Categoria: Cultura

  • Dante illumina il pomeriggio di Villa Rendano

    Dante illumina il pomeriggio di Villa Rendano

    Il Sommo Poeta illumina il pomeriggio di Villa Rendano. Una sala conferenze occupata in ogni ordine di posti testimonia l’attenzione per l’evento patrocinato e ospitato nella sede della Fondazione Attilio e Elena Giuliani.
    Beatrice e le altre donne di Dante è il titolo del reading intervallato dalle splendide note dell’arpa suonata dalla giovanissima Camilla Colonna.

    La giovanissima arpista Camilla Colonna

    «La Società Dante Alighieri nasce per volontà di Carducci e altri intellettuali. Svolge una missione importante come diffondere lingua e cultura italiana nel mondo. Ringraziamo il presidente della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani, Walter Pellegrini, per averci concesso il patrocinio ed averci accolto in questo luogo magico. Sono parole di Maria Cristina Parise Martirano, presidente della Società Dante Alighieri-Cosenza.

    Maria Cristina Parise Martirano, presidente della Società Dante Alighieri-Cosenza

    Dopo i saluti della Parise Martirano è iniziato il reading a cura di Sara Serafini Calomino. Un viaggio tra i versi della Vita Nova e della Divina Commedia. Con l’immancabile recitazione di alcune tra le terzine più famose della storia della letteratura di ogni tempo: quelle che vedono protagonisti Paolo e Francesca nel Canto V dell’Inferno. Ma Sara Serafini Calomino non si è limitata alla declamazione dei versi. Ha spiegato gli influssi della teoria dell’Amore cortese sulla formazione di Dante.

    Sara Serafini Calomino

     

  • Topolino, Villa Rendano e la settimana della cultura

    Topolino, Villa Rendano e la settimana della cultura

    Una settimana della cultura carica di eventi in tutt’Italia, promossa da Abi (Associazione bancaria italiana) e da Acri (Associazione delle fondazioni e casse di Risparmio).
    All’iniziativa partecipa anche la Fondazione Attilio e Elena Giuliani, che mette a disposizione di cittadini e appassionati di tutte le età i propri assets consolidati, soprattutto Consentia Itinera, il museo multimediale. La settimana è partita il sette ottobre, con una giornata completamente gratuita, e prosegue per due giorni: il 9 e il 14. La location, manco a dirlo, è la storica Villa Rendano, la bella sede della Fondazione e del Museo.
    Con una piccola sorpresa: un ospite sbarazzino e prestigioso. Soprattutto giovane come i classici che si rispettino: Topolino.

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    Un momento della mostra dedicata a Topolino a Villa Rendano

    Settimana della cultura: Topolino a Villa Rendano

    La storia, in questo caso, è piuttosto lunga. E la domanda, tra l’altro, non è proprio semplice semplice: che ci fa il topo più famoso di tutti i tempi nella storica casa di uno dei musicisti calabresi più celebri (e illustri) di tutti i tempi?
    Infatti, Topolino e i suoi amici disneyani (quindi Pippo, Arabella, Paperino, Paperina, Qui, Quo, Qua e Paperoga) fanno bella mostra di sé in varie illustrazioni esposte a Villa Rendano a tema musicale: non a caso, la mostra si chiama Topolino e la musica
    Quest’iniziativa. spiega Anna Cipparrone, la direttrice di Consentia Itinera, risale a luglio grazie a un’idea del Museo del fumetto, che ha ospitato alcuni illustratori Disney, perché si ispirassero a Cosenza. Ovviamente Villa Rendano non poteva restare fuori, col suo carico di storia. Ed ecco che Topolino & co. si improvvisano musicofili e musicisti.

    Un primo piano delle illustrazioni a tema disneyano

    Musei in rete, Villa Rendano in prima linea

    Riavvolgiamo il nastro: il Museo del Fumetto si lega a Consentia Itinera che, a sua volta, entra in rete con Abi.
    Un fatto quasi dovuto, spiega ancora Cipparrone: la Fondazione Giuliani partecipa da anni a iniziative prestigiose su scala nazionale.
    Il legame con Abi e il suo network è coerente con quest’idea di promozione culturale del territorio e per il territorio, fatta di stimoli in uscita e in entrata in perfetta simbiosi.
    E il fumetto? «Ormai non è solo letteratura di intrattenimento, ma è diventato un genere artistico a sé, molto versatile. Uno strumento potente e flessibile per il marketing territoriale».
    In questo caso, un’introduzione elegante e leggera alle altre iniziative del museo multimediale di Villa Rendano. Cosenza entra in rete e fa cultura grazie a un’iniziativa privata ma rivolta a tutti e istituzionalizzata da anni.
    Mica poco, di questi tempi.

  • La breve vita infelice di Rocco Carbone

    La breve vita infelice di Rocco Carbone

    Un uomo inquieto, contraddittorio, dal carattere ruvido, aspro, spigoloso, peculiarità tutt’altro che affabili che provavano a mettere in secondo piano, a nascondere in maniera impacciata, come un consunto separé, un animo sensibile, fragile, afflitto da una profonda infelicità, di quelle infelicità oscure, che non hanno una origine ben chiara, legate a un episodio distinto della vita, ma che accompagnano l’individuo fin dalla nascita, come un gravoso lascito generazionale, uno scotto da pagare per essere venuto al mondo.

    Lo scrittore Rocco Carbone è stato questo, anche e probabilmente. Sì, perché sarebbe poco riguardoso e molto presuntuoso dare una definizione ultima a una persona che sfuggiva anche ai suoi affetti più stretti. Così complicato, così indecifrabile da restare cristallizzato, per sempre, coi tratti dell’enigma, come una di quelle tele rinascimentali di cui non si riesce a decriptare ogni particolare.

    Rocco Carbone e la giovinezza a Cosoleto

    Rocco Carbone nacque a Reggio Calabria nel 1962 e trascorse la sua infanzia e adolescenza a Cosoleto, paesino alle pendici dell’Aspromonte, contornato da uliveti e affacciato sulla Piana di Gioia, fra quelli più colpiti dal flagello dell’emigrazione. Negli ultimi settant’anni Cosoleto ha perso quasi duemila abitanti, la popolazione attuale del comune non supera gli ottocento residenti.

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    Una strada di Cosoleto

    «Un posto – scrive Emanuele Trevi, scrittore e amico di Carbone, cui ha dedicato, parimenti a Pia Pera, il memoir Due vite, libro vincitore del Premio Strega nel 2021 – di gente dura, fiera, taciturna, incline a una rigorosa amarezza di veduta sulla vita e sulla morte».
    Tutti connotati propri dello scrittore calabrese, che portò con sé fino al termine dei suoi giorni, come la resistenza alle lunghe camminate, propensione vista al pari di un retaggio culturale e genetico assolutamente naturale in una terra come la Calabria, in buona parte tagliata fuori da una reale rete infrastrutturale.

    Gli studi e l’improvvisa morte

    Figlio di madre maestra elementare e di padre a lungo sindaco di Cosoleto, Rocco Carbone al principiare degli anni Ottanta si iscrisse a Lettere a Roma, vivendo nel Collegio dei frati silvestrini, in una cameretta spoglia affacciata su una distesa compatta di tetti fra cui spiccavano le cupole del Pantheon e della Chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza.
    È nella Città Eterna che visse per gran parte della sua vita e in cui incontrò la morte, che segnò la sua ora nella notte fra il 17 e il 18 luglio 2008.
    Rocco Carbone si spense improvvisamente, a 46 anni, in un incidente stradale a bordo della sua moto, su cui era fatalmente salito in quanto gli era stata rubata l’automobile qualche giorno prima. Da poco era ritornato dagli Stati Uniti d’America, dove aveva preso parte a una serie di seminari.

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    Roma, il monumento a Scanderbeg in piazza Albania

    L’incidente avvenne in zona Ostiense, dinanzi alla statua equestre di Giorgio Castriota Scanderbeg di piazza Albania, l’eroe albanese celebrato nella natia Calabria, su una strada deserta dell’estate romana, proprio come quelle descritte nel suo romanzo Agosto, opera prima edita, dopo una contenuta, ma insopportabile per l’autore, tribolazione editoriale, nel 1993 da Theoria e adesso ripubblicata da Rubbettino.

    La ripubblicazione dell’opera di Rocco Carbone

    La casa editrice con sede a Soveria Mannelli ha infatti intrapreso il progetto di rimettere in circolazione le opere di Rocco Carbone, di dar loro nuovi lettori; disegno principiato dalla ripubblicazione de L’assedio, in cui nella misteriosa città di R. – il classico mondo non determinato, generico e universale dei romanzi dello scrittore nato a Reggio – il cielo diventa di colpo giallognolo e comincia a liberare una fitta pioggia di sabbia che lascia perplessi i suoi abitanti; un romanzo distopico ma coi piedi saldi sulla realtà e che parla a noi uomini contemporanei. Il prossimo testo in cantiere è Il comando, edito la prima volta nel 1996 per i tipi di Feltrinelli.

    I primi scritti

    Ultimata la prima fase di studi con una tesi di laurea incentrata sull’analisi semiologica, del mito e del romanzo, nell’86 Carbone riuscì a dare alle stampe la sua prima pubblicazione: Mito/romanzo. Semiotica del mito e narratologia. Dopodiché proseguì i suoi studi di semiotica dei testi letterari, ovverosia delle leggi che orientano il romanzo, con un dottorato a Parigi concluso con una tesi sullo scrittore e letterato Alberto Savinio (al secolo Andrea de Chirico, fratello minore del pittore Giorgio de Chirico).

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    L’ingresso del carcere di Rebibbia

    Rocco Carbone si avvicinò alla letteratura con dei versi presentati sulla insigne rivista Nuovi Argomenti. Oltre che su Nuovi Argomenti, scrisse per quotidiani come Repubblica, L’Unità e Il Messaggero. Negli anni pubblicò numerosi saggi fin quando, dal 1998, prese la decisione di insegnare al carcere di Rebibbia. Una esperienza intensa che si riverberò nella sua opera, un mondo letterario già caratterizzato dagli echi di maestri quali Jack London, Yasunari Kawabata (Nobel per la Letteratura nel 1968) e Patrick Leigh Fermor, ma anche Alberto Moravia, Carlo Emilio Gadda e Romano Bilenchi, autentici numi tutelari di Carbone.

    La scrittura rigida di Rocco Carbone

    Dai lavori di Carbone emerge una scrittura controllata, scrupolosa, testarda, uniforme e per nulla emotiva, da cui non traspare alcuna emozione; una scrittura lungi da eccessi e dall’adottare artifizi, anche mentre affronta i temi più angosciosi; fulminea e atemporale, quella del calabrese è una scrittura che valica le barriere del tempo, obiettivi che spesso non vengono neppure lontanamente presi in considerazione da tanta narrativa contemporanea.

    Non rincorreva le mode Carbone; la sua prosa scarna, disadorna, tutt’altro che ampollosa e straboccante di lemmi, percorreva altre strade rispetto a quelle in voga al tempo dei suoi titoli d’esordio. E questo certosino lavoro di sottrazione ed epurazione dei suoi scritti, fece di Rocco Carbone uno scrittore pienamente novecentesco anziché esponente della letteratura del secolo seguente, entro cui pubblicò gli ultimi suoi libri: L’apparizione (2002) e Libera i miei nemici (2005). Usciranno poi postumi Per il tuo bene – testo cui stava lavorando al momento del tragico incidente – e Il padre americano.

    La sua era «una lingua totalmente scritta», afferma Emanuele Trevi in Due vite, lettura essenziale per cercare di penetrare nell’animo enigmatico di Rocco Carbone, per metterne a fuoco alcuni aspetti. All’inizio della loro amicizia durata per un quarto di secolo, Trevi e Carbone frequentavano i circoli letterari romani, trascorrevano le serate per le vie della Capitale, presi a districarsi nella sua «ostentata e finta frivolezza» in cerca di avventure, di storie, di spunti che stimolassero la loro arte.

    Un’altra amicizia duratura fu quella con Edoardo Albinati, saggista, scrittore e redattore di Nuovi Argomenti al tempo della conoscenza con Carbone. L’autore de La scuola cattolica – libro vincitore dello Strega nel 2016 – sostiene che «Carbone era uno scrittore antiretorico», un artista della parola capace di portare il lettore nel discorso, nel cuore della storia raccontata, non di allontanarlo da essa innalzando una barriera.

    Il male di vivere di Rocco Carbone

    La scrittura di Rocco Carbone era senza dubbio indirizzata dalle sue inquietudini, dai suoi arcani demoni; le sue «furie», come le chiama Trevi.
    Carbone riservava soltanto alle persone più vicine il suo lato più socievole, mostrava loro il piacere di stare in compagnia, segnale di un uomo desideroso di quella serenità che potesse attenuare la sua irreversibile cupezza, il suo carattere introverso che non veniva affatto mitigato dal successo contenuto dei suoi libri – perlomeno non conforme alle elevate ambizioni dell’autore.

    «Nella storia mondiale della letteratura – scrive sempre Trevi che, nelle pagine del citato Due vite, marca invece la parziale infondatezza dello scontento editoriale dell’amico –, è difficile immaginare qualcuno che abbia preso ogni aspetto del lavoro di traverso come Rocco, dalle copertine alle vendite, dalla qualità delle recensioni ai rapporti con gli editori». Lui riusciva a essere critico verso i suoi lavori fino all’eccesso, ma non poteva soffrire che essi non venissero riconosciuti dai lettori e dalla stampa.

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    Trevi si aggiudica lo Strega 2021 col suo libro su Rocco Carbone

    Rocco Carbone e le donne

    Un altro ingrediente che gli risultò tossico fu la passione per le donne, che Carbone amava con tutto se stesso. Cciò lo conduceva nelle spire buie di quella primordiale possessività tanto tipica negli uomini del Sud. Contrasse matrimonio relativamente giovane con Samantha Traxler, col trascorrere delle stagioni spesso lo colsero violenti febbroni da innamoramento, ma in generale le sue relazioni non godettero mai di quella serenità che ci si augura possa portare con sé un amore.

    L’irrequietezza sentimentale finiva per corrompere ogni altro aspetto delle sue giornate, già irrimediabilmente segnate da quell’infelicità cronica, quella «orrenda e inutile succhiasangue» che ne prosciugava l’esistenza. A Rocco Carbone diagnosticarono una personalità bipolare, la capacità non sana di passare con disinvoltura da una incontenibile felicità a una acuta mestizia e che appesantiva il suo male interiore, il suo profondo imbarazzo di vivere.

    In pace sotto un ulivo

    Un’esistenza artistica e tragica, breve e infelice, diversamente dal Francis Macomber dei racconti di Hemingway, che trovava requie soltanto nell’appartamento spartano di via Lorenzo Valla in cui viveva, a Monteverde Vecchio, quartiere romano di suggestive viuzze e scalinate e villini d’ispirazione liberty sul lato occidentale del colle del Gianicolo.
    Anche il lavoro nel carcere di Rebibbia forse ne rasserenò lo spirito, rese più sostenibile quell’attesa di qualcosa che ne coronasse il lavoro letterario, tutti gli sforzi di una vita, ché, citando Cesare Pavese, «aspettare è ancora un’occupazione», ma è quando non si attende più nulla «che è terribile».

    Quel riconoscimento, però, non arriverà mai. L’attesa rimase insoddisfatta sino all’ultima notte, a quello scontro fatale che archiviò come insoluto il rebus Carbone, “condannando” noi lettori a perdere per sempre la trebisonda fra le pagine della sua opera.
    Sul luogo dell’incidente oggi sorge un ulivo, pianta endemica della terra natale dello scrittore, simbolo di speranza, pace, forza, amicizia e unione. Ai piedi dell’albero, in grado di resistere alle intemperie, tenace e cocciuto proprio come Rocco Carbone, si incontrano con regolarità le persone che gli hanno voluto bene.

  • Il sub e il Filosofo: gloria e oblio di Peppino Mavilla

    Il sub e il Filosofo: gloria e oblio di Peppino Mavilla

    “Reperto numero 8, membro virile in bronzo”. L’altra settimana è scomparso a Reggio Calabria Giuseppe “Peppino” Mavilla, personaggio popolarissimo in città: pioniere dello sci a Gambarie, skipper e sub: noto per aver consegnato alla Soprintendenza “La testa del filosofo”, un reperto che compete in bellezza con i Bronzi, come loro esposto al pianterreno del Museo firmato dall’architetto Marcello Piacentini.

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    La testa del filosofo

    La notizia è stata liquidata con due colonnine in cronaca, senza nemmeno una foto: che io abbia letto, solo il professor Pasquale Amato – che non a caso è uno storico – ha ricordato Mavilla. Che aveva 83 anni, una salute malferma («troppe immersioni, ma quanto mi sono divertito!») e una mente lucidissima: viveva con la moglie In un grande condominio di Gallico, non troppo vicino al suo mare.

    Un reggino ammalato di dietrologia (categoria molto diffusa) potrebbe dire che Mavilla se n’è andato portandosi dietro qualche segreto. Per quanto abbia potuto constatare io – nel corso del lavoro preparatorio per il film “Semidei” insieme a Massimo Razzi – se n’è andato piuttosto arrabbiato.

    E allora bisogna tornare a quegli anni, certo movimentati: “La Testa del Filosofo” viene recuperata nell’ottobre 1969, la scoperta del Bronzi è del 16 agosto del 1972. In tutta Italia si susseguono scoperte e predazioni. Forse migliori attrezzature sub, un mercato miliardario sull’asse Svizzera-Stati Uniti, una certa tolleranza delle autorità costituite, la pervasiva presenza delle mafie. In più, ed è incredibile rileggere certi pezzi, una mitizzazione di personaggi ambigui: come i “tombaroli”, per esempio. Poi, per fortuna, arrivano leggi più stringenti e maggiori controlli sul territorio.

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    Quel che resta dell’antica Sybaris

    Il tesoro che non sappiamo di avere

    Basta scorrere con il dito una mappa della Jonica calabra, da Sibari all’antica Rhegion, per poi risalire verso Rosarno e Vibo, per immaginare quanti tesori abbiano lasciato a terra e sotto il mare i nostri antenati greci, i fondatori, e le navi romane che andavano sotto costa in Calabria, prima o dopo la traversata. Una fissazione di funzionari come Alessandra Ghelli, responsabile dell’archeologia subacquea a Reggio e Vibo, che dovrebbe essere anche la nostra.

    Ma oltre cinquant’anni fa come oggi, la frase “non ci sono soldi” ferma o rallenta ricerche che potrebbero portare a nuove, clamorose scoperte. Come fu quella del relitto di Porticello, firmata dal sub 29enne Peppino Mavilla: che consegnò alcuni giorni dopo i reperti al dottor Giuseppe Foti. Il Soprintendente, un uomo fortunato: tre anni dopo controfirmò anche la denuncia del sub romano Stefano Mariottini («due statue in bronzo nella sabbia a 7-8 metri di profondità, in località Porto Forticchio, Riace Marina»).

    Per quel recupero, Mavilla ebbe un premio di 52 milioni di lire, Mariottini prese più del doppio per i Bronzi: sappiamo oggi che si tratta di opere di valore inestimabile, vanto e magnete della città e del Museo. Mavilla continuò poi a girare per il Mediterraneo con il suo yacht per crociere e immersioni. Collaborò con ricerche archeologiche per poi finire negli States. Mariottini è rimasto testimonial della Soprintendenza e ha proseguito negli anni il suo impegno in ricerca e difesa dei Beni Culturali.

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    I Bronzi di Riace esposti al Museo archeologico di Reggio Calabria

    Una denuncia che non arriva subito

    Mavilla non registra subito la scoperta del relitto di Porticello. A leggere i documenti, qualche contraddizione sulle date resta. È un sub esperto e irruente, ride spesso della sua incoscienza. «Una volta mi diedero per scomparso, ma ero stato solo risucchiato dalla corrente durante la decompressione verso il centro dello Stretto, dentro i gorghi cantati da Omero».

    Racconta nel libro “L’immensa onda” la sua pesca in un’area funestata dalle bombe dei cacciatori di frodo: «Vidi due cernie partire dentro una piccola caverna e scattai in avanti con lampada e arpione, quando notai che stavo passando sopra uno strano biancore di scogli. Ma non erano pietre, avevano dei manici, erano delle anfore! Mi sollevai di qualche metro, le anfore erano tante, e quello era un relitto, il relitto di Porticello. Da quel momento non fui più padrone della mia vita».

    Ancorata fra Villa e Scilla, la nave greca era andata a picco intorno al 400 a.C. per una tempesta. Mavilla continua le sue ricerche, affitta un piccolo deposito, teme quello che lui chiama i “bombaroli”, pescatori e predatori che lo hanno visto all’opera.

    A 38 metri trova una statua di Poseidone «fiero e sorridente», è a rischio embolia e risale, spera di poterla recuperare il giorno dopo, ma il giorno dopo la statua non c’è più!

    «Al tramonto, dopo due ore di attesa sulla riva, la lancetta del decompressimetro mi indicò un certo spazio di sicurezza, e tornai giù con rabbia. Scavai come un forsennato nella parte dove affioravano pezzi di statua, e poi finalmente la testa, che mi sembrò molto pesante».

    L’Enciclopedia Treccani Arte definisce così Il Filosofo: «Le sembianze sono genericamente quelle di un sapiente e intellettuale (Ardovino), richiamando i ritratti di Sofocle (Freí) o suggerendo, sulla base di un’interessante lettura stilistica, il possibile ritratto «di ricostruzione» del poeta Esiodo».

    Mavilla porta a casa tutto, la madre comincia a pulire la testa da una massa di fango, e li viene fuori il membro. Risate miste a una certa paura. Il padre a quel punto gli ordina di portare tutto al Museo, ma Mavilla disobbedisce: la mattina dopo torna a Porticello, recupera altri pezzi, compreso il piede del Filosofo. Tutti i reperti arrivano infine sul tavolo del Soprintendente, come da denuncia che pubblichiamo (foto in basso).

    Ma nel frattempo, il relitto non viene presidiato, e questo è il grande rimpianto di Mavilla. Mani ignote portano via di tutto, compresa un’altra Testa, che riappare vent’anni dopo nel Museo di Basilea e viene poi recuperata dal Ministero italiano nel 1993: per la prima volta la Svizzera restituisce un’opera d’arte. Anche lui barbuto e in bronzo, è stato a lungo chiamato con il nome della città svizzera, ora ha preso il nome di Testa di Porticello (per cancellare lo scandalo) ed ha avuto il privilegio di essere esposto anche altrove. Chi lo recuperò? Mavilla ha sempre attaccato la superficialità di forze dell’ordine e Soprintendenza che non difesero il relitto dai predoni. Ha fatto nomi e cognomi. Una parte della città gli ha restituito il pettegolezzo: si è fatto ricco con il relitto.

    Dove sono finiti gli altri reperti?

    E qui arriviamo alla sua rabbia. «A un certo punto me ne sono andato a New York per fare i lavori più umili». In tribunale ha sempre avuto ragione lui. Tornato a casa e riconciliatosi mentalmente con la città, ha ripetutamente chiesto al Museo dove fossero finiti gli altri reperti recuperati insieme alla Testa, prima di tutto il membro, presentando denuncia ai carabinieri. Una gentile funzionaria ha risposto con grande ritardo dicendo più o meno «è tutto a Piazza De Nava, tutto sotto controllo». Mavilla chiedeva che il Museo ricordasse che quel meraviglioso volto era stato da lui ritrovato e donato a Reggio. Voleva il suo nome da qualche parte, e tutto sommato aveva ragione.

    Non a caso, sul biglietto da visita, aveva scritto: “Giuseppe Mavilla, Scopritore della “Testa del Filosofo”. Chissà se ora Reggio lo salverà dall’oblio, piccolo pezzo della grande storia della città.

  • Un weekend da fanzine a Cosenza

    Un weekend da fanzine a Cosenza

    Sabato 7 e domenica 8 ottobre prossimi, presso gli spazi di Gaia, la galleria d’arte autogestita nel cuore del centro storico di Cosenza, si terrà il primo festival delle fanzine della storia della città.
    Più di 40 espositrici ed espositori provenienti da tutta Italia. Auto-produzioni, webzine, archivi digitali in mostra per due giorni, il tutto condito da talk tematici, momenti di socialità e dj set serali.
    Un’occasione unica per approcciare un mondo sotterraneo, ma che non intende nascondersi, un mondo vivo e creativo in grado di mettere in discussione i canali produttivi mainstream e ufficiali.
    Il festival è frutto di un’idea del collettivo informale “Zinèe”, ben intenzionata a diffondere sul territorio regionale (e non solo) la cultura dell’auto-produzione.
    Ma che cos’è una fanzine?
    La sua storia pare abbia inizio negli anni ’40 e non è altro che una pubblicazione indipendente prodotta e divulgata dallo stesso autore per diffondere la propria arte, per condividere un’idea o per sollecitare una dissertazione. La fanzine è un mezzo completamente libero perché consente l’autoproduzione dei propri progetti artistici e dei propri esperimenti creativi senza dover passare dai canali dell’editoria ufficiale.
    Scrive il collettivo, presentando l’iniziativa: «forse, il nostro desiderio di produrre creatività su carta stampata può apparire in controtendenza in questo momento storico, dal momento che immagini, testi e musica, ora, viaggiano a milioni sotto forma virtuale, ma è proprio per questo che sentiamo il bisogno di realizzare qualcosa di concreto e che possa essere toccato e condiviso».
    Un sodalizio tra due collettivi, Zinèe e Gaia, che, di certo, saprà sorprendere.
    L’ingresso sarà gratuito e la mostra sarà visitabile sabato dalle 16 alle 23 e domenica dalle 10 alle 18.
    Gaia si trova al numero 22 di via Galeazzo di Tarsia, tra il ponte dei Pignatari e piazza Piccola, lungo corso Telesio.

  • Capitano, mio capitano

    Capitano, mio capitano

    Matteo Garrone con il suo Io Capitano, dopo la Mostra Internazionale del Cinema di Venezia è arrivato anche a Cosenza per la decima edizione del Festival della Primavera del Cinema Italiano. Durante la proiezione della pellicola è giunta la notizia che il film avrebbe rappresentato l’Italia nella corsa agli Oscar. Magari, dopo il Nastro d’argento per la miglior regia, il Premio Mastroianni come miglior attore al giovane Seydou Sarr e il Green Drop Award, Garrone riuscirà a portare a casa la quindicesima statuetta del cinema italiano, assegnata l’ultima volta, nel 2014, a Paolo Sorrentino per La Grande Bellezza.

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    Il regista Matteo Garrone sul palco della “Primavera del cinema italiano” a Cosenza (foto Alfonso Bombini 2023)

    Il viaggio

    Il tema, privo di quegli elementi di retorica paternalistica difficili da digerire, è quello dei migranti, il viaggio di milioni di persone verso la speranza di una vita nuova; verso quel sogno europeo che tanto ricorda il grande sogno americano inseguito da milioni di persone del vecchio continente. Come allora, spesso, il mare si trasforma in luogo di morte, oppure i sogni si infrangono davanti alle coste italiane, proprio quando, sembra di poter toccare Lampedusa solo stendendo il braccio, proprio come succedeva a Ellis Island, quando molte delle persone sbarcate venivano rimandate indietro.
    Seydou e Moussa sono cugini, vogliono raggiungere l’Europa partendo dal Senegal. Non fuggono dalla guerra e neanche dalla fame, vogliono solo partire, magari per fare successo e chi lo sa, un giorno firmare «autografi ai bianchi». L’Europa, per chi scappa dalla povertà, a causa del trattato di Schengen, operativo dagli anni novanta, è diventato un posto difficile da raggiungere, ce lo ricordano i continui naufragi e quello di Cutro è una ferita ancora aperta.

    L’odissea di Seydou

    Garrone racconta il viaggio dal punto di vista di chi parte, di chi non è un numero, ma ha un nome, una famiglia, un villaggio, un’identità.
    Per raccontare i drammi dei migranti dovrebbero essere usati più nomi, più storie personali e meno numeri, questi ultimi non definiscono mai individui, ed è proprio questo a fare la differenza tra ciò che consideriamo emergenza politica e quella che in realtà dovrebbe essere trattata sempre e solo come emergenza umanitaria.
    Seydou, il protagonista, è un ragazzo di sedici anni, uno come tanti che sogna la libertà di poter viaggiare; Garrone ha costruito il suo personaggio raccogliendo più storie, racconti di viaggi atroci in cui, ogni essere umano, diventa solo merce di scambio monetario e corpi sui quali accanirsi.

    Seydou è un ragazzo ingenuo che, nel corso del viaggio, diventerà un uomo capace di conservare il suo lato umano nonostante la bestialità e la crudeltà degli altri uomini. Anche questo significa salvarsi, indipendentemente dal riuscire a raggiungere le coste europee. Il film di Garrone è un racconto a lieto fine, per questo ricorda la struttura della favola. Fiaba per la sua modalità di racconto in cui compaiono figure antropomorfe che accompagnano voli onirici per un ritorno alle proprie radici, al mito che ha sempre a che fare con quella lotta fra la vita e la morte, agli archetipi della propria cultura, inseparabili dal proprio inconscio.

    Quasi un racconto-apologo che nelle sue allegorie persegue il fine pedagogico, quello di insegnare che il mondo è un posto pericoloso anche quando la comunicazione digitale racconta altro, una mistificazione che può trasformarsi in una trappola mortale. Lo stregone del villaggio e gli spiriti da interrogare prima di partire, fanno parte di quel mondo legato a una ritualità e ad un folklore di un universo non ancora contaminato totalmente dalle strutture del capitalismo, ma che, inevitabilmente, di questo subisce le conseguenze a causa di una marginalizzazione dovuta spesso ad uno sfruttamento economico indiscriminato.

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    “La passeggiata” di Marc Chagall

     

    Chagall nel deserto

    La dimensione onirica di alcune scene sottolinea il rapporto con la fiaba, con il mondo sovrannaturale e con la sfera delle emozioni. Nel deserto, accanto ai tanti corpi senza vita, Seydou sogna di prendere per mano una donna ormai in fin di vita, stremata dalla fatica e di farla volare, sostituendo così la gioia e l’amore ad una forza di gravità che attira i corpi verso una terra che troppe volte si rivela matrigna. Un’immagine che ricorda La passeggiata di Marc Chagall, il dipinto in cui due personaggi si tengono per mano, mentre la donna è libera di volare, in un contesto felice e luminoso.

    Di certo a Garrone non è sconosciuta la poetica del Fauvismo, il movimento pittorico nato in Francia agli inizi del ‘900, che esprimeva la sua poetica attraverso forme semplici e colori puri e vividi. Scene come pennellate pittoriche, colori che esprimono la forza dei corpi e delle emozioni e sogni che si aprono verso un mondo libero e immaginifico.

    Il film girato in lingua wolof, parlata in Senegal, diventa un linguaggio universale, perché l’umanità per essere raccontata non ha bisogno di traduzioni. La scelta di Garrone, di sottotitolare e di non doppiare, si rivela vincente per raccontare il punto di vista di una cultura che, solitamente, è interpretata secondo riferimenti culturali occidentali, disperdendo così l’essenza di una realtà che andrebbe raccontata con i propri codici linguistici e identitari.

    Una pellicola politica

    Garrone, nelle varie interviste e nel suo intervento al cinema Citrigno, afferma che Io Capitano non è un film politico, ma solo un racconto, una storia che lui ha voluto narrare. Dal mio punto di vista, invece, il film è politico nella misura in cui tratta un tema complesso a cui la politica internazionale non riesce a dare risposte dignitose. Il suo essere politico è nella percezione che ne deriva dello stesso fenomeno, nella sua capacità di far scaturire un’ideologia in grado di parlare e determinarsi.

    Per Hegel il motivo dell’arte è la coscienza dei bisogni, se questo è vero, e il film di Garrone può essere considerato sicuramente arte, le urgenze individuate nel suo racconto non possono che essere inserite in una dimensione storica che, collegata inevitabilmente alla storia del passato, cerca, per non rimanere nell’astrattezza, di risolvere ciò che per il momento rimane ancora irrisolto, investendo per questo sempre la sfera della percezione. Oltretutto è lo stesso Garrone a parlare di opera epica e questa è da intendere sempre come portatrice di necessità fortemente politiche. Alla base di un’opera epica c’è sempre un conflitto politico che, indubbiamente, si riversa anche in un tormento e in un processo di crescita interiore, ma che attraverso dei racconti di piccoli e grandi eroi, prendono corpo le avventure dei tanti Seydou, Moussa e di quanti attraversano il tempo della metastoria.

  • Moltitudine, ecco la città che (in)sorge dal centro storico

    Moltitudine, ecco la città che (in)sorge dal centro storico

    La Moltitudine esiste e nei giorni scorsi ha scelto come luogo di raduno il Centro storico di Cosenza. Giovani e vecchi, studenti e professori, bambini e famiglie, ultras e volontari, hanno dato vita alla terza edizione della Summer school dell’Unical che si è svolta tra le antiche pietre della città. La scelta è ovviamente assai più che simbolica, esprime per intero una idea differente di abitare gli spazi urbani, un progetto che “insorge” direttamente dal basso, essendo la politica istituzionale rimasta a guardare e forse nemmeno a fare quello. Ne è uscita una foto senza ritocchi, in cui la bellezza che resta fa i conti con la minaccia sempre più reale del degrado.

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    Alunni del quartiere storico Spirito Santo

    Il centro storico dunque è stato scelto come luogo d’incontro tra la città e l’Università, che come avvisa Mariafrancesca D’Agostino, sociologa dell’Unical «rischia un atteggiamento autoreferenziale, mentre deve riscoprire il suo ruolo di promozione di saperi critici, diffusi e condivisi». Abitare il centro storico, riempirlo di contenuti, parole, dibattiti e progetti «rappresenta uno sforzo per battere una visione rassegnata, che non sembra immaginare salvezza per la città vecchia», spiega cui guardare la sociologa. In realtà la prospettiva da cui guardare deve essere assai più ampia, perché il destino della parte antica della città, non può essere separata da quella della città intera e perfino dell’area urbana, «perché pensare all’uso degli spazi urbani, alla loro fruizione, alla loro valorizzazione attraverso la presenza reale delle persone, vuol dire immaginare uno sviluppo sostenibile in grado di dare futuro alla città».

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    La sociologa dell’Unical, Mariafrancesca D’Agostino (a sinistra)

    Il Comune grande assente

    Alla costruzione di questa esperienza fatta di confronto politico e allegria c’è stato un grande assente: il Comune di Cosenza. «Prima della vittoria del centro sinistra – dice la D’Agostino – al comune avevamo una giunta che pensava in termini di grandi opere, una visione che era incompatibile con la nostra idea di sviluppo», L’arrivo di Franz Caruso a Palazzo dei Bruzi poteva cambiare le cose e invece no. Uno dei motivi della mancata interlocuzione è lo scontro che mesi fa si è consumato tra Massimo Ciglio, preside dell’Istituto comprensivo dello Spirito Santo, che dell’esperienza della Summer school è stato protagonista e lo stesso sindaco. Lo scontro riguardò l’uso dello slargo su via Roma, chiuso da Occhiuto al traffico e poi riaperto alle macchine da Caruso. In quella occasione il preside manifestò contro la decisione dell’attuale sindaco e da questi fu denunciato. «Date queste premesse – racconta la sociologa dell’Unical – era difficile immaginare una interlocuzione con l’amministrazione che aveva criminalizzato uno dei protagonisti dell’esperienza della Summer school».

    Un altro momento della Summer school

    Contro la marginalizzazione

    In realtà il mancato confronto potrebbe avere ragioni più profonde, visto che è Stefano Catanzariti a spiegare come sembri che a «Palazzo dei Bruzi manchi qualunque forma di visione riguardo il centro storico e la città intera»
    Il centro storico, da questo punto di vista appare come lo specchio del resto della città, «perché il suo abbandono è il segno più evidente di una assenza di idee da parte di governa Cosenza».

    Un vuoto di idee che pesa, per esempio, ancora sui famosi 90 milioni, per i quali, ricorda ancora Catanzariti, all’inizio era partita una forma di interlocuzione con le realtà del territorio riguardo al loro uso mentre adesso manca ogni forma di progetto partecipato e condiviso. Separare il destino delle antiche pietre, dei palazzi storici, da quello delle persone, crea processi di gentrificazione, ma prima ancora di spopolamento, marginalizzazione, degrado sociale e urbano, «mentre dovremmo avviare percorsi politici per creare le condizioni per restare, dare motivi alle nuove generazioni per non andare via dal centro storico e più in generale dalla città, arginare con buone pratiche lo spopolamento». Oggi per la politica istituzionale il progetto più urgente e attuale sembra quello di dare vita all’idea della grande città dell’area urbana senza tenere conto del rischio che questa super città nasca vuota.

  • Saverio Mattei, il filosofo della musica che rivoluzionò il Regno di Napoli

    Saverio Mattei, il filosofo della musica che rivoluzionò il Regno di Napoli

    Nel tentativo di realizzare una carrellata estiva di figure della musica calabrese che mi sembrano particolarmente significative e che ancora non tutti conoscono, mi viene in mente l’iniziativa di un noto quotidiano locale, che nel 2008 accolse l’idea magnifica di Franco Dionesalviindimenticato poeta e innovatore delle politiche culturali calabresi – di invitare cultori, specialisti e appassionati a scrivere con intento divulgativo, una Storia dei Musicisti calabresi. Ne venne fuori un volumetto intensissimo di informazioni. Non c’erano solo Mia Martini o Rino Gaetano, la cui popolarità aveva già raggiunto confini planetari, ma nomi poco noti o addirittura ignorati dal pubblico, persino quello locale.

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    Franco Dionesalvi

    I lavori di specialisti, musicologi e storici, che pure esistevano, erano ancora noti solo al livello accademico degli studi. L’idea di Dionesalvi, così, restituì una più vasta popolarità a musicisti come Stanislao e Giuseppe Giacomantonio, Emilio Capizzano, Maurizio Quintieri, Alessandro e Achille Longo, Paolo Serrao. E, ancora, ai più lontani Giandomenico Martoretta, Leonardo Leo, Michelangelo Jerace, Leonardo Vinci, Giacomo Francesco Milano. Era un elenco senz’altro incompleto: mancavano Giorgio Miceli e un adeguato approfondimento del lavoro di Armando Muti o Osvaldo Minervini e altri ancora). In quegli anni era, però, uno sforzo atteso dai lettori. Che infatti lo apprezzarono assai.

    Saverio Mattei e la Filosofia della Musica

    Tra tanti musicisti riuscimmo a inserire un intellettuale del ‘700 che alla Musica tanto diede di cuore, di mente e di non infeconda attività. Un personaggio singolarissimo, che coi suoi natali calabresi onorò anche il nostro mondo della musica (in un modo singolare anch’esso), fu Saverio Mattei, andreolese, nato a Montepaone nel 1742 e morto a Napoli nel 1795. Quella del 1742 pare essere oggi la data di nascita più accreditata, ma per lungo tempo si è pensato al 1741. Gli studi continueranno senz’altro, anche rispetto all’attribuzione della residenza.

    Quest’ultima è, per così dire, un fitto mistero. Esistono i ruderi di una villa di campagna, abbastanza nascosta, sulla strada verso S. Andrea Ionio, che molti abitanti attribuivano ai Mattei, e che dovrebbe essere stata la sua abitazione in Calabria. Vedremo dove ci condurranno le ricerche.
    Saverio Mattei fu un intellettuale ed erudito, giurista, ebraista, grecista e filologo, consigliere di Ferdinando IV di Borbone. Fu il primo calabrese ad occuparsi in modo sistematico di Filosofia della musica – ma il primato si potrebbe estendere a tutto il Regno di Napoli -, avendo pubblicato proprio una Filosofia della Musica e altri scritti dedicati all’estetica e alla critica musicale. Naturalmente, tutto (o quasi) nella capitale.

    Leggende e repliche sospese

    Giovanissimo, si spostò – dopo il matrimonio con Giulia Capece dei Baroni di Chiaravalle – vivendo un frenetico viavai tra Napoli e S. Andrea Ionio, almeno fino a che i suoi studi e le traduzioni dei Salmi (I libri poetici della Bibbia tradotti dall’ebraico originale) non convinsero i due letterati Galiani e Tanucci a offrirgli una cattedra a Napoli, intorno al 1768. Poi venne chiamato a corte come Consigliere. E, forse, è lì che potremmo far sorgere la leggenda del Saverio Mattei paludato, pomposo, affettato al limite del comico, sempre dedito allo studio, con la testa fra i libri, con una risposta per ogni domanda e in continua lite con la moglie (la prima, in verità: la seconda, Orsola, arrivò nel 1784).

    Duetti Sacri Sopra i Salmi Tradotti in poesia Dall’Avvoc[ato] Il Sig.r D. Saverio Maei […]: Frontespizio (Napoli, Biblioteca del Conservatorio “San Pietro a Majella”)
    Così lo dipinge il Socrate immaginario, commedia per musica in tre atti, un’opera rispetto alla quale si tramanda l’idea che il personaggio principale fosse ispirato a Saverio Mattei. Un Socrate, in fondo, già presente nelle Nuvole aristofanee, ma molto simile all’erudito le cui abitudini erano note al librettista (Lorenzi, con il contributo di Galiani) e al compositore (Paisiello) che erano suoi amici. D’altra parte accadde che le recite dell’opera, rappresentata nel 1775, fossero sospese improvvisamente.

    Scene da un matrimonio

    Il pubblico attribuì la decisione al fatto che le stravaganze del protagonista e le sue baruffe con la consorte fossero troppo simili a quelle di casa Mattei per poterlo considerare estraneo: si disse che l’opera faceva il verso nientemeno che al consigliere del sovrano e che dunque quest’ultimo aveva pensato, in un primo tempo, di vietarne le repliche in segno di disappunto. In realtà l’opera fu poi rappresentata anche nel Teatro del Palazzo Reale il 23 ottobre dello stesso anno.
    Il colore farsesco e buffo della musica, ma anche la modernità comica e brillante della vicenda furono restituite dalla sapientissima revisione della partitura operata da Roberto de Simone per il teatro San Carlo nel 2005.

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    Musicisti suo palco del Teatro San Carlo di Napoli

    Saverio Mattei e gli epistolari con Metastasio

    Ma il legame di Saverio Mattei con la musica è davvero stretto se si considera che a musicare le sue traduzioni dei Salmi furono Piccinni, Jommelli, Hasse (un tedesco napoletano), lo stesso Paisiello. Insomma, tutti i più noti compositori della grande Scuola partenopea del secondo Settecento.
    Per non contare gli epistolari con Metastasio, specialmente quelli sul rapporto tra poesia e musica che cambiano in modo radicale l’approccio critico con il tema dell’aderenza dell’una all’altra nell’azione scenica cantata. E poi l’Elogio del Jommelli in cui le sue tesi sul nuovo Teatro per musica si scontrano con la più nota e decisiva riforma di Christoph Willibald Gluck. Tutto riportato da una ristampa anastatica dell’edizione Forni che resta un riferimento fondamentale assieme ad un volume di Renato Ricco e Milena Montanile del 2016 dall’evocativo titolo Saverio Mattei, tradizione e invenzione, (quest’ultimo è la raccolta degli atti di un convegno tenuto a Salerno nel 2014).

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    Pietro Metastasio

    Prima curatrice in Italia del volumetto intitolato Filosofia della Musica fu la stessa Montanile nel 2008, per Editoriale Programma di Padova, da lì gli studi su Saverio Mattei musicologo, critico e addirittura musicista si sono intensificati in modo esponenziale, chiarendo alcuni dubbi e lasciandone intatti altri come, per esempio, le effettive competenze strumentali possedute dal Nostro.
    Sbirciando tra le lettere vediamo che per una pervicace convinzione si accostava con curiosità agli strumenti “greci” come l’arpa e il flauto, cioè la cetra e l’aulòs, tralasciando quelli moderni

    Il musicista come legislatore dell’arte

    E sempre dalla corrispondenza (con padre Martini, lo stesso Metastasio e altri eruditi dell’epoca) pare che le sue conoscenze in materia di contrappunto e tecnica strumentale non fossero profondissime (era un giurista, in realtà, il resto era passione e curiosità). E tuttavia sembrano sufficienti a comprendere le idee estetiche e le trame del teatro napoletano, il rapporto tra musica e verso, tra cantanti, librettisti, impresari e musicisti tanto da difendere uno di loro (il Maestro Cordelli) con totale devozione nella Probole Se i maestri di cappella son compresi fra gli artigiani. Una specie di arringa in cui difende l’arte della concertazione e della composizione come arte liberale e, implicitamente, pone la figura del musicista come legislatore dell’arte.

    Le sue intuizioni musicologiche ed estetiche, organizzative e didattiche erano, per l’epoca, straordinarie. La riforma dei Conservatori napoletani, cui collaborò attivamente meriterebbe una trattazione a parte. E profondissimo fu il suo legame diretto – ma anche implicito – con la Biblioteca del Conservatorio S. Pietro a Majella che deve a Saverio Mattei la propria esistenza ed è, giocoforza, a lui intitolata. Una storia complessa fatta di lungimiranza e caparbietà che mette oggi a disposizione degli studiosi partiture e parti delle opere del Settecento di tutta la scuola napoletana. Dagli autori più noti ai minori. Un presidio di cultura musicale riconosciuto immediatamente anche dai musicisti francesi che inviarono copisti diversi per apprendere l’arte del contrappunto napoletano.

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    La biblioteca del conservatorio S. Pietro a Majella intitolata a Saverio Mattei

    Nell’epoca in cui Diderot e gli enciclopedisti fissavano l’attenzione sulla critica musicale, Saverio Mattei, con le sue riflessioni e intuizioni estetiche talvolta ingenue, talaltra abbaglianti, fissava nel Regno di Napoli i termini di una Critica del teatro musicale emergente che avrebbe avuto ricadute cruciali anche sulla stampa dei decenni successivi.

    Viviana Andreotti

  • Meridionali? Inferiori nati. Torna un vecchio pregiudizio

    Meridionali? Inferiori nati. Torna un vecchio pregiudizio

    Inferiorità meridionale? Alcune tesi non scompaiono mai del tutto. Tra queste, l’idea secondo la quale il ritardo del Mezzogiorno non dipenda solo da cause oggettive, economiche o politiche, ma sia, in ultima analisi, da ricercare nei meridionali stessi.
    Con l’Unità d’Italia, in molti scritti e discorsi, la diversità tra Nord e Sud venne rappresentata come contrapposizione tra civiltà e barbarie, tra Italia e Africa.
    Alla fine dell’Ottocento, in un tempo di “superstizione della scienza” – come scrisse Gramsci – l’opinione già diffusa dell’inferiorità meridionale assunse la forza di “verità scientifica”.
    A questo argomento, tra l’altro, chi scrive ha dedicato un capitolo de Il Paese diviso. Nord e Sud nella storia d’Italia (Rubbettino, Soveria Mannelli 2019).

    Cesare Lombroso, il padre della Criminologia moderna

    Due Italie, due razze

    Il criminologo Cesare Lombroso, e ancor più nettamente gli antropologi Giuseppe Sergi e Alfredo Niceforo, entrambi siciliani, argomentarono che in Italia vi fossero due “stirpi” o “razze” e che quella che popolava il Sud avesse origine africana (si escludevano i greci). Essendo di origine africana, la razza meridionale era «refrattaria, cioè inerte, davanti ai nuovi portati della civiltà» e meno adatta di quella nordica al progresso sociale e culturale.

    L’inferiorità meridionale secondo Richard Lynn

    Quest’idea, mai del tutto abbandonata, riemerge ancora. Fece scalpore e scandalizzò, la tesi di Richard Lynn, psicologo recentemente scomparso. Lynn nel 2010, in un articolo sulla rivista Intelligence, sostenne che i divari socioeconomici tra Nord e Sud dipendano da differenze nel Quoziente d’intelligenza (QI). Secondo Lynn, il QI medio dei meridionali sarebbe di circa 10 punti inferiore a quello dei settentrionali a causa dell’eredità genetica dei fenici e degli arabi che, in epoche diverse, si insediarono in parte del meridione.
    La tesi di Lynn, condivisa da altri studiosi, presuppone l’esistenza di razze umane differenti per alcune caratteristiche fisiche e sotto il profilo cognitivo. Sulla base dei risultati dei test sul QI e di quelli scolastici, Lynn ha stilato una graduatoria internazionale dell’intelligenza. Ai primi posti, col QI più alto, gli asiatici dell’est (giapponesi, coreani, cinesi), seguiti dalle popolazioni europee o di origine europea; al fondo della graduatoria, le popolazioni dell’Africa Subsahariana e gli aborigeni australiani.

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    Lo psicologo neorazzista Richard Lynn

    I terroni? Sono sempre i più stupidi

    All’articolo di Lynn ne sono seguiti diversi altri. Tra i più recenti, quello di Emil Ole William Kirkegaard e di Davide Piffer. I due studiosi hanno sostenuto nel 2022 che le differenze nell’intelligenza media tra Nord e Sud Italia siano rimaste sostanzialmente stabili sin dall’Unità.
    Per dimostrarlo, i due ricercatori hanno utilizzato dati ottocenteschi sul cosiddetto age-heaping, cioè l’arrotondamento dell’età che, secondo alcuni, misurerebbe l’incapacità della popolazione a far di conto.
    Hanno mostrato, poi, come i dati dell’Ottocento siano in relazione con i risultati attuali nei test scolastici Invalsi e con gli indicatori di sviluppo socioeconomico delle regioni italiane.
    Nello stesso numero della rivista che contiene l’articolo di Kirkegaard e Piffer (Mankind Quarterly) ce n’è un altro di Richard Lynn, in cui si riportano i risultati dei test su un campione di bambini siciliani di 6-11 anni che, secondo la rilevazione, avrebbero un QI medio di 92 punti, inferiore a quello disponibile per alcune città o regioni del Nord Italia.

    Anche la Spagna ha i suoi terroni

    Questi studi non riguardano solo l’Italia, ma anche altri paesi. Ad esempio la Spagna, dove esistono divari regionali nei livelli di sviluppo e nei risultati scolastici. Alla loro base vi è la tesi secondo la quale la causa ultima delle differenze internazionali nello sviluppo socioeconomico sia da ricercare nella genetica, nell’intelligenza delle popolazioni. In altre parole, la natura umana è all’origine delle disuguaglianze.

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    Emil Kirkegaard, studioso neorazzista e allievo di Lynn

    Inferiorità meridionale? Solo un fatto economico

    Questa tesi è fortemente contestata. Per quanto riguarda l’Italia sappiamo che, effettivamente, ci sono ampie differenze regionali nei risultati dei test scolastici, come conferma anche l’ultimo rapporto Invalsi 2023. Tuttavia, dimostrano molte ricerche, i divari regionali nei test scolastici sono, in larga misura, spiegati da fattori culturali, sociali ed economici e, probabilmente, in parte anche dalla qualità media dell’istruzione.
    Differenze regionali nei test sul QI e in quelli scolastici sono documentate in molti Paesi, per esempio in Germania, Portogallo, Regno Unito e Spagna. In tutti i casi, i punteggi nei test risultano più elevati dove maggiori sono i livelli di sviluppo. Il legame tra QI e sviluppo socioeconomico è molto forte.

    Lo psicologo americano James Robert Flynn

    L’effetto Flynn

    Questo legame è così forte che i risultati medi nei test d’intelligenza tendono ad aumentare col progresso socioeconomico. È  un fenomeno affascinante e incoraggiante, noto come “effetto Flynn”, osservato in molte nazioni.
    Alle tesi richiamate si possono opporre molte obiezioni. La più ovvia è che, a oggi, non esistono prove scientifiche di differenze razziali nel QI. Inoltre, lo stesso concetto di “razza” applicato agli uomini è discutibile. Di conseguenza, non esiste alcuna prova che l’influenza genetica africana, nei meridionali come in altre popolazioni, possa avere una qualche influenza negativa sulle capacità cognitive. Quello che, invece, sappiamo con certezza è che tra Nord e Sud Italia esistono radicati divari sociali ed economici. Sotto questo aspetto, non certo per quanto riguarda il QI, l’Italia è un paese con profonde differenze.

    Vittorio Daniele
    professore ordinario di Politica economica
    Università Magna Graecia

  • Locri, mare e cultura di una piccola Grecia d’Occidente

    Locri, mare e cultura di una piccola Grecia d’Occidente

    Ho trascorso una breve vacanza a Locri, cinque giorni presso l’Ostello Locride, una struttura che fa parte della galassia GOEL, un gruppo di persone, progetti, attività economiche, attivo ormai da venti anni in questo pezzo di Calabria. Una storia interessante, la si può leggere sul sito dell’Ostello. Un immobile sequestrato alla ‘ndrangheta, acquisito dal Comune e dato in gestione appunto a GOEL. Goel è un nome biblico, colui che riscatta e libera le persone.

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    L’ostello nello stabile dato in gestione a Goel

    Il mare dei Greci

    A Locri si può andare al mare, ovviamente, ma pure visitare un vasto parco archeologico, esteso oltre i limiti comunali, nel limitrofo territorio di Portigliola. Il mare richiama, evoca, la storia antica di questa terra e pure quella attuale, dato il continuo arrivo di barconi e gommoni stracarichi di fuggitivi di tutte le guerre del mondo.
    Le spiagge di questo lembo di Calabria sono immense, bianche di sabbia e piccoli ciottoli; a Locri sono presenti i lidi, ma tra uno e l’altro i tratti liberi sono molto estesi, attrezzati di docce, bidoni per la raccolta differenziata dei rifiuti e accessi facilitati. Parcheggi gratuiti e intervallati da posti riservati a disabili e madri con bambini piccoli. Enumero questi particolari perché in altre rinomate e blasonate località sul mare il parcheggio si paga (quando ve bene, anzi, benissimo) 2 euro l’ora, le spiagge libere sono ridotte a qualche scampolo, e il mare non sembra neanche pulito, con tutto il rispetto per le bandiere blu.

    Da cosentino attempato mi chiedo, poi, quali colpe ancestrali dei nostri mitici antenati o quali attività fantasiose e creative più recenti abbiano portato alla distruzione delle spiagge della mia infanzia, sul Tirreno cosentino, dato che lungo la Statale 106 non ho visto battaglioni di carabinieri impegnati a sorvegliare il bagnasciuga, come lo chiamava un tale famoso.

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    Reperti nel Parco archeologico di Locri

    Visita (non guidata) al Parco archeologico

    Torniamo alle processioni sacre della Magna Graecia, che è meglio. Il parco archeologico è vasto, percorrerlo a piedi sotto la canicola per me sarebbe letale, mi limito a qualche passeggiata simbolica, fino all’area di Centocamere, il quartiere degli artigiani, con i forni per cuocere le anfore oggi in mostra nel museo. Torno indietro, l’allestimento del museo è recentissimo, la climatizzazione funziona a meraviglia, l’apparato illustrativo e i video sono stati realizzati in modo così chiaro, efficace, che pure i lanzichenecchi di Elkann, nel caso di una trasferta a Locri, si orienterebbero.

    Le donne di Locri

    Le aree di scavo sono distanti una dall’altra, la città doveva essere vasta e le ricerche sono state condotte in tempi recenti, la mancanza di fondi ostacola ulteriori campagne di scavi, dato che i nuovi ritrovamenti poi andrebbero sorvegliati e protetti. Le foto in bianco e nero mostrano il sito di una fonte sotterranea, dove le donne di Locri si recavano in processione, per i bagni rituali. Le più giovani per sancire la loro condizione di nubende, pronte alle nozze. Le altre per invocare fecondità e abbondanza, in occasione dei culti in onore della dea Demetra, la protettrice dei raccolti.
    In onore di Demetra le suddette signore sacrificavano dei maialini, seppelliti vivi, immolati alla fecondità dei campi. Dovevano strillare parecchio, i maialini, ma ai tempi la Protezione animali non era stata inventata, anzi gli studiosi sono sicuri che in epoche più oscure i sacerdoti immolassero persone, sugli altari posti davanti ai templi. Le ragioni? Placare gli dei, vincere la guerra, ottenere raccolti abbondanti.

    Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini

    Ripensando al Pasolini di Calabria

    Questo viavai di processioni femminili oggi si svolge soprattutto tra il lungomare, le spiagge e i lidi, in forma decisamente incruenta e molto gradita alla popolazione maschile di ogni età. Tutti ricordano le frasi di Pasolini, quando visitò le spiagge meridionali, durante un suo celebre reportage, scrisse che erano popolate da frotte di maschi annoiati e disperati, che non riuscivano a incrociare una ragazza, neanche una, su quelle spiagge desolate.
    Sarà per lasciarsi alle spalle questo passato imbarazzante e deprimente che le donne di tutte le età occupano militarmente i punti strategici di ogni lido, di ogni spiaggia, oppure corrono in bicicletta sul lungomare, amazzoni scattanti e vigili. Intanto i maschi, prostrati dal caldo, cercano di darsi un tono con una birra in mano, ormai calda e imbevibile.

    Cassandra

    Vicino alla mia postazione un bambino chiama insistentemente la nonna, che infine, seccata, emerge dal lettino: abbronzatissima, ossigenata, occhiali da sole e bikini leopardato. Sono questi i momenti in cui si avverte l’assenza della penna di Pasolini.
    Di sera si può andare a teatro, in scena Cassandra Site Specific di e con Elisabetta Pozzi, che dirige anche la rassegna annuale: Tra mito e storia. Festival del teatro classico di Locri Epizefiri.
    Appuntamento a Portigliola, presso il Palatium romano di quote San Francesco. Per non perdermi lungo la statale 106 digito tuto il toponimo e il navigatore mi deposita davanti allo spiazzo, dove la Pozzi e i tecnici stanno provando microfoni e luci. Alla fine siamo almeno duecento persone, il luogo è suggestivo, il personaggio di Cassandra viene attualizzato con riferimenti a vicende recenti, modificando il testo che la Pozzi porta in scena da oltre un decennio.

    Nessuno dava ascolto a Cassandra, come potevano essere così dissennati i suoi concittadini? Come potevano fidarsi dei Greci e del cavallo di legno lasciato sulla spiaggia?
    Anche oggi ci sono ministri che dicono che va tutto bene, fa caldo, è estate, ripetono, mentre il termometro indica temperature da incubo.

    Elisabetta Pozzi

    Dopo lo spettacolo Elisabetta Pozzi chiacchiera con il pubblico, la notte è quasi fresca, il peggio dell’estate, forse, è passato.
    Ci guardiamo intorno prima di andare via, si tratta di una campagna disseminata di masserie, agrumeti e orti, forse pure sotto il pavimento di questi edifici si troverebbero le anfore per il vino e l’olio di duemila anni fa, come è accaduto sotto la masseria Macrì, che oggi, inglobata nel museo, mostra le stratificazioni romane e quelle greche più giù. Perché dopo i greci qui sono arrivati i romani, a quindici chilometri da Portigliola si può visitare la villa romana di Casignana, enorme, migliaia di metri quadrati di edifici ancora da riportare alla luce. Le due parti visibili della villa, scoperta casualmente nel 1963, sono collegate da un sottopasso su cui scorre il traffico della statale 106. Dal triclinio si vede il mare oltre un boschetto; era una dimora da ricconi, mosaici dappertutto e impianti termali. Bella vita.

    A Locri c’è pure il cinema all’aperto, a palazzo Zappia, proiettano Astolfo, di Di Gregorio. Un vecchio professore, distratto rispetto ai suoi interessi, si trova costretto a tornare nella dimora di famiglia, in abbandono da anni. Dove però incontra persone interessanti e forse si innamora. Palazzo Zappia è un po’ malandato, ma questa Locri di fine Ottocento ha un suo fascino. Qui e nei palazzi vicini hanno pensato di staccarsi da Gerace, di ottenere, nel 1905, l’autonomia per Gerace Marina. E poi, dal 1934, fregiarsi del nome prestigioso della città riemersa dopo venti secoli. Persone intraprendenti.

    Una targa ricorda una data importante per la comunità locrese

    Il cameriere oratore

    Ultima sera a Locri, cena all’aperto, in un locale che è insieme ristorante pizzeria. Il cameriere è alle prese con un tavolo di ragazzini pestiferi. Consapevole di trovarsi forse nell’antica agorà di Locri Epizefiri (ancora non localizzata) prova a convincerli con un discorso razionale, sulle orme degli antichi oratori. Chiede di votare per alzata di mano, come si usa in democrazia, vorrebbe riepilogare le ordinazioni, cerca di attrarre l’uditorio con argomentazioni ineccepibili (poi dite che non vi arriva quello che avete chiesto, poi vi lamentate con i vostri genitori).

    Ma come accadeva oltre duemila anni fa, il demos, il popolo non ascolta la voce della ragione. I ragazzini se ne sbattono dell’accorato discorso, l’oratore rinuncia, va via sconfitto, come tanti brillanti filosofi, estromessi dalla voce volgare del demagogo di turno. Anzi i greci li hanno messi a morte i loro uomini migliori oppure mandati in esilio, che era peggio della morte per un greco. Così finì miseramente la democrazia antica, così naviga in acque pericolose la nostra, propensa a seguire il Trump di turno. Domani mattina restituirò la brocca cerimoniale e tirerò le somme di questa vacanza sostenibile in terra di Locri. Ma posso già ammettere che i conti sono positivi, posso dirlo già qui, in piazza, dove ancora oggi si svolge il confronto delle idee che tanta luce ha portato alla nostra traballante civiltà.