso.

    invasioni-cosenza-2023-la-nina
    La Niña si esibisce di fronte a quattro gatti

    Una volta il Festival delle Invasioni si protraeva per giorni, tra iniziative (non solo concerti) disseminate per Cosenza: l’arte, il confronto, l’incontro con culture differenti invadevano, appunto, la città, la contaminavano in positivo. Ora l’obiettivo – rispettabile, certo, ma non altrettanto nobile – pare sempre ridursi al far lavorare i commercianti attorno alla piazza e al dire «da noi ha suonato il celeberrimo Tizio o Caio» perché fa figo.

    Invasioni sui social? Brescia – Cosenza

    E poi c’è la questione della promozione. I nomi in cartellone sono usciti a pochi giorni dall’inizio del festival. Impossibile trovare al concerto qualcuno che confermasse di aver visto un manifesto sull’evento da qualche parte. Perfino sul palco non c’era il logo del Festival delle Invasioni, quasi quella serata a Cosenza vecchia non avesse nulla a che fare con la kermesse.

    Nemmeno una mezza foto su Instagram, sebbene servisse forse a poco, dato il numero di followers della pagina del Festival: 383. Poco più attiva la pagina Facebook/Meta: una decina di post dal 28 giugno a questo articolo, non esattamente un bombardamento mediatico. Twitter non pervenuto. Quanto a Tik Tok, se cerchi qualcosa su “Invasioni” e “Cosenza” trovi i video dei bresciani inferociti sul prato del Rigamonti dopo il goal salvezza del rossoblu Meroni ai playout di serie B.
    Son soddisfazioni, ma basteranno per lanciare un festival che inizia un mese e mezzo dopo quella partita?

  • Antonello Antonante: il sacro fuoco del teatro ritorna ad ardere

    Antonello Antonante: il sacro fuoco del teatro ritorna ad ardere

    Il 6 luglio scorso il quattrocentesco chiostro della chiesa di Sant’Agostino, oggi parte del polo culturale del Museo dei Bretti e degli Enotri nello storico rione Massa di Cosenza, si è trasformato nel luogo di un grande rito collettivo. Artisti, spettatori, istituzioni hanno saputo concretizzare in una festa l’idea di teatro cara all’attore, regista e drammaturgo Antonello Antonante, uno dei più importanti riferimenti culturali della città dei Bruzi.
    A un anno dalla sua scomparsa, il Comune di Cosenza – in collaborazione con Centro Rat-Teatro dell’Acquario e la Fondazione Attilio e Elena Giuliani – ha inteso rendergli omaggio con una iniziativa dal titolo Un nome, un racconto, una vita.

    Antonello Antonante: dall’Acquario al Rendano, una vita per il teatro

    Antonello Antonante è stato uno dei fondatori del Centro Rat-Teatro dell’Acquario e direttore artistico del teatro di tradizione Rendano dal 2007 al 2011. Ma, soprattutto, pioniere e visionario del teatro contemporaneo in una terra, la Calabria, in cui questa forma d’arte ha conosciuto il suo vero volto identitario grazie alla sperimentazione e alla ricerca promossa dagli anni ‘70 in poi dal gruppo dell’Acquario.
    È difficile raccontare i suoni, le vibrazioni e le emozioni di una serata che ha segnato un nuovo tempo in divenire di un’arte che, pur nella sua incessante metamorfosi, rimane sempre fedele alle sue pratiche artigianali, legata ad una ritualità che affonda le sue radici nei miti. Oggi lo fa nel mito di un uomo che ha dedicato al teatro la sua vita, riuscendo a penetrare sulla scena nazionale. Un uomo che ha portato a Cosenza, grazie all’attività svolta nel corso dei decenni dal Centro Rat, il prestigioso Premio Ubu nel 2019, per aver creato, inventato e organizzato il teatro in tutte le sue forme in una città complicata.

    Cosenza, via Galluppi: l’ingresso del Teatro dell’Acquario

    L’avanguardia nel Sud profondo

    Antonello Antonante ha accolto quel prestigioso premio dedicandolo «a tutti i teatranti delle periferie». E di questa periferia del Mezzogiorno ora lui è diventato figura di richiamo, l’idea con la quale confrontarsi quando si parla di teatro. In questo Sud Antonante è riuscito a fare del teatro un laboratorio vivo per molte generazioni, le stesse che oggi sono parte attiva dell’attuale patrimonio teatrale calabrese.
    Di Antonante si è affermata l’idea di teatro non come luogo o edificio, ma di arte, festa, canale comunicativo “tra gente e cose che prima erano incomunicabili”. Antonello è riuscito nell’intento di far dialogare la città con sperimentazioni teatrali d’avanguardia, portando tra le strade di una piccola città di provincia quell’esperienza di nomadismo comunitario della più radicale avventura teatrale del novecento, il Living Theatre.

    antonante-serata
    Maurizio Stammati e Alessandro Parente raccontano le storie di Giufà

    Il sacro fuoco brucia ancora per una sera

    Una nuova e rivoluzionaria idea di teatro che Antonello Antonante aveva fatto conoscere alla sua città fin dai tempi del teatro Tenda di Giangurgolo, intorno al 1977. In quegli anni di forti fermenti culturali, artistici e rivoluzionari apparve in città una tenda da circo sotto la quale fare teatro insieme ad altri idealisti, o utopisti culturali, oggi troppo spesso dimenticati e trascurati dalle istituzioni.
    La serata del 6 luglio – ideata e coordinata in regia da Renata Antonante – rievoca le parole scritte da Peter Brook ne Il punto in movimento: «La storia è un modo di guardare le cose che a me non interessa molto; a me interessa il presente…». E così è stato: magia di un presente animato, un hic et nunc lontanissimo da ogni logica di vana retorica commemorativa; una serata che secondo le parole di Dora Ricca, con la quale Antonante ha condiviso la vita e la sua idea di cultura, si è svolta con la fiamma accesa de «il sacro fuoco del teatro».

    antonello-antenate-teatro-brettii
    Un momento dell’omaggio ad Antonello Antonante e il suo teatro

    Abitare la memoria

    Il teatro, con i suoi protagonisti e il suo patrimonio ha dimostrato di riuscire ad essere luogo di aggregazione, capace di «abitare la memoria». La sua valorizzazione, però, spetta anche alle istituzioni politiche che devono dimostrare con fatti concreti, al di là di ogni enfasi celebrativa, che la cultura oltre ad essere un valore fortemente distintivo, può e deve essere il primo laboratorio di nuove e libere identità sociali.
    Antonello Antonante è riuscito nel suo intento, vivere di teatro e per il teatro, capace di rimanere libero in una terra che di libertà avrebbe tanto bisogno.

    La serata è stata possibile grazie alla partecipazione di:

    • Maurizio Stammati, Anna Maria De Luca, Ernesto Orrico, Angelo Gallo, Paolo Mauro, Nunzio Scalercio, Gianfranco Quero, Ester Tatangelo, Stefania De Cola, Ricchezza Falcone, Lara Chiellino, Lindo Nudo, Mariasilvia Greco, Dario De Luca, Ciccio Aiello, Alessandro Parente
    • Checco Pallone, Piero Gallina, Carlo Cimino, Leon Vulpitta Pantarei, Enzo Naccarato
    • Dora Ricca
    • Geppo Canonaco, Eros Leale, Renata Antonante, Carlo Antonante Bugliari, Antonello Antonante Bugliari
    • Ivana Russo
    • Francesca Laudani – La grafica
    • Tonino Principe
    • Marilena Cerzoso
    • Antonietta Cozza e il Comune di Cosenza

  • Bonaventura Zumbini: l’autodidatta che conquistò Napoli

    Bonaventura Zumbini: l’autodidatta che conquistò Napoli

    Oggi ci si ricorda di Bonaventura Zumbini con un timore un po’ prosaico: a lui è dedicata la piazza che collega il centro di Cosenza al Tribunale.
    Una zona dov’è quasi impossibile parcheggiare e, al contrario, è facilissimo beccarsi una multa.
    Zumbini, a cui è dedicata anche una scuola, è uno degli intellettuali più prestigiosi di Cosenza e del Sud a cavallo tra l’Unità d’Italia e la Prima guerra mondiale. Soprattutto, è un intellettuale che ha fatto carriera più per meriti culturali che politici.
    Cosa non facilissima nella Calabria di tutti i tempi. Ma andiamo con ordine.

