Categoria: Cultura

  • Telesio: le idee, l’Inquisizione e la sua Cosenza

    Telesio: le idee, l’Inquisizione e la sua Cosenza

    «Credevo che in Cosenza non ci fossero occhi tanto acuti, che quelli miei errori quali non sono stati visti in Roma, né per il resto d’Italia, fosser visti in Cosenza». È un Telesio amaramente sarcastico quello che emerge dalla lettera scritta, nella primavera del 1570, al cardinale Flavio Orsini, arcivescovo di Cosenza. Proprio nella sua città natale «occhi tanto acuti» avevano visto nella prima edizione del De rerum natura, pubblicata a Roma cinque anni prima, «altre propositioni contra la religione».

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    La statua di Bernardino Telesio a Cosenza

    Telesio, Cosenza e l’Inquisizione

    Le accuse erano pesantissime: a Cosenza si diceva che Telesio difendeva la tesi della mortalità dell’anima e negava che i cieli fossero mossi dalle intelligenze. Lui controbatteva facendo i nomi di coloro i quali avevano sottoposto a revisione il testo del 1565 – che è il suo vero capolavoro – e soffermandosi, in particolare e non per caso, sul domenicano Eustachio Locatelli, severo inquisitore di Bologna, dal 1560 procuratore generale del suo ordine e maestro di teologia, poi confessore di papa Pio V, che lo aveva nominato vescovo di Reggio Emilia nel 1569.

    Ricordava al cardinale Orsini che sia Gaspar Hernández, rettore del Collegio dei gesuiti napoletani, sia Alfonso Salmerón, preposto generale della provincia gesuitica napoletana, avevano dato il loro assenso anche sulle «altre cose»: in particolare, sul numero dei primi corpi del mondo e sulla «materia, et natura del Cielo». I due gesuiti gli avevano assicurato che la tesi secondo cui, «come vole Aristotele», i cieli sono mossi dalle intelligenze «nella scrittura non si trova», e Hernández la giudicava addirittura «assurda, et ridicula». Insomma, nessuno mai – dichiarava enfaticamente Telesio – «seppe vederci cosa contro la religione».

    La difesa di Tommaso Campanella

    Ora però, e proprio a Cosenza, molte «cose» incompatibili con l’ortodossia cattolica venivano viste e denunciate attraverso precise accuse, che – tanto per essere chiari – erano tutto meno che infondate. Era infatti vero che Telesio non voleva sentire parlare di intelligenze o di anime motrici o di motori separati e immobili, e che la tesi platonico-ermetica dell’animazione dei corpi celesti gli sembrava insensata. Ma la vera questione delicata riguardava la concezione dell’anima umana. Tommaso Campanella era sempre stato profondamente legato al «gran Cosentin», e, quando, giovanissimo, si era ritrovato confinato nel piccolo convento di Altomonte, nel giro di pochi mesi aveva scritto un tomo di cinquecento pagine contro gli attacchi sferrati a Telesio da un giurista napoletano.

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    Una vecchia edizione del “De Rerum Natura Iuxta propria principia”

    Un percorso difficile e pericoloso

    Campanella aveva capito fin troppo bene la tesi telesiana della materialità dell’anima umana, e ad esempio nell’Ateismo trionfato aveva lasciato intendere di aver compreso che per Telesio l’anima umana era soltanto una sostanza «calda e sottile». Del resto – e Campanella se ne era sicuramente accorto – i riferimenti di Telesio a un’anima immateriale infusa da Dio, sempre più insistenti col passaggio da un’edizione all’altra del De rerum natura, rimanevano estranei tanto all’ambito conoscitivo quanto all’ambito etico. Come non accorgersi poi che la solenne dichiarazione di sottomissione alla Chiesa cattolica e di esplicita negazione della libertà di pensiero, con la quale si apriva la terza e ultima edizione (1586), era soltanto il frutto di un compromesso accettato obtorto collo? Un compromesso che giungeva alla fine di un percorso che era sempre stato difficile e pericoloso.

    Telesio nell’Indice dei libri proibiti

    Nella lettera a Orsini – che conosciamo da poco tempo – Telesio aveva già manifestato la sua volontà di sottomissione e la sua eventuale disponibilità ad abiurare. Se ho sbagliato – scriveva – sono pronto a correggere i miei errori perché «la mente mia, è per gratia di N. S.re Dio, et sarà sempre sogettissima, et inchinatissima alla vera, et cattolica religione». Sono pronto – aggiungeva Telesio – «ad abbruggiar tutte le mie opre, quando mi fusse mostro, che non siano piene di pietà christiana». Si sottometteva e auspicava che un’eventuale revisione fosse affidata «a persona discreta, et non troppo additta alla dottrina d’Aristotile». Ma tutte queste cautele alla fine non salvarono – né potevano – le sue opere dalla condanna ecclesiastica e dall’inclusione nell’Indice dei libri proibiti del 1593 e poi del 1596, seppure con la clausola attenuante «donec expurgentur».

    Una missione impossibile

    I tentativi di rimettere in circolazione i testi telesiani, dopo un’opportuna espurgazione, fallirono miseramente. Nel 1601 ci provò la città di Cosenza, con in testa Orazio Telesio, nipote del filosofo.

    Ci si rivolse al cardinale Agostino Valier affinché la Congregazione dell’Indice istituisse una commissione per la revisione dei testi telesiani: «La città di Cosenza, devotissima di questa Santa Sede e di Vostra Signoria illustrissima e reverendissima, e Orazio Telesio, servitore di Vostra Signoria illustrissima e nipote del detto Bernardino, quella mossa da zelo di carità verso un cittadino e figliuolo nato nobile e fratello d’un Arcivescovo della stessa città, e questi per onore della sua famiglia, umilmente supplicano e con quanto affetto possano maggiore Vostra Signoria illustrissima e reverendissima, che si degni di operare nella Congregazione dell’Indice si commetta ad alcuni teologi e filosofi, che riveggano ed espurghino i detti libri di tutti quegli errori…». Orazio Telesio fu alla fine ricevuto a Roma al cospetto della Congregazione, ma la decisione era stata di fatto già presa: l’espurgazione era ritenuta impossibile.

    I Telesio “troppo” vicini ai Valdesi

    Senza dubbio tutte queste vicende hanno, per molto tempo e negativamente, influenzato i rapporti tra la città di Cosenza e la memoria di Bernardino Telesio. Andrà anche ricordata la vicinanza dei Telesio ai valdesi. Antonio Telesio, celebre poeta e zio di Bernardino, era stato legato a personaggi come Apollonio Merenda e Scipione Capece, critico severo dell’aristotelismo. Bernardino stesso fu legato invece a Mario Galeota, uno dei più influenti seguaci di Juan de Valdés che aveva «infectato tutta Italia de heresia», come fu dichiarato nel corso di un processo. E i fratelli di Bernardino avevano avuto, anche loro, seri problemi con l’Inquisizione. La Calabria di allora era pervasa da una religiosità marcatamente eterodossa. Forse non è un caso che dei funerali di Telesio, morto a Cosenza nell’ottobre del 1588, non sappiamo praticamente niente, e non sappiamo nemmeno dove sia stato sepolto.

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    La copertina del libro del professor Roberto Bondì su Bernardino Telesio

    Il primo dei moderni

    Bernardinus Consentinus: così amava presentarsi spesso nelle sue opere che hanno fatto di lui uno dei maggiori pensatori del Rinascimento europeo. Il grande filosofo inglese Francis Bacon lo definiva «primo dei moderni». La definizione baconiana è quella più appropriata per cogliere il significato storico di colui che si era proposto di cambiare una mentalità e che apparirà a Galileo un «venerando padre».

    La questione della «modernità» di Telesio è inseparabile dalla questione della discontinuità – perché anche di questo si è trattato – di Telesio rispetto al mondo magico: una discontinuità esplicitamente rivendicata. Nel nuovo naturalismo telesiano il rifiuto del principio di autorità si saldava con la fiducia nel progresso della conoscenza umana. Telesio pensava che il mondo fosse ancora tutto da scoprire, solo che si fosse stati disposti a rifiutare la cultura libresca e a tornare alle cose, cioè a essere liberi. È una di quelle lezioni destinate a durare nel tempo.

    Roberto Bondì (professore ordinario di Storia della Filosofia)

    Università della Calabria

  • La “Gpt Human” che (forse) verrà

    La “Gpt Human” che (forse) verrà

    di Walter Greco (Responsabile scientifico Laboratorio CAPIRE – Dispes Unical)

    ***

    L’espressione “intelligenza artificiale” (parlo di quella che si riferisce all’uso più immediato e diffuso, alla IA-generativa) porta con sé un’ambiguità che non è solo tecnica, ma filosofica. Da un lato indica una serie di modelli statistici capaci di generare testi, immagini, suoni; dall’altro evoca, quasi inevitabilmente, l’idea di una mente altra, di un possibile interlocutore dotato di una qualche forma di interiorità. È come se ogni progresso nelle capacità dei sistemi generativi riaprisse la stessa domanda: che cosa separa una macchina che simula desideri, emozioni, sofferenza, da un soggetto che li esperisce davvero? E, ancor prima, abbiamo davvero bisogno di oltrepassare questa soglia?

    Il gioco della simulazione

    Nel dibattito pubblico, spesso, il salto è immediato: si passa dall’uso pratico di un modello linguistico – scrivere, tradurre, riassumere, comporre – alla proiezione fantascientifica di una “coscienza digitale”, di una intelligenza artificiale dotata di volontà autonoma. Ma il terreno intermedio, quello dove si gioca la partita più interessante, è proprio lo spazio della simulazione. Le macchine attuali non desiderano, non soffrono, non sperano; eppure sono in grado di produrre descrizioni apparentemente sempre più convincenti del desiderio, della sofferenza, della speranza.

    Possono imitare il linguaggio dell’intimità, modellare i toni dell’angoscia, restituire la sintassi di una gioia improvvisa, senza che nulla, nel loro funzionamento, corrisponda all’esperienza vissuta che quelle parole evocano. È sufficiente questa competenza simulativa per parlare di “comprensione”? O si tratta solo di una sofisticata capacità combinatoria che ci invita a proiettare sulla macchina più di quanto vi sia?

    L’Ai fornisce già adesso una forma efficace di rappresentazione della realtà

    Forme efficaci di rappresentazioni della realtà

    Dal punto di vista dell’uso quotidiano, la risposta sembra sorprendentemente sobria. Non è necessario che un sistema “provi” qualcosa per essere utile. È sufficiente che sappia rappresentarlo in modo coerente, che rispetti vincoli formali, che non tradisca le attese di chi lo usa come strumento. Nelle pratiche di lavoro, di studio, di scrittura creativa, l’intelligenza artificiale appare soprattutto come una protesi cognitiva: estende la capacità di manipolare simboli, accelera il montaggio dei testi, permette di esplorare varianti stilistiche altrimenti troppo costose in termini di tempo.

    Ciò di cui c’è bisogno non è una soggettività digitale con una propria agenda, ma un dispositivo che resti, pur nella sua complessità, controllabile, reversibile, sostituibile. In questo senso, l’idea di una macchina pienamente autonoma, capace di iniziativa propria, appare meno come un obiettivo concreto e più come una metafora potente, un campo di proiezione delle paure e delle speranze contemporanee. Eppure, anche restando sul terreno della simulazione, alcune tensioni emergono. Se un modello è in grado di imitare con grande finezza il modo in cui gli umani parlano di emozioni, lutti, desideri, relazioni, non è più neutrale il modo in cui questa imitazione interviene nella nostra esperienza. L’interlocutore artificiale può diventare confidente, consigliere, complice di scrittura, specchio di riflessione.

    Non ancora persone, ma quasi

    Non una persona, ma “quasi”

    La distinzione tra “strumento” e “quasi persona” si fa sfumata non perché la macchina possieda una interiorità, ma perché la relazione che intratteniamo con essa tende spontaneamente a organizzarsi secondo forme che conosciamo: il dialogo, la confessione, l’argomentazione. La soglia non viene varcata dalla tecnologia, ma dall’uso simbolico che ne facciamo. Una simulazione abbastanza convincente non è ontologicamente esperienza, ma può assumere una funzione esistenziale nella vita di chi la utilizza. In questo quadro si collocano anche le fantasie sulle forme ibride, sui “cyborg cognitivi” e sulle simbiosi uomo–macchina. In realtà, una ibridazione è già in corso, ma è molto meno spettacolare di quanto le immagini transumaniste lascino intendere.

    Anche senza impianti neurali molte delle nostre funzioni sono già delegate a supporti digitali

    Non c’è bisogno di impianti neurali o di chip sottocutanei per constatare che una parte crescente delle nostre attività mentali viene esternalizzata in dispositivi digitali: memoria, calcolo, scrittura, montaggio delle informazioni. L’ibrido, se esiste, è nella catena uomo–schermo–modello, non in un nuovo organismo. E tuttavia, anche qui, si apre una domanda silenziosa: fino a che punto questa delega cognitiva modifica il modo in cui concepiamo il pensiero, la creatività, l’autorialità? In che misura un testo, un’idea, un progetto, restano “nostri” quando sono stati plasmati da un processo in cui la macchina ha avuto un ruolo determinante, pur restando, formalmente, uno strumento?

    Se la macchina “diventa” come noi

    Il lessico della personificazione – l’idea di un domani in cui esisterà un “GPT-Human” – sembra allora svolgere una funzione ambivalente. Da un lato rassicura: se la macchina sarà “come noi”, potremo forse comprenderla meglio, attribuirle responsabilità, immaginarla come parte di un orizzonte condiviso. Dall’altro lato sposta l’attenzione: invece di interrogarci sul modo in cui gli strumenti già ora ridisegnano le pratiche, le professioni, le relazioni, ci si proietta in un futuro radicