Categoria: Cultura

  • Il mare blues di Roccella Jonica

    Il mare blues di Roccella Jonica

    Roccella Jonica: non solo il longevo Festival del Jazz e l’ormai scontata bandiera blu. Anche il “Rocca Blues Festival” – patrocinato dal Comune di Roccella – la cui ormai prossima terza edizione si svolgerà dal oggi al 31 luglio, attira nella bella cittadina schiere di appassionati della musica che affonda le sue radici nelle piantagioni di cotone del Sud degli States e nel Delta del Mississippi.

    Gli organizzatori di Radio Roccella hanno scelto un angolo particolarmente seducente per piazzare il palco. I musicisti si esibiranno infatti con le spalle il mare della Magna Graecia e davanti il Largo Rita Levi Montalcini, dove svettano due colonne monolitiche in porfido egiziano, dette Melissari dal luogo del loro ritrovamento nel 1868. Tre serate gratuite di grande musica, e non solo. Il 29 luglio aprirà la manifestazione la Freddie Maguire Band, ideale ponte tra Italia e Stati Uniti.

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    Il musicista Alberto Lombardi

    Il 30 salirà sul palco il chitarrista e performer Alberto Lombardi, che ha al suo attivo partecipazioni ai tour e collaborazioni con artisti di fama mondiale. Tra essi l’australiano Tommy Emmanuel, uno dei chitarristi migliori al mondo. Arriverà invece da Cosenza, per la serata di chiusura, la band White Bread 69, coi suoi coinvolgenti ritmi groove. Di Radio Roccella gli speaker incaricati di condurre gli spettacoli: Manuela Cricelli, Nicola Procopio e Tiziana Romeo. Non solo musica, dicevamo: il direttore artistico, Ilario Ierace, ha previsto per ogni serata, alle ore 20:00, L’AperiBlues con il DJ Set di Tony L, e alle 21:30 la proiezione di filmati d’epoca con Racconti e aneddoti del Blues, dalle origini ai giorni nostri, a cura dello speaker Gianfranco Piria, ideatore e conduttore del programma Me&Blues.

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    White Bread 69

    In sella alle Harley d’Aspromonte

    Il villaggio del “Rocca Blues Festival” ospiterà inoltre una esposizione motociclistica curata dall’associazione Harley-Davidson “Aspromunti Calabria”, una mostra fotografica, una esposizione di oggettistica di vario genere. E, per allietare il gusto oltre che l’udito e la vista, si potranno degustare prodotti tipici locali. Il “Rocca Blues Festival” costituisce l’ennesima scommessa vinta dagli animatori, tutti volontari, di Radio Roccella, emittente senza scopo di lucro e senza vincoli commerciali. Dal 1976 essa mantiene una particolare connotazione che ancora oggi, dopo quasi quarant’ anni, ci consente di poterla associare allo spirito originario che caratterizzava quelle che allora erano definite “radio libere”.  È indicativo il fatto che per l’informazione Radio Roccella si avvalga del gemellaggio con Radio Popolare, storica emittente con una ben precisa collocazione culturale e politica. Radio Roccella organizza, proprio per ancorarsi maggiormente al territorio di riferimento, un Rock Contest per giovani gruppi emergenti e segue in diretta manifestazioni come il Festival jazz ma anche congressi, eventi sportivi, teatrali e cinematografici.

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    Agli albori di Radio Roccella, storica radio libera nata nel 1976

    La roulotte di Radio Roccella

    La ciliegina sulla torta è lo studio mobile Azzurra, una roulotte vintage che da sette anni racconta quanto di rilevante accade in giro per la costa Jonica reggina e non solo. Insomma, una realtà viva e pulsante perfettamente in sintonia con una cittadina che già al primo sguardo si segnala come una vera e propria oasi, conosciuta e apprezzata da tanti in Italia e all’estero. Le ragioni di questa diversità in positivo andrebbero indagate e analizzate per cercare di esportare il modello Roccella al di fuori dei suoi confini territoriali.

  • Cinque ottave di Armonium a Ferramonti

    Cinque ottave di Armonium a Ferramonti

    Sulla produzione musicale (composizioni, concerti, incontri) relativa al campo di internamento di Ferramonti di Tarsia in Calabria esiste ormai una letteratura sterminata. È stata promossa recentemente anche dalla frenetica attività di Roque Pugliese responsabile culturale per la comunità ebraica nel Sud della Penisola.

    Il campo di internamento di Ferramonti

    Da quando è iniziata la ri-scoperta di Ferramonti e dei fatti storici ad esso legati, in tanti si sono esercitati sulla ricerca storico-musicale, scientifica, musicologica. E le scoperte, i materiali e i nomi che ne sono emersi, le prospettive e gli orientamenti organizzativi degli internati che nell’ambito musicale si attivavano, sono anche visibili attraverso una visita alle stanze del Museo della Memoria a Tarsia.

    Si tratta di fonti di interesse scientifico sicuro: materiali fotografici, partiture rinvenute in archivi privati e non solo, reperti che testimoniano la vivacità dell’attività musicale nelle cerimonie religiose della comunità ebraica nel campo. Una messe di informazioni raccolte col consueto rigore soprattutto presso il Cdec. E poi, incontri, concerti, confronti tra studiosi, che in questi anni si sono succeduti.

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    L’armonium di Ferramonti (foto pagina facebook del Museo Internazionale della Memoria di Ferramonti di Tarsia)

    L’armonium del Papa a Ferramonti

    In uno degli ultimi incontri al Museo Internazionale della Memoria, diretto dalla studiosa Teresina Ciliberti, e organizzati con il Comune di Tarsia, è stato presentato al pubblico un oggetto singolare quanto interessante, non solo per il significato simbolico ma pure per la sua destinazione pratica: un armonium che il Papa Pio XII aveva inviato a Tarsia perché venisse utilizzato per le cerimonie cattoliche e anche ebraiche. Ad intercedere era stato il cappuccino padre Calliste Lopinot, presente nel campo dal luglio del 1941 all’ottobre del 1944, una figura notissima che si spese molto per il dialogo interreligioso, ma anche per alleviare le sofferenze e modificare i destini di tanti internati.

    Diario di un cappuccino di campagna

    Una figura molto amata tra gli studiosi anche per la testimonianza storiografica imprescindibile che il suo Diario rappresenta e che molti considerano una delle fonti di maggior valore per la conoscenza della vita nel campo (anche della seconda fase di Ferramonti, dopo la sua chiusura nel ’43, che è oggetto di approfondimenti recentissimi negli studi di Teresina Ciliberti).

    Grazie a Lopinot e al giornalista Weiger, che viveva a Roma, il rapporto interreligioso nel campo si aprì a una serie di conseguenze favorevoli, tra cui l’arrivo a Tarsia – nel giugno del ’42, dopo diverse peripezie ed un imballaggio inappropriato che ne compromise inizialmente l’uso – di un armonium dei costruttori Galvan di Borgo Valsugana. Lo strumento ha cinque ottave e dieci registri e si inquadra tra i modelli più fortunati della ditta trentina che, stando alle numerose testimonianze, si può dire godesse della fiducia del Papa (già alcuni esemplari erano presenti nelle stanze vaticane).

    Da sinistra, il baritono Sigbert Steinfeld e il pianista Bogdan Zins a Ferramonti di Tarsia
    (Foto Archivio Fondazione CDEC, Fondo Israel Kalk)

    Cerimonie cattoliche ed ebraiche

    L’armonium sarebbe stato utilizzato per le cerimonie cattoliche ed ebraiche, ma il primo impiego fu quasi certamente il 29 giugno del 1942 per una Messa cantata per coro a quattro voci. Non è chiaro se nei successivi concerti tenuti nello stesso anno a Ferramonti sia stato previsto l’impiego dell’armonium. Certamente lo strumento è stato utilizzato per le cerimonie religiose della comunità e suonato dal maestro Kurt Sonnenfeld, il compositore forse più noto tra gli internati, dal direttore del coro Lav. Mirsky e da Bodgan Zins di cui si possiede qualche ritratto con la fisarmonica. E con buona certezza, dagli studi recenti (esiste un magnifico lavoro di Silvia Del Zoppo del 2018 presso UniMi, assieme al noto volume di Mario Rende), si può desumere che l’armonium abbia accompagnato il canto dei baritoni, Sigbert Steinfeld, Paul Gorin e Bruno Weiss e del tenore Rodolfo Marton che nel campo furono presenti a lungo.

    L’armonium di Ferramonti suona pure Verdi e Wagner

    Le figure dei chazzanim, cioè gli straordinari cantori in sinagoga (a Ferramonti le piccole sinagoghe erano tre), della loro abilità nella cantillazione nel campo, richiedono studi assai accurati: sappiamo, grazie alle annotazioni degli stessi internati, che i cantanti si esibivano in periodici concerti con brani di Verdi, Wagner e dei compositori lì presenti come lo stesso Mirsky, ma ancora poco sappiamo delle loro scelte rispetto ai te’ amim, piccoli segni che indicano il modello di realizzazione del canto secondo la tradizione (sefardita, romana, ashkenazita), durante i riti religiosi.

    Ferramonti, insomma, ci apre ancora prospettive vaste e sorprendenti di studio, curiosità, spiritualità. E oggi il fatto degno di nota è che l’armonium, conservato nel convento dei Cappuccini a Castiglione, nei pressi di Cosenza, ritorna nel Campo dopo tanti anni per essere esposto ai visitatori e agli studiosi fino al prossimo settembre.

    Viviana Andreotti

  • Sussurrando alla Luna: arte, teatro e poesia a Villa Rendano

    Sussurrando alla Luna: arte, teatro e poesia a Villa Rendano

    Due associazioni e un’istituzione culturale uniscono le forze per un gran galà nel cuore dell’estate e nel cuore di Cosenza. Ci si riferisce a I Lunari, presieduta da Lia Calabria e a Sviluppo Consentia, guidata da Angelo Perrongelli che, in collaborazione con la Fondazione “Attilio e Elena Giuliani”, organizzano il gran galà Sussurrando alla Luna, che si svolgerà nei giardini di Villa Rendano la sera del 28 luglio.

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    Lia Calabria, la presidente dell’associazione “I Lunari”

    Una serata di teatro, arte e musica

    Sussurrando alla luna è una serata di teatro, arte e musica, a base di monologhi teatrali, reading poetici, musica e esposizione di opere d’arte, legati da un solo filo conduttore: la luna e la sua bellezza.
    Al riguardo, dice Lia Calabria: «Ho voluto fare un omaggio alla bellezza della Luna e delle Stelle, perciò ho creato una serie di monologhi a tema, che saranno seguiti da sei canzoni. Il tutto, sarà “incorniciato” dalle tele di diversi pittori cosentini, momento artistico, curato dalla storica e critica d’arte Mariateresa Buccieri. Novità assoluta, è il momento moda, basato su collezioni a tema».

    Sussurrando alla Luna: monologhi e note

    Iniziamo dai monologhi, scritti e diretti da Lia Calabria e affidati a un nutrito gruppo di interpreti, che menzioniamo uno per uno.
    E cioè: Luca Aiello, Anna Angellina, Antonio Buffone, Marco Buoncristiano, Giuseppina Calvelli, Katia Diesse, Francesca Gaudio, Elena Massaro, Rodolfo Perri, Laura Pescatore, Cesarina Petramale, Giulia Perrongelli, Carmen Romano, Rosabella Rizzo e Giuseppe Rizzo. Le canzoni, invece, saranno interpretate da Martina Ranieri.
    Il reading, invece, si baserà sulle poesie di Mariateresa Buccieri, Melania Dorsa e Giuseppe Piluso. Ospite d’onore, Matteo Bria.

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    La cantautrice Martina Ranieri

    Sussurrando alla luna: artisti in mostra

    Seguirà la mostra d’arte di maestri cosentini, illustrata dalla storica e critica d’arte Mariateresa Buccieri.
    Tra gli artisti: Sandra Assisa, Emilia Berlingieri, Rita Canino, Rossana Chiappetta, Maria Clemente, Antonio De Luca (Anioti), Rosetta Juele, Francesca Lo Celso, Letizia Lucio, Brunella Patitucci, Mariella Perrotta, Sabina Salituro, Vincenza Salvino, Alessia Santamaria, Elena Semina.

    Intermezzo culturale

    Seguiranno due momenti culturali: Conversazione Al di là dei fiumi, l’Ottocento «sentimentale» di Villa Rendano (1873-1891) e Mons Trilius con l’esperta d’arte e guida turistica Paola Morano e lo storico Stefano Vecchione e Inno alla Creatività, a cura della professoressa Maria Gabriella Gallo.

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    L’artista Elena Semina

    Una sfilata per concludere

    In chiusura di serata, il fashion party e le creazioni dell’Accademia New Style, scuola di moda e di design di Franca Trozzo e della creatrice di moda Vincenza Salvino.
    Sfileranno con gli abiti della collezione: Angelica Aiello, Drusy Caputo, Federica Filice, Francesca Gaudio, Martina Sicoli, Irma Zicarelli.

  • Corrado Alvaro, dalla Russia con amore

    Corrado Alvaro, dalla Russia con amore

    «Guardo giù nella strada e mi ricordo di colpo l’impressione che ebbi all’arrivo, quando, passato l’arco di trionfo imperiale sulla piazza Sadowa, uguale a quelli che da Roma emigrarono nel nord, mi trovai tra la folla di Mosca».

    Scrittore fra i più significativi del Novecento e sceneggiatore e intellettuale di prim’ordine, è stato anche un apprezzatissimo giornalista e reporter di viaggio. Partito dall’entroterra della Calabria – era nato nel 1895 a San Luca, sperso cuore dell’Aspromonte –, Corrado Alvaro visitò il mondo spingendosi fino in Russia, alimentando, più che appagando, con l’errare la sua inestinguibile sete di conoscenza verso tutto quello che era incognito e straniero. Sete che aveva come origine l’inesauribile passione per la letteratura, su tutte quella francese – nel 1923 tradusse parti de La prigioniera, quinto volume della Recherche di Marcel Proust – e quella, appunto, russa.

    La Russia di Corrado Alvaro

    E per un uomo occidentale la Russia, oggi come ieri, è senz’altro il primo e più immediato approdo corrispondente a un mondo cosiddetto “altro”. La misteriosa Russia – o per meglio dire, la Repubblica socialista russa, principale repubblica dell’Unione Sovietica sorta nel 1922 sulle macerie dell’Impero russo a seguito dell’aspra guerra civile e del Terrore rosso – catturò la curiosità di Corrado Alvaro. Lo scrittore calabrese ebbe modo di visitarla fra la primavera e l’estate del 1934 come inviato speciale de La Stampa.
    Quell’eccezionale relazione di viaggio uscì a puntate sulle colonne del quotidiano torinese, che al tempo dirigeva Alfredo Signoretti. Mondadori, poi, nel 1935 la raccolse nel volume I maestri del diluvio. Viaggio nella Russia Sovietica, pubblicato poi anche col titolo, editorialmente più efficace, Viaggio in Russia.

    Per Corrado Alvaro l’attività giornalistica fece da preludio a quella letteraria. Già nel 1916 – durante la Grande Guerra e ancora prima di contrarre matrimonio con Laura Babini – il sanluchese cominciò a collaborare per alcune testate come Il Resto del Carlino, Il Corriere della Sera, Il Mondo, Il Becco giallo. Quei lavori anticiparono la pubblicazione, nel 1917, dei suoi primi versi, raccolti nel libricino Poesie grigioverdi, delle sue prime novelle, La siepe e l’orto, edite nel 1920, e soprattutto del suo primo romanzo, L’uomo nel labirinto, pubblicato nel 1926.

    Antifascismo e amicizie

    Furono anni decisivi per il Paese. Il 1922 coincise con l’avvento del Fascismo e l’inizio di un ventennio che segnò in maniera indelebile la storia italiana del Ventesimo secolo. Alvaro mantenne una certa distanza dal Partito nazionale fascista e fu fra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Ciononostante la sua attività culturale non fu ostacolata dal regime, come accadde invece a molti altri uomini di cultura dell’epoca.

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    Margherita Sarfatti, musa di Benito Mussolini

    Collaborò col Popolo di Roma, testata filofascista di cui, per un breve periodo nell’estate del ’43, appena conclusa la parabola antidemocratica dello Stivale, ricoprì anche il ruolo di direttore. Taluni spiegano la clemenza del regime verso l’intellettuale calabrese attraverso la grande amicizia con Margherita Sarfatti, giornalista, critica d’arte, confidente e musa ispiratrice di Benito Mussolini.
    Nel 1934, anno di altissimo consenso del popolo italiano verso il governo Mussolini – precedette le “imprese” fasciste in Abissinia che assai entusiasmarono le piazze del Belpaese –, Corrado Alvaro ottenne quindi l’incarico dalla Stampa di realizzare un reportage nella Russia di Stalin.

    Dopo la Rivoluzione del 1917

    Si trattava di visitare un pianeta per definizione inintelligibile, che ha da sempre effuso un miscuglio di seduzione e repulsione, dato vita a scenari distorti e sentimenti contrastanti nell’uomo occidentale, attratto da quel misterioso – perché distante e perciò oscuro e poco raccontato nella sua vera essenza – mondo al di là del trentesimo meridiano Est. Un sentimento che ha origini antiche e senza dubbio ingigantitosi con la Rivoluzione bolscevica del 1917, il crollo dell’Impero degli zar e l’istituzione dell’Unione Sovietica col suo modello economico e sociale che proponeva di “esportare” nel Vecchio Continente.

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    Lenin incita la folla russa: la Rivoluzione ha inizio

    La Russia, la terra del samovar, della balalaika e della banja, delle cupole a cipolla e delle foreste di larici e betulle, il Paese venato dai lunghissimi fiumi: la Lena, il Volga, l’Oka, il Don, l’Ob’, l’Amur, l’Enisej. Un universo in bilico tra Oriente e Occidente che nel Novecento, dopo la Rivoluzione, ha ammaliato ed entusiasmato sempre più cronisti e scrittori. Fra questi, anche Joseph Roth e Stefan Zweig, autori, fra il 1926 e il 1928, di relazioni di viaggio poi confluite in note opere letterarie.

    «Una grande scuola di addestramento»

    Corrado Alvaro intraprese il suo viaggio in Russia nella primavera del 1934, nel bel mezzo del secondo piano quinquennale. L’anno che si chiuse con l’assassinio di Sergej Kirov, alto dirigente del Partito e sodale di Stalin. L’evento scatenò la reazione violenta del Piccolo Padre, ossessionato da possibili tradimenti, anche e soprattutto orditi nella sua cerchia di fedelissimi,. Iniziò così la stagione di repressione e sangue passata alla storia col nome delle Grandi purghe.
    Dopo il diluvio della Rivoluzione d’ottobre – intenzionata, riprendendo una affermazione di Viktor Šklovskij, a rifare «l’uomo dalle budella» – e la nascita del nuovo Stato, gli anni Trenta in Unione Sovietica videro affievolirsi l’illusione del comunismo universale di matrice leniniana. Continuarono comunque a essere anni di enormi stravolgimenti. In quel decennio, segnato dal terrore delle epurazioni staliniane, nacquero nuove classi sociali, esplosero le migrazioni interne, si sfruttarono fino all’impoverimento le terre. L’URSS diventò, fra trionfi e fallimenti, il laboratorio di un nuovo modo di vivere.

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    Cittadini sovietici in un gulag durante le Grandi Purghe

    Nel Paese, sconfinato, multietnico e multilingue, si susseguirono i tentativi di instaurare una convivenza civile fra tutte le etnie che lo popolavano – erano 170 milioni gli abitanti nei Soviet a quel tempo –, comprensibilmente intontite da quella Rivoluzione che in una manciata d’anni aveva provocato un epocale cataclisma, cancellando tre secoli di zarismo autocratico. «Una grande scuola di addestramento alla vita civile e ai rapporti umani»: così fotografò Alvaro l’Unione nel ’34.
    Lo scrittore, sulla scorta di una grande cultura “russa” costruita e consolidata attraverso incessanti studi privati, negli articoli su La Stampa raccontò i mutamenti sociali del Paese, la realtà in parte nascosta della Russia sovietica.

    Corrado Alvaro e la propaganda in Russia

    Descrisse la nascita di una nuova borghesia, non si sa quanto diversa rispetto a quella antecedente, detestata, vituperata e annientata. Riferì della fame e delle carestie che, dopo l’holodomor ucraino del ’32-’33, ancora erano diffuse in numerose aree rurali della sterminata Unione. Ma, soprattutto, si soffermò sull’utilizzo subdolo della propaganda, così instradante della condotta del popolo russo. Memento che ne accompagnò l’intero itinerario fu infatti badare alla potenza degenerante della propaganda: «Tra i fenomeni che formano e limitano il suo carattere bisogna annoverare questo in primo piano”.

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    Il poeta Vladimir Majakovskij

    L’autore di Gente in Aspromonte scrisse pagine civili, dedicandosi all’ostracismo, alle vessazioni e alle espulsioni ordinate e indotte verso la categoria degli intellettuali. Quella generazione stava dissipando i suoi maggiori poeti: Esenin si era suicidato, o era stato suicidato, nel 1925; Majakovskij si era sparato nel 1930, Mandel’štam sarebbe morto in un gulag nel ’38 e Cvetaeva in esilio negli Urali nel ’41.

    Un tour sotto controllo 

    «A Mosca! A Mosca!», reclamavano le protagoniste delle Tre sorelle di Anton Čechov. E come ogni viaggio in Russia che si rispetti, oggi al pari di allora, quello di Corrado Alvaro non poté che principiare da lì. Da Mosca, la Terza Roma, divenuta capitale nel 1918, dopo il diluvio. Nella città de Il Maestro e Margherita, Alvaro fu colpito istantaneamente dal suo ritmo immutabile, dalla «uniformità della sua gente» che saettava attorno alle sacre mura rosse del Cremlino e lungo i viali attraversati dai tranvai e tappezzati da giganteschi cartelli propagandistici, satirici e anticlericali.

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    La vetrina di un negozio nella Mosca degli anni ’30

    Lo scrittore andò per parchi urbani, circhi, teatri di carattere didattico – un’istituzione in URSS: «Tutta la Russia è oggi una grande messinscena» –, accompagnato come ogni burgiuà, ogni borghese occidentale – una parola che in quella Russia emetteva il suono di un insulto –, da una guida. E anche qua le virgolette sarebbero doverose, ché è ben riduttivo definire guida una persona che vigila ogni tuo passo, che, con un «sistema di investigazione minuta e quotidiana», supervisiona e affianca l’intero soggiorno dello straniero senza mai proferire una parola più del necessario.

    Le “speciali guide turistiche sovietiche” trasmisero durante il viaggio in Russia la loro disciplina ad Alvaro. Lo catechizzarono, facendogli capire con gli sguardi e i silenzi che non facesse domande inappropriate, che non si incapricciasse se l’itinerario prestabilito subisse delle modifiche improvvise e immotivate. Un rigore che possiamo immaginare assai indigesto per il viaggiatore, senz’altro curioso di posare gli occhi anche su un minuscolo frammento in più di quell’inafferrabile Paese. Di quel «rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma», per dirla con una celebre espressione di Winston Churchill.

    Da Mosca a Stalingrado, da Pietroburgo a Baku

    Tuttavia, la percezione dell’atmosfera illiberale vigente non condizionò la straordinaria inchiesta in Russia di Corrado Alvaro. Anzi, all’uscita de I maestri del diluvio un giudizio d’aria bolscevica si espresse dicendo che lo scrittore si era lasciato andare a «un nebuloso sentimentalismo».
    Il lungo viaggio di scoperta vide товарищ Alvaro soggiornare e visitare molte grandi e piccole città oltre a Mosca. Dimorò a Bolscevo, villaggio dell’entroterra della capitale, esplorò la grigiastra Gor’kij – l’odierna metropoli di Nižnij Novgorod, ribattezzata in omaggio allo scrittore Maksim Gor’kij, apprezzato da Stalin –, poi Kazan, Rostov – la più mediterranea delle città sovietiche –, Saratov, Samara, Stalingrado – oggi Volgograd ma interessata da un processo, in stato avanzato, volto a ripristinare il precedente nome.

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    Il palazzo di Caterina a Tsarskoye Selo, subito fuori San Pietroburgo

    Lo scrittore e intellettuale fece visita agli sfavillanti palazzi di Caterina e Alessandro a Carskoe Selo, poco fuori Pietroburgo – realizzati rispettivamente dagli architetti di origini italiane Francesco Bartolomeo Rastrelli e Giacomo Quarenghi –, luoghi che hanno segnato la storia del Novecento. Proprio da qua partì verso l’esilio degli Urali e la barbara esecuzione di Ekaterinburg del 17 luglio 1918 l’ultimo zar Nikolaj Romanov con la famiglia.
    «Sono belle le sere sul Volga. Dalle rive scendono gli armenti di pecore ad abbeverarsi alla corrente, bianche e luminose, e schiariscono dei loro riflessi l’acqua già violacea».
    Il sanluchese viaggiò per incalcolabili ore in treno e a bordo di vapori e battelli, lungo i tanti e multiformi scali della Madre Volga. Si spinse fino al Caucaso, a Baku – capitale dell’Azerbaigian dopo la dissoluzione dell’URSS –, la città del petrolio, «ossessione del mondo moderno» senza il quale “non è più possibile ormai né pace né guerra, né morte né vita», pensiero unico nelle piazze della città «del fuoco eterno».

    Corrado Alvaro e il desiderio di perdersi in Russia

    Lo scrittore coprì le enormi distanze sovietiche in uno stato di dormiveglia, trasognato, avvinto da un inedito stato d’animo russificante, quasi dimentico di sé e dell’immensità intorno, di una terra «troppo sperduta per essere umana».
    Il viaggio in Russia sortì un curioso effetto in Corrado Alvaro. In più di una circostanza, il calabrese si lasciò solleticare anche da inquiete fantasticherie e desideri d’oblio: «Penso di scendere dal treno, di perdermi in questo spazio che è tutta una strada, trovarmi in qualche luogo a lavorare la terra, nascosto agli occhi di tutti, fra gente remota, e di me non si saprebbe più nulla, via tutto quello che ero ieri, via il passato, via l’avvenire. Cancellarsi e perdersi in un’altra dimensione del mondo. Questo pensiero mi balena più volte durante il viaggio».

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    Un cavallo pascola nella sconfinata steppa russa

    I bisogni e le speranze del popolo

    Il lento e diversificato viaggio gli fu propizio pure per lasciarsi andare a descrizioni di paesaggi, di cieli, di atmosfere, ora europee, ora asiatiche. I lunghissimi prospekt delle città, contornati da grigi palazzoni identici fra loro e inframezzati dalle rovine delle case vecchie, i paesaggi remoti delle steppe e cinti dagli impenetrabili monti, le aree arse e scabre che gli ricordarono i villaggi d’Oriente o un paesello appena sconquassato da un terremoto.

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    Donne al lavoro in un gulag sulle isole Soloveckie

    Nei mesi in Russia, Corrado Alvaro visitò campi collettivi, fabbriche di trattrici, università e accademie, redazioni dei giornali delle fabbriche. Incontrò ufficiali dell’esercito, operai, “kulaki, i braccianti trasformati, dalla sera alla mattina, in operai per rispondere alle esigenze produttive del nuovo Stato – i pochi ancora non risucchiati nell’articolato sistema penale dei gulag che, dalle terribili isole Soloveckie ai campi lungo il fiume siberiano Kolyma, non risparmiava nessun presunto nemico del popolo. Nel solo biennio ’34-’35, secondo i documenti dell’NKVD, il commissariato del popolo per proteggere la sicurezza dell’Unione, il numero dei prigionieri nei vari campi sfiorava il milione di unità.
    E, ancora, vide pastori, artisti, ingegneri, cittadini di estrazione e cultura varia, tutti uniti dal comune sentimento, assai lungi dal lenirsi dopo lunghissimi secoli di fame e subalternità, di aperta ostilità verso la vecchia civiltà borghese. Ma tanto accecati da non vedere il mostro che gli si aggirava dentro casa.

    Memorie da un mondo in costruzione

    Corrado Alvaro parlò ma soprattutto osservò, ché «la vita quotidiana è scritta in viso a quelli che passano». Ascoltò i loro discorsi, le loro esigenze, le loro speranze. Tutto ciò senza cedere al giudizio, ma col solo intento di raccogliere «il maggior numero di memorie» e di incastrarle come tesserine di un puzzle di migliaia di pezzi al fine di consegnare una testimonianza oggettiva della Russia sovietica.
    Eppure, lo abbiamo intuito, di influenze esterne ne avvertì. Lo scrittore ravvisò tutta la precarietà di quel mondo in costruzione, ma pure una forma di pericolo imminente, indefinito ma constante, così vivo sui volti dei russi – già marchiati dal «segno degli anni tempestosi» della Rivoluzione –, così percepibile nell’aria che riportò alla mente del fine intellettuale le letture circa i moti italiani del 1848.

    Corrado Alvaro: La Russia? Atmosfera d’emicrania

    «Guardo dal finestrino le vecchie case di legno della campagna d’un tempo come resti di una vita antica. I boschi di abeti seguitano all’infinito orlando l’orizzonte pallido della lunga sera».
    Attraverso la visita ai vecchi villaggi punteggiati di isbe, alle nuove città senza acquedotti e fognature, ai kolchoz, i campi collettivi, e ai sovchoz, i poderi gestiti dallo Stato, nel suo prezioso resoconto di viaggio lo speciale burgiuà descrisse la vita socialista collettivizzata, il fermento culturale, le folle in piazza, nei teatri, nelle biblioteche, nei circoli culturali; una società viva, in movimento, in cui ogni angolo era buono per un comizio. Lo scrittore non poté non notare i discorsi e le urla, i congressi estenuanti e le disquisizioni interminabili – «un’atmosfera d’emicrania» – che si tenevano dappertutto: nelle piazze, nei salottini, nelle fabbriche.

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    Un congresso del PCUS, il Partito comunista dell’Unione Sovietica

    Attraverso le colonne della Stampa e poi le pagine del suo libro, Alvaro diede il polso di un Paese, la Russia, pieno di contrasti. Di una civiltà traboccante contraddizioni, in attesa di formare una propria identità, una terra d’illusioni e miraggi in cui era facile confondere realtà e finzione. Analizzò i diritti dei lavoratori e delle donne, rifletté sui problemi materiali dell’URSS, pesandoli di minore gravità rispetto a quelli morali e umani che già allora angustiavano l’Occidente. Rimase stupito e scosso dalla scarsissima reperibilità e dei prezzi esorbitanti dei generi di prima necessità – pane, burro, uova, farina, frutti di bosco –, e dell’arretratezza per quel che concerneva lo sviluppo delle infrastrutture.

    L’odio verso gli occidentali

    «I russi, dalla crudezza della loro vita, si raffigurano terribilissime le nostre condizioni; noi di lontano li stimiamo più progrediti; essi noi ingiusti e crudelissimi; ognuno secondo il carattere della sua civiltà».
    Da un lato la società russa concedeva ai turisti privilegi inimmaginabili per il popolo (a fini propagandistici, ovviamente, e frutto spontaneo ma avvelenato di una “stima diffidente” verso gli occidentali). Dall’altro denunciava «le condizioni del proletariato occidentale oppresso dai capitalisti», ché, scrisse Alvaro, «se con l’odio si fa poco nella vita, nell’arte è un buon concime come ogni sentimento forte».

    In vero, screditando il modello occidentale fascista – per i russi, dal lago dei Ciudi, al confine con l’Estonia, e fino alle sponde atlantiche di Lisbona, erano e sono tutti occidentali fascisti –, la monotematica comunicazione di regime della Terra dei Soviet provava a nascondere sotto il tappeto gli enormi problemi locali, esaltando le gesta di un Paese che non c’era, reclamizzando i cambiamenti di un Paese che nelle sue periferie – il Paese vero – non era cambiato per niente rispetto ai decenni precedenti.

    Dal sogno di Lenin all’incubo di Stalin

    Girovagando per l’Unione, Corrado Alvaro tentò inoltre l’impresa di indagare lo spirito dei russi, il loro inscalfibile patriottismo intriso di fatalismo. Ne cercò la fonte scavando, sempre più disilluso, i temi delle emigrazioni interne dagli angoli ultraremoti del Paese, dalla sconfinata steppa ai grandi centri, e del sistema giudiziario sovietico, nazionale e locale.
    Si imbatté nel distacco e totale disinteresse dei russi verso il denaro e il domani – tematiche così calde invece per l’uomo occidentale. Nelle pagine di di Alvaro si parla dell’industrializzazione forzata, dei salari da fame – “addolciti” con le tessere per il pane –, del potere d’acquisto pari a zero, dell’abitudine alle ore straordinarie di lavoro gratuite cui ogni buon Homo sovieticus era chiamato a beneficio della collettività.

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    Lenin e Stalin

    Denunciò a riguardo l’intenzione del governo di creare un novyj sovetskij čelovek, un uomo nuovo sovietico senza interessi privati, «spoglio d’ogni influenza di vita occidentale», sacrificato al fine ultimo del benessere collettivo che sarebbe un giorno giunto. «Se i russi hanno voluto abolire ogni segno della vita privata, vi sono riusciti pienamente».
    «L’arcangelo che liberi l’uomo dal lavoro duro non è venuto e non verrà mai, e le rivoluzioni che promettono il paradiso sono inebrianti per pochi giorni, il tempo in cui l’umanità si prende un’amara vacanza, prima di tornare alle sue leggi».
    Lo scrittore calabrese comprese che il sogno di Lenin di realizzare un comunismo globale era pressoché fallito, che «l’esperimento bolscevico», in mano a Stalin, si era oramai irrimediabilmente deformato. In una frase, riportò con largo anticipo tutti gli squarci di un disegno che sarebbe ufficialmente venuto meno svariati decenni più tardi.

    Russi e calabresi

    Quello di Corrado Alvaro per la Russia non va letto come un fatto così fuori dall’ordinario, bensì una passione che non poteva non accendersi, come ravvisa Francesca Tuscano nel saggio Alvaro tra la Calabria e la Russia. Tradizione e traduzione contenuto in Corrado Alvaro e la letteratura tra le due guerre.
    La cultura arcaica, etica e gerarchica – sotto certi aspetti e in taluni casi anche di stampo matriarcale – dell’Aspromonte di Alvaro, di fatti, era più vicina di quanto non si potesse immaginare a quella ortodossa russa.
    Aspromontani e russi uniti da una comune vita rurale, tradizionale fino all’immobilismo, dalla fierezza con cui affrontavano le difficoltà. Popoli abituati a soffrire, legati dalla visione fatalistica dell’esistenza, dalla capacità a resistere a tutto, alle invasioni, alla povertà, financo dalla loro inclinazione a inserire nei loro racconti particolari sempre un po’ cruenti, dal mescolare assieme vita e morte.

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    Contadini russi all’epoca del viaggio dello scrittore calabrese

    E poi la tradizione migratoria, «l’eterno nomadismo» dei sovietici e la “vocazione” all’emigrazione dei calabresi, popoli amabili e pittoreschi, ospitali e diffidenti, fedeli alla propria civiltà, entrambi.
    Due popoli e due culture così geograficamente lontane ma affini, per ingenuità e quella felicità primigenia che resisterebbe anche agli orrori più belluini, quelli che annienterebbero altri popoli.
    «Nei suoi viaggi Alvaro riuscì sempre a trovare ogni più piccolo segno di umanità in tutte le situazioni, a tutte le condizioni, per quell’amore verso l’uomo e la realtà che possiede chi sa di avere dentro di sé i segni di una civiltà alla quale sa di appartenere. E con civiltà si intende quella antropologica e sociale delle proprie origini».

    Contro i totalitarismi

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    Una vecchia edizione de “L’uomo è forte” di Corrado Alvaro

    Lo scrittore di San Luca non smise di interessarsi alle vicende russe e il mondo sovietico continuò a pulsare dentro il suo petto. Curò, assieme a Raissa Naldi, l’antologia Poeti russi del secolo XX. Tradusse racconti di Fëdor Dostoevskij e Lev Tolstoj. Tessé una collaborazione con Tat’jana, seconda dei tredici figli del grande scrittore di Guerra e pace, e di Sof’ja Tolstaja. Ridusse per il teatro I fratelli Karamazov. Nel 1937 iniziò una collaborazione con Omnibus di Leo Longanesi, incentrata sempre sul globo sovietico. E nell’anno seguente diede alle stampe uno dei suoi romanzi più conosciuti, strettamente legato al viaggio in URSS e ideale conclusione delle pagine russe del ’34: L’uomo è forte.

    Esplicita critica verso il totalitarismo dei regimi – in primis quello, toccato con mano, della Russia di Stalin – e in generale scritto di denuncia «delle condizioni dell’uomo sotto ogni oppressione», L’uomo è forte fu vietato in Germania, mentre in Italia, seppur visto con sospetto, venne diffuso ricevendo addirittura nel 1940 il Premio dell’Accademia d’Italia.

    Corrado Alvaro, la Russia e lo Strega

    L’esperienza in Unione Sovietica ritornò anche nel 1950 nel memoir Quasi una vita, vincitore l’anno successivo del Premio Strega. Alvaro, tutt’oggi unico calabrese ad avere ottenuto il più ambito premio letterario italiano, superò nella finale, cristallizzata come quella della “grande cinquina”, fuoriclasse della scrittura come Carlo Levi, Alberto Moravia, Mario Soldati e Domenico Rea.

    Documento illuminato e di grande valore storico sulla società russa alle porte della Seconda guerra mondiale – o Grande guerra patriottica come viene chiamato, da loro che ne sono usciti vincitori, il conflitto dai russi –, il reportage seguì quelli realizzati negli anni Venti in Francia (Lettere parigine) e nel 1931 in Turchia (Viaggio in Turchia) e confermò la statura di scrittore e intellettuale universale di Corrado Alvaro, reporter cosmopolita, viaggiatore umanista, acuto intuitore delle trasformazioni della società e attento esploratore sempre nel rispetto di realtà antropologiche e culturali trasversali e “altre”; uno scrittore non dimentico delle sue radici e al contempo orientato sempre più in là, alla ricerca di interrogativi e risposte validi a ogni latitudine, per ogni civiltà.

     

  • Il reale senza reality: il mio Marc Augé

    Il reale senza reality: il mio Marc Augé

    Era il 2006. In quell’anno recensivo su Diario della settimana il primo romanzo scritto da Marc Augé. L’antropologo e pensatore francese era già noto in tutto il mondo per il successo del suo libro più famoso, quello sui non luoghi. Non un saggio dei suoi più fondamentali quindi, ma un’opera di narrativa, apparentemente eccentrica. Una storia anarchica e antiretorica, lieve e profonda, intessuta d’ombre, gentile e libertaria, come era lui. Il libro fu tradotto e pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri (2005). Si intitolava La madre di Arthur. Era un romanzo teso come un noir che in realtà era un apologo sulla libertà e l’immaginazione, temi molto cari e sfondo ideale di tutto il pensiero di Augé.

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    Un giovane Arthur Rimbaud

    L’amico (non) ritrovato

    Vi si raccontava di un antropologo parigino scapolo impenitente e in crisi col proprio lavoro, con i viaggi, le relazioni, la vita quotidiana – Jean, lo stesso Augé – che cerca ad un certo punto di risalire alle ragioni dell’intricata sparizione di Nicholas. Nicholas è suo amico dall’infanzia ed è scomparso. Docente universitario come lui, alter-ego e compagno di lotte politiche giovanili, Nicholas fa perdere le sue tracce in una fuga improvvisa e misteriosa come quella di Rimbaud in Africa. Jean si mette allora sulle poche impronte lasciate in giro dall’amico, convinto che il suo «complice di sempre» gli abbia intenzionalmente consegnato degli indizi da decifrare.

    Marc Augé, il cui talento letterario e narrativo era già godibile nei suoi testi più noti, assumeva in quel libro forme più originali e persuasive, fuori dal classico armamentario di servizio del lessico oggettivo proprio della scrittura argomentativa da studioso sul campo. Dal saggio al romanzo, dall’analisi al plot, è il salto di genere che Augè compie con gustoso e partecipato divertimento. L’amico Nicholas, acuto studioso di Rimbaud e autore di un’eterodossa quanto misconosciuta biografia del poeta, decide improvvisamente e senza apparenti ragioni di non dare più notizie di sé alla moglie Isabelle e alla signora Duprez, la tirannica madre di lui. La moglie allarmata si rivolge a Jean, ex sessantottino, libertino, ex docente universitario di etnografia, amico e complice del marito, perché la aiuti a ritrovare Nicholas.

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    Gli aeroporti sono tra i non-luoghi descritti da Marc Augé

    Un’odissea minore tra aeroporti e metropolitane

    La madre di Nicholas indispettita dalla fuga del figlio fornisce a Jean la traccia di pochi indizi criptici che orientano le ricerche lontano da Parigi, verso l’amore per un’altra donna e una seconda vita in un eden caraibico. Inizia così una sorta di Chi l’ha visto? la cui trama gialla si aggrappa agli specchi simbolici di una realtà diffratta, tra chiose autobiografiche e bizzarrie che intrecciano le ipotesi sulla fuga di Jean a un ricalco della spericolata biografia di Rimbaud.

    Ruminata nel ventre surmoderno di una Parigi che appare agli occhi dei suoi protagonisti una metropoli ormai troppo ovvia per essere vera, e che invece Augè sa raccontare ancora con crudele e svagato acume antropologico, la fuga dell’amico apre sulla realtà uno sguardo a giro d’orizzonte. Jean si sposta avanti e a ritroso. È l’occasione per ricapitolare le proprie vite, mescolate alla quotidianità etnografica di un’odissea minore che si compie tra aeroporti e metropolitane, facce e incontri interrogativi, in mezzo a periferie e location turistiche colte nella banale e smagata visione di un contemporaneo anodino e dislocato.

    In fuga con Rimbaud

    La storia ordita da Augè resta leggera e narrata con stile e abilità. Mantiene nel suo sviluppo un profilo volutamente basso e antiretorico attraversato da un’ironia lieve e da uno spleen amarognolo, senza però rinunciare a colpi di scena e capovolgimenti di prospettiva piacevoli e imprevedibilmente letterari. La storia ancora una volta si chiarifica altrove, in un viaggio, esperienza chiave della scoperta di sé, ultima frontiera intima della lucida teoresi di un Augé che si immerge nella solitudine affollata del mondo globalizzato. La verità sulla sorte dell’amico cercato da Jean ritorna in luce rivelando una condizione sgradevole e spiazzante: «Rimbaud non ha mai smesso di fuggire, di scappare».

    Perché scappava Rimbaud? E perché scappa Nicolas?, l’amico-ombra di Jean, alter ego vicario dell’Augé narratore che ne segue le mosse? La domanda vale per tutti e la risposta e di quelle che oggi ci fanno problema: per evadere dalla “mediocrità soddisfatta” e dall’ipocrisia di un “eterno presente” senza più bellezza, senza speranze e senza miti. È già qui il succo anarcoide e sulfureo dell’etnografia del sé di cui parlava l’Augé di questi sui ultimi tempi di eclissi. Fine della società post-moderna, avvento del relativismo e della società “senza finalità”. Non resta che tagliare la corda come ha fatto Nicholas, sottrarsi, scompaginare i piani, sfuggire al conformismo, come in un verso araldico di Rimbaud: “Ho avuto ragione in tutti i miei sdegni, poiché io evado! Evado!”.

    Marc Augé

    Marc Augé contro ogni conformismo

    Con questo apologo Augé sembra dirci che brancoliamo ormai nella confusione, nel caos e nel pericolo del post-tutto. Neanche gli antropologi sanno più che pesci pigliare. Il diritto alla diserzione amorosa, l’altrove (persino l’esotico volgare dei turismi di massa post-tsunami) sono forse l’ultima frontiera che resta per immaginarci diversi da un mondo oscuro e «de-realizzato», avvolto da quell’angoscia «apparentemente priva di oggetto» che avvelena il nostro senso del tempo.

    Il rimedio è uno solo, etico: «Strappati al collante della storia, che ti coinvolge in azioni cretine o cruente, menzogne, apparenze, sproloqui». Anche se in fondo «non è possibile sfuggire alle proprie origini e tutto sommato è più facile allontanarsi fisicamente che col pensiero». Ma resta sempre la libertà, la scelta estrema: «Una volta messa la propria vita a distanza… ritirarsi, assentarsi». Contro ogni conformismo: «Si doveva, si deve essere screanzati. Senza delicatezza. E scappare. Scappare via, sparire, rimanere lì forse, non tanto distante, ma invisibile, testimone sarcastico e stupito della propria scomparsa».

    Etnofiction

    In questo libro divertente e pensoso l’antropologo si trasforma in un autore narrativamente e umanamente atipico. Augé infatti smesso armamentario di servizio dello studioso sul campo e il lessico depurato dei taccuini di ricerca, con questo libro, aggiungendo più gusto di verità e il suo amore per il paradosso, ha saputo testimoniare in altro modo la perdita di predittività delle scienze umane e smonta dal di dentro le argomentazioni presuntamente oggettive e non falsificabili dell’antropologia classica. Augé ha coniato per questo suo modo di raccontare il termine di etnofiction, per definire le narrazioni ibride come quelle apparse successivamente in Diario di un senza fissa dimora e La Guerra dei sogni. Esercizi di etno-fiction.

    “Diario di un senza fissa dimora”, un libro di Marc Augé

    Il reale senza reality

    Augè insieme a pochissimi altri grandi francesi, pensatori e scrittori eretici, come Victor Segalen, Michel Leiris e lo stesso Levi Strauss di Tristi Tropici, ha saputo a suo modo rinnovare la cifra di un genere ibridando sapientemente antropologia e letteratura. Ci lascia un narrare con metodo etnografico che affascina per intelligenza e sapore di verità, distante anni luce dal compiaciuto e ruffiano egotismo bellettrista di certi pensatori nostrani.
    Non resta dunque che raccontare. Ciò ci rende felici, come spesso accade, o infelici, succede sempre anche questo; ma raccontare è rifare la traccia umana di qualcosa che resiste e che regge come un fatto che non sopporta di essere ridotto a interpretazione. Come un reale che non ha voglia di svaporare in reality. «Oggi è grazie alla mescolanza dei generi che passa il consenso alla schiavitù».

    Ma questa non è più certamente un’etnofiction. Come profetiche e umanissime restano altre parole che Augé consegnava a questo suo libro confessione: «Anch’io ho paura… Capita che un nonnulla – una parola, un gesto – scateni uno stato di allerta, un’attesa tanto più angosciante quanto più è apparentemente priva d’oggetto».

    L’intera parabola percorsa da Marc Augé è stata illuminata da questa sua “disubbidienza” intellettuale trasformatasi via via anche in lezione civile. Per indicare infine l’antidoto non nel primato di una qualche scienza, ma in una sensibilità culturale neo-illuminista, che riarma il pensiero libertario, l’arte e la poesia contro il primato delle cosmotecnologie, contro una condizione che vede l’individuo e la sua libertà sottomesse e soccombenti in una società caratterizzata dall’eccesso, dal caos, dal pericolo, in un mondo ormai quasi del tutto «de-realizzato». Avvolto da quell’angoscia «apparentemente priva di oggetto» che avvelena il nostro senso del tempo.

    In Calabria con Marc Augé

    Per me che ho avuto l’onore di conoscerlo e di ottenere col mio lavoro le sue attenzioni di studioso e di amico, Marc Augé è stato un maestro insuperato. Non solo come etnografo e antropologo, come narratore anarcoide e controcorrente di storie umane lievi e profonde. Ma anche, e non certo secondariamente, come persona. Un uomo indimenticabile, sempre discreto, generoso, ironico, curioso e gentile. Scrisse per un mio libro una prefazione, un contributo al mio lavoro di studioso che per me fu e resta un riconoscimento sbalorditivo per generosità e acume critico. Fui due volte sua guida per altrettanti memorabili viaggi per convegni e scorribande etnografiche, immersioni divertentissime e profonde che facemmo insieme, in auto, sulle strade e sui luoghi della Calabria.

    Ora che è mancato, a distanza di anni, considerata la fuffa parascientifica e paraletteraria che circola oggi da queste parti, consiglio a maggior ragione una attenta rilettura di ogni suo libro e contributo intellettuale. Tutto il suo immenso lascito culturale, filosofico e scientifico è una miniera di intelligenza e originalità di pensiero, un patrimonio da compitare scrupolosamente. Ogni suo scritto è effetto e conseguenza di una caratura intellettuale assoluta, fuori dell’ordinario, che è caratteristica tipica della genialità unita alla più autentica disposizione umana. La stessa che illumina quel suo primo eretico romanzo, così penetrante e appassionato di umanità. Solo i grandi come lui hanno avuto l’umiltà di scrivere senza citarsi e la grandezza di saper rimanere dietro le parole.

  • Ragazzi di Paola

    Ragazzi di Paola

    Appartengo a una generazione di sognatori donchisciotteschi che desiderava un altro mondo e ha visto peggiorare e incancrenire solo quello che aveva davanti. Ognuno di noi ha diritto alla propria nostalgia. Io la vivo però ancora come una lotta, come un duello, una sfida ostinata al presente, alla sua dittatura. Perciò qualche volta preferisco voltarmi indietro. Ma ci sto attento. Non amo impantanarmi nei rimpianti e non mi va proprio di cadere nella trappola nostalgica che ti allontana dalla verità e ti fa disattendere la prova più dura, quella che ti prepara la realtà che ti cade addosso, unica e finale, un giorno dopo l’altro.

    Don Chisciotte e Sancho Panza

    Troppo spesso in questi ultimi anni vissuti in Calabria, tra andate e ritorni, ho visto levarsi solo un deserto arido e informe, senza più paese, senza più memoria. Quando sto per qualche tempo fermo a rimuginare, è il luogo che prende il sopravvento. Ma il luogo di oggi, quello in cui vivo, che per me non è più Paola. Quasi non ci torno più a Paola. Ormai quello che era il mio paese, è un ibrido dei nostri tempi, decomposto e senza bellezza, retorico e scarso di relazioni, dove si vive la «collettività senza festa» e si soffre la «solitudine senza l’isolamento». Questo è il mondo che ci rimastica la vita, questa è la consegna di futuro che abbiamo preparato per i figli. Ora ci sono altri ragazzi di Paola. Qualche volta li osservo. Mi ci rivedo, anche se sono così strani e così lontani, così induriti e definitivi rispetto a quello che ero io nei miei tempi di esitanti incertezze e metamorfosi. Ma mi sento, e forse sono ancora, come i ragazzi di Paola; quelli di adesso però. Anch’io vivo sull’orlo di una terra di nessuno dove è sempre più facile perdersi, liquefare il proprio essere, scoppiare continuamente in singhiozzi, fare e farsi del male, persino morire di noia. Finché non si resta nuovamente soli. Come “I ragazzi di Paola”.

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    Enzo Siciliano

    Questo racconto nasceva nel 2003 da un progetto narrativo di Enzo Siciliano. Siciliano, allora direttore di Nuovi Argomenti, aveva voluto un mio racconto, che fu intitolato «I ragazzi di Paola», per Italville, l’antologia di «nuovi italiani narratori sul Paese che cambia», pubblicata in un numero monografico della rivista Nuovi Argomenti e uscita per Mondadori nel corso dello stesso anno 2004. Era una silloge, con uno scrittore e un racconto per ogni regione del Paese (un giro d’Italia nella quale erano presenti giovani scrittori allora agli esordi come R. Saviano, M. Desiati, D. Bregola, A. Piperno, V. Parrella, M. Signorini , F. Pacifico, e altri) che Enzo Siciliano volle e ispirò come piloti per un viaggio dal vero, una specie di rotazione infernale attraverso i luoghi della provincia profonda nelle regioni dell’Italia di adesso. La scelta di Siciliano per la Calabria cadde su di me. Credo sia accaduto anche perché ero calabrese e perché scrivevo già cose da “eretico”, come Rocco Carbone (anche lui a quel tempo a Nuovi Argomenti), e storie di una Calabria obliqua, come piaceva a lui, a Siciliano. Un giovane (allora) antropologo calabrese, orgoglioso e ruvido, temprato a resistere agli antipodi, con la follia di un certo stile. «Ma tu come fai a restare, a resistere?», Enzo me lo chiedeva sempre alla fine delle nostre lunghe chiacchierate. Ma la risposta la sapeva, era la stessa che forse avrebbe dato lui al posto mio. Come me e diversamente da me, Enzo era innamorato di un Sud e di una Calabria irrisolta e proteiforme, sordida e bella a dispetto di ogni retorica meridionalistica. Chiedeva sempre: di questa Calabria sconnessa, sbranata dal suo vitalismo scellerato, di questo mondo di provincia eccentrico e disperato in cui si rappresentano l’incoscienza del presente e forse una voglia maligna di offendere, distruggere e negare tutto ciò che è stato e non si comprende più. Il grado zero di una modernità in cui tutto è contemporaneo, colorato, imputtanito, adulterato, travestito, violento, contaminato, feroce e sottosopra. Un crogiolo di fatti, cose e persone ineffabilmente complesso, e pure sorprendentemente nuovo e vitale; un anticipo di non si sa quali destini planetari futuri, dovrei dire col gergo debolmente profetico del mio mestiere di antropologo. Per lui, Siciliano, la Calabria era sua prima frontiera, un punto di origine, un confine lontano e ormai sorpassato. Per me a distanza di anni invece è ancora resta quello stesso geroglifico, un senso che sfugge e accompagna la strada dei miei giorni. È rimasta lì la mia linea d’ombra.

    ***

    Non si ritrovano davanti alla piazza più grande. Quella antica con la fontana monumentale, dietro il fòrnice della bella porta barocca. Appena oltre il grande arco di tufo col baldacchino e la statua seicentesca di San Francesco di Paola. L’angolo di centro storico più bello e risparmiato, frequentato di tradizione da tutti gli altri ragazzi del paese. Il posto da sempre di quelli un po’ più giusti e garantiti, dei figli di gente bennata, i professionisti e la classe media del posto. Loro no. Non appartengono a quello spazio. E quello spazio non appartiene a loro. Oltre la porta non mettono mai piede. Il loro spazio è dalla parte opposta, sull’altro margine. Un posto di riflusso sul bordo del paese. Gli altri ragazzi di Paola sembrano piuttosto provenire da un punto remoto e senza origine. Come le loro facce. Facce indurite come da una vernice scialba. Facce di adolescenti con alle spalle vite ordinarie e appena decenti. Figli di gente comune. Diverse però dalle facce dei padri e delle madri somiglianti con una pienezza plastica e persino scontata a quelle dei nonni, replicate nella catena del sangue e dei gesti, delle abitudini e del dialetto di casa. Facce di appartenenza a una famiglia, a una casa, al quartiere e al paese, a uno scopo che ne dichiara la vita. Eppure, sono volti di adolescenti che si attirano l’un l’altro con innumerevoli sosia.

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    L’Arco di San Francesco di Paola (foto Wikipedia)

    Mi torna in mente che ragazzi e ragazze con sembianze e facce così ne ho già visti in tanti posti, in giro per il mondo, lontano da Paola. A Brixton, nei quartieri sudici per immigrati indiani e di colore, oppure nei recessi umidi e piatti dei quartieri senza nome della sterminata banlieue parigina. Facce simili per l’immatura durezza, solo un po’ più pallide e slavate di biondo, ne ho viste di recente anche a Budapest e a Praga, nei branchi di adolescenti sottoproletari radunati vicino a una caffetteria della catena Monoprix, vicino ai tetri quartieri di edilizia popolare, (i vecchi Block dell’era sovietica, che andando verso la periferia di Mozartova circondano l’immenso cubo di cristallo dell’Hotel Movempick). E anche a Genova tra i vicoli e le piazzette del quartiere del porto vecchio affollate dai ragazzi di famiglie meticce e dalle giovani prostitute colombiane, con i nuovi arrivati dall’altra sponda del Mediterraneo, sguardi più lesti e rappresi in una smorfia di pericolo, diventati in poco tempo i padroni abusivi dei vecchi quartieri-medina intorno alla Lanterna, pieni del loro caos malfidato e furfantesco.

    Paola è sempre stata un po’ anche la città delle Vespe

    La sera i ragazzi di Paola si ammucchiano tutti nello stesso posto, radunati dalla scia di casino e di fumi di scarico lasciati dietro sulle strade vuote del paese assieme con il latrato metallico dei loro motorini smarmittati. Le ragazze appiedate smanettano sui loro telefonini e bestemmiano feroci in attese nervose andando su e giù dai marciapiedi del Corso. Poco dopo essere stati richiamati coi telefonini qualcuno dei ragazzi con cui hanno in quel momento la storia arriva sparato con lo scooter, e sempre ringhiando e strappando brusco coi freni passa a caricarle in sella per il giro che apre la serata. Si ritrovano e non si contano, le compagnie cambiano sempre. Certi, a dispetto delle facce scipite di adolescenti, con i capelli rasati fino alla cotenna o le zazzere irsute schizzate di gel, le sigarette sempre accese, fanno sguardi minuscoli e malvagi. Poi passano la notte tirando tardi con le birre. Si spaccia e ci scambia un po’ di roba, si litiga per accaparrarsi le ragazze più facili con cui andare a ficcare nelle macchine sulle scarpate tra il lungomare e la ferrovia.

    E poi viene il bello. Ci si sfida. C’è sempre qualcuno pronto a fare la gara con il macchinario nuovo, col seconda-mano rifatto o col motorino truccato. La gara parte sempre da dietro una curva che imbocca la parte più alta del corso, poi si tira il gas al massimo, venendo giù per quasi un mezzo chilometro di rettifilo in discesa, fino a 100-120, con il motore a pieni giri fino al curvone della villa comunale. Solo allora si tirano i freni. Qualcuno ritarda, sbaglia la frenata e arriva lungo, sfasciandosi sul muretto del recinto. Qualche volta ci scappa anche il morto. La mattina si vedono per terra i cocci delle plastiche e i frammenti scoppiati dei fari. C’è un nuovo segno, una tacca sul muro.
    Chi resta ai tavoli al bar commenta le corse con animazione selvaggia e piglia parte alle gare. Ammirazione, emulazione, urla, fischi, spintoni e tifo da stadio. Non ci vuole molto a diventare eroi. Esultanza e grida per i motori spinti al massimo al passaggio dei bolidi truccati davanti al rettifilo del bar. Poi il corteo strombazzante del vincitore che rientra alla base. Qualche volta arrivano i carabinieri e sequestrano i mezzi, controllano i documenti a qualcuno.
    Tra di loro c’è anche chi sa già come maneggiare una pistola. Forse fa già il soldato in una delle cosche che controllano il paese e ha già sparato a qualcuno in un’imboscata. Dopo pochi giorni di tregua è tutto di nuovo punto e daccapo. Dopo la gara di solito la serata, una volta consumato e smaltito l’orgasmo motoristico, torna alla sua monotonia cupa e fredda.

    Vecchie cabine telefoniche

    I ragazzi sembrano improvvisamente ammansiti, spenti. Ogni sera si trovano lì, sempre, estate e inverno, una calamita, davanti al bar alla fine del corso. Sono 50, tra ragazzi e ragazze, 13, 14 anni fino a 22, 23 al massimo. Mai di meno. Mai più grandi. Dentro il locale disadorno e illuminato a giorno dai tubi, ci sono solo le tre cabine chiuse del vecchio posto pubblico della Telecom frequentato dagli extracomunitari arabi e dalle grasse badanti polacche o ucraine per telefonare a casa. In mezzo troneggia il frigorifero dei gelati industriali, a fianco il banco della mescita con le bottiglie semivuote degli alcolici. Fuori si riflette nel buio l’effetto della grande insegna screziata dai neon colorati di rosso, nero e giallo, che d’inverno, le saracinesche spalancate sotto la pioggia, si riverberano con un fatuo luccichio da discoteca sull’asfalto pieno di pozzanghere, mentre dentro i tubi fluorescenti si diffondono con un effetto lattiginoso sulla plastica dei tavolini vuoti.

    Il bar è là, dove lo stradone finisce in uno slargo polveroso, tra i palazzoni che spuntano davanti all’incrocio che sbocca sulla nazionale: il margine frastagliato del paese che dà verso la stazione e la marina trafficata. Un parcheggio per macchine e motorini piuttosto che una piazza. Una specie di frontiera labile e minacciata. Qui intorno tutto è anonimo, pieno di cascami, disadorno. Brutto, come tutto quello che si affaccia a giro di orizzonte intorno al covo di questi ragazzi. Le vecchie case basse e squadrate dei pensionati del quartiere ferroviario portati a spasso dalle tate ucraine, il tetro sarcofago di cemento armato del Tribunale Nuovo, e più in là i casermoni della marina e dei quartieri che si allungano disordinatamente sulla litoranea. Tutto senza un disegno, come sparso a casaccio, in un reticolo di antenne e parabole, tra case scorticate e mucchi di detriti, strade sterrate che si perdono in cantieri abusivi, cani randagi e lampioni rotti. Il morso del suburbio. Una periferia, si direbbe. Si, ma di cosa? Paola fa appena 17.216 abitanti. E Cosenza è nascosta dietro la costiera, a 30 km di superstrada. Non è mica una metropoli, Paola. Cittadina, si dice, con un vezzo amministrativo da anni Sessanta.

    Treno in partenza dalla stazione di Paola

    Qualcuno pretenderebbe di farne la sesta provincia della Calabria. Ridicolo. Sono povere illusioni agitate dalla malafede opportunista di qualche politicante scoppiato. Paola oggi è solo un vecchio paese afflitto e stanco, rassegnato da una storia oscura e stentata, sopraffatta da promesse tradite e da sconfitte secolari. Qui la gente sopravvive nella frangia opaca di un presente che non apre più al futuro. Lo scalo ferroviario ridimensionato movimenta ormai pochi treni, poche merci, e non c’è altro lavoro che non sia terziario rigonfiato e assistito: Asl, Ospedale, Comune, Tribunale, Comunità Montana, ferrovia, uffici. Vita sociale sempre più immiserita e degradata, amministrazioni che si susseguono sempre più mediocri e pretenziose. I politici sono professionisti pronti a tutto. I nuovi, peggio dei vecchi. I negozi chiudono a ripetizione. Affogati dai debiti e dal pizzo, rinunciano anche quelli che hanno aperto da poco, con le saracinesche che restano sbarrate e vuote sulle vetrine appena rimesse a nuovo. Il corso sta diventando un deserto. D’inverno alle 8 di sera non vi circola anima viva. Non c’è più un albergo in paese, neanche quello vicino alla stazione, trasformato da qualche anno in caserma di Polizia. Il turismo, la grande risorsa, si risolve nel rientro stagionale di qualche famiglia di emigrati e nel casino di una ventina di giorni tra luglio e agosto. Il grande cinema-teatro Odeon, altro dono della recente civilizzazione, sorto come risarcimento per la speculazione, ricavato sotto un enorme casamento di condomini e appartamenti anni ‘70, resta da anni inconsolabilmente vuoto e inutilizzato per gli spettacoli. Tra un po’ ne faranno un garage o un supermercato.

    E poi c’è la mafia. Il pizzo sui negozi, gli appalti, la droga. Si lavora alla luce del sole. Di notte si bruciano macchine per avvertimento. Ci si ammazza, di tanto in tanto, per strada. I regolamenti di conti avvengono appena fuori, sul nastro della Statale 18, davanti ai ristoranti a un solo piano con i finestroni di allumino anodizzato. Gli accoppamenti si succedono con regolarità liturgica all’uscita dalle grandi sale per banchetti nuziali che occhieggiano sulla strada, sporgendo improvvisamente dal buio con le insegne spropositate dei neon multicolori. La nuova moda araldica delle insegne si è imposta anche nei negozi e in paese. Qualcuno si è già fidato di intitolare la propria macelleria rimessa a nuovo, Pork House. Mentre un altro meno esterofilo non ha esitato a chiamare il proprio negozio di tappezzerie e tendaggi Tendazioni, giocando forse inconsapevolmente sull’inflessione marcata che deforma le parole italiane nel dialetto di casa. Questo spazio immemore e caotico cresciuto ai margini sfrangiati del paese, è diventato però la scena ideale per fissare in tragedia i passaggi fatali dei malavitosi in questa terra di nessuno dei quartieri nuovi sulla marina. È la frontiere mobile dove tutto accade.

    E il paese e lì, muto e impietrito. Le vecchie case di tufo a grappolo e le fitte palazzate del settecento corrusche, con balconi dalle imposte accecate da decenni di muffe, i terrazzi con le balaustre spezzate di tufo scolpito, i tetti di coppi e le facciate scorticate, le cupole delle sue chiese barocche con le squame colorate dei mattoni di Vietri incipriate dal sole del tramonto occidentale che si spalanca sul Tirreno. Paola sta lì in alto, una presenza incombente e ignorata. Come un resto. Un ammasso di vecchie pietre e muri pericolanti, che sopravvive appena sopra la testa di questi ragazzi dalle facce dure e inebetite che ogni sera vengono in processione col motorino dalle loro case dei quartieri nuovi dispersi sul bordo della marina. Migrano dagli alveari di case popolari costruite nella campagna abbandonata alla fretta edificatoria dell’INA Casa, ai geometri e agli speculatori di paese, alla buona volontà ignorante delle cooperative di ferrovieri, postali, telefonici e allo scempio ordinario delle case popolari dello IACP.
    Questi ragazzi del bar guardano sempre per terra e non si voltano indietro. E dietro e in alto c’è Paola. Il loro passato. Il paese. C’è solo il bar, la birra dei nuovi pub. La noia di ogni sera.

  • Silvestra Sesini, dagli orrori nazisti all’amore per Siderno

    Silvestra Sesini, dagli orrori nazisti all’amore per Siderno

    Cum panis… condividere lo stesso pane: il titolo calzante per lo scritto di Antonella Iaschi e per la serata dedicata a Siderno alla memoria di una donna. Si chiamava Silvestra Tea Sesini e ha vissuto più vite, ma con una costante: la condivisione col prossimo delle sofferenze, delle lotte, delle vittorie e delle sconfitte. Da antifascista, da partigiana, da attivista nella politica e nel sociale dopo la débacle del regime. Fino agli ultimi anni passati, lei nata a Biella come Silvia Francesca Luigia Tea, a Siderno.

    L’incontro è stato voluto dalla sezione ANPI insieme alla Federazione Italiana Teatro Amatori e all’associazione Il Gabbiano, col patrocinio del Comune di Siderno rappresentato dall’assessora Francesca Lopresti. Dopo l’introduzione di Federica Roccisano, la scena l’ha dominata in modo sublime l’attrice Daniela Bertini, con la regia di Daniele Matronda. Grande merito va attribuito ad Antonella Iaschi, poetessa e scrittrice che, come Silvestra Sesini, ha scelto di lasciare il Nord Italia per venire a vivere a Roccella Jonica.

    Il marito, l’amica e i nazisti

    Il suo testo – liberamente tratto da scritti della stessa protagonista, di Rosalba Topini e di Domenico Romeo – si apre con lo sguardo di Silvestra che scruta il mare. Pensa al marito Ugo Sesini, ebreo antifascista che finì i suoi giorni nel 1944 a Gusen, dopo l’internamento a Mauthausen.
    «Padre del mio unico figlio, compagno di vent’anni della mia vita», così lo ricorda Silvestra nella versione di Antonella Iaschi. «Sapessi, Ugo, quanto è stato difficile, continua, (…) rapportarmi con un figlio orfano senza fargli mancare il padre, senza fargli sentire la mia solitudine».

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    L’ingresso del campo di Mauthausen

    Poi la mente di Silvestra si volge all’amica Anna Maria Enriques, chiamandola con il cognome paterno negatole dalle leggi razziali. «Compagna di studi, di stanza, di ideali, di conquiste, di paure e di dolori, donna e partigiana disarmata, lottatrice coraggiosa che nemmeno le più atroci torture naziste hanno piegato».
    Antonella Iaschi rende bene lo struggimento della partigiana Silvestra Sesini che scrive «sulla battigia due date: i giorni in cui vi ho perso per sempre fisicamente, ammazzati come bestie dai nazisti, ma un’onda più saggia le ha cancellate (…) quelle date non sono nulla nel calendario delle nostre vite. Il ricordo delle ore trascorse insieme è il campo che ho a disposizione per coltivare frutti buoni. Per la cancrena nazista ho perso il vostro corpo, i vostri sguardi, i vostri abbracci, la vostra voce, ma non la forza di portare avanti i NOSTRI valori».

    Condividere lo stesso pane

    Silvestra – Antonella è tormentata. Non è sicura che quello successivo alla Liberazione sia stato e sia un tempo di pace effettiva, o solo un’apparenza. «(…) in realtà quella Pace non è mai nata se ancora esistono la fame e gli stenti, l’ignoranza e la sottomissione alla violenza sia nelle case che nelle strade. Se ancora nel mondo esistono decine e decine di guerre altre. In realtà quella libertà è un’apparenza e lo sarà fino a quando un solo bambino, un solo essere umano dovrà patire sopraffazioni e stenti».

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    Silvestra Tea Sesini

    Solo la morte riesce a separare le due amiche. Silvestra Sesini, grazie a «un provvidenziale trasferimento all’infermeria di Regina Coeli» prima della fucilazione, si salva. «La tua sorte, invece, ha calato la sua falce arrugginita sui tuoi 37 anni (…). (Le SS) ti hanno ammazzata con la pistola insieme ad altri partigiani. Tu che avevi scelto l’Amore e la Resistenza disarmata».
    Per sopravvivere al dolore immenso della morte di due persone così care e vicine, Silvestra sceglie l’unica strada che sente sua fino in fondo, di fare ciò che può rinvigorirla e in parte consolarla: «Ogni giorno della mia vita è e sarà impegno, devoto agli ideali e disobbediente all’indifferenza. Come eravamo noi. Cum panis. Condividere lo stesso pane».

    Silvestra Sesini e Siderno

    Ed ecco, infine, l’approdo di Silvestra Sesini a Siderno, nel 1958. Nelle parole che Antonella Iaschi attribuisce a Silvestra, tutto l’amore per questa terra. E certo non è un caso che, ispirandosi a Silvestra, a scriverle sia una donna che ha sperimentato la stessa emigrazione “al contrario”.

    «A inizio estate qui al Sud l’erba è già imbiondita ma ancora non è bruciata dal sole, i fichi d’India sono puntellati di fiori gialli, i gelsomini sbocciano per le mani veloci delle raccoglitrici mentre decine e decine di fiori spontanei crescono indisturbati. Se questa terra non fosse dimenticata dallo Stato, maltrattata da persone senza scrupoli, e tenuta nell’ignoranza da un sistema scolastico non sufficiente, le sue bellezze la farebbero diventare uno scrigno d’oro. Come d’altronde era un tempo.

    Qui il destino mi ha concesso di nuovo l’emozione grande di incontrare chi non avendo nulla, nemmeno i diritti primari, ti apre il cuore e si affida, senza sapere che sei tu ad affidarti a lui. La gente che si ferma a parlare con me per le strade, in piazza, al mercato, che mi racconta i propri problemi mi ha fatto diventare semplicemente e unicamente Silvestra, una di loro. (…) Questi cieli infinitamente blu, questo mare che sa essere piombo, smeraldo, ametista e turchese, questo arenile dove ogni orma mi dice “sei viva, vai avanti,” mi hanno regalato la consapevolezza di quello che ancora vorrei. È stato talmente facile innamorarmene e decidere di restare».

    Il testamento di Silvestra Sesini

    Ormai anziana, Silvestra Sesini esprime la sua volontà ultima, dando l’ennesima prova di come il nostro andrebbe conservato come mare di vita – non di morte come accade troppo spesso – per come riesce a penetrare nell’anima delle persone che gli si avvicinano: «Voglio che la mia tomba sia rivolta verso il mare. Sì, questo è il mio testamento. Affido ai Sidernesi il mio desiderio di guardare ancora una volta, anzi per sempre, il mare».

  • Nicola Serra, un big socialista per tre generazioni

    Nicola Serra, un big socialista per tre generazioni

    La dedica di una strada importante nel centro di Cosenza, il titolo altisonante (e un po’ vintage) di antifascista, ma soprattutto il ruolo di sottosegretario alla Marina nel governo Facta del 1922, pochissimo prima dell’inizio del Ventennio. Non male per un socialista come Nicola Serra, partito come politico “contro”, anche con una certa determinazione.
    Ma il “contro”, nel suo caso, vale fino a un certo punto: Serra è uno di quei notabili che, prima o poi, emergono. Il che non si può dire di altri omonimi del Nostro, notabili o non.
    Ad esempio, non si può dire per Antonio Serra, studioso cosentino d’età barocca e padre dell’economia moderna, che muore in carcere, a dispetto di meriti non proprio leggeri. Né di un altro Nicola Serra, un giovane partigiano ligure morto di stenti a Mauthausen nel 1944.
    Ma torniamo al Serra sottosegretario e, soprattutto, alla sua Cosenza.

    Nicola Serra: un notabile tra due secoli

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    Nicola Serra

    Nicola Serra è un esponente tipico dell’alta borghesia postunitaria. Nasce a Cosenza il 24 maggio 1867, quindi a distanza di sicurezza dal Risorgimento e dalla sua forte carica retorica.
    Questo aspetto anagrafico non è proprio secondario: consente a lui e ai suoi coetanei una visione critica della vecchia guardia.
    Serra, figlio di Gaetano e di Vincenza Carbone, proviene da una famiglia benestante. E segue il percorso di vita tipico della classe sociale di appartenenza (o, se si preferisce, dei figli di papà): frequenta il Liceo Telesio, dove ha per compagni di classe Luigi Fera e Pasquale Rossi. Una volta conseguita la maturità, prende la laurea in Giurisprudenza a Napoli: l’ideale biglietto da visita per il notabilato cittadino.
    Infatti, prima ancora che in politica, si fa notare soprattutto nel foro, di cui diventa subito un big.

    La passione socialista

    Un altro segno di appartenenza al notabilato cosentino è l’orientamento politico, quasi sempre rigorosamente a sinistra.
    E Nicola Serra non se ne priva: infatti è un socialista convinto. A fine 1892 fonda, assieme a Pasquale Rossi il primo circolo socialista di Cosenza. E scalda i motori in vista del primo appuntamento politico importante: le Amministrative cittadine del 1893.
    Proprio per preparare il terreno, Serra, dà vita – assieme a Rossi, a Luigi Caputo e a Domenico Le Pera – a Il Domani, un settimanale di cultura e propaganda socialista.
    Ma né il circolo né il giornale riescono a darsi una linea precisa ed entrambi durano poco. Va meglio alle elezioni, dove l’avvocato prende 423 voti e risulta il quarto degli eletti: non male in una città che ha poco più di 15mila abitanti e vota poco meno della metà dei maschi maggiorenni. Il successo elettorale galvanizza i socialisti, che ricostituiscono il circolo e provano a fare un altro giornale, senza riuscirci.
    Ma non per colpa loro: i socialisti cosentini sono un gruppo di élite che pesca consensi, ma non sono radicati nella città. In più, subiscono le pressioni e le repressioni del governo, guidato dall’ex garibaldino ed ex repubblicano Francesco Crispi, che dà un giro di vite proprio agli ambienti socialisti.
    Quale migliore occasione per cacciarsi in un guaio, per fortuna non grosso?

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    Francesco Crispi

    La prima condanna e le seconde elezioni

    A rileggerle col senno del poi, certe disavventure giudiziarie sembrano incidenti creati apposta per ottenere l’aureola del martire.
    È il caso di Humanitas, il giornale socialista fondato dall’agitatore roglianese Giovanni Domanico, forse la testa più calda dei socialisti cosentini.
    Domanico, figlio di un grosso proprietario terriero, è abituato agli incidenti e alle manette. Ma non si può dire la stessa cosa di Serra, che inizia a collaborare a Humanitas nel 1894, assieme ai soliti Rossi e Caputo e a Luigi Milelli, e il primo aprile di quell’anno firma un manifesto in cui rivendica con orgoglio la propria militanza socialista.
    La provocazione funziona sin troppo: Serra finisce sotto processo e si becca una condanna per aver violato le norme di pubblica sicurezza imposte dal governo crispino.
    Forte di questa “medaglia”, stringe un accordo politico col notabile amanteano Roberto Mirabelli e si candida nella sua lista per le Amministrative del 1895.
    Prende 945 voti e rientra in Consiglio comunale assieme a Rossi. Ma le polemiche sono dietro l’angolo.

    Nicola Serra e i compagni col grembiule

    La candidatura di Mirabelli è il prodotto di una resa dei conti interna alla loggia “Bruzia-De Roberto” del Grande Oriente d’Italia, che entra in guerra contro Luigi Miceli, notabile longobardese della sinistra storica e parlamentare di lungo corso.
    A dire il vero, all’epoca negli ambienti socialisti la massoneria non è così malvista. Ad esempio, Pasquale Rossi è iscritto al Goi.
    Ma c’è chi polemizza con le scelte di Rossi e Serra. Ne è un esempio la lettera anonima pubblicata dal periodico La Vigilia, in cui l’avvocato è accusato di voler sacrificare il gruppo socialista alle proprie ambizioni. Il circolo cosentino reagisce compatto, ma la polemica sortisce comunque un suo risultato: Rossi lascia la carica di assessore comunale dopo pochi mesi.
    Tuttavia, la rielezione spiana la strada a Serra in un’altra importante istituzione cittadina: l’Accademia Cosentina, di cui l’avvocato diventa socio corrispondente nel dicembre 1895 e socio ordinario pochi mesi dopo.

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    Pasquale Rossi

    Nicola Serra in crisi col Psi

    Risalgono al 1897 le prime avvisaglie della crisi dei socialisti cosentini. Infatti, Crispi ritorna al potere e riprende le sue abituali repressioni, che polverizzano il circolo cosentino.
    Ma pure nel resto della provincia le cose non vanno benissimo, perché Giovanni Domanico subisce un’accusa infamante almeno a livello politico: sarebbe stato, nientemeno, che un confidente della polizia.
    Nicola Serra si ritrova nel mezzo della polemica. Prima, per amore di partito sostiene la candidatura di Domanico nel collegio di Rogliano alle Politiche del 21 marzo 1897. Poi, a dicembre dello stesso anno, fa parte del collegio di probiviri che espelle Domanico dal Psi.
    Il resto sono colpi di coda: nel 1899 Serra ricostituisce assieme a Rossi e a Luigi Aloe, il circolo cosentino. Poi si candida alle Amministrative del 1900 e risulta eletto assieme al solito Rossi, al giornalista Antonio Chiappetta, ad Aurelio Tocci e ad Aloe. Ma la giunta cade poco meno di un anno dopo e la città rivà alle elezioni.
    Stavolta Serra non ce la fa. Ma, forte del ruolo acquisito nel notabilato locale, cambia partito e se ne va coi radicali.

    Un notabile di sinistra

    A questo punto, è doverosa una riflessione sul ruolo di Nicola Serra nel notabilato (non solo) cosentino. Giusto per capire come certi rapporti sociali superano da sempre le appartenenze politiche.
    Un primo rapporto forte è con gli esponenti di punta della massoneria cosentina. Ci si riferisce, in particolare, a Luigi Fera, parlamentare di lungo corso nel Partito radicale e poi ministro giolittiano, e a Oreste Dito, storico e maestro venerabile della loggia Bruzia-De Roberto. Serra, nel 1898 fonda assieme ai due big in grembiule la rivista Cosenza Laica, con cui polemizza contro gli ambienti cattolici cittadini.
    Anche i legami familiari hanno il loro peso: nel 1906 Serra sposa Maria La Costa, baronessa di Malvito. Dal matrimonio nasce Lydia, che diventa la prima avvocata calabrese.

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    Lydia Toraldo Serra

    Nicola Serra e i legami coi cattolici

    Dopo essersi laureata a 23 anni a Napoli, Lydia lavora assiduamente nello studio paterno. Ha come collega un altro praticante di talento: Gennaro Cassiani, il classico ragazzo di belle speranze. Originario di Spezzano Albanese, Cassiani è nipote per parte di madre di Ambrogio Arabia, un altro principe del foro. Di orientamento cattolico-popolare, Arabia diventa sindaco di Cosenza nel 1913.
    Per Gennaro è solo questione di tempo: nel dopoguerra è uno dei primi deputati Dc e diventa sottosegretario e ministro a più riprese.
    Torniamo a Lydia, che è l’altro tassello dei legami tra Serra e il mondo cattolico. Nel 1933 la giovane avvocata sposa un altro promettente cattolico: Pasquale Toraldo, ingegnere e marchese di Tropea. Lydia segue il marito nella cittadina vibonese, dove viene ben accolta. Al punto di diventare, nell’aprile ’46, sindaca di Tropea in quota Dc.
    È la seconda sindaca della Calabria. La batte di un mese Ines Nervi Carratelli, prima cittadina di San Pietro in Amantea.

    Nicola Serra parlamentare e poi ministro

    Chi cambia partito trova un tesoro. Nicola Serra, diventato nel frattempo anche vicepresidente dell’Accademia Cosentina (1906), si candida alla Camera nel 1909.
    Il risultato non è male: 964 voti al primo turno e 1.883 al secondo. Ma non bastano e l’appuntamento è rinviato.
    Per la precisione, al 1913, quando l’avvocato prende 5.497 preferenze e diventa deputato col Partito radicale.
    Ci riprova nel 1919 e prende più voti: 5.686, che tuttavia non gli bastano per il bis. Il quale arriva due anni dopo, quando cambia collegio (non più Cosenza ma Catanzaro) e lista (l’Unione nazionale democratica, di ispirazione giolittiana), prende 19.660 voti e partecipa da “governativo” ai lavori dell’ultimo Parlamento dell’età liberale.
    Chiude la carriera come sottosegretario alla Marina mercantile nel secondo governo Facta. La sua parabola politica finisce qui.
    Già: i fascisti decidono di non aver bisogno di Serra e non lo includono nel listone coi liberali.

    Gennaro Cassiani

    Interludio: la strage di Firmo

    È il 29 gennaio 1923. Siamo a Firmo, paese arbëreshe dell’entroterra cosentino.
    Un’antica rivalità divide due gruppi di famiglie. Il primo, guidato dal sindaco e segretario del fascio Celeste Frascino, è composto da ceti emergenti, che hanno trovato nel fascismo un notevole ascensore sociale. Il secondo, invece, è composto da alcuni notabili, che – da abitudine cosentina – militano a sinistra o addirittura nel Psi.
    Tra questi due gruppi il sangue è cattivissimo e i malumori sono esasperati dalla contrapposizione fascismo-antifascismo, che sfocia in provocazioni e atti di violenza continui. Il 29 gennaio Frascino provoca di brutto l’appaltatore Angelo Feraco, che per tutta risposta gli dà un pugno in faccia e fugge.
    Il sindaco lo raggiunge, afferra la pistola e spara. Ferisce Feraco e Raffaele Lo Tufo, un contadino che passa per caso. E uccide Domenico Gramazio, un ufficiale in pensione, arrivato sul posto per aiutare Feraco.
    Da questo fattaccio scaturisce un processo durissimo, che termina con la condanna di Frascino. Tra gli accusatori, nel ruolo di avvocato di parte civile, c’è Nicola Serra.

    Nicola Serra e il fascismo

    Serra va giù durissimo, nel processo contro Frascino e accusa direttamente il fascismo che, a suo giudizio, è responsabile del clima di violenza diffuso.
    In realtà, il fascismo, subito dopo la presa del potere, inizia a scaricare i vari Frascino e tenta la pesca nel notabilato di età liberale. Chi non si espone, è cooptato e prosegue la carriera, come il deputato liberale Tommaso Arnoni, che diventa podestà di Cosenza.
    I notabili che si sono esposti, invece, finiscono sostanzialmente nel freezer. Di solito, perdono gli incarichi pubblici ma non i ruoli professionali né il prestigio sociale. È quel che capita a Serra, che continua la carriera da avvocato ma perde il ruolo di presidente dell’Accademia Cosentina.
    Tuttavia, questo notabilato riemerge nel secondo dopoguerra, spesso grazie alla mediazione della Dc, che recupera una buona fetta della classe dirigente liberale, e la fa coesistere con gli antifascisti ma anche coi fascisti meno compromessi.
    Nicola Serra non partecipa a questo recupero solo per raggiunti limiti di età.

    Luigi Facta

    Una celebrazione particolare

    Inizialmente duro col regime, Serra modera i toni. Ma comunque non cerca cariche né tessere.
    Muore a Cosenza il 22 aprile 1950 all’età importante di 83 anni.
    Quattro giorni dopo, lo ricordano in una seduta alla Camera Fausto Gullo, Gennaro Cassiani e Adolfo Quintieri, altro astro nascente della Dc cosentina.
    Classe 1887, Quintieri proviene dal mondo dell’associazionismo cattolico. Non è antifascista, ma a-fascista e, tranne per il solito giro di parentele che ammorbidisce tutto, non ha legami sostanziali con la classe dirigente liberale di cui fa parte Serra.
    Con l’ascesa di questa nuova dirigenza (e la contemporanea estinzione anagrafica di quella precedente) la politica, anche calabrese, volta pagina.
    Ma questa è un’altra storia.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • «La follia greca si muove tra i miei libri»

    «La follia greca si muove tra i miei libri»

    Ho conosciuto Giuseppe Aloe qualche anno fa a Rossano. A cena con amici comuni si parlava ancora di libri e di Celine. Lo scrittore di origini cosentine ha lasciato il bicchiere di birra e recitato a memoria la prima pagina o poco più di Morte a credito. Tornare ai classici, ecco. Un buon modo per ribadire il concetto in una Calabria che scrive tanto e legge poco. Aloe non è proprio d’accordo con queste classifiche. Ne parlo con lui. Mi racconta del suo ultimo libro, Le cose di prima (edito da Rubbettino), e non solo, in una villa vecchia che cerca in tutti i modi di attutire l’estate infernale di questi ultimi giorni a Cosenza. Tra i suoi romanzi compaiono titoli come La logica del desiderio (finalista al Premio Strega), Ieri sera ha chiamato Claire Morin, Lettere alla moglie di Hagenbach.

    Giuseppe Aloe a Cosenza per la presentazione del suo libro “Le cose di prima”
    Le cose di prima? Perché questo titolo?

    «È un’espressione dell’Apocalisse di Giovanni. Le cose di prima sono finite perché nella sua visione è arrivato Dio. Io l’ho reso in un senso quasi interrogativo. Ma le cose di prima sono davvero finite? È un libro che si pone questa domanda. È possibile che siano finiti i momenti più drammatici dell’adolescenza? Siamo sicuri che non abbiano lasciato nulla nella nostra vita?».

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    La copertina dell’ultimo libro di Giuseppe Aloe
    Come nasce questo suo ultimo libro?

    «Era da tempo che ragionavo sul concetto di adolescenza. Un giorno a Milano sono andato al funerale di un compagno di scuola di mio figlio, un ragazzo che si è suicidato a 19 anni in carcere. E il prete ha letto questo passo dell’Apocalisse di Giovanni. “Le pene, l’infelicità, sono passate”. Questa frase mi ha instantaneamente procurato una visione. In quel momento ho avuto chiara l’intera trama del romanzo. Tranne il finale. È arrivato dopo. Il materiale c’era già nella testa. Mancava lo spunto».

    Cosa c’è dietro il processo creativo che dà vita a un romanzo?

    «Nella mia testa ci sono delle idee di romanzo. Che non vanno a compimento. Quando c’è un clic e riesco a trovare il bandolo della matassa in venti giorni lo finisco. Dal primo all’ultimo capitolo. Una discesa libera. È il mio metodo di lavoro».

    Una traccia che lega la Logica del Desiderio a questa sua ultima fatica letteraria?

    «Tutti i miei libri hanno una costante. Nella vita di ciascuno di noi quando la ragione perde il suo status, lascia spazio alla follia. E cosa accade? I miei sette romanzi sono sulla follia. Chiaramente intesa in senso greco, la manìa che ci governa. Che era degli indovini, dei poeti e degli innamorati. La follia del dolore, dell’amore come nella Logica del desiderio, la follia dell’infanzia, della vecchiaia, dell’ingiustizia. Nelle Cose di prima la follia dell’adolescenza».

    Cinque libri o autori da portare sull’Arca con lei?

    «Il vocabolario della lingua italiana. Poi Kafka, L’altro processo di Canetti, Molloy di Samuel Becket, alcuni racconti di Carver, Musica per Camaleonti di Truman Capote. E italiani? Lo Zibaldone dei pensieri di Leopardi. Summa che anticipa Nietzsche. Un libro fondamentale ma poco studiato e tradotto».

    Ma questa storia della Calabria fanalino di coda nelle classifiche di lettura ha un po’ rotto le scatole?

    «Queste classifiche non controllano quanti libri vengono letti ma quanti ne sono venduti. Cosa bene diversa. Questo genere di classifiche sono apparenti, non hanno alcuna sostanza.
    Quando vieni in Calabria dovresti parlare con le persone e ti rendi conto del livello culturale di questa regione. Vado in giro e trovo sempre gente molto colta e preparata. Come è possibile se in Calabria non legge nessuno? Non è vero. Io vivo a Milano. La stragrande maggioranza dei milanesi è incolta. Però Milano è la capitale culturale d’Italia. Dovremmo fare degli studi non sulle vendite ma sulla capacità di apprendimento».

    Il futuro sarà Chat Gpt oppure c’è speranza?

    «Il problema non è chatGpt ma gli editor, i corsi di scrittura creativa. In alcuni ambiti editoriali i romanzi sono molto simili. Libri standardizzati. Esci da una scuola di scrittura e applichi quello che hai imparato. Lo stesso faranno gli altri studenti. La letteratura deve superare se stessa, non deve indovinare i giorni di dolore. Quando tuo nonno ti picchiava, tuo padre ti trattava male. Basta! Così non si va avanti».

    In Calabria scrivono in tanti, però?

    «Sì, ci sono tante persone che corrono. Ma non sono Marcell Jacobs. È la stessa cosa. Tutti possono scrivere, ma per arrivare alle Olimpiadi serve qualcosa dietro. Una vita passata sui libri. Studiare, leggere e avere il senso della scrittura. Altrimenti si possono fare esercizi lirici o meno. Che non sono scrittura ma allenamenti della tua vita».

    La sede dell’Accademia Cosentina

    Cosenza Atene delle Calabrie? Lei che ne pensa?
    «C’è un impoverimento culturale della città e non solo. Abito a Cosenza vecchia. Si vede che è instabile, eppure è un patrimonio culturale non solo della nostra città. Nessuna amministrazione è stata in grado di risollevarla. Ma quando vengo a Cosenza, non posso negarlo, trovo sempre un buon livello culturale».

    Cosa rappresenta per lei il richiamo di Africo, l’appuntamento annuale sotto il grande albero pensato da Gioacchino Criaco?

    «Gioacchino è un mio amico come Mimmo Gangemi e Domenico Dara. L’appuntamento di Africo rappresenta il ripensare a chi sei, quale è il tuo posto nel mondo. Abito a Milano ma mi sento profondamente calabrese. Radicato alla mia terra. I tedeschi hanno la parola Heimat. Cosenza e la Calabria sono la mia. E Africo è una madre che ti richiama e ti rimprovera perché non stai pensando troppo alla tua Heimat».

    Ma Lettere alla moglie di Hagenbach è un libro mitteleuropeo, di calabrese nemmeno l’ombra.

    «Il respiro è Mitteleuropeo, Da Praga a Vienna, a Berlino, Lubecca. Ma il dolore che c’è nelle mie storie è quello che ho vissuto al Sud. Quella striscia di dolore che tutti abbiamo conosciuto e che non ti abbandona mai».

  • Pasquale Rossi: un medico dei poveri al servizio del socialismo

    Pasquale Rossi: un medico dei poveri al servizio del socialismo

    Medico per professione, studioso per vocazione, rivoluzionario per tradizione (familiare) e missione. Pasquale Rossi è una figura forte del panorama socialista, non solo calabrese, di fine ’800, grazie a una vita intensa, anche se non proprio avventurosa, divisa tra attività politica e produzione intellettuale.
    Cultore curioso e profondo di sociologia, può essere considerato una versione italiana di Gustave Le Bon, l’iniziatore degli studi sulla psicologia di massa.
    Peccato solo che Le Bon sia stato praticamente rimosso dalle riflessioni culturali (e politiche) contemporanee. Altrimenti Pasquale Rossi avrebbe avuto di più delle consuete dediche toponomastiche.

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    Pasquale Rossi

    Pasquale Rossi, la rivoluzione in famiglia

    La dedica per eccellenza è la strada che porta all’ingresso dell’autostrada di Cosenza: la mitica via Pasquale Rossi, che i più conoscono per essere obbligati ad attraversarla quando entrano in città o ne escono.
    Il Nostro nasce a Cosenza il 12 febbraio 1867. Il cognome è piuttosto comune, molto meno le tradizioni familiari.
    È il terzo dei quattro figli di Francesco, classe 1807 e avvocato di grido, e di Cornelia Via, possidente più giovane di 25 anni del marito, tra l’altro sposato in seconde nozze.
    I Rossi sono la classica famiglia altoborghese cosentina dell’epoca, per estrazione economica e culturale e per attitudini politiche.

    Pasquale Rossi sr: il nonno carbonaro di Tessano

    Anzi, la politica fa parte della storia di famiglia: Pasquale Rossi, il nonno e omonimo di Pasquale, è stato un cospiratore antiborbonico. Maestro venerabile della vendita carbonara (l’equivalente di una loggia massonica) di Dipignano, Pasquale senior aderisce alla Repubblica Napoletana del 1799. A questo punto, la sua vicenda si intreccia con quella di Vincenzo Federici, detto il Capobianco, rivoluzionario e carbonaro di Altilia, dapprima filofrancese e poi oppositore di Gioacchino Murat.
    Federici, che finisce al patibolo nel 1813, è un raro caso di un rivoluzionario giustiziato per eccesso di zelo liberale.
    Finita anche l’esperienza napoleonica, nonno Pasquale continua a cospirare, anche in maniera piuttosto seria: la sua ultima esperienza forte avviene nei moti costituzionali del biennio 1820-21. Questi cenni dovrebbero far capire il background socio-culturale di Pasquale: sinistra altoborghese ma non fighetta, caratterizzata da un certo amore per la cultura, merce sempre più rara nelle classi politiche calabresi.

    Maria de Medeiros interpreta Eleonora Fonseca Piementel, l’eroina della Repubblica Napoletana

    L’esordio telesiano di Pasquale Rossi

    Tappa obbligata della Cosenza bene (non solo) dell’epoca: il Liceo Telesio. Secondo una certa retorica cosentina dura non solo a morire, ma persino a star male, ci sarebbe una differenza tra i “telesiani” e tutti gli altri: i primi sarebbero dei predestinati, pronti a diventare classe dirigente, gli altri, anche se più bravi no.
    Oggi non è vero: per accorgersene basta un’occhiata, anche distratta, ai curricula della Cosenza-che-conta, non pochi dei quali risultano addirittura carenti di titoli. A fine ’800, invece, è più che vero: Pasquale Rossi si diploma nel 1885, assieme a due compagni di classe destinati a carriere importanti. Cioè Nicola Serra e Luigi Fera. E scusate se è poco.
    Sembra l’identikit di un leader della sinistra contemporanea: figlio di papà con storia familiare alle spalle, studi importanti e amicizie altolocate.
    Ma nel caso di Pasquale Rossi, la differenza vera la fanno altri fattori: l’impegno e la capacità.

    Laurea e primi guai a Napoli

    Anche l’iscrizione all’Università di Napoli e la scelta della Facoltà, Medicina e Chirurgia, confermano lo stile molto cosentino di Pasquale Rossi.
    Forse è cosentina anche la passione politica. Ma, soprattutto, la propensione ai guai.
    Il Nostro studia con profitto. Ma, nel tempo libero, segue anche delle lezioni extra facoltà. Ad esempio, quelle di Silvio Spaventa, filosofo, deputato ed ex ministro dei Lavori pubblici e zio di Benedetto Croce. Oppure quelle di Giovanni Bovio, filosofo, storico del diritto e deputato repubblicano.
    Giusto una curiosità per gli amanti della musica: Bovio è anche il papà di Libero Bovio, poeta e paroliere della grande canzone napoletana. Suoi i testi di superclassici come Guapparia, Reginella, Lacreme Napuletane, ’O paese d’o sole, ’O marenaro, Zappatore e Signorinella.

    Il filosofo e politico Silvio Spaventa

    Torniamo a Pasquale Rossi, che in quegli anni si occupa poco di musica e molto di politica. Proprio a Napoli, l’aspirante medico incontra il socialismo. Infatti, fonda due circoli politici, il primo di studenti repubblicani e socialisti, il secondo di socialisti e anarchici. Con un pizzico di Calabria in più: ci si riferisce al ferroviere di Fiumefreddo Bruzio Francesco Cacozza e al cosentino Antonio Rubinacci, tipografo e poi segretario della Camera del lavoro della sua città.
    Tanta passione porta i primi guai: nel 1891 finisce in manette e subisce una condanna per aver partecipato ai disordini del Primo Maggio. Ma questo disguido non gli impedisce di laurearsi l’anno successivo col massimo dei voti. E, da buon notabile, di tornare a Cosenza.

    Medico e socialista in prima fila

    C’è una differenza tra i figli di papà di allora e quelli odierni: per molti dei primi, il socialismo o l’ultra-sinistra erano cose serie, capaci di marchiare a fuoco tutta la vita.
    Così è stato per Pasquale Rossi, che, una volta rincasato, apre un ambulatorio medico per i poveri e fonda un circolo socialista a Cosenza.
    Per la precisione, è il secondo della provincia, perché il primato cosentino spetta a Celico, dove sorge un circolo nel 1892, praticamente a ridosso della nascita del Psi.
    Ma ciò non toglie nulla al ruolo di Rossi, che nel 1893 è delegato dei due circoli al congresso di Reggio Emilia e finisce sotto l’ala di Filippo Turati. A questo punto, il Nostro si lancia alla grande, sia come intellettuale sia come politico.

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    Il leader socialista Filippo Turati

    Giornali ed elezioni

    Appena tornato dall’Emilia, Pasquale Rossi lancia due testate giornalistiche: Il Domani, un settimanale pensato per spingere i socialisti nelle elezioni suppletive di luglio 1893, e Rassegna Socialista, un mensile di alto profilo cultural-ideologico.
    Più borderline l’attività politica vera e propria. Nel 1895 Rossi gestisce un’operazione delicatissima: l’appoggio alla candidatura alla Camera del repubblicano amanteano Roberto Mirabelli contro il longobardese Luigi Miceli, ex garibaldino e supernotabile della sinistra.
    L’operazione riesce, ma ha un prezzo: l’alleanza, per le Amministrative di Cosenza, con il blocco liberaldemocratico. Quest’altra operazione è, addirittura, mediata dalla massoneria cosentina, in guerra con Miceli.
    Ma l’alleanza è innaturale e Rossi si ritrova isolato. Diventa assessore comunale ma è costretto a scegliere: o il municipio o il partito. Infatti, si dimette.
    Ma ha ruoli di primo piano nei successivi congressi regionali socialisti: quello di Paola (1896) e quello di Catanzaro (1897), a cui partecipa addirittura il mitico Andrea Costa.

    Andrea Costa, il pioniere del socialismo italiano

    La psicologia delle folle

    Il Pasquale Rossi studioso lascia almeno un’opera importante: L’animo della folla (Cosenza, 1898), che riprende e aggiorna La psicologia delle folle (1895), il superclassico di Le Bon.
    Al riguardo, è doverosa una riflessione: il socialismo italiano della seconda metà dell’Ottocento ha poco idealismo e non (ancora) molto marxismo. In compenso, è zeppo di positivismo, che è la corrente culturale egemone, almeno fino all’avvento di Gentile e Croce. Questo mix di socialismo e positivismo è tipico della sinistra dell’epoca e, per fare un esempio, condiziona anche i big successivi, a partire da Gramsci (che, non a caso, si forma a Torino, la capitale del positivismo italiano).
    Tuttavia, questo socialismo ha due caratteri particolari. È più umanitario che militante, più dialogante che rigido. Soprattutto, è aperto allo studio dell’irrazionalità.
    Che è poi il nodo centrale della psicologia delle masse, che riguarda Le Bon e il suo allievo italiano, cioè Pasquale Rossi.
    Il problema di Le Bon nella successiva storia della cultura socialista, è essenzialmente uno: le sue riflessioni non hanno alcuno sbocco “progressista”, ma si prestano davvero a tutti gli usi. E non è un caso che proprio Le Bon abbia influenzato la metamorfosi intellettuale e politica di un altro socialista, destinato a ben altra carriera: Mussolini.
    Forse anche questi motivi stanno dietro alla “rimozione” dell’intellettuale parigino dal panorama culturale Novecentesco. Una guerra tra egemonie, insomma, che ovviamente travolge i pesci più piccoli, anche se di grande spessore. Come Rossi, appunto.

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    Gustave Lo Bon

    La morte prematura di Pasquale Rossi

    Dalla fine del XIX secolo, la parabola di Pasquale Rossi è condizionata da una domanda: dove sarebbe arrivato, se non fosse morto a soli 38 anni?
    Le premesse per fare ancora molto, per lui c’erano tutte. Nel 1898 subisce un doppio processo, a Portici e a Reggio Calabria, con un’accusa particolare: aver incitato all’odio sociale nella rivista Calabria Nuova, in cui commenta i moti di Milano e la pesantissima repressione. Il rischio è grande, ma il tipo di reato (d’opinione), è un gol per un socialista.
    Che in effetti ritenta il colpaccio: una candidatura alla Camera nel 1904, che va male per un soffio. Tra una cosa e l’altra, il medico cosentino, si sposa (1898) e diventa padre cinque volte.
    Poi la morte improvvisa, a Tessano, la frazione di Dipignano da cui proveniva la sua famiglia, il 23 febbraio 1905.
    Una brusca interruzione per una vita intensa e non sempre in linea con i canoni del notabilato.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.