    Bonaventura Zumbini: un figlio di papà con l’amore per i libri

    La biografia di Bonaventura Zumbini non è troppo diversa da quella di altri notabili meridionali della sua epoca.
    Nasce a Pietrafitta, un paesone alle porte di Cosenza, il 10 maggio 1836. È un figlio di papà di famiglia numerosa: è il primo dei sette figli di Tommaso, un facoltoso terriero, e di Maria Orlando. E, a quel che risulta, l’unico della nidiata col pallino dei libri.
    Una passione che coltiva nella biblioteca di casa. Infatti, Zumbini non frequenta le scuole ma fa la classica trafila dei precettori domestici, tipica dei rampolli della società-bene. Infatti, il suo unico titolo di studio è la laurea, conseguita a trentadue anni a Napoli (1868).

    bonaventura-zumbini-intellettuale-cosentino-conquisto-napoli
    Bonaventura Zumbini

    Il ragazzino e il professore

    Nel 1848 Francesco de Sanctis, professore di letteratura alla Nunziatella di Napoli, è il classico intellettuale di belle speranze finito in bassa fortuna.
    Infatti, proprio in quell’anno, l’intellettuale irpinate finisce nel mirino della polizia borbonica per la partecipazione ai moti liberali al seguito di un altro intellettuale “radical”, almeno secondo i criteri dell’epoca: Luigi Settembrini.
    Quest’ultimo, avvocato mancato e letterato di grido, finisce in galera assieme ai patrioti antiborbonici. Invece de Sanctis ripara in Calabria, prima a San Marco Argentano e poi a Cervicati, dove fa il precettore a casa del barone Francesco Guzolini.
    Proprio in questo periodo, conosce il giovane Bonaventura, che ha appena quattordici anni, e resta colpito dalla sua intelligenza precoce e dalla sua erudizione, a dispetto della mancanza di titoli.
    È l’inizio di una lunga amicizia, testimoniata da un corposo epistolario.

    Intermezzo: l’odissea di de Sanctis

    A dispetto delle protezioni altolocate, de Sanctis finisce nelle maglie della polizia, che lo spedisce a Castel dell’Ovo, all’epoca temutissima galera borbonica, dove resta fino al 1853, quando re Ferdinando II lo espelle con una destinazione da cui non dovrebbe più nuocere alla monarchia delle Due Sicilie: gli Stati Uniti d’America.
    Ma il destino – o, più prosaicamente, l’equipaggio della nave su cui è imbarcato – vuole altrimenti: complice una tappa a Malta, il campano se la batte e si rifugia a Torino, che per i patrioti e i liberali è un po’ come la Parigi tra le due guerre per gli antifascisti.
    Lì si dedica alla grande alla politica e all’attività culturale, prima come mazziniano e poi come garibaldino. La conquista delle Due Sicilie apre a de Sanctis nuove prospettive: prima Garibaldi lo nomina governatore di Avellino. Subito dopo, diventa ministro della Pubblica istruzione del neonato Regno d’Italia.
    A questo punto, torniamo a Zumbini.

    bonaventura-zumbini-intellettuale-cosentino-conquisto-napoli
    Francesco de Sanctis

    Bonaventura Zumbini: prima prof poi preside

    Mentre de Sanctis passa i suoi bravi guai e poi fa carriera, Zumbini fa l’intellettuale ricco, come dopo di lui avrebbe fatto Benedetto Croce. Studia e, soprattutto, scrive.
    Pubblica un bel po’ di articoli per Il calabrese rigenerato, l’ambiziosa rivista culturale di un altro supernotabile: Alessandro Conflenti.
    Al foglio, che vanta il primato di essere l’unico periodico non napoletano del Regno delle Due Sicilie, collaborano altri due pezzi grossi: il poeta acrese Vincenzo Julia e il nobile e intellettuale cosentino Mariano Campagna. E scusate se è poco.
    Poi Zumbini decide di mettersi in proprio e fonda La Libertà, una testata dedicata anche alle analisi socio-politiche.
    Negli anni travagliati dell’Unità, lo studioso cosentino entra nell’Accademia Cosentina, altro trampolino importante che, assieme all’amicizia di de Sanctis, si rivela fondamentale. Infatti, il neoministro nomina l’amico cosentino ispettore delle Scuole primarie del Regno.
    Poi, a partire dal 1865, Zumbini diventa prof e direttore della Scuola normale maschile di Cosenza (per capirci, l’antenata dell’attuale Liceo Lucrezia della Valle). Infine, decide di andare a Napoli per conseguire la laurea in Lettere, che ottiene a tempi di record.

    Autodidatti di successo

    A questo punto, è necessaria una riflessione sull’autodidattismo di Zumbini. Possibile che una persona come lui, coltissima ma analfabeta per lo Stato, potesse fare una carriera così notevole?
    All’epoca sì. E questo dettaglio deve far riflettere anche sul presunto analfabetismo del Sud nell’epoca preunitaria.
    In realtà, nel Regno delle Due Sicilie non è carente l’istruzione in sé ma il sistema scolastico pubblico. Detto altrimenti: le scuole sono poche, rispetto alla popolazione, ma gli alfabetizzati sono comunque di più perché, chi può, anche i “piccoloborghesi”, va dal precettore.
    Di questo aspetto curioso della società meridionale si è accorto a suo tempo lo storico Alessandro Barbero che nel suo Prigionieri dei Savoia analizza le corrispondenze dei militari borbonici e nota, anche con un po’ di meraviglia, che quello delle Due Sicilie non è in realtà un esercito di contadini analfabeti ma è pieno di artigiani, commercianti e piccoli professionisti, con un tasso di alfabetizzazione non proprio disprezzabile.
    Ciò fa presumere, come ha notato anche lo studioso Lorenzo Terzi, che i dati sull’analfabetismo meridionale al momento dell’Unità potrebbero essere falsati, perché basati solo sull’istruzione pubblica, forte al Nord, ma carente in tutto il resto del Paese.
    Come mai lo scarso interesse dei Borbone verso l’istruzione pubblica? La risposta è banale e poco retorica: l’allergia ai debiti e alle tasse della monarchia napoletana.

    Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie

    Borbone oscurantisti? No, tirchi

    I Borbone, soprattutto Ferdinando II, basano molto del loro consenso sul fisco piuttosto mite. Quindi investono poco e si indebitano poco. Al momento dell’Unità, l’ex Regno delle Due Sicilie ha le casse solide, una riserva aurea apprezzabile e, soprattutto, titoli finanziari ben quotati (ad esempio, il Neapolitan Bond). Peccato solo che tutto questo non giovi molto alla popolazione, che produce a livelli di sussistenza senza una reale prospettiva di sviluppo.
    Lo Zumbini intellettuale di carriera autodidatta non è, come sarebbe stato Croce, l’eccezione che conferma la regola. È la regola, in quel tipo di società.

    Bonaventura Zumbini accademico in carriera

    Subito dopo la laurea, Zumbini pubblica Le lezioni di letteratura del prof. Settembrini e la critica italiana, che lo fa notare positivamente, grazie anche a una recensione articolata dell’amico de Sanctis.
    Come tutti i notabili, anche il Nostro si fa tentare dalla politica e si candida alla Camera in Calabria nel 1870 ma fa un passo indietro a favore di Luigi Miceli, ex garibaldino e astro nascente della politica calabrese.
    Non demorde, invece, a livello intellettuale: nel 1874 diventa presidente dell’Accademia Cosentina, nel 1877 fa carriera all’Università di Napoli grazie all’interessamento del solito de Sanctis e di Bertrando Spaventa, fratello maggiore del ministro Silvio e zio di Benedetto Croce.
    Anche in questo caso, la carriera è “lampo”: prima ottiene la libera docenza alla Scuola di Magistero (l’antenata dell’odierna Scienza della formazione), poi azzecca il concorso a professore ordinario, infine (1878), succede a de Sanctis nella cattedra di Letteratura. Non finisce qui: il cosentino, forte di appoggi ma capace anche di farsi benvolere, fa il colpaccio e, nel 1881, diventa rettore.

    Castel dell’Ovo

    Un cosentino giramondo

    Ormai Zumbini è napoletano al cento per cento: si è stabilito a Portici ma non dimentica Cosenza, dove va di tanto in tanto.
    Soprattutto, non dimentica l’Accademia Cosentina, dove fa conferenze e presso la quale promuove, in qualità di presidente, la creazione di una biblioteca. Detto altrimenti, è anche merito suo se è esistita la Civica.
    Anche l’appuntamento con la politica, rimandato negli anni ’70 dell’Ottocento, riprende alla grande: fa parte di varie commissioni ministeriali (sua l’istituzione degli esami delle Scuole medie) e viene nominato senatore nel 1901.
    Viaggia tanto, per approfondire lo studio delle letterature straniere, in particolare quelle tedesca e inglese. Al netto di ogni altra disquisizione estetico-letteraria, si può attribuire a Zumbini una specialità accademica: la letteratura comparata.
    Muore a Portici il 21 marzo del 1816 alla ragguardevole età, per l’epoca, di ottant’anni. Uno di suoi ultimi pensieri è rivolto a Cosenza e alla sua Accademia, a cui regala la propria biblioteca. Che purtroppo, finisce in cenere durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.
    Restano di lui un busto marmoreo realizzato dallo scultore Mario Rutelli, esposto ancora nei locali dell’Accademia Cosentina, più varie dediche toponomastiche. A Cosenza, di cui si è già detto, e a Pietrafitta.
    Il minimo, per un intellettuale illustre, esponente di una élite di livello europeo. Forse l’ultima che abbia avuto Cosenza.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Dionesalvi, Cosenza non dimentica la forza di un poeta

    Dionesalvi, Cosenza non dimentica la forza di un poeta

    Ha costruito un edificio prezioso con la sua poesia, i racconti, i romanzi, gli articoli, i saggi. Fino all’ultimo giorno della sua vita ha continuato a lavorare strappando ogni lembo di tempo alla malattia impietosa che lo metteva a dura prova. Coraggioso e generoso con i suoi lettori, Franco Dionesalvi. Una statura da gigante che con il tempo dovrà essere ricostruita, in modo limpido come i suoi occhi.

    «E vivo e parlo e canto e innamoro e soffio bocca a bocca». I suoi versi hanno invaso Villa Rendano, Sulla scia dell’aurora il titolo della serata in suo ricordo a un anno dalla scomparsa – aveva 66 anni – il 6 luglio del 2022. A organizzarla il Comune di Cosenza e la Fondazione Attilio ed Elena Giuliani, con Antonietta Cozza, delegata alla Cultura della Giunta Caruso e giornalista, a condurla con grande professionalità.

    Franco Dionesalvi nel ricordo degli amici

    Nel pubblico, in prima fila, il professore dell’Unical Pierangelo Dacrema, che con lui ha scritto a quattro mani Conversazione tra un economista e un poeta, testimone e protagonista delle ultime giornate di Dionesalvi, dedicate alla scrittura. Il libro, prima pubblicazione postuma del poeta, è una bussola di carta nel mare magnum di influencer, algoritmi, economia spietata che generano solitudine e nonsense esistenziale.
    L’hanno ricordato le parole dei poeti Anna Petrungaro e Daniel Cundari, del suo amico Filippo Senatore, che ha inviato la sua testimonianza da Milano, dove lavora come bibliotecario al Corriere della Sera.

    dionesalvi-villa-rendano
    Da sinistra: Anna Petrungaro, Antonietta Cozza, Concetta Guido

    Anche io sono intervenuta, mi appare anomalo – è difficile che un giornalista scriva in prima persona – ma nello stesso tempo bello lasciare traccia della serata con questa breve cronaca. Con Franco abbiamo vissuto dialoghi intensi tra arte e vita, la forza dell’ironia disvelante che ti fa cogliere la sostanza delle cose e guardare negli occhi le cose più terrificanti per cercare di capirne il senso e poi tanti momenti creativi. Tra tutti, mi viene in mente, forse perché più vicina all’idea di cielo, una bizzarra e affascinante mostra sugli alieni e la Calabria, che lui intitolò Avvistamenti. La allestimmo nella Casa delle Culture di Cosenza (creata da lui stesso durante il suo assessorato), nel fatidico anno Duemila,  insieme a Michele Pingitore e agli artisti visionari Luca Scornaienchi, Tonino Iozzo e Raffaele Cimino.

    Le opere di Franco Dionesalvi: novità in arrivo

    I momenti musicali di Sulla scia dell’aurora sono stati curati, invece, dai Nimby. È una band rock che ha iniziato a collaborare con Dionesalvi nel 2006 e che, imbracciate le chitarre elettriche, ha reso un omaggio pregevole, musicando tre degli inediti dell’ultimissima produzione del poeta. La piccola raccolta che le contiene uscirà a settembre per le edizioni Erranti e sarà presentata all’interno del programma del festival Laudomia nella città bruzia.

    bartolo-dionesalvi-cozza
    Rossana Bartolo, moglie di Franco Dionesalvi e Antonietta Cozza

    A dare la bella notizia è stata la moglie del poeta, Rossana Bartolo. Nonostante la forte commozione per una perdita irreparabile, ha tracciato il percorso futuro: «Mi ha lasciato disposizioni perché rendessi nota la sua opera e la rendessi disponibile a chiunque l’avesse voluta studiare. Mi sto adoperando per questo: fra un anno uscirà la sua opera omnia poetica per la casa editrice Puntoacapo». E ancora: «Continuerò con il resto dei suoi scritti, raccoglierò i testi teatrali e i racconti inediti; raccoglierò i Sombreri, i suoi sferzanti elzeviri e altro ancora».

    «Siamo tutti collegati»

    È Anna Petrungaro a ricordare quanto scrive Edmond Jabès. « La morte è senza potere contro ciò che sta per germinare, crescere, espandersi. La poesia è un pensare contro l’oblio». Il pensiero di una conoscenza approfondita e di una diffusione più capillare delle sue pubblicazioni, è stato il nesso logico di ogni momento. E lui, il poeta, sembrava esserci tra i suoi affetti, i suoi amici, il pubblico, a reggere quel filo sottile e forte con il quale «siamo tutti collegati». Perché siamo «un po’ tutti uno la continuazione dell’altro», come ha scritto in lettere private e in frammenti, che sono bellezza poetica, pensiero e teoria di vita ed esortazione alla consapevolezza, alla gioia, all’attivismo culturale.

    vr-pubblico
    Il pubblico nel giardino di Villa Rendano per “Sulla scia dell’aurora”

    «Mi auguro – ha detto Anna Petrungaro riguardo all’opera di Franco Dionesalvi e alle prossime pubblicazioni – che riceveranno la giusta attenzione e diffusione, non solo dai singoli lettori ma anche dalle istituzioni amministrative e scolastiche, che ci sia l’impegno a programmare un lavoro che vada oltre la temporaneità dell’evento che è tale in quanto isolato dal resto, dalla consuetudine, che abbia la forza di permanere e di rifecondarsi».

    Da Cosenza a Milano, tra amore e amarezza 

    La poetessa, legata da un’amicizia ultraquarantennale a Franco Dionesalvi, con il quale, non ancora ventenni, condivise le esperienze teatrali della compagnia Nuova immaginazione, ha ricordato la «scelta amarissima» da lui fatta, a 60 anni, quando «dopo avere dato tanto e sperato incessantemente nella possibilità di un ulteriore radicamento di senso nella sua città, è emigrato a Milano».
    E poi ha ricordato che in un video girato pochi giorni prima di morire, «spese indimenticabili parole d’amore per Cosenza, nonostante tutto. Invocò la cura della memoria di amici poeti come Raffaele de Luca e Angelo Fasano» e «il dovere morale, ripetutamente sollecitato, di intitolare loro qualcosa».

    Nel corso della serata si è parlato anche della ricchezza dei contenuti di un romanzo dell’autore, L’ultimo libro di carta, pubblicato negli anni della pandemia. Un romanzo sulla guerra, sull’amore, sulla battaglia persa contro gli algoritmi che ci tracciano in ogni giornata, sulla perdita della memoria personale e collettiva.
    Il suo sito e il suo blog sono due finestre dell’edificio prezioso che ha costruito. Contengono un’utile mappa per orientarsi tra tutti i suoi lavori, gli articoli e le lettere da Milano, gli scritti sui suoi “ragazzi”, gli allievi di una nuova Barbiana «del riscatto della dignità», come ha detto Filippo Senatore, che stava costruendo in Lombardia.

    Parole che fanno bene al cuore

    I Nimby – Aldo Ferrara, Francesco e Tommaso la Vecchia – oltre ad esibirsi hanno testimoniato il legame che li univa. Negli anni passati hanno musicato un racconto tratto dalla raccolta Libro della morte e delle cento vite e poi realizzato, insieme a lui, lo spettacolo di musica e poesia Pianure.

    «Franco ci ha regalato la possibilità di metterci in gioco, di scoprire quanto è bello fare musica e innamorarsi delle parole; ci siamo divertiti, abbiamo scherzato, abbiamo sudato, faticato, lavorato insieme… ma, soprattutto, abbiamo passato momenti di intensa Felicità. Perché…”ci sono parole che fanno bene al cuore”». E altre che alzano muri, scrive Dionesalvi in una poesia intitolata la “Responsabilità”.
    Noi, con lui, preferiamo le prime.

    (Le foto all’interno dell’articolo sono opera di Ivana Russo, si ringrazia per averne concesso l’utilizzo)

  • Colto e popolare, quel prete veneto che leggeva Lombardi Satriani

    Colto e popolare, quel prete veneto che leggeva Lombardi Satriani

    Condidoni, Mandaradoni, Paradisoni, Potenzoni, San Costantino, San Leo, Sciconi, sono le frazioni del comune di Briatico, in provincia di Vibo. Sulla carta, in tutto, sarebbero 3.727 i suoi abitanti. Nel 1951 erano 4.826, ma non è un paese spopolato. D’estate poi si affolla non solo di emigrati in viaggio sentimentale. Tanti turisti scelgono le sue spiagge e amano visitare pure le frazioni, specie in occasione delle sagre e delle faste religiose. Molti i tedeschi, riconoscibili perché formano delle file ordinatissime per pagare il piatto di frittura o i fileja, che devono apparirgli veramente esotici. Esotici come gli italiani, che non riescono a rimanere in una fila.
    Prima dei turisti qui, in tempi più remoti e con motivazioni diverse, sono giunti viaggiatori e studiosi per osservare da vicino gli effetti spaventosi del terremoto del 1783. E missioni filantropiche costituite per portare finanziamenti per la ricostruzione, realizzata con innovativi piani edilizi, che prevedevano strade regolari e piazze ampie, edifici bassi e leggeri.

    terremoto-calabria-1783-il-flagello-che-cambio-una-regione
    Un’illustrazione sugli effetti del terremoto del 1783 in Calabria

    Conoscere la Calabria e i suoi abitanti da sempre ha richiesto un notevole impegno, un grande spirito di sacrificio. I viaggiatori stranieri del Settecento e Ottocento sono stati davvero eroici ad affrontare i sentieri a dorso di mulo, per vedere da vicino le voragini in cui erano scomparse intere città, ma anche i luoghi evocati da Omero, le città mitiche come Sibari, misteriose già per gli antichi romani.
    Poi è stato il turno di antropologi, fotografi, ricercatori come Gerhard Rohlfs, impegnato a catalogare e analizzare i dialetti. Cercava le tracce del greco antico e di quello medievale. Il professor Rohlfs ha scattato anche molte foto, dove si vede che uomini e donne si prestavano volentieri a mettersi in posa per lo straniero curioso.

    gerald-rohlfs-briatico
    Gerald Rohlfs con un contadino calabrese

    Poi, con motivazioni diverse, sono arrivati a Briatico i padri scalabriniani. Giovanni Battista Scalabrini era un sacerdote veneto, nominato vescovo di Vicenza. Impressionato e addolorato dal fenomeno migratorio, che era imponente in Veneto, Scalabrini pensò di fondare una congregazione religiosa, con la missione specifica di aiutare e assistere le comunità di italiani all’estero, perché nell’Ottocento e fino al secolo scorso tanti veneti, lombardi e piemontesi dovevano emigrare. In ogni angolo del mondo gli scalabriniani hanno posto le loro basi, per stare accanto ai loro conterranei e così hanno incontrato le comunità di calabresi, pure loro arrivati fino agli estremi confini del mondo, per costruirsi un avvenire migliore di quello che avrebbero dovuto subire a casa loro, in Calabria.

    giovanni-battista-scalabrini
    Giovanni Battista Scalabrini

    I padri missionari scalabriniani si sono resi conto da subito che, per aiutare e sostenere queste comunità, era necessario conoscere le tradizioni, le culture, le abitudini dei luoghi di provenienza, i paesi a migliaia di chilometri di distanza. Così hanno fondato dei centri di studio, uno a Parigi, uno a Roma, un terzo, nel 1979 a Briatico, che oggi è in provincia di Vibo Valentia. E a Briatico arriva padre Maffeo Pretto, nato a Cologna Veneta, in provincia di Verona, nel 1929. Non arriva da solo, a Briatico, ma con altri confratelli, perché Briatico ha diverse frazioni, ognuna con la propria chiesa, a cui le piccole comunità sono molto legate.

    Padre Maffeo inizia a studiare tutti i libri che trova, sulla Calabria. Li acquista, li raccoglie nella casa parrocchiale. Negli anni costituirà una biblioteca di oltre 15.000 volumi, di storia, antropologia, tradizioni popolari, letteratura. Inizia dai testi di Raffaele e Luigi Maria Lombardi Satriani, che hanno il palazzo di famiglia a San Costantino di Briatico. Coinvolge i ragazzi del paese nella gestione e nella cura di questo patrimonio, almeno quelli che decidono di non andare via.
    Ma intanto assolve ai suoi compiti di parroco, conosce le persone, le ascolta. Comprende la difficile realtà di questi piccoli borghi, intristiti dall’emigrazione, con un’economia povera, precaria.

    lombardi_satriani3_fg
    L’antropologo calabrese Luigi Maria Lombardi Satriani

    Quando l’ho conosciuto padre Maffeo aveva circa settant’anni, era da venti anni a Briatico e la sua biblioteca aveva assunto ormai proporzioni ragguardevoli. Mi raccontò qualche aneddoto, sui tentativi di mettere assieme le persone, farle collaborare per raggiugere piccoli obiettivi di interesse comune. Cercava di cogliere sempre il lato positivo di quella fatica. Apprezzava l’attaccamento delle persone a quelle minuscole chiese, l’attesa della festa annuale con le luminarie e la processione come un evento centrale per la comunità. Non guardava dall’alto in basso queste manifestazioni, come spesso fanno i sacerdoti, specie quelli non particolarmente colti.

    Aveva iniziato a pubblicare i suoi studi sul cattolicesimo popolare, le tradizioni, le devozioni delle comunità di cui era parroco. Si trattava di dispense per i confratelli, pubblicazioni ad uso interno dei padri scalabriniani. Negli anni della sua formazione si parlava molto degli studi di don Giuseppe De Luca, un sacerdote lucano, che a Roma aveva fondato le Edizioni di Storia e Letteratura e l’Archivio della pietà. Appunto per salvare questo patrimonio di cultura orale, messo in pericolo dalla laicizzazione della società, dall’abbandono dei paesi, dall’emigrazione.

    Anche in Calabria qualcuno aveva deciso di rimediare. Infatti ci fu l’arrivo, a Briatico, nell’ufficio parrocchiale, nel giugno del 1986, del già irrefrenabile e incontenibile Demetrio Guzzardi, che stava avviando i primi passi della sua casa editrice. Non lo ha convinto subito, padre Maffeo, perché quel giorno Guzzardi, pur prendendo nota mentalmente dell’enorme biblioteca, doveva sposarsi, per questo motivo era a Briatico. C’ero pure io e tanta altra gente, a Sant’Irene di Briatico, uno dei luoghi del cuore della comunità ciellina di Calabria.

    Ma un mese dopo l’implacabile Guzzardi era di nuovo lì a convincere padre Maffeo che i suoi studi meritavano una veste editoriale, che sarebbero stati benissimo tra le prime collane di Editoriale progetto2000. E così hanno visto la luce La pietà popolare in Calabria, nel 1983, Santi e santità nella pietà popolare in Calabria nel 1993. Nel 2005 Teologia della pietà popolare. Questo sacerdote veneto schivo, riservato e metodico, ha trascritto tutte le cantilene, le storie raccontate ai bambini, le leggende dei santi che non hanno trovato posto nelle biografie ufficiali, le litanie e le tradizioni che affondano le proprie radici nella notte dei tempi.
    Infine un ultimo regalo alla comunità di Briatico, Briatico nella storia, nel 2007. Due grossi volumi, il primo dedicato al periodo feudale, il secondo al tempo moderno, fitti di documenti, storie e personaggi. Una enciclopedia che custodirà la memoria di Briatico. Anche dell’antica Briatico distrutta dai terremoti e ricostruita, per le future generazioni, come devono fare i buoni libri.

    Padre Maffeo ha trascorso i suoi ultimi anni nella casa dei padri scalabriniani di Arco, in provincia di Trento. Le sue precarie condizioni di salute non gli hanno permesso di rimanere da solo in Calabria. Assistito dai suoi confratelli ha concluso la sua vita terrena il 9 giugno 2021.

    Sistema-Bibliotecario-Vibonese
    La sede del Sistema bibliotecario vibonese, cui aderisce anche il Comune di Cessaniti

    Prima di andare via dalla Calabria ha cercato il modo di lasciare in regalo a questa terra la sua biblioteca. La ha accolta Favelloni, frazione del comune di Cessaniti, vicino ai luoghi della sua missione trentennale. Un segno concreto del suo legame con questa terra e la sua storia.

  • Manfredi Bosco, un cosentino sul tetto d’El Mundo

    Manfredi Bosco, un cosentino sul tetto d’El Mundo

    Manfredi Bosco è uno dei migliori cuochi – «Chef è solo un’etichetta gerarchica in cucina, se mi chiedono cosa faccio nella vita rispondo: il cuoco», ci tiene a precisare – di Madrid. A sostenerlo non è una voce qualsiasi, ma El Mundo, uno dei giornali più importanti di Spagna. Qualche settimana fa, nella sezione gastronomia, ha dedicato a questo cosentino, da qualche anno presidente dell’Associazione cuochi Italiani in Spagna – un lungo articolo. Il calabrese che voleva fare il diplomatico ed è finito a guidare uno dei ristoranti italiani – si chiama Pante – più interessanti della capitale iberica, lo ha definito Luis Blanco. Un traguardo niente male per uno che ha iniziato per caso a pensare di fare il cuoco una ventina o poco più d’anni fa: prestigio a parte, El Mundo ha il sito europeo di informazione in lingua spagnola più letto che ci sia.

    manfredi-bosco-pante-ingresso
    L’ingresso del ristorante madrileno

    Per una volta, però, un piccolo giornale calabrese ha almeno un vantaggio su un colosso dell’editoria internazionale: Manfredi Bosco è stato mio compagno di classe alle superiori e mio coinquilino all’università. Che volesse fare il diplomatico dopo la maturità non lo ricordo. In compenso, ricordo che da lui negli anni del liceo si facevano mangiate formidabili. Merito di Francesco, suo padre: arrivava a casa con prodotti presi da questo o quel contadino durante i suoi giri di lavoro. Gestiva con alcuni parenti una ditta di liquori – erano loro a produrre l’Amaro Silano Bosco o l’Anice Bosco fino agli anni ’90, più o meno – e si occupava spesso della distribuzione, per cui viaggiava parecchio. E poi era cintura nera di pasta e patate ara tijeddra e abbastanza eretico (e bravo) tra i fornelli da preparare un delizioso morzello catanzarese nel cuore di Cosenza.

    Il tuo primo maestro, quello che ti ha trasmesso la passione per la cucina, è stato lui?

    «Più che per la cucina, per i sapori, per i prodotti del territorio. Però a fare il cuoco non avevo mai pensato: niente alberghiera, ma liceo classico, poi Scienze politiche a Roma. Non avevo le idee molto chiare sul futuro quando ci siamo iscritti alla Sapienza, diciamo così, però mi piaceva l’idea di viaggiare per lavoro. Tant’è che la mia carriera poi è nata proprio per quello».

    In che senso?

    «Ho preso un volo per Londra, volevo imparare bene la lingua con un corso intensivo di qualche mese. Londra è cara, difficile mantenersi, e io parlavo poco e male l’inglese. La soluzione più semplice mi è sembrata chiedere un lavoretto in qualche ristorante italiano. Ho cominciato come lavapiatti, poi hanno visto che – anche se ero un principiante – me la cavavo tra i fornelli. Dopo un paio di mesi sono diventato aiuto cuoco. E mi sono reso conto che, oltre a guadagnare soldi miei per la prima volta, mi piaceva stare in cucina per mestiere.

    london_big_bang_bridge_clouds_dramatic_water_river_thames-1164770
    Il Big Ben, simbolo di Londra

    Poi lavorare in Inghilterra è tutta un’altra storia, capisci come dovrebbero davvero andare le cose. Lì non ci sono nero o straordinari non retribuiti, ci sono regole e si rispettano. Se ci pensi, pur facendo il lavapiatti, riuscivo a pagarmi una stanza in una delle città più costose del mondo. Certo, quando lavori in un ristorante per il cibo a casa non spendi quasi nulla, però…».

    Se stavi così bene, perché tornartene in Italia allora?

    «Era il 2001, poco dopo l’11 settembre, e i miei avevano il terrore che il prossimo attentato potesse essere a Londra. Pur di convincermi a tornare mi hanno aiutato a entrare nelle cucine del Four Season, un grande albergo di Milano, per uno stage. E lì mi hanno distrutto, non avevo ancora visto come e quanto si lavora in una cucina di veri professionisti. Mi sono reso conto che non sapevo nulla e non è stato semplice. Ti faccio un esempio banale: tu magari puoi credere che tua mamma prepari una besciamella buonissima e segui la sua ricetta, ma in un posto del genere mica puoi servirne una preparata come la fa lei.

     

    four-season-milano
    L’Hotel Four Season di Milano

    La cucina è fatta di sapori e ingredienti, ma anche di tecniche per valorizzarli e io ho dovuto impararle da zero. Ho capito pure quanto fosse duro e usurante fare il cuoco, però continuava a piacermi sempre di più. E, dopo le prime difficoltà, imparavo in fretta: a fine stage, con l’estate ormai alle porte, lo chef ha suggerito il mio nome a un collega per la sua brigata, nel mondo dell’hôtellerie funziona spesso così a seconda delle stagioni. Era il mio primo lavoro in Italia, al Palace Hotel di Capri, come cuoco capo partita. Mi occupavo della carne e di varie salse, più qualche turno notturno per il servizio in camera».

    Me lo ricordo eccome: una notte hai chiamato a casa nostra a Roma per dirci che avevi appena preparato una frittata a Brian May dei Queen!

    «Spaghetti e vongole prima, omelette poi, aveva fame. Era arrivato in elicottero, poverino… però non l’ho incontrato, peccato: nell’alta hospitality la riservatezza del cliente è sacra».

    Per uno che due anni prima lavava i piatti mi pare comunque un bel passo avanti, no?

    «Beh, sì, però a Capri è stato davvero un massacro, il Four Season era una passeggiata in confronto. Lì ero una stagista, qui avevo più responsabilità e, in sostanza, ancora nessuna esperienza. Ho visto cosa significhino davvero le gerarchie nelle cucine di un certo livello. Lo chef era Oliver Glowig, un grandissimo che ha conquistato diverse stelle Michelin negli anni; il suo secondo all’inizio mi trattava come uno schiavo, poi però dopo qualche settimana mi ha aperto casa sua: anche quello mi ha fatto capire che la mia strada era in cucina».

    oliver-glowig-manfredi-bosco
    Oliver Glowig e Manfredi Bosco in una foto scattata qualche anno dopo l’esperienza insieme a Capri

    Finita l’estate sei tornato a Roma…

    «Sì, un lavoro ai Parioli. Gran ristorante, tra i clienti, per dirti, c’era Jack Nicholson quando veniva in Italia. Mi occupavo del pesce stavolta. E poi c’era un collega napoletano che mi ha insegnato tutto sulla pasta. Quando si parla di pasta non esistono maestri migliori dei napoletani, fidati».

    E perché sei andato via da lì?

    «Un’offerta migliore. Una famiglia storica della ristorazione romana aveva deciso di puntare sull’alta cucina con un piccolo ristorante dietro piazza Navona e ho deciso di lavorare da loro. Però le cose non sono andate granché bene, erano altri tempi. C’era attenzione verso questo mondo in Italia, ci mancherebbe, ma non come adesso. Roma non era ancora “pronta” per questo tipo di cucina».

    Sei pure scappato, letteralmente, da quel ristorante…

    «Vero, te l’ho detto che il cuoco è un mestiere duro e usurante, sono andato in tilt. Nello stesso periodo papà, che aveva venduto la ditta poco tempo prima, mi ha detto che avremmo potuto rimetterci a fare i liquori insieme, io e lui. Era il mio sogno da bambino che si avverava: la ditta quando ero piccolo era sotto casa mia, con tutti quegli alambicchi, bellissima. Così me ne sono tornato in Calabria».

    E dalle ceneri dell’Amaro Bosco è nato l’Amaro Manfredi, con cui tu da tempo però non hai più nulla a che vedere. E la cucina?

    «Mai abbandonata del tutto. Ho iniziato a organizzare eventi gastronomici per promuovere i prodotti del territorio, collaborato con aziende locali. Convincere i calabresi a fidarsi dei prodotti della loro terra era quasi più difficile di vendergli i liquori. Non posso nemmeno dar loro torto, di recente sono stato a Cosenza e dal fruttivendolo c’erano delle patate terribili: ma come, con la Sila a due passi, non hai patate buone? Dal punto di vista della cultura gastronomica siamo molto indietro ancora; ricordo che molti macellai avevano carne bovina ben frollata solo perché non riuscivano a venderla prima, assurdo. Se penso alla cura degli spagnoli nell’allevamento dei maiali il confronto è impietoso, il Nero di Calabria ha più pregi che mercato»

    Hai fatto pure qualcosina per la televisione, ricordo un programma con Mengacci. Che ne pensi della cucina in tv e dei cuochi nello show business?

    «Tutto il male possibile. No, dai, qualcosa di positivo c’è: è un modo per dare visibilità a un mestiere a lungo non valorizzato quanto meriterebbe, come succede invece in Francia, e per far conoscere i sapori di un luogo. Ma c’è l’altra faccia della medaglia: oggi, su 50 curricula che arrivano in un ristorante, 40 sono di gente che fa i suoi piatti per Instagram o ha partecipato a una mezza puntata di Masterchef. Qualcuno ha anche talento, ma quasi tutti scappano dopo aver visto come si lavora in una vera cucina. I professionisti con una formazione alle spalle magari non trovano posto, invece. E un’offerta così alta di manodopera ha fatto crollare le retribuzioni in cucina per tutti.

    manfredi-bosco-ramsey
    Manfredi Bosco prima di prendere servizio nel ristorante sardo di Gordon Ramsay

    Anche io ho iniziato dal nulla, ci mancherebbe, però l’ho fatto dentro una cucina, non sui social o in un talent show. E comunque, a parte tutto, in tv non funzionavo proprio. Troppo riservato, ho fatto giusto qualche puntata di Ricette all’Italiana: mi piace stare ai fornelli, non davanti a una telecamera».

    Però hai lavorato anche con due star della Tv come Carlo Cracco e Gordon Ramsay, che tipi sono?

    «Ramsay non l’ho conosciuto di persona, lavoravo in un suo ristorante al Forte Village ma non c’era mai. Anche con Cracco ho lavorato in Sardegna, veniva due volte a settimana: un professionista pazzesco, non posso che parlarne bene. E che puoi dire di male su uno che era chef a Montecarlo al Le Luis XV di Alain Ducasse, dove un genio come Massimo Bottura era solo uno dei tanti in brigata? Lo guardi lavorare e provi a imparare il possibile».

    manfredi-bosco-carlo-cracco
    Manfredi Bosco e Carlo Cracco

    In Spagna, invece, come e quando sei arrivato?

    «Una decina di anni fa, ceduta la ditta di liquori. Avevo qualche contatto lì e sono andato a studiare un po’ la loro ristorazione. Poco dopo ho iniziato a lavorare al +39, come il prefisso dell’Italia, il primo ristorante calabrese di Madrid. Tra i soci c’era anche Matías Verón, l’ex calciatore della Reggina. Ho vinto un concorso – Madrid Fusión, una kermesse gastronomica che si ripete ogni anno e pone al centro dell’attenzione cuochi e tecniche di cucina – ed è partito anche il mio lavoro con l’Associazione dei Cuochi Italiani in Spagna. Organizziamo show cooking, eventi pubblici e iniziative nelle scuole per far conoscere i prodotti nostrani, il modo di prepararli, l’importanza della dieta mediterranea».

    Su El Mundo, però, sei finito grazie a un altro ristorante, Pante

    «Ci lavoro da quattro anni ormai. Facciamo cucina italiana, in particolare di Pantelleria, ma ho voluto che nel menu ci fosse sempre anche un po’ di Calabria. Il peperoncino, innanzitutto, ma anche le cipolle di Tropea, la ‘nduja, i fichi dottati.
    Tra i nostri clienti ci sono Carlo Ancelotti, un mio mito da adolescente come Raul, Diego Simeone. Il Cholo, quando ha saputo che ero di Cosenza, mi ha parlato della città: ricordava di esserci stato quando giocava nel Pisa in serie B, anche se aveva dovuto saltare la partita per infortunio».

    manfredi-bosco-pasta
    Manfredi Bosco completa uno dei suoi piatti al Pante di Madrid

    Derby al ristorante… tu sei merengue o colchonero?

    «Juventino (ride). Però dopo tanti anni mi sento anche castigliano, è una terra meravigliosa e accogliente da cui difficilmente andrei via a meno di offerte irrinunciabili. Qui c’è un detto, “Se vivi a Madrid, sei di Madrid”, ed è davvero così»

    Hai puntato sulla tradizione – non locale, tra l’altro – nel Paese che negli ultimi anni è stato più all’avanguardia nel mondo della cucina. La tentazione di seguire quel filone non l’hai mai avuta?

    «Sinceramente no. Ho un immenso rispetto per cuochi come David Muñoz e per il successo del suo ristorante al World’s 50 Best Restaurant così come per l’Osteria francescana di Bottura (vincitore in precedenza del prestigioso riconoscimento, nda), ma perché so quanto abbiano lavorato duramente prima di arrivare lì, passando prima dalla ristorazione più tradizionale.
    Io però in un ristorante, anche il migliore del mondo, dove una cena dura 4 ore non andrei, non è il genere di esperienza che mi attira. La vedo così: il cliente da Manfredi Bosco viene per mangiare bene e quando va via deve pensare al piatto che gli ho servito come a quelli che gli preparavano sua mamma o sua nonna, rivivere quelle sensazioni. Non è semplice, specie in un paese straniero che non conosce davvero la tua tradizione, ma se ci riesco ho raggiunto il mio obiettivo».

  • Lucrezia della Valle: una poetessa nella Cosenza di Telesio

    Lucrezia della Valle: una poetessa nella Cosenza di Telesio

    Di lei resta poco: la dedica di una scuola importante di Cosenza, un sonetto e qualche elemento biografico, tra l’altro non proprio preciso. Eppure, Lucrezia della Valle, una nobildonna vissuta a cavallo tra XVI e XVII secolo, vanterebbe almeno un primato (in assenza di documentazione contraria): è la prima intellettuale cosentina di cui si hanno tracce. Non proprio solide, ma pur sempre tracce. Ricostruiamole un po’.

    Lucrezia della Valle, l’enigma della nascita

    La data di nascita di Lucrezia della Valle è pressoché sconosciuta. A tentoni, si può ipotizzare che la poetessa sia venuta alla luce attorno al 1565.
    Lo si apprende da una lettera indirizzata da Sertorio Quattromani, lo zio di Lucrezia, al patrizio cosentino (e barone di Brunetto) Celsio Mollo.
    La missiva è datata 1597. In essa, il celebre letterato e presidente dell’Accademia Cosentina, invita l’amico Mollo a tranquillizzare Lucrezia, preoccupata del carattere a dir poco esuberante di suo figlio, Teseo Sambiasi, che si è ficcato in una bella rissa a Napoli. «Persuadela a non prendersi molto affanno di queste cose, che produce la fanciullezza», scrive Quattromani all’amico.
    È quanto basta per un calcolo presuntivo: se per “fanciullezza” s’intende la post adolescenza, Lucrezia all’epoca doveva avere almeno trentadue-trentatré anni per poter essere madre di un sedicenne.

    Sertorio Quattromani

    Una poetessa di buona famiglia

    Riavvolgiamo il nastro: sappiamo, da queste informazioni, che Lucrezia della Valle fa parte della Cosenza-che-conta del tardo Cinquecento.
    Sappiamo che suo zio è l’illustre accademico Sertorio Quattromani (infatti, è figlia di Giulia Quattromani, sorella minore di Sertorio, e di Sebastiano della Valle, proprietario e giurista legato ai Sanseverino di Bisignano).
    Suo marito è un altro accademico e, va da sé, nobile: Giambattista Sambiasi.
    Si apprende, da altre testimonianze, a partire da quelle contenute nell’epistolario dello zio, che Lucrezia ha una vita tutt’altro che irrequieta: è mamma di sei figli e, a parte la letteratura e gli impegni nell’Accademia Cosentina, dove è iscritta con il nome d’arte di Olimpia, non ha altre passioni.
    Insomma, la classica notabile d’epoca senza grilli per la testa ma con un amore solido per la cultura. Non propriamente un’aspirante Eleonora Fonseca Pimentel.

    Il giallo della morte

    Anche sulla morte di Lucrezia della Valle c’è un piccolo giallo. Nulla di grave, intendiamoci: riguarda solo le date.
    Al riguardo, trae in inganno proprio la ricca corrispondenza di Sertorio Quattromani con i colleghi accademici. In particolare, è fuorviante una lettera di Sertorio a Francesco Mauro, in cui il letterato piange la morte di una nipote, avvenuta nel 1602.
    L’incomprensione è acuita da un sonetto di Fabrizio Marotta, composto per consolare Sertorio della perdita di una donna di nome Olimpia. L’equivoco c’è tutto.
    Ma basta poco a dissiparlo. Innanzitutto, i due testamenti di Sertorio Quattromani. I documenti risalgono entrambi al 1603, il primo a ottobre, il secondo al 19 novembre, un mese prima della morte dell’accademico.
    In quest’ultimo è compreso un inventario della biblioteca dell’illustre critico e, soprattutto, la nomina ad erede di Lucrezia.

    lucrezia-della-valle-vita-sconosciuta-poetessa-cosentina
    Il duomo di Cosenza, ultima dimora di Lucrezia della Valle

    Lucrezia della Valle riposa nel Duomo

    Il secondo dato toglie ogni dubbio: riguarda il luogo di sepoltura della poetessa, il Duomo di Cosenza.
    Questo dato è presente nel volume Cosenza Sacra (1933), di Cesare Minicucci. L’autore riporta anche la data precisa della morte di Lucrezia: 26 settembre 1622.
    Entrambi gli elementi, data della morte e luogo di sepoltura, tornano in I libri di un letterato calabrese. Sertorio Quattromani 1541-1603, un saggio dello storico napoletano Carlo De Frede (1999). E torna tutto il resto: cioè che la Lucrezia sepolta nel Duomo fosse proprio quella e non un’omonima.
    A questo punto, sappiamo che la poetessa ha vissuto poco meno di cinquant’anni a cavallo tra Cinque e Seicento, che è parte integrante del “generone” cosentino e milita nell’Accademia Cosentina. E poi?

    Solo una poesia per dire brava?

    Di Lucrezia della Valle resta solo un sonetto. Lo ha trascritto il giurista e storico cosentino Salvatore Spiriti nel suo Memorie degli scrittori cosentini (1750), in cui traccia una breve biografia della poetessa.
    Nelle due pagine (102-104) del suo libro dedicate alla poetessa, Spiriti tramanda varie notizie, tra cui quelle sulla produzione letteraria di della Valle, che comunque si riduce a poco. Un Canzoniere composto da quarantadue sonetti, una canzone, tre sestine, sei ballate e un capitolo dedicato all’amore di ispirazione platonica.
    Il tutto, in stile petrarchesco. Ma ci sta: da degna nipote e allieva, la Nostra si ispira molto a zio Sertorio che, guarda caso, è un patito di Petrarca.
    Comunque, Spiriti attribuisce a della Valle anche un’opera latina: De elegantiis latinae linguae melioribus scriptoribus excerpitis. Peccato solo che sia andato tutto perso, anche perché alle soglie dell’età moderna non esistono i file epub e pdf che possono dare l’eternità a tutto.

    lucrezia-della-valle-vita-sconosciuta-poetessa-cosentina
    Il liceo Lucrezia della Valle

    Fu vera gloria?

    Ovviamente c’è chi polemizza e mette in discussione un po’ di cose. È il caso del napoletano Pietro Napoli Signorelli, che nel suo Vicende della coltura nelle due Sicilie
    (1810) mette in guardia i lettori dalle «congetture» di Spiriti su Lucrezia.
    Forse Signorelli non ha proprio tutti i torti: Spiriti, animato da orgoglio di appartenenza, cerca di riportare l’Accademia ai suoi vecchi fasti e perciò scrive le Memorie, che contengono un bel po’ di propaganda.
    Ma ciò non toglie che la poetessa cosentina resti una intellettuale di punta del Sud che scivolava (e non sempre bene) dal rinascimento al barocco. Lucrezia della Valle è stata paragonata ad altre letterate della sua epoca, come la laziale Vittoria Colonna, che appartiene alla generazione precedente.
    Al netto di qualche esagerazione retorica o di critiche postume c’è un dato, da non sottovalutare: Lucrezia della Valle è un’esponente di una élite di grande caratura, inserita a pieno titolo nelle classi colte europee. Il che, per una città come Cosenza, che a malapena tocca all’epoca i 10mila abitanti non è davvero poco.
    Un risultato notevole, che la città non avrebbe più ripetuto.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Da Teramo un calcio alle sbarre del razzismo e al razzismo delle sbarre

    Da Teramo un calcio alle sbarre del razzismo e al razzismo delle sbarre

    Le esperienze sociali attraversano il tempo, giocano d’anticipo sulla globalizzazione e sull’imperialismo. È nella loro propria natura avere fortissime radici territoriali e grande sensibilità internazionale e internazionalista verso chi vive le stesse condizioni, separato “soltanto” da centinaia di chilometri.
    In trasferta abruzzese e laziale per lavoro incastro in modo da poter essere alla splendida settimana di musica, partite, dibattiti e cucina promossa dalla Casa del Popolo di Teramo, dietro il titolo, senza cedimento alcuno, AMA LO SPORT, ODIA IL RAZZISMO. Un programma a domani, un filo rosso nella memoria.
    Un calendario bello fitto, sentito, carico. In cartellone, riflessioni su sanità e urbanistica in città, un’iniziativa a cura del Collettivo femminista Malelingue – esperienza molto briosa e curiosa, schierata e capace di essere trasversale ad anagrafe e lavoro -, revival calcistico e dibattiti sui temi della giustizia.

    calcio-teramo-razzismo-politica-curve-troppo-post-ideologiche
    La tifoseria del Cosenza storicamente schierata contro il razzismo e da sempre solidale coi rifugiati

    Calcio e razzismo, da Cosenza a Teramo

    Chi scrive sente un po’ di piacevole malinconia, ricordando la partecipazione di tifoserie di tutta Italia (non solo nel calcio) ai “vecchi” mondiali Antirazzisti. Che poi lì di “vecchio” invero c’era molto poco, perché le analisi di partenza erano buone, fresche e attuali: il razzismo come prodotto di marketing, come pregiudizio per escludere, come virus da fare crescere per sostituire sicurezze rubate con insicurezze presunte.
    Ora la partecipazione ultras nel sociale è meno presente (e Cosenza anzi è una piazza ancora più reattiva di troppe altre) e soprattutto si è un po’ annacquata la valenza comunitaria e politica. L’apoliticità è stata dappertutto un modo per allentare frizioni, ma anche per espellere le pratiche di alternativa dal basso che sembravano più interessanti e radicali.

    Curve e politica

    E comunque a Teramo si respira dei gradoni il senso bello, non il mettere il cappello a una tifoseria per conto di pochi, ma i ricordi umani e sportivi che rendono ogni realtà con ancora un certo attaccamento calda e rituale. A latere di partitelle e grigliate, cori e fiaccolate per i ragazzi scomparsi e cresciuti in gradinata: pratica bella, anche se non hai una sciarpa al collo o ne porti una di un’altra bandiera. Il succo è lì: politica sociale e riti della curva sono parti di una cultura individuale e collettiva; le puoi e le devi discernere. Anzi, lo facciamo tutti sempre più spesso e con un po’ di autocritica dovremmo dire che è la conseguenza di un passato prossimo nel quale invece eravamo convinti dovessero essere per forza la stessa cosa. No, non lo sono, ma le connessioni esistono ed esisteranno.

    calcio-teramo-razzismo-politica-curve-troppo-post-ideologiche
    I Los Fastidios a Teramo

    Nell’umida bolgia del campetto Smeraldo incontro i Los Fastidios: li ascolto, certo, ma soprattutto noto una cosa che appartiene alla vita dei musicisti e dei movimentisti. Il venirsi a trovare, il cercare di vedere le cose che accadono, i temi che scaldano. A me tocca una bella tavolata con gli amici di Napoli Monitor sulla questione carcere, in particolare ergastolo e 41bis. Presente Yairaiha Onlus e ben due stand di libri: uno di storia e memoria critica locale; uno su temi di pena e giustizia. Ed è emozionante come raziocinio e militanza civile si tocchino nella folla di centinaia di persone.

    Calcio, carcere e non solo

    Questo carcere (la sua regolazione formale e i suoi effetti sostanziali) colma sempre meno le promesse di sicurezza su cui si è fondato. E sempre di più squarci totalmente inediti si aprono davanti alle ingiustizie peggiori: quando emerge la foto del sovraffollamento, della mancanza di alternative, della impunità esibita di chi ne ha la forza e dell’annullamento totale di chi è considerato ormai smorzo di carne, parte di una discarica sociale.
    Sfumature nelle sfumature: reati che potrebbero essere depenalizzati, ad esempio. Maggiore attenzione alla prevenzione culturale e sociale in caso di violenze domestiche, stato di necessità e indigenza, politica sulle droghe.

    I tanti interventi s’affollano molto più critici e policromi delle nostre relazioni scolastiche: si sta bene, c’è il piacere di commentare, di stare assieme, senza la costrizione del torto e della ragione. Risuonano naturalmente sensibilità comuni. Mi appassiono nelle ore precedenti e successive a sentire cosa succeda in una piccola città del Sud e purtroppo certi costumi e malcostumi sembrano il racconto di una nazione intera. I crolli nelle case popolari, il costo della vita, la precarietà del lavoro. Una artigianale mostra fotografica racconta il vissuto di quartieri storici e periferici, coi loro personaggi, le loro panchine, lo sporco e il pulito, la generosità e il disservizio.

    Mostra fotografica nella settimana antagonista di Teramo

    Empatia, non volemose bene

    Chiacchiero con Davide e Giovanni, metalmeccanici. Schiena e braccia di quella parte di industria che non conosce sosta, talvolta nemmeno contro la vita degli altri. Ascolto volentieri come possa declinarsi la questione di genere in terre di provincia dove altrimenti il racconto sarebbe che rivendicare diritti è lezioso, fa perdere tempo e salute. C’è la carretta da tirare. C’è una buona presenza di migranti, accolta senza l’ipocrisia del volemose bene ma con la concretezza di alcune precedenti esperienze della rete Sprar. Abbiamo buttato via il bambino ancora prima dell’acqua sporca: anzi, quella la abbiamo lasciata nella bacinella, ma sulle migrazioni “navighiamo” male e a vista. Le uniche acritiche certezze sono accordi internazionali dagli effetti incompatibili alla dignità umana.

    L’immancabile mangia e bevi come da copione

    Tanta gastronomia e lì bello pure registrare la felicità e la simpatia di chi ha lavorato ore e forse giorni e continuano a non avere e non volere sosta. Tutto senza profitto. Una squadra che segna e continua a segnare.
    Me ne vado davvero leggero: leggero di questa robustissima costituzione che pratica la sua lotta con la comunità, i legami, la libertà. Questa Teramo, popolare e frizzante, colta e curiosa, empatica e rude, mi ha colpito in bene. I baci e gli abbracci camminano da soli tra pugni chiusi e pugni in tasca. La sera placa l’afa e la cassa suona. E dovunque siano queste feste scalciano le sbarre del grigio per liberare felicità e impegno.

    Domenico Bilotti
    Docente di “Diritto delle Religioni” e “Storia delle religioni”, Università Magna Graecia

  • Eravamo… io, Cito, Scianna e Berengo Gardin

    Eravamo… io, Cito, Scianna e Berengo Gardin

    Il Festival Corigliano Calabro fotografia nasce con la presenza di Gianni Berengo Gardin, Ferdinando Scianna e Mimmo Jodice. Cronaca di un successo (pre)annunciato, raggiungendo i suoi primi 20 anni. Resta tra i più importanti d’Italia. Ed è una meravigliosa vetrina per la Calabria. Senza “zuccherini” e retorica buonista.

    Ferdinando Scianna

    Gianzi, anima di Corigliano Calabro fotografia

    Ho conosciuto Gaetano Gianzi dieci anni fa quando ero di stanza col mio vecchio giornale nella Sibaritide, nella redazione di Rossano. Gaetano è un calabrese atipico. Biondo, occhi azzurri con una certa somiglianza con l’attore Rutger Hauer. Il suo nome è legato indissolubilmente al Festival. Direttore artistico e amministrativo. Medico in pensione, lavora tutto l’anno per questo evento insieme ai volontari dell’associazione Corigliano Calabro per la fotografia. E ci tiene a puntualizzare: «Li ringrazio tutti, sono indispensabili. Senza di loro non saremmo arrivati sino a qui».

    Oggi porta a tracolla una bellissima Leica, oggetto di culto per chi ama scattare, ma ha iniziato tanti anni fa con ben altri dispositivi e tecnologie. L’idea di creare un evento del genere in terra ausonica gli viene dopo aver partecipato tra gli anni ottanta e novanta alla Settimana della Fotografia a Terrasini, in Sicilia. Perché non provarci sulle sponde del nostro Jonio? Si chiede. Ci riesce. Come tutti i cocciuti, gli ostinati.

    Il “Viaggio” di Gianni Berengo Gardin

    Da assessore alla cultura della sua città dà un impulso decisivo per la partenza della prima edizione. Sin da subito si decide di affidare il racconto del territorio a un grande fotografo. Apre le danze Gianni Berengo Gardin. Che poi diventerà cittadino onorario di Corigliano.
    «Gianni non scatta se non passa nessuno. Ricordo un’ora di attesa. Eravamo sulla provinciale vicino al Quadrato Compagna». Gaetano ricorda il modus operandi del maestro. Ne uscirà fuori Viaggio a Corigliano. Non può esserci titolo più evocativo per un lavoro del genere, diventerà una consuetudine del festival. Ma quel primo numero segnerà una cesura netta tra il prima e il dopo.

    corigliano-fotografia-20-anni-festival-dove-arrivano-big
    Attilio Lauria e Michele Smargiassi

    «È una caratteristica peculiare di questo festival» – spiega Attilio Lauria, critico, giornalista e redattore di Fotoit, membro e docente della Fiaf. Perché la particolarità di questo evento è il rapporto con la città, la lunga arteria chiamata 106 Jonica, il suo mare. Che rimbalzano nelle immagini in mostra nelle capitali europee e non solo. Una pubblicità intelligente, raffinata, etica. Un buon modo per raccontare la Calabria di confine al di là dei soliti stereotipi.

    «In tutto il Sud non c’è un festival di questa caratura. Ma anche attività di formazione, autori che fanno seminari. Un formula rodata ovunque: mostre e formazione». Sono parole di Attilio Lauria. Pochi giorni fa era proprio al Festival in compagnia del giornalista di Repubblica Michele Smargiassi. Entrambi impegnati in un seminario sul futuro della fotografia ai tempi dell’assalto inesorabile dell’Intelligenza artificiale.

    Vent’anni di fotografia

    Venti anni sono pure densi di appunti annotati sul taccuino della memoria di Gaetano Gianzi. «Di Gabriele Basilico», che ha saputo restituirci insieme ad altri come Luigi Ghirri le mutazioni del paesaggio italiano, «non dimentico i modi da persona elegante e squisita». Uno fuori dal tempo con «quel panno nero sulla testa, accovacciato sul suo banco ottico». Il fotoreporter partenopeo Francesco Cito, autore di reportage nell’Afghanistan dell’invasione sovietica oppure di perle come i “matrimoni napoletani”, capisce subito che il porto regalerà qualcosa di buono. «Ne verrà fuori uno scatto indimenticabile con i ragazzi che si tuffano dal faro». Sarà anche la copertina de Il Fotografo di qualche anno fa.
    Monika Bulaj spazia dalla religiosità fino al mercato dei pesci in quel 2017. Ha fotografato guerre in posti complicati, come del resto lo sono tutti i conflitti. Era una temeraria. «I pescatori di Schiavonea mi dicono ancora: ma quella signora non viene più».

    Uno scatto di Monica Bulaj a Corigliano

    Da Letizia Battaglia fino a Franco Fontana. Oltre 300 autori sono passati da qui. Si fa fatica a elencarli tutti.
    Il festival, da sedici anni una delle sedi di Portfolio Italia, è entrato di diritto nell’immaginario di una comunità. Uno dei tanti spazi meridiani che si prestano al racconto, dove l’occhio dei grandi fotografi incontra la storia minima, la complessità, i volti unici e i contrasti di una città che gente come Gianzi prova e riesce a trasformare in avamposto culturale del Sud. Anche solo per qualche giorno.

    corigliano-fotografia-20-anni-festival-dove-arrivano-big
    Franco Fontana nel centro storico di Corigliano Calabro
  • Franco Dionesalvi: non è che l’inizio

    Franco Dionesalvi: non è che l’inizio

    Franco Dionesalvi non si è mai pensato intellettuale nel senso ampolloso e ingaggiato del termine. Lo era invece e ben di più nello sguardo sul mondo e nel legame storico-affettivo con la sua città: nessun localismo, nessun souvenir, solo studio, amore, agorà al massimo grado.

    Tante vite in un una

    È parziario, oltre che impossibile, ricordarlo libro per libro, composizione per composizione, reading per reading. Come per tutti gli scrittori che lavorano da amanuensi la materia della loro scrittura per il filtro dell’ibridazione dei linguaggi, ogni opera è il tassello di un percorso intero ed interiore. Non una scatola chiusa. Quindi, in Dionesalvi vivono tante vene e filoni, tante storie attraverso i suoi scritti rivivono. Le avanguardie letterarie, ad esempio. Senza fare l’archivistica degli stratagemmi semantici, ma investigando il rapporto immediatamente politico-emotivo fra segno e senso. Era uomo del Concilio, pur essendo un bambino nei primi Sessanta, ma gli apparteneva naturalmente un cristianesimo di base, semplice, diretto, dialogico. Ecumenico ed etimologicamente cattolico: persona singolare e universalità collettiva.

    Un uomo del ’77

    Era uomo del ’77, ancora. Non per portarsi addosso le stimmate laiche di un percorso di autonomia (sul quale ormai tutti hanno la loro, tutti ne hanno fatto parte e tutti lo hanno rinnegato), ché anzi le simpatie estetiche e comportamentali di Dionesalvi andavano più agli Indiani che agli Autonomi. Era figlio del ’77 in quella naturale postura antiautoritaria che ti fa capire, volenti o nolenti, la morte di un certo tipo di appartenenze e l’emersione di una soggettività disorganizzata e plurale, oltre certe logiche e chiese, bisognosa, anzi, di nuovi stimoli, nuove istituzioni e -ancora una volta!- nuovi canali comunicativi.

    Franco Dionesalvi: come ricordarlo?

    Non si sa come potercelo ricordare Franco Dionesalvi, quale lato debba più prevalere sugli altri: l’amministratore razionale e visionario insieme? Conoscitore dei sistemi locali della cultura europea (come da sua ottima tesi di dottorato) o attivista che apre squarci nuovi e si inventa il festival cittadino che segna una generazione, lontano anni luce da cover e refrain dei decenni successivi? Il romanziere colto, sperimentale, e però legato anche all’abc del romanzo di formazione, alla narrativa come scavo psicologico e percorso di crescita? Il poeta omaggiato a New York o il profeta per un certo periodo dimenticato in patria? Il corsivista ironico e propositivo o l’uomo di teatro che dal dramma ricavava storie di popolo? base-centrale-franco-dionesalvi

    Lo ricordo, allora, al netto di tanti begli incontri personali (che con Franco erano o l’uno a uno o il cenacolo improvvisato con amici di tavolo e conversazione sempre nuovi), per una delle sue ultime antologie poetiche, Base Centrale.
    A quel libro è legata una circostanza a suo modo e a propria volta storica. La prima presentazione pubblica a Cosenza dopo la pandemia: chiostro del San Domenico sold out. Cinquanta panche piene e se non ci fosse stato il distanziamento sociale ne avrebbe riempito cento.

    Base centrale

    Non credo né mai crederò a provvidenzialismo alcuno: ci sono artisti, anche nel campo figurativo, le cui ultime opere sono profezie e altri per cui semplicemente non c’è più niente di nuovo da leggere e guardare. Base Centrale è perfettamente coerente a un percorso, a una ricerca, a uno stile. E l’autore stesso avrebbe probabilmente avuto difficoltà a superarsi: sarebbe andato, come tipicamente suo, nella direzione opposta a ogni comodità astratta, a ogni sciatteria mentale.
    In Base Centrale c’è l’amore, il racconto del disagio, la simbologia religiosa, la denuncia pasoliniana dei tempi disincarnati (ma assai meno cattedratica, perciò più pura), persino le scosse telluriche della pandemia sulla già frantumata socialità industriale.

    Consoliamoci: siamo molto meno che a metà strada per riabbracciare compiutamente tutti i temi e slanci inaugurati dall’autore. Uomo di fede, fede in primis nella donna e nell’uomo, come i predicatori in lotta di un millennio addietro, potrebbe dirci allora: non è che l’inizio. Figli di un umano non ancora nato e a cui non verrà impedito di vedere luce.

    Domenico Bilotti
    Docente di “Diritto delle Religioni” e “Storia delle religioni”, Università Magna Graecia