Non troverebbe spazio sui Cahiers du cinema, ma poco importa. Mancava il punto di vista sartoriale per entrare nella galassia Oppenheimer, il film di Christopher Nolan sul padre dell’atomica americana. C’ha pensato Fabio Bernieri, divulgatore social di eleganza classica e buon gusto con il nome d’arte Douglas Mortimer, a uscire fuori dal coro quasi unanime sul biopic del momento. Analizza la pellicola sul suo canale YouTube con un piccolo viaggio fra tessuti pregiati, giacche mono e doppiopetto, camice con collo all’italiana, panciotti d’ogni forma e guisa, nodi e cravatte, scarpe raffinate. Del resto con uno pseudonimo così il cinema non può mancare a casa Bernieri. Il colonnello Mortimer è il bounty killerLee Van Cleef nella trilogia del dollaro di Sergio Leone.
Douglas Mortimer (nel riquadro in alto) analizza sul suo canale YouTube l’eleganza dei personaggi del film “Oppenheimer”
Ma non siamo in una pellicola del maestro italiano, se non fosse per certi primi piani, quasi primissimi. Nolan gioca sempre la carta del tempo sospeso, sfuggente, moltiplicato, dilatato. Dalle cavalcate nel New Mexico fino ai claustrofobici e inquisitori interrogatori. Paura dei comunisti? Sì, ancora oggi sopravvive, figuriamoci in quegli anni. Nemmeno uno scienziato come Robert Oppenheimer può farla franca. Quasi scontato quando hai un’amante, una moglie e un fratello con la tessera dal partito più inviso al potere e tu finanzi i repubblicani nella Guerra di Spagna. Per non parlare del sindacato. Peccati capitali per comuni mortali. Con una mente come la sua in pieno conflitto mondiale e con i razzi V2 pronti ad ospitare testate nucleri naziste, tutto viene perdonato (almeno fino alla resa inevitabile del Giappone). La Ragion di Stato lo porta dritto alla guida del Progetto Manhattan.
“The gadget”, nome in codice del primo ordigno nucleare fatto esplodere a Los Alamos nel New Mexico
Il Gadget di Zio Sam
La corsa contro il tempo impiega soldi e menti brillanti. Alla fine The Gadget, questo il nome del primo ordigno nucleare fatto esplodere nel deserto, svolge egregiamente il suo compito. Un fungo di luce e miscela mortale entra a far parte del nostro immaginario collettivo. L’orologio dell’Apocalisse sempre più vicino alla mezzanotte ci avverte dell’attualità – a tratti persino ripetitiva e retorica – di un film del genere. Una guerra nel cuore dell’Europa con un potenza nucleare e muscolare non ci fa dormire sonni tranquilli. L’uscita nelle sale ha tenuto conto del contesto? Forse è una preoccupazione moltiplicata di più nel vecchio continente. Forse no.
Oppenheimer distruttore di mondi
I mondi di Oppenheimer invece sono dentro i suoi flussi di coscienza: atomi si muovono e scontrano prefigurando un futuro prossimo. Lo scienziato è un prometeo americano, come il titolo del libro, vincitore del Pulitzer, da cui è tratto il film. Scritto da Kai Bird e Martin J. Sherwin. La sceneggiatura appartiene allo stesso regista Christopher Nolan. Dialoghi impeccabili e ritmati. Oppenheimer, Oppie lo chiamano gli amici, è, invece, l’eterno dilemma tra scienza ed etica. Mettiamoci pure la politica. Una questione della tecnica riproposta ancora una volta sul grande schermo. Un brillante Cillian Murphy – chi lo ricorda nel Vento che accarezza l’erba di Ken Loach? – smette i panni di Tom Shelby dei Peaky Blinders e indossa quelli del «distruttore di mondi». Così recita quel testo sanscrito amato da Oppenheimer. The father of atomic Bomb, si legge sulla copertina del Time di quegli anni. Quando abbiamo capito di non poter più tornare indietro. Perché in qualche modo ci aspetta l’Armageddon dietro l’angolo o poco più avanti. A ricordarci che non possiamo sbagliare.
Quando, subito dopo la guerra, in una Germania sconfitta e divisa, Nina Weksler provò a far pubblicare il libro sulla sua personale esperienza di internata nel grande campo di internamento fascista di Ferramonti, si scontrò con il secco rifiuto del mondo dell’editoria tedesca perché, molto banalmente, il punto di vista delle case editrici era che nel lager di Tarsia non era successo niente, nessuno era stato ucciso o torturato, tutto era a dimensione umana.
Ferramonti non era Dachau, Buchenwald, Bergen Belsen e tanto meno Auschwitz, niente a che vedere con quanto succedeva nei campi di sterminio e di lavori forzati dell’Europa centro-orientale.
Il campo di internamento di Ferramonti
Mille giorni a Ferramonti
I mille giorni d’internamento di questa giovane donna ebrea non apparivano editorialmente seducenti, come se limitare la libertà delle persone, non fosse già, di per sé, un insulto a tutta l’umanità. Solo nel 1992, grazie alla casa editrice cosentina Progetto 2000, diretta da Demetrio Guzzardi, quei mille giorni raccontati da Nina diventano un libro, ripubblicato nuovamente nel 2020 per una seconda edizione.
Il libro dal titolo Con la gente di Ferramonti. Mille giorni di una giovane ebrea in un campo di concentramento, per volontà dello stesso Demetrio Guzzardi, è diventato uno spettacolo teatrale dal titolo Nina. Guten Morgen Ferramonti, presentato in anteprima nazionale al Salone Internazionale del libro di Torino nel maggio scorso, nello stand della Regione Calabria. Dora Ricca ha curato la scrittura drammaturgica e la regia, riuscendo ad adattare il testo, con tutta la sua moltitudine di dettagli e la complessità di emozioni, nello spazio e nel tempo della messa in scena.
Lara Chiellino in “Nina, Guten morgen Ferramonti”
Lara Chiellino diventa Nina Weksler
Ricca è riuscita a restituire sentimenti individuali di un dramma generale, ma anche immagini paesaggistiche, poesia e malinconia, gesti e parole, di quanti hanno sùbito la più violenta e cieca persecuzione della storia. Il racconto del popolo ebraico parla anche di un pezzo di Calabria, di una zona malarica divenuta, per la sua condizione di isolamento geografico, una salvifica Arca di Noè, grazie alla quale, migliaia di persone hanno trovato la possibilità di sopravvivere al genocidio messo in atto dalla furia nazifascista, intenzionata a realizzare la follia di quegli ideali di pulizia etnica, razziale e politica.
Lara Chiellino ha interpretato la protagonista Nina; un lungo monologo in prima persona il quale, attraverso digressioni che hanno consentito di andare avanti e indietro nel tempo del ricordo, ha saputo raccontare la moltitudine umana dei tanti internati, portatori di culture, lingue, religioni e costumi diversi. Il peso della storia è raccontato come un esercizio di equilibrio e di resistenza al dolore, la semplicità della gente di Calabria diventa elemento di somiglianza, quindi sentimento di empatia, da condividere con quel popolo perseguitato da secoli.
Illustrazione tratta dal libro “Con la gente di Ferramonti. Mille giorni di una giovane ebrea in un campo di concentramento” (edizioni Progetto 2000)
Da Leningrado a Ferramonti, storia di Nina
Nina, nata a Leningrado da genitori ebrei, si era trasferita con tutta la famiglia a Berlino dopo la rivoluzione bolscevica, a causa della guerra perde i contatti con la sua famiglia e, arrestata dalla polizia fascista a Milano, arriva a Ferramonti di Tarsia, il luogo in cui ha potuto imparare a guardare in faccia l’anima stessa delle persone, il loro comportamento e le relazioni umane, una università di vita in cui nulla è stato facile. Ricca ha portato in scena, grazie all’interpretazione di Lara Chiellino, una donna libera e indomita che, nonostante la sua condizione di internata, non ha consentito a nessuno di annientarla sul piano umano.
Proprio per questo, Nina, nei suoi mille giorni di prigionia, fatti di fame, freddo e malattia, ha continuato a coltivare la sua personale passione per la scrittura, ad apprezzare i libri, le albe calabresi, ma anche i profumi, in quelle piccole boccette di vetro ormai difficili da trovare. Quei profumi, quasi dotati di vita propria, nella loro capacità di apparire chiari, scuri, tristi e allegri, si presentano quasi come una metafora dell’esistenza.
Sono sempre le piccole azioni, i piccoli gesti, come quello di indossare una vestaglia, sistemare un cappotto sgualcito, rammendare un calzino, avvolgersi in una coperta, il movimento convulso nel letto cercando disperatamente di addormentarsi, le candele accese, a definire la tragicità della condizione umana.
Lara Chiellino e Dora Ricca
La regia attenta di Dora Ricca
La regia di Dora Ricca punta a mettere in scena delle azioni, ma anche gestualità, ritmo e sonorità; il corpo di Lara Chiellino diventa la costante fluttuante tra un dentro e un fuori, tra interiorità ed esteriorità. Azioni che parlano, divenendo, allo stesso tempo, enunciati performativi, frasi che accompagnando movenze producono un nuovo stato di cose, una nuova realtà. Parole e azioni che portano con sé, grazie alla forza dell’autoreferenzialità, il potere di trasformare la percezione di un universo delimitato da un filo spinato.
La Chiellino riesce, attraverso il suo sguardo e i suoi silenzi, a mostrare le espressioni degli altri internati, si riesce a far percepire la presenza di prigionieri in realtà assenti sulla scena, quasi come se il suo stesso sguardo divenisse lo specchio delle paure e delle trepidazioni di tutte le persone segregate e non solo a Ferramonti.
Baracca 62
Lara agisce in uno spazio definito dalla quarta parete, pochi oggetti di scena riescono ad evocare il senso di miseria, solitudine, freddo e sofferenza che si viveva nella baracca numero 62 così come in tutte le altre. Lo spettatore assiste allo sviluppo di una vicende in cui, i ricordi e gli incubi ricorrenti di Nina, accompagnati dalla sua stessa voce fuori campo, lo spingono ad interrogarsi sulla tragedia che sappiamo nascere sempre dalla perdita di Dio o dal sentimento di umanità. Dio non era ad Auschwitz, non era neanche in tutti gli altri campi di lavoro e di sterminio, sicuramente, anche se nascosto, era nel cuore di Nina che, indossato il suo tallit, assisteva alla preghiera del venerdì sera senza capire troppo il senso delle parole e, forse, non era neanche necessario capire, bastava la poetica delle parole stesse per sentire vicino una presenza sacra.
Soldati all’esterno del campo
Dove era Dio?
Ricordava benissimo di un Dio implorato e pregato da sua madre nel giorno del Kippur, ma in quei racconti non rammentava un Dio iracondo, quanto un padre benevolo verso i suoi figli. Ma Dio ora forse era assente e per questo bisognava invocarlo, ma la tragedia intanto si stava consumando.
Il suono del violoncello, i ronzii delle mosche, il rumore degli aerei diventano voce drammaturgica in grado di costruire immagini concrete, di una realtà interrotta solo quando la quarta parete si infrange. Lara Chiellino, spogliandosi dei panni di Nina e indossando i suoi, irrompe sulla scena, a quel punto non è più personaggio, ma un’attrice che narra quella storia che ha riguardato ognuno di noi, il nostro passato collettivo e, proprio per questo, parla del valore della memoria e soprattutto dell’umanità che non ha memoria, diversamente non si spiegherebbero le guerre e le persecuzioni alla quali assistiamo ancora oggi. Le ceneri dell’umanità non hanno insegnato nulla e rivolgendosi al pubblico, attraverso un dialogo diretto, lo costringe a prendere delle posizioni davanti alla crudeltà della storia e degli uomini.
Fino al 3 settembre Roccella Jonica e il jazz – con una puntatina di una sera a Martone – tornano al centro della musica con la 43^ edizione del Festival Rumori Mediterranei, seguita come sempre da Radio Roccella in diretta e con interviste a tutti i protagonisti. L’organizzazione, con la direzione artistica di Vincenzo Staiano, ha scelto di dedicare la kermesse al famoso crooner Tony Bennett, al secolo Anthony Dominick Benedetto, recentemente scomparso all’età di quasi 100 anni. Una decisione azzeccata, sia per la grandezza di un’artista con 70 anni di carriera costellata di enormi successi anche recenti, sia in ragione delle origini del cantante il cui padre John era emigrato negli USA nel 1906 da Podargoni – frazione collinare di Reggio Calabria – e la cui madre, Anna Suraci, aveva genitori anch’essi nati nella città dello Stretto.
Vinili e improvvisazione
Staiano ha anche il merito di aver dato un tocco di originalità alla rassegna, inserendo nel programma una produzione originale di Rumori Mediterranei, Jazz back to grammo, che, tra l’altro, sta riscuotendo un ottimo riscontro in altri appuntamenti del genere. Essa consiste, per come si legge nel comunicato stampa diramato dall’organizzazione, «nell’ascolto combinato di vinili di musica jazz, azionati da vecchi grammofoni, e musica dal vivo prodotta da tre musicisti».
Vincenzo Staiano
Il merito di aver custodito il materiale d’epoca va a Giuseppe Nicolò. È lui ad azionare la manovella del grammofono e illustrare i brani presentati, oggetto successivamente d’improvvisazione da parte dei musicisti. Essi sono stati, nella serata d’apertura, il sassofonista Carmelo Coglitore, il contrabbassista Pino Delfino e il batterista Francesco Cusa.
Il jazz “calabro-americano” a Roccella
Particolare attenzione per le stelle italo-americane del jazz, con un ovvio occhio di riguardo per Tony Bennett. È uno dei leitmotiv del Festival di quest’anno, e accentua e formalizza quanto accaduto in passato. I nostri emigrati hanno dato tantissimo al “jass”, come venne intitolato dal trombettista Nick La Rocca il suo primo album realizzato con la Original Dixieland Jass Band. E quando scriviamo “nostri” intendiamo anche i calabro-americani. Oltre a Bennett, Joe e Scott LaFaro, Harry Warren, Sal Nisticò, Chick Corea, John Patitucci, Michael Coscunà, Joey Calderazzo, Dave Binney, Jessica Pavone e George Garzone.
Un concerto delle precedenti edizioni del festival
Tribute ai paesani prevede produzioni originali con omaggi a Frank Sinatra, Scott LaFaro, Tony Scott, Henry Mancini, Sal Nistico’, Joe Venuti, Eddie Lang e Chick Corea da parte di famosi artisti quali Rachel Gould, Luis Bonilla, Riccardo Fassi, Mary Holvorson, Jessica Pavone, Jim Rotondi e Michael Rosen.
In cartellone anche un inedito documentario su Frank Sinatra e l’Italia a cura del Master in ‘Editoria e produzione musicale’ dell’Università IULM di Milano.
La settimana del jazz di Roccella prevede poi:
due serate dedicate alla Turchia;
una parte, “Next generation jazz”, riservata alle esibizioni di giovani musicisti;
master class di strumento e voce;
presentazioni di libri e CD;
incontri con protagonisti del jazz internazionale.
Roccella suona il jazz: una settimana, 18 concerti
Inoltre, spazio significativo, come da tradizione, alle produzioni originali. Esse saranno nove su un totale di 18 concerti. Quattro le prime nazionali.
Tra i partecipanti particolarmente atteso Lino Patruno, alla sua prima apparizione a Roccella. Personaggio musicalmente molto eclettico, ha il merito di offrire all’ascolto il jazz più tradizionale. E, non per caso, consegna agli amanti del genere la teoria secondo la quale all’origine del dixieland, e quindi del jazz, ci sarebbero i musicisti italo-americani, più specificatamente con radici in Sicilia.
Sergio Cammariere
Altra partecipazione italiana di spicco quella di Sergio Cammariere, di nuovo al Festival a parecchi anni di distanza dall’ultima apparizione all’apice del successo. Quest’anno proporrà i brani del suo album di recentissima pubblicazione.
Tutti a Roccella, dunque, ad ascoltare il jazz. Con una particolare punta d’orgoglio per i calabresi che, anche in questo campo, possono affermare a ragion veduta di aver fatto, partendo da zero, qualcosa di positivo per il mondo intero.
La Calabria rappresentava un luogo giusto per le personali indagini e riflessioni antropologiche di Pier Paolo Pasolini. Una regione che, insieme a tutti i sud del mondo, incarnava la memoria e l’identità collettiva. Non una collocazione strettamente geografica, ma una precisa connotazione storica che identifica il tempo della pre-storia, in contrapposizione con il tempo della dopo-storia, colpevole di una profonda crisi della cultura iniziata negli anni ‘50 del ‘900, in un momento storico in cui l’Italia si avviava verso quel processo di mutazione antropologica capace, secondo Pasolini, di trasfigurare completamente la realtà.
Pasolini in Calabria: dal reportage ai Comizi d’amore
Il viaggio di Pasolini in Calabria inizia già nel 1959, quando per la rivista Successo, attraversando le spiagge di tutta la penisola, realizza un lungo reportage per raccontare l’Italia del cambiamento e della tradizione, divisa tra borghesia e classe operaia. Ritornerà nuovamente tra marzo e novembre 1963 per il film documentario Comizi d’amore. Attraverso una serie di interviste si raccontavano i pregiudizi su temi scottanti come la sessualità, l’aborto e il divorzio. Sulla vicenda giudiziaria, successiva all’affermazione di Pasolini che definì Cutro come una terra capace d’impressionarlo, con i suoi banditi come si vede nei film western, molto è già stato scritto, ma tanto resta ancora da dire sugli incontri di Pasolini in Calabria.
De Martino e Pasolini: la Calabria del Premio Crotone
Nel 1959, in occasione del Premio Crotone, un concorso letterario istituito nel 1952, su delibera dell’amministrazione comunale guidata dal PCI di Silvio Messinetti che, a sua volta, aveva ricevuto indicazioni dal segretario regionale Mario Alicata, Pasolini era a Crotone per ritirare il prestigioso Premio. Proprio lì Pasolini incontra l’antropologo Ernesto De Martino, con il quale condivideva la visione di una fine del mondo, vista come disgregazione, annientamento dell’unità e delle strutture sociali e culturali, intesa secondo una forte matrice marxista non teorica o etica, ma esclusivamente di radice umanistica.
Pasolini premiato in Calabria per Una vita violenta
Se è vero che La fine del mondo di De Martino fu pubblicato postumo nel 1977, Pasolini ebbe modo di coglierne appieno le suggestioni, attraverso un articolo che ne anticipava le tesi: Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, pubblicato sulla rivista Nuovi Argomenti nel 1964, di cui Pasolini era condirettore insieme ad Alberto Moravia.
Nel ‘59 la giuria del Premio Crotone era composta da personaggi come Ungaretti, Gadda, Mondadori, Sciascia, Bompiani, Repaci, Bassani e Moravia.
Sud, magia e vite violente
Al culmine di numerose polemiche dovute all’omosessualità di Pasolini, della quale non fece mai mistero, la giuria premiò il suo romanzo Una vita violenta a pari merito con il saggio antropologico Sud e Magia di De Martino, destinato a raccontare il ruolo della magia nelle società primitive, quindi in un Sud ancora legato a una certa ritualità. Da questo possiamo comprendere, quanto il confronto culturale tra i due era concentrato sui temi di cultura popolare.
Ernesto De Martino
E, indubbiamente, le teorie di Pasolini e De Martino sono rintracciabili, con le dovute differenze tra prospettive simboliche e potere distruttivo del capitale, in un’unica visione legata alla cultura popolare. Pasolini nel ricevere il premio dichiarò alla giuria che i protagonisti del suo romanzo, sebbene fosse ambientato nella capitale, facevano parte del Mezzogiorno d’Italia. Per questo motivo era giusto che a Crotone, i protagonisti, trovassero la giusta comprensione e accoglimento.
Mario Gallo e il mago
La rilevanza simbolica di una cultura radicata in un universo contadino si concretizza anche attraverso la realizzazione di alcuni cortometraggi improntati sui richiami della cultura contadina del Salento e della Calabria. Fin dal 1958 collabora con il documentarista, giornalista, produttore cinematografico, critico e regista calabrese, Mario Gallo. Insieme realizzeranno un cortometraggio della durata di circa dieci minuti, dal titolo Il Mago.
Il corto racconta la storia di un mago cantastorie, lo stesso Mario Gallo ne riassume il contenuto con semplici parole: «Nella vecchia Calabria sopravvivono vecchie abitudini, vecchi canti d’amore, di lavoro, di morte, vecchie figure; tra queste il mago. Egli se ne va in giro per le campagne recitando tutto solo davanti alle famiglie di contadini vecchie storie di paladini, dame e draghi. E così si guadagna un pezzo di pane». Il mago è un saltimbanco che, recitando tutte le parti del dramma o della commedia, riusciva a far piangere o ridere i contadini strappando così loro delle provviste. Non c’erano sceneggiature o dialoghi, l’attore protagonista improvvisava. Il corto sarà poi proiettato nel 1959.
Pasolini torna in Calabria: Il Vangelo secondo Matteo
Il suo incontro con un Sud ancora arretrato lo spinse ad una visione che possiamo definire di presagio della storia degli ultimi anni. Grazie ad essa riuscì a cogliere le insidie della globalizzazione, che lo portarono a vedere il Mediterraneo come il luogo dei grandi conflitti religiosi, culturali e sociali. Nella poesia Profezia parla delle coste calabresi, descrivendo l’arrivo di migliaia di uomini pronti a sbarcare sulle coste di Crotone o di Palmi. In questo Sud Pasolini riesce a ritrovare gli elementi in grado di mescolare sacro e profano, religione e laicità, insieme all’empatia del sentire umano. Questi sono i motivi che lo spingono a girare le scene del suo Vangelo secondo Matteo nell’Italia del Sud.
PPP tra i Sassi di Matera durante le riprese del film
Effettua le riprese nella terra incontaminata e sconosciuta come la Basilicata, facendo conoscere le bellezze dei Sassi di Matera, ma arriva anche sulle spiagge della Calabria, sulla costa Ionica che conosceva fin dai primi anni ‘50. Pasolini portò Il Vangelo secondo Matteo sulla spiaggia di Le Castella, frazione di Isola Capo Rizzuto, in quei luoghi già visitati in occasione del Premio Crotone. Si tratta di un capolavoro della cinematografia italiana del 1964, giudicato dall’Osservatore Romano il miglior film su Gesù mai girato.
Un viaggio nel tempo e nella storia dell’arte
Il regista utilizza il paesaggio della costa Ionica per costruire una sorta di viaggio nel tempo, una traccia del passato, qualcosa che, con i suoi riti e i suoi miti rischia di scomparire. Pasolini colloca la Calabria in diretta relazione con le culture del passato che l’hanno attraversata, preferendola addirittura alla Palestina ritenuta ormai troppo modernizzata, inadatta ad accogliere le scene de Il Vangelo. La Madonna incinta nella scena iniziale è Margherita Caruso, una giovane quattordicenne di Crotone. Nella scena è evidente il rimando alla Madonna del Parto di Piero della Francesca. Altrettanto chiari sono i richiami iconografici in tutti i fotogrammi del film.
Margherita Caruso
Non bisogna dimenticare che Pasolini fu allievo del critico d’arte Roberto Longhi e l’arte visiva resterà sempre parte integrante di tutto il cinema pasoliniano. Enrique Irazoqui, l’attore spagnolo che nel film interpretava Gesù, cammina sulla spiaggia di Le Castella, alle sue spalle la fortezza, risalente al 400 a. C., collocata su un piccolo lembo di terra in uno dei tratti più suggestivi dell’Area Marina Protetta di Capo Rizzuto.
Enrique Irazoqui
Pasolini e la Palestina in Calabria
Nella campagna di Salica, frazione del comune di Crotone, è girata la scena di Gesù che dice ai discepoli di seguirlo, ma è necessario che ognuno prenda su di sé la propria croce. Nello stesso punto era girata la scena di Gesù che guarisce lo storpio e viene rimproverato per aver compiuto il miracolo nel giorno del sabato. La spiaggia del lago di Tiberiade, dove Gesù incontra per la prima volta i futuri discepoli e li invita a seguirlo, è la spiaggia di Irto, a ridosso di Capocolonna e del promontorio di Hera Lacinia, dove si trova la colonna di età ellenica. Una foto accanto ad essa, in occasione del Premio Crotone del ’59, immortala Pasolini in Calabria insieme alla giuria.
Il ricordo è solo la costruzione di una realtà soggettiva, emozioni improvvise che agiscono costruendo, o ri-costruendo, un tempo oggettivamente inesistente, ma concreto nella percezione di impressioni dettate da una dimensione tanto sfuggente quanto radicata nella propria storia e nel proprio vissuto. In virtù di questo, Gaetano Tramontana, regista, autore, attore e direttore artistico di Spazio Teatro – associazione culturale nata a Reggio Calabria nel 1999 – costruisce la drammaturgia di Venuti dal Mare, un racconto nel quale si intreccia la storia di un giovane ragazzo e quella di una comunità entusiasta per l’arrivo in città di quei due misteriosi guerrieri opliti.
Venuti dal Mare, 50 anni dopo i Bronzi
Venuti dal Mare è uno spettacolo teatrale nato nel 2022. Un’idea che Tramontana coltivava già da molto tempo si è concretizzata in occasione del cinquantesimo anniversario del ritrovamento dei Bronzi di Riace, avvenuto il 16 agosto del 1972. Da circa un anno lo spettacolo teatrale calca con successo i palcoscenici italiani, cercando di restituire al pubblico una storia, quella del 1981, vista con gli occhi di un adulto, Tramontana, che posa il suo sguardo indietro, al ragazzo che era e a una città, Reggio Calabria, ancora socialmente provata per essersi vista negare la possibilità di diventare capoluogo di regione, rimanendo così relegata in una condizione di perenne marginalità.
Uno dei Bronzi circondato dalla folla dopo il ritrovamento di 50 anni fa
Un romanzo di formazione
Tramontana che in luglio ha replicato lo spettacolo a Torino e Frosinone, accompagnato da Ernesto Orrico che per l’occasione ha abbandonato il suo ruolo di attore per diventare Dj, riprenderà le repliche in autunno, riportando in scena le lancette indietro nel tempo, per il suo personale racconto di ex adolescente nella città della Fata Morgana.
Se è vero che Venuti dal Mare rientra in quel genere riconosciuto come Teatro di Narrazione, quindi quel tipo di drammaturgia costruita intorno a temi di attualità politica e sociale, in cui l’attore coincide con la figura di un narratore testimone dei fatti accaduti, risulta altrettanto vero che la performance di Tramontana presenta alcune peculiarità che lo collocano, azzardando un accostamento strettamente letterario, nella dimensione del romanzo di formazione, quindi una narrazione che segue la crescita del personaggio.
Tramontana e Orrico
In scena non c’è un narratore di cronache esclusivamente collettive, ma un attore che attraverso il suo monologo ci rende partecipi di un suo esclusivo flusso di coscienza. Ciò che affiora è il suo racconto personale messo in relazione con le aspettative di una città che, con l’arrivo dei Bronzi, si illudeva di uscire dalla sua condizione di periferia.
Il testo drammaturgico è concepito come un ipertesto, così una serie di eventi storici raccontati in ordine sparso, quasi come se fossero dei link di un’epoca pre-digitale sui quali cliccare, creano una narrazione tanto emozionante quanto incompleta. Ma è proprio nell’incompiutezza descrittiva, tipica dell’alternarsi dei ricordi, che si determina la sua originalità.
Viaggi paralleli
Una trasmissione radiofonica diventa l’espediente narrativo per dare inizio ad un racconto privato che inevitabilmente raggiunge un pubblico fatto soprattutto di giovani. È il racconto di un ragazzo degli anni ‘80 che parla con altri giovani che, diventano in quel momento, nonostante lo scarto temporale, suoi coetanei. Tramontana riesce a tenere lontana ogni forma di retorica paternalistica, scarta il senso di superiorità che si presenta quando si parla della propria giovinezza. Semplicemente, racconta delle cose successe in un momento in cui il mondo stava cambiando e ci riesce con ironia e leggerezza.
I Bronzi nel Museo di Reggio Calabria
I Bronzi di Riace, figure avvolte da un alone di mistero che ne rafforzava la popolarità, dopo il lungo intervento di ripulitura e restauro presso il Museo Archeologico di Firenze, finalmente nell’estate del 1981 stavano per tornare a casa, non prima di un passaggio a Roma per volere del presidente partigiano Sandro Pertini.
Il Museo Archeologico di Reggio Calabria era pronto ad accoglierli, una città intera lusingata dal fatto di poter essere visitata, come Pompei, Roma e Parigi, da persone di tutto il mondo, per l’importante scoperta delle antiche, preziose ed enigmatiche statue greche. Ma quello dei Bronzi non è l’unico viaggio. Parallelamente, in pullman, dopo una gita tra Francoforte, Londra e Parigi, la sera del 2 agosto 1981 un gruppo di giovani scout faceva ritorno a casa.
Reggio Calabria tra passato e presente
Attraverso il viaggio, Tramontana, traduce la sua esperienza interiore: una nascita come quella dei Bronzi emersi dalla profondità del mare, l’adolescenza fatta di esperienze nello spazio e nel tempo, la maturità fatta anche di disillusioni e, dopo il lungo viaggio, l’incontro con la morte, il primo lutto di un quindicenne che, per quella “mania, di dare ai nipoti il nome del nonno”, vedeva il suo nome scritto sul manifesto a lutto. Nel parallelismo tra il suo viaggio personale e quello dei Bronzi, Tramontana, non fa altro che restituire se stesso e il suo percorso di uomo inserito nella circolarità della vita.
Un altro momento di Venuti dal Mare (foto Marco Costantino)
Da maggio ad agosto una serie di eventi aveva segnato la storia non solo personale, ma anche quella della sua città e di un mondo sulla soglia tra un passato e un presente destinato alla digitalizzazione. La morte di Bob Marley, l’incidente mortale di Rino Gaetano, la tragedia di Vermicino con la morte in diretta televisiva del piccolo Alfredino Rampi, l’attentato a papa Wojtyla, sono le storie che si alternano ai ricordi personali di quei venti giorni lontani da casa e con pochissimi contatti con la famiglia, giusto qualche minuto per dire «stiamo bene, ci stiamo divertendo», tanto poi i genitori «si sarebbero sparsi le notizie fra loro», perché ci volevano molti gettoni per telefonare dall’estero e i soldi dovevano bastare fino al ritorno a casa.
Venuti dal Mare tra spazio e tempo
La musica che si alterna ai ricordi e ai racconti emoziona per la sua capacità di riportarci a quel 1981. I successi musicali diventano un ponte con il passato, trascinando il pubblico in una dimensione temporale accarezzata da successi come Enola Gay, Sfiorivano le viole, No woman no cry, Summer on a solitary beach, La costruzione di un amore e Quello che non ho. Un giradischi, i dischi in vinile, il cubo di Rubrik che in Italia diventa una moda proprio nel 1981, uno zaino, il modellino di una Volvo 343 per ricordare la tragica morte di Rino Gaetano, diventano oggetti capaci di superare la dimensione del monologo, imponendosi in una dimensione corale della scena.
L’estate è il riferimento temporale delle vicende, ma il tempo più che indicare un periodo si avvicina molto di più a una condizione, una qualità di ciò che è stato. Non un tempo misurabile, quanto una esperienza pronta a comunicare valori condivisi e relazioni sociali. Per questo motivo il narratore si chiede:
«Quanto spazio è necessario, perché il tuo mondo cambi? Quanti metri, quanti chilometri Sì, spazio. Non tempo. Quello è facile basta un calendario… È nel tempo che siamo abituati a calcolare i cambiamenti, no? Ma lo spazio?».
Un tempo policronico
Non è il tempo a creare le relazioni sociali, quanto lo spazio. I 700 metri che separano la casa dal museo di Reggio Calabria, le strade percorse ogni giorno, gli angoli della città conosciuti a memoria, sono gli spazi che creano le relazioni sociali e allora il tempo diventa policronico, legato ai cicli della vita e delle stagioni, altro da quel tempo così come siamo abituati a conoscerlo, misurabile quantificabile e monetizzabile. La condizione dell’estate si scontrerà con quella dell’autunno che conoscerà la delusione per un tradimento e la fine dell’entusiasmo di una città che assisterà alla conclusione delle lunghe file davanti al museo. I due guerrieri venuti dal mare finirono per essere inghiottiti, insieme ai ragazzi degli anni ‘80, in uno spazio vuoto e in un tempo monocronico incapace di creare relazioni.
Il monologo di Tramontana (foto Marco Costantino)
Venuti dal Mare è una produzione Spazio Teatro. Scritto e interpretato da Gaetano Tramontana, con la partecipazione in scena di Alessio Laganà (Dj set live), la collaborazione artistica di Anna Colarco e, per luci e audio, di Simone Casile.
Tutte le celebrazioni dei centenari sono occasioni per scoprire luoghi, emozioni, oggetti nascosti, non solo figure importanti, che hanno segnato la storia di un Paese. Celebrare è di per sé retorico, ma ha un suo intendimento curioso, frizzante. Innesca la gioia della ricerca, dell’incontro, del confronto e del dibattito. A suo modo può essere una rinascita attraverso il caleidoscopio delle nuove prospettive con cui si indaga, attraverso i nuovi strumenti di cui si dispone. È ciò che accade per Stanislao Giacomantonio nel centenario della scomparsa.
La famiglia volle donare le sue carte alla Biblioteca Nazionale di Cosenza, un Fondo ricco di informazioni storiche, sociologiche e antropologiche, non solo musicali, per chi voglia leggerlo e studiarlo come affresco di un’epoca in fermento. Un’epoca mobile che prelude alla prima grande catastrofe militare ma che vede la Calabria subire anche due grandi catastrofi naturali tra il 1905 e il 1908.
Stanislao Giacomantonio e la città
Tra i musicisti cosentini a cavallo tra i due secoli Stanislao Giacomantonio occupa un posto molto visibile. In primis perché a lui è intitolato il Conservatorio della città. Poi, forse, perché ci appare come un personaggio tenero, appassionato, pieno di sogni, caparbio. Scomparve a 44 anni, quando era ancora in attesa di un riconoscimento solido e significativo nella temperie musicale che dal verismo passava ad altre espressioni del teatro d’opera.
Un concerto nel cortile del Conservatorio “Stanislao Giacomantonio” di Cosenza
La storia di Stanislao Giacomantonio mi sembra di averla sentita mille volte. Mi è capitato di leggere tesi accademiche sulla vita e l’opera. Ero presente alle selezioni del concorso lirico che gli hanno dedicato, alle più recenti rappresentazioni del suo atto unico che conosciamo col titolo La Leggenda del Ponte, o quando, nel ’78 eseguirono le sue due opere al Teatro Rendano con Ottavio Ziino a dirigere, sebbene fossi così giovane da non ricordare quasi nulla. Ricordo il pubblico, sì, assai numeroso, il libretto e il commento del Maestro Ziino: in fondo non si può dire che Stanislao Giacomantonio non abbia avuto attenzione e affetto dalla sua città, soprattutto dopo il lavoro costante del figlio Giuseppe.
Da Fior D’Alpe a La Leggenda del Ponte
La prima rappresentazione di Fior D’Alpe, un atto unico del 1905 dal racconto di Teresita Friedmann Coduri, e su libretto del noto avvocato Filippo Leonetti, fu un vero trionfo nel maggio del 1913, al Comunale di Cosenza. Ne parlarono con immenso entusiasmo non solo in città ma a Roma, a Milano, una fitta rete di giornalisti portò la notizia fin negli USA. A Cosenza il Fondo Giacomantonio della Biblioteca Nazionale conserva una messe di occasioni di ricerca e analisi davvero corposa, perché, a fronte di alcune opere pubblicate recentemente ci sono ancora molti fogli, soprattutto composizioni per canto e pianoforte, che attendono una revisione accurata e la pubblicazione.
Il racconto originale di Teresita Friedmann Coduri
Solo un esempio: nel primo faldone ritroviamo le varie stesure di Fior d’Alpe ma, già nel primo fascicolo, Giac. I/1 col n° 44350, ci sorprende una malinconica, dolente lirica per canto e pianoforte che rivela una forte capacità di adesione al testo -endecasillabi a rima alternata- databile a cavallo tra ottocento e novecento, e soluzioni armoniche semplici ma efficaci. Poi, oltre ai materiali che dispiegano la genesi della sua opera più nota, c’è una cospicua fonte di dati da cui accertiamo, tra l’altro, che con Fior d’Alpe il musicista aveva deciso di partecipare a un concorso (bandito dal Tirso di Roma), vincendolo nel 1910.
Spicco il volo sublime
Il motto, visibile sul frontespizio del manoscritto, celebra il sogno e la caparbietà di un giovane consapevole del proprio talento, in un modo che lascia trasparire il bisogno di superare i confini della provincia calabra: Spicco il volo sublime. Era una speranza, ma anche la consapevolezza implicita che uno come lui avrebbe dovuto spostarsi in ambienti culturalmente più ricchi e favorevoli alla promozione di giovani talenti. Fior d’Alpe divenne poi La Leggenda del Ponte e l’acclamarono, forse non con gli stessi entusiasmi, anche dopo la Grande Guerra al Carcano di Milano, nel 1922, dove andò in scena il 5 dicembre assieme a Pagliacci di Leoncavallo.
Spicco il volo sublime, motto per Fior d’Alpe, concorso 1910
Quelle Signore 70 anni nel cassetto
L’altra opera è un esempio della sua volontà di distinguersi: un romanzo scabroso, si disse all’epoca, divenuto un best seller di quegli anni, scritto da Umberto Notari che aveva trovato nel filone della “donna perduta” materia per una trama intrigante e drammatica. La “donna perduta” diventa il soggetto dell’opera in due atti Quelle Signore, espressione di una scrittura musicale ormai pregevole e di una matura sapienza scenica (così scrive il direttore d’orchestra Franco Barbalonga in una lettera indirizzata ai figli). Con il libretto dell’amico Leonetti, l’opera è conclusa nel 1908, ma non viene mai rappresentata fino al 1978.
Pagina autografa di Stanislao Giacomantonio conservata presso la Biblioteca Nazionale di Cosenza, Fondo Giacomantonio
La biografia del musicista, la più accreditata come punto di riferimento per gli studiosi, è quella dei due figli Aldo e Remo, un lavoro straordinario che però oggi può sembrare datato per almeno due motivi. Il primo è che scrivere la biografia di un genitore che sia stato anche una figura significativa dell’arte porta ad effetti talvolta celebrativi, sebbene la supervisione e la prefazione fossero stati affidati ad uno dei musicologi più prestigiosi e affidabili, Virgilio Celletti. L’altro perché il lavoro risale al 1990 con tecniche di ricerca che oggi potrebbero essere più avanzate e offrire dettagli più utili agli studiosi, specialmente per la ricostruzione e il ritrovamento di indizi utili, relativi ai numerosi materiali perduti durante gli eventi bellici.
Frontespizio, melodia per flauto e piccola orchestra, 1899
Stanislao Giacomantonio e Sonzogno
Stanislao Giacomantonio è una figura che merita nuovi approfondimenti: le vicende della Guerra, il rapporto complicato e poi il contenzioso con la casa musicale Sonzogno (per la rappresentazione della Leggenda del Ponte a Milano), e soprattutto quella specie di operosa solitudine cosentina che lo vide per anni in città quasi frenetico animatore e didatta, ma pressoché fermo nella sua attività di compositore, meritano ancora scavi e approfondimenti. Non solo dalle carte del Fondo, ma anche dal catalogo riportato nella biografia dei figli non sembrano esservi lavori compiuti, importanti, dopo il 1908 se non qualche abbozzo, qualche idea. Si tratta di ciò che è andato perduto o è come se il tempo cosentino e i dissapori con la casa musicale milanese avessero prosciugato la vena compositiva, la stessa motivazione a comporre? Una vicenda umana assai simile a quelle che molti studenti e giovani artisti vivono anche oggi nonostante le distanze accorciate dal web.
Anche quest’anno – dopo lo stop del recente passato – il Ministero della Cultura contribuirà alle attività del Teatro Rendano di Cosenza. I finanziamenti saranno due e ammontano a quasi 250mila euro.
Il primo stanziamento per il Teatro Rendano riguarda il Fondo unico per lo Spettacolo. Grazie a un decreto della Direzione generale dello spettacolo del Ministero appena pubblicato, il Comune di Cosenza otterrà poco più di 100 mila euro. Lo scorso anno il contributo ammontava a 90 mila euro. Si tratta, nello specifico, della seconda annualità del triennio Fus 2022-20024 e riguarda le attività liriche ordinarie.
Teatro Rendano: attesa per Puccini e Mascagni
Un altro piccolo passo avanti per ritorno ai fasti di un tempo del Teatro Rendano, dunque. Il sindaco Franz Caruso ha sottolineato come si sia «ripreso a programmare la stagione lirica dopo anni di fermo». Il Rendano tornerà davvero fiore all’occhiello della città grazie all’Opera? Non resta che attendere. Per il momento da Palazzo dei Bruzi informano che a curare la stagione sarà ancora il maestro Luigi Stillo. Due i titoli in programma: Madama Butterfly di Giacomo Puccini, del quale ricorrerà nel 2024 il 100° anniversario della morte, e Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni. Le due opere andranno in scena al Teatro Rendano tra novembre e dicembre prossimi.
I fondi per l’Orchestra Sinfonica Brutia
E gli altri finanziamenti romani? Riguardano l’assegnazione del contributo alle nuove istituzioni concertistico-orchestrali. Tra queste, nel medesimo decreto che assegna i soldi per l’opera al Teatro Rendano, figura anche l’Orchestra Sinfonica Brutia. Beneficerà quest’anno di un contributo di oltre 137 mila euro. L’OSB, attualmente in tournée con tappe previste anche al di fuori della regione, si conferma quindi un progetto di valore nonostante i timori sorti alla sua istituzione.
Caruso, nel sottolineare il risultato ottenuto, ha inteso spendere parole di ringraziamento per il dirigente del Settore Cultura, Giuseppe Bruno, e la funzionaria dello stesso settore, Annarita Callari. Senza il loro impegno nel seguire l’intero iter procedurale i finanziamenti ministeriali per il 2023 ministeriali rischiavano di finire altrove.
Ogni esperienza, si sa, fa storia a sé, anche dopo anni testardi di disincanto, e questa con i ragazzi di “Caro diario”, campus sull’accoglienza promosso dalla Fondazione Antonino Scopelliti in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria, di cui ho curato la realizzazione del volume finale, è sicuramente fra quelle che infondono nuova energia e nuove motivazioni.
Soprattutto per la capacità di sorprendere con narrazioni e visioni mai scontate, che a dispetto di certo disincanto da sorrisetto adulto, che conosce e capisce come ogni anelito venga alla fine risucchiato, tornano a dare fiducia alla possibilità di costruire per la nostra terra un quotidiano ed una società che non languiscano di rassegnazione.
Lontane da rappresentazioni stereotipate o peggio, da tentazioni edulcoranti, le immagini di quanti si sono messi in gioco con questo workshop fotografico curato da Michele Furci appaiono intrise della lucida passione di chi pur non nascondendosi pragmaticamente la realtà, è ancora capace di proiettarsi in un futuro che non è semplice immaginario da inclinazione anagrafica, ma autentica voglia di cambiamento.
Ed è stato confortante verificare come i ragazzi, ancora scevri da certi condizionamenti formativi, dall’estetica ghirriana a tutta la scuola di paesaggio italica, si siano approcciati istintivamente alla poetica contemporanea dell’insignificante e del banale piuttosto che del monumentale e del bello canonicamente inteso, rivelando una sorta di rifiuto del sin troppo celebrato momento decisivo a favore dell’in-between. Approccio che traduce in visione fotografica un manifesto esistenziale della vita intesa come realtà fatta dallo scorrere di infiniti momenti qualsiasi mentre si è in attesa del proprio treno. E non c’è nulla di più identitario di questa consapevolezza, forgiata rudemente dalla nostra terra.
Dai ricordi bambini che legano con forza alle proprie origini al tappeto accasciato su un balcone dalla precarietà senza ringhiera, metafora della medesima caducità di sogni e aspirazioni che viaggiano su quel tappeto, le immagini tracciano un percorso disseminato di indizi che invitano alla scoperta, suggerendo come l’accoglienza sia un lento, reciproco divenire.
Per chi vorrà, l’appuntamento con questi ragazzi dallo sguardo profondo di visioni è per mercoledì 9 agosto a Reggio Calabria, Palazzo San Giorgio, con la mostra e la presentazione del libro “Caro diario”.
Lì dove finanche la potenza dell’oceano aveva fallito, riuscì una banale appendicite mal curata. E così, l’1 agosto del 1920, Hollywood si ritrovò a piangere l’ancora 33enne Eugene Gaudio. Non era il suo vero nome, ma l’americanizzazione – dopo lo sbarco nel nuovo continente – di quello ricevuto alla nascita dai genitori Francesco Gaudio e Marietta Severini a Cosenza: Eugenio. Anche suo fratello aveva fatto la stessa cosa quando, insieme ad Eugene, avevano solcato l’Atlantico in cerca di fortuna. Da Gaetano Antonio si era trasformato nel più yankeeTony Gaudio. Non sapevano ancora che il loro cognome sarebbe entrato nella Storia del cinema.
Eugene e Tony Gaudio, da Cosenza agli Usa
Eugene e Tony Gaudio erano nati rispettivamente nel 1886 e nel 1883 per poi crescere a pane e fotografia tra le vie del centro storico di Cosenza. Il fratello maggiore, Raffaele, era già da tempo tra i professionisti più affermati della città in questo campo, con tanto di titolo di Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia ottenuto per i suoi meriti sul lavoro.
Fu proprio nei laboratori di Raffaele Gaudio in via Sertorio Quattromani e, in seguito, su corso Telesio che Eugene e Tony appresero a cavallo tra ‘800 e ‘900 i primi rudimenti dell’arte “inventata” da Joseph Nicéphore Niépce.
Ma c’era un’altra invenzione che, più di ogni altra al mondo, sembrava attrarre i due “piccoli” di casa Gaudio. Anche lì c’entravano dei fratelli, solo che erano francesi: Auguste e Luis Lumière. Il loro cinematografo era la novità del momento, il presente, ma da subito fu chiaro che avrebbe rappresentato anche il futuro della messa in scena. E, come per molte altre cose, l’America sembrava la terra promessa dove realizzare i propri sogni. Anche (e soprattutto) quelli da imprimere su pellicola e proiettare su uno schermo.
Il cinema dei pionieri
Fu così che Eugene e Tony Gaudio, come tanti altri in quegli anni, si imbarcarono su un piroscafo diretti a Ellis Island. Hollywood non era ancora quella che avremmo imparato presto a conoscere e anche sull’East Coast erano parecchi i cinematografari. Erano gli anni dei pionieri del grande schermo. L’epoca d’oro in cui – racconterà in un’intervista del 1933 proprio Tony – «non c’erano costosi staff di sceneggiatori… registi, produttori, cameramen, e persino il garzone dell’ufficio, suggerivano storie destinate a diventare dei film». Quella in cui «gli attori principali di ogni studio erano al tempo stesso falegnami, pittori, scenografi, addetti alla sicurezza, nonché le star dei loro film».
Angolo tra la 5th Avenue e la 42nd Street (New York, 1910)
Il più “artista” tra i due emigrati cosentini era proprio Tony – complici gli studi a Roma all’Istituto d’Arte, appunto, e alcuni corti girati per la torinese Ambrosio Film a inizio secolo – ma Eugene, seppur più giovane e inesperto, non era da meno. Grazie alle loro capacità trovare lavoro fu semplice e veloce. Agli impieghi nelle agenzie fotografiche seguirono presto quelli per le prime case di produzione cinematografiche: quella di A. L. Simpson; i Vitagraph Studios; la Life Photo Film Corporation, l’Independent Moving Pictures, con le sue dive come Mary Pickford.
Dall’East Coast alla West Coast
È proprio alla IMP che Tony ed Eugene Gaudio iniziano a farsi davvero un nome, il primo come capo fotografo (e autore di sceneggiature), l’altro come supervisore del laboratorio. Tony inizia a viaggiare tra l’East Coast e la West Coast, Eugene accumula successi professionali a New York lavorando per la Rex Factories e la Commercial Motion Pictures Company. Poi nel 1916 i fratelli cosentini si trasferiscono definitivamente in quella California che somiglia sempre più alla Mecca della settima arte. Eugene lo assume la neonata Universal, ma poco dopo prende servizio con Tony alla Metro. Pochi anni dopo, nel ’24, la casa si unirà ad altre due entrando nell’immaginario collettivo grazie al ruggito del leone che introdurrà per i decenni a seguire ogni pellicola della Metro Goldwin Mayer.
Operatori della MGM filmano il celebre leone che introduce i film prodotti dalla casa hollywoodiana
Eugene Gaudio, il mago del chiaroscuro
Eugene, che per l’antenata della MGM fa il direttore della fotografia, è balzato agli onori delle cronache già un anno prima del suo arrivo ad Hollywood, nel 1915, grazie ai riuscitissimi chiaroscuri in The House of Feardel regista Stuart Paton. È lo stesso anno in cui, insieme ad altri 14, fonda la American Society of Cinematographers. La società ancora oggi accoglie tra i suoi membri direttori della fotografia e tecnici degli effetti speciali che hanno saputo distinguersi nell’industria cinematografica, compreso un calabrese da Oscar come Mauro Fiore.Ma è il 1919 l’anno della sua consacrazione. E anche l’ultimo di cui vedrà la fine.
La locandina di Out of the fog
A portargli le lodi delle cronache culturali dell’epoca sono soprattutto due film diretti da Albert Capellani. Il primo, The Red Lantern, gli dà modo di mostrare tutto il suo talento con le luci durante riprese che vedono coinvolte fino a 800 comparse in contemporanea. Il secondo, Out of The Fog, lo consegna alla storia come – scriverà la stampa di quegli anni – «il primo cameraman a fotografare con successo una nebbia». Eugene Gaudio è ormai, riporta il settimanale newyorkese The Leader-Observer, «uno dei maghi del chiaroscuro» e lo conferma in pellicole come The Man Who Stayed at Home o The Notorius Mrs. Sands (1920), presente nel catalogo dei film muti della Biblioteca del Congresso di Washington.
Ventimila leghe sotto i mari
La pietra miliare della sua carriera, però, è Ventimila leghe sotto i mari. Le riprese sono lunghe, il film arriva in sala nel 1916. Si tratta del primo lungometraggio ispirato al celebre romanzo di Jules Verne, anche se la sceneggiatura pesca negli altri due libri dello scrittore nantese sulle gesta del Capitano Nemo a bordo del sommergibile Nautilus. I costi della pellicola – a seconda dei resoconti – superano i 200mila dollari o sfiorano addirittura il mezzo milione, facendone uno dei primi kolossal della storia del cinema. Gli incassi non saranno altrettanto sostanziosi. Eppure 20.000 Leagues Under The Sea non resta negli annali per il flop in sala. Lo fa perché è il primo lungometraggio di sempre con riprese sottomarine ed effetti speciali incredibili per l’epoca. Per girare le gesta dell’equipaggio del Nautilus Eugene Gaudio mette a repentaglio la sua stessa vita.
Il set del film sono le Bahamas, scelte dalle produttrici Universal Studios e Williamson Submarine Film Corporation per la trasparenza delle loro acque. La WSFC è la casa di John Ernest Williamson, che insieme a suo fratello George, ha appena inventato la photosphere. È una sfera di metallo da oltre 4 tonnellate, con un oblò davanti e un tubo sopra che la collega a una barca in superficie e la rifornisce dell’ossigeno necessario alla sopravvivenza del cameraman. Ma mentre Eugene Gaudio riprende l’attacco di uno squalo gigante dalle viscere dell’Atlantico qualcosa va storto. È lo stesso cosentino a ripercorrere quei momenti in un’intervista al New York Tribune.
Eugene Gaudio e l’incidente durante le riprese
«Il braccio telescopico con cui ero stato calato si era rotto nei pressi della chiatta quando la camera d’acciaio dentro la quale lavoravo colpì un cumulo di sabbia e vi si conficcò. Trainata dal nostro yacht, la chiatta si mosse, piegando il braccio telescopico al punto tale che tutti i tubi che convogliavano l’ossigeno finirono schiacciati, privandomi dell’aria. Sigillato in quella bara marina, telefonai freneticamente in superficie fornendo informazioni sulla mia situazione».
Ma la barca si trova quasi venti metri più su e la telefonata risolve poco. I soccorritori non arrivano. Peggio: durante le manovre per disincagliare la photoshere e sostituire il collegamento tra Eugene Gaudio e il resto della troupe il braccio telescopico da cambiare si rompe definitivamente. Dal tubo che doveva portare ossigeno adesso entra l’oceano.
Un’illustrazione d’epoca mostra il funzionamento dell’invenzione dei fratelli Williamson
È ancora il cosentino a raccontare il seguito: «La mia unica speranza era quella di uscire da quella camera prima che si riempisse d’acqua. Non c’era alcuna scala. Allora mi arrampicai all’interno di quel camino d’acciaio, aggrappandomi alle sue giunture, mentre l’acqua mi respingeva indietro con forza crescente. Ne ho ingoiato ansimando mentre cercavo di respirare, lottando lungo quei cinquantacinque piedi (una quindicina abbondante di metri, nda) di tubo pieno di acqua di mare, finché sembrò che i miei muscoli avrebbero presto smesso di rispondere ai miei frenetici sforzi».
Nove vite
Quando dall’estremità in superficie del tubo sbuca tra le onde la testa insanguinata di Eugene sulla barca hanno perso ormai le speranze. Ma il direttore della fotografia è ancora vivo, sebbene svenga pochi istanti dopo per lo sforzo immane compiuto in assenza d’aria.
«Abbiamo lavorato come delle furie, ma non ci aspettavamo di vederti vivo quando ti abbiamo tirato su: hai sicuramente nove vite, come un gatto», gli dirà il regista Paton vedendolo riprendersi dopo la disavventura sottomarina.
Troupe e cast di “20.000 Leagues Under The Sea”: Eugene Gaudio è l’ultimo in alto a destra
Se davvero erano nove, quella rischiata alle Bahamas per Eugene Gaudio è l’ultima vita a disposizione.
L’Oscar non esiste ancora, ma i risultati ottenuti con Ventimila leghe sotto i mari gli portano premi e apprezzamenti da tutti gli addetti ai lavori. Gli resta poco tempo per goderseli però. Nell’estate del 1920 un attacco di appendicite acuta lo porta in ospedale quando ormai è già troppo tardi. La peritonite lo uccide il primo agosto, quando ha ancora soltanto 33 anni. Alla notizia del decesso la diva Alla Nazimova – protagonista di più film con Eugene Gaudio alla fotografia – infrangerà la regola che la vedeva sempre assente alle première delle pellicole di cui era protagonista. Invita centinaia di colleghi all’anteprima di Madame Peacock (1920) all’Hollywood Theatre e dona l’intero incasso dell’evento alla vedova del cosentino, Vincenzina Pietropaolo, anche lei calabrese emigrata da Amantea.
Il “fotografo violinista”
E Tony Gaudio, il fratello di Eugene? Sarà il primo premio Oscar italiano qualche anno dopo, da direttore della fotografia di Avorio nero (1937). Otterrà anche altre cinque nominations agli Academy Awards durante una carriera che lo consacra tra gli indimenticabili della Settima arte. A lui si devono innovazioni tecniche come “l’effetto notte”, quella nuit américaine celebrata decenni dopo da Truffaut nel suo più sentito e famoso omaggio al mondo del cinema d’oltreoceano. Ma anche dispositivi per la messa a fuoco, tecniche di utilizzo delle luci, le prime riprese in Technicolor.
Eugene e Tony Gaudio
Questa però è un’altra storia, andata avanti fino al 1951, trentuno anni dopo la morte del fratello Eugene. Quello che – come scrisse nel 1922 The American Cinematographer – «guardava la propria macchina da presa come un violinista guarda il suo strumento, con tenerezza e affetto».
Un predestinato dallo strano destino. Luigi Fera è, con tutta probabilità, il politico cosentino di maggior rilievo dell’età liberale.
Tuttavia, ha subito i capricci di una toponomastica un po’ disordinata: già intestatario, per quasi un cinquantennio, della piazza con cui termina Corso Mazzini, è ora titolare dell’ex Corso d’Italia, la strada che porta dalla ex Piazza Fera al Tribunale di Cosenza.
Questo cambiamento è il prodotto di una decisione urbanistica unica: l’intestazione di una piazza a un vivo, qual era a inizio millennio il mecenate Domenico Bilotti.
Pochi ricordano che Fera ha comunque lasciato qualche impronta sulla città: il primo piano regolatore e il vecchio palazzo delle Poste, un esempio bello (e poco valorizzato) di architettura di età giolittiana.
Ovviamente i meriti di Fera non si fermano qui.
La vecchia piazza Fera
Un notabile predestinato
Luigi Fera è stato il primo politico calabrese ad avere ruoli ministeriali di spicco e a mantenerli a lungo. Dopo di lui avrebbero fatto meglio, durante il fascismo, Michele Bianchi e, dopo, Riccardo Misasi e Giacomo Mancini.
Una carriera così solida e forte non si costruisce per caso né per soli meriti. Contano tantissimo il contesto familiare e l’appartenenza sociale.
Ciò vale anche per Fera, che nasce a Cellara, un borgo tra il Savuto e la Sila, il 12 giugno 1868 nella classica buona famiglia, almeno secondo gli standard dell’epoca.
Infatti, suo papà Michele è medico (una stimmata del notabilato meridionale più autentico), professore di Scienze naturali al Liceo Telesio e presidente del Comizio agrario cosentino. Sua madre, Rachele Crocco, proviene da una famiglia di proprietari.
Il giovane Luigi frequenta il Telesio, in una classe piuttosto privilegiata, dove divide i banchi con Pasquale Rossi e Nicola Serra, altri due futuri big della storia contemporanea calabrese.
I legami col notabilato non finiscono qui: in una fase importante della sua carriera, Fera incrocerà altre due famiglie che contano, i Morelli di Rogliano e i Quintieri di Carolei, nel contesto piccante di uno scandalo d’epoca. Ma andiamo con ordine.
Luigi Fera avvocato rampante
Luigi Fera
Luigi Fera sale con zelo tutti i gradini della carriera dei notabili. Finito il Liceo, si iscrive all’Università di Napoli, dove frequenta Giurisprudenza e Filosofia.
È allievo, piuttosto bravo, di Giovanni Bovio e Filippo Masci e ama il giornalismo: non a caso è intimo di Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, fondatori e cervelli de Il Mattino.
Una volta laureato, Fera torna a Cosenza. Prima (1892-1893) insegna Filosofia al Telesio e poi si dà all’avvocatura penale. Per non farsi mancare niente, aderisce alla loggia “Bruzia”. Ricapitoliamo: professore, penalista e massone. Gli ideali trampolini per la carriera politica. Che inizia dal gradino base: il municipio.
Infatti, diventa consigliere comunale nel 1895, dopo aver redatto per un anno articoli di fuoco sul settimanale La Lotta.
Da consigliere, dedica le sue attenzioni alla riapertura della Biblioteca Civica. Tanto impegno gli vale la nomina a segretario perpetuo dell’Accademia Cosentina. Fera riprende, inoltre, le polemiche culturali. Al riguardo, fonda con Nicola Serra e Oreste Dito il giornale Cosenza Laica, con cui dà battaglia agli ambienti cattolici più ultrà.
Sindaco per pochi giorni
Ricapitoliamo ancora: professore, avvocato, pubblicista, consigliere comunale e accademico cosentino. A Luigi Fera manca solo la carica di sindaco.
Che arriva nel 1900, col rinnovo del consiglio comunale. Ma il trionfo dura pochissimo: il nuovo consiglio, squassato da faide interne e da compromessi instabili, non ha una maggioranza. Fera diventa sindaco per pochi giorni, poi deve mollare la presa.
Ma l’appuntamento col successo vero è solo rimandato. Arriva nel 1904, grazie a uno scandalo che il notabile cosentino risolve brillantemente da avvocato.
Morelli vs Quintieri: due casate a confronto
Non è una storia di corna, sebbene ci vada vicino. Né un drammone shakespeariano. La contesa familiare tra i Morelli di Rogliano e i Quintieri di Carolei, ricostruita con grande efficacia dal giornalista Luigi Michele Perri nel romanzo storico Il Monocolo(Eri-Rai 2011), è una storiaccia di provincia dai contorni boccacceschi.
I protagonisti sono Caterina Morelli, figlia unica di Donato, patriota risorgimentale e padrone politico di Rogliano, e suo marito Salvatore Quintieri, fratello minore di Angelo, imprenditore e finanziere caroleano e astro nascente della politica cosentina.
Deputato nel 1890 e seguace di Francesco Crispi, Angelo Quintieri passa con Giovanni Giolitti nel 1891. Giusto in tempo per candidarsi alle Politiche del 1892.
Non prima di aver stretto un accordo con Morelli, che nel frattempo è diventato senatore e gli lascia il suo collegio di Rogliano. L’alleanza tra le due famiglie è sancita dal classico matrimonio dinastico: appunto, quello tra Caterina e Salvatore.
Proprio da questo matrimonio nasce lo scandalo, tuttora gustoso da raccontare.
Francesco Crispi
Il figlio della discordia
La giovane coppia (lei poco più che quattordicenne, lui poco più che ventenne) si stabilisce a Carolei.
Per un certo periodo, le cose sembrano filare: Salvatore ha qualche propensione extraconiugale di troppo, parrebbe, ma coccola la moglie. Il problema emerge quando non arriva il figlio, il super erede che dovrebbe fondere le casate.
Nel tentativo di sbloccare la situazione, i due si trasferiscono a Napoli, dove si fanno visitare dal celebre medico Antonio Cardarelli. Il responso non è bellissimo per Angelo: l’infertilità sarebbe responsabilità sua, perché affetto da ipotrofia ai testicoli.
Nel 1900, tuttavia, Caterina annuncia di essere incinta. Il bambino nasce a Napoli ed è battezzato col nome di Giovanni Donato. Ma la serenità della coppia finisce qui. Il piccolo ha appena sei mesi, quando Salvatore denuncia la moglie di due reati pesanti, che avrebbe commesso in alternativa l’uno all’altro: o l’adulterio o la simulazione di parto. Per difendersi, Caterina deve provare di non aver simulato il parto né di aver fatto ricorso alla fecondazione “alternativa”. E che, quindi, come tutti gli orologi rotti, anche Salvatore è in grado di azzeccare l’ora due volte al giorno.
A questo punto, entra in scena Luigi Fera, che difende la giovane e la fa vincere, anzi stravincere. Non solo Caterina è prosciolta da ogni accusa, ma ottiene la separazione da Salvatore, che è comunque costretto a riconoscere il figlio.
Questa brillante performance forense diventa un balzo in avanti per la carriera di Fera, che entra nelle grazie del vecchio Morelli.
Un monumento di Donato Morelli
Luigi Fera in Parlamento
Donato Morelli muore nel 1902. Ma l’alleanza dinastica coi Quintieri è evaporata da tempo. Luigi Fera approfitta di questa rottura e si candida alle Politiche del 1904 proprio nel collegio di Rogliano, sgomberato tra l’altro anche da Angelo Fera, che ha mollato la politica un anno prima per motivi di salute.
La competizione elettorale resta comunque uno scontro tra le due casate: i Morelli, o quel che ne resta, rappresentati da Fera, e i Quintieri che tentano di riempire la casella vuota con Luigi, il secondogenito della famiglia caroleana.
Luigi Quintieri è un giolittiano e perciò gode del favore dei prefetti. Fera no e si candida con il Partito radicale. Ciononostante vince alla grande, anche perché i roglianesi, dopo lo scandalo, non vedono di buon occhio i Quintieri. A questo punto, il neodeputato cosentino ha la strada spianata per una carriera parlamentare brillante, che lo porta a ricoprire importanti cariche ministeriali in fasi a dir poco drammatiche: gli anni della Grande Guerra e l’ascesa del fascismo.
Giovanni Giolitti
Un riformista in carriera
La parabola parlamentare (e poi ministeriale) di Luigi Fera si può definire con un aggettivo: riformista.
Tutto il resto – il consueto trasformismo, i tentennamenti, i cambi di idee a volte repentini – fa parte senz’altro dello stile dei notabili tardo ottocenteschi. Ma è anche un comportamento quasi obbligato per i centristi laici e moderati come Fera, che rischiano di restare schiacciati tra le due nuove tendenze della politica italiana: l’allargamento del corpo elettorale, che emargina pian piano la borghesia liberale, e i partiti di massa (socialisti e popolari e poi comunisti e fascisti). Fera si muove con grande abilità e ottiene grossi risultati. La sua è una politica essenzialmente progressista. Ad esempio, quando promuove la costruzione della tratta ferroviaria Sibari-Crotone (1905) o quando spinge per l’approvazione della legge sulla Calabria (1906).
Discorso simile a livello urbanistico: è sua la legge che fissa il piano regolatore che amplia il territorio di Cosenza (1912) e lo estende fin quasi dentro i casali e fino quasi a Rende.
Di particolare rilievo, al riguardo, le polemiche con Francesco Saverio Nitti sull’assetto della proprietà fondiaria, che meritano una rapida riflessione a parte.
Francesco Saverio Nitti
Nitti vs Fera: due meridionalisti a confronto
Il dibattito tra i due big è fortissimo ed è giocato tutto in casa. Cioè nelle file del Partito radicale, da cui provengono entrambi.
Riguarda, come anticipato, la situazione delle proprietà agricole e riflette il diverso background dei due.
Nitti è un economista e parla da tecnocrate: il mercato, tramite libere contrattazioni tra proprietari e contadini, deve risolvere da sé il problema.
Luigi Fera, al contrario, esprime preoccupazioni sociali e politiche: lo Stato deve intervenire con riforme opportune e deve regolare il mercato, piuttosto selvaggio in questo settore.
Inutile dire, in questo caso, che le preoccupazioni di Fera risultano più aderenti alla realtà calabrese: sono le stesse cose che, circa quarant’anni prima, diceva Enrico Guicciardi, primo prefetto della Cosenza postunitaria, col supporto di Vincenzo Padula. Ma questa è un’altra storia. La si cita solo per far capire come in Calabria le cose fossero cambiate poco, dall’Unità alle soglie della Grande Guerra.
Luigi Fera “conservatore”?
Ci sono due episodi della vita politica di Luigi Fera in apparente controtendenza all’impostazione progressista: l’affossamento alla mozione di Leonida Bissolati per l’abolizione del catechismo nelle scuole elementari e l’appoggio alla conquista della Libia, promossa da Giolitti.
Il primo, cioè l’affossamento della mozione Bissolati, fu probabilmente un tentativo di evitare la crisi che si profilava nella massoneria, a cui Fera e Bissolati appartenevano.
La mozione Bissolati è appoggiata dal gran maestro Basilio Ferrari, che propone la censura nei confronti di tutti i deputati massoni che rifiutano l’appoggio alla mozione. Al contrario, è osteggiata da Saverio Fera, sovrano gran commendatore del Rito scozzese e pastore protestante. Luigi Fera e Giolitti provano a evitare il dibattito parlamentare per evitare due cose: la spaccatura del mondo laico e la crisi della massoneria. Non ci riescono. Per la guerra di Libia, è doverosa un’altra considerazione: il colonialismo, all’epoca di Fera, non è considerato un male. Anzi. Fera vede come tanti, nell’impresa nordafricana un modo per alleggerire le pressioni sociali che provengono dalle masse contadine del Sud, a cui la conquista di nuovi territori può offrire sbocchi alternativi.
Truppe coloniali italiane in Libia nel 1912
Luigi Fera ministro
Una stranezza di Luigi Fera è l’atteggiamento di fronte alla guerra. Il politico calabrese è di sicuro interventista. Ma non si capisce subito bene con chi. Ovvero se con Austria e Germania o con Inghilterra e Francia.
Ad ogni modo, in seguito all’ingresso dell’Italia in guerra, Fera fa l’ultimo salto di qualità. Diventa ministro delle Poste nei governi di Paolo Boselli e di Vittorio Emanuele Orlando. Poi, alla fine della guerra, diventa ministro di Grazia e giustizia sotto Giolitti (1919).
Questa sequenza ministeriale è il massimo del potere e del prestigio raggiunto da un politico calabrese dall’Unità alla crisi del sistema liberale.
Vittorio Emanuele Orlando
Un altro mondo
L’ascesa politica del fascismo è l’ultima spallata a quel mondo in cui si è formato Luigi Fera. Ma il big cosentino non lo sa. O forse lo sa fin troppo, ma vede nelle squadre di Mussolini il male minore.
Infatti, Fera appoggia i fascisti e ottiene, in parte i loro consensi nel 1921, quando si candida e risulta eletto per l’ultima volta. Per lui i comunisti sono il vero pericolo, a cui i fascisti si limitano a reagire. Di più: Fera non dispera in una successiva evoluzione democratica del movimento di Mussolini.
Tuttavia, la situazione precipita col delitto Matteotti (1924) e il parlamentare cosentino, che intuisce di non poter proseguire oltre la propria carriera, si ritira a vita privata.
Rifiuta la candidatura offertagli dai fascisti e si limita a fare l’avvocato a Roma. Muore nella capitale il 9 maggio 1935, nel momento di massima forza del regime. È decisamente un altro mondo, in cui per Fera e quelli come lui non c’è più posto.
Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.
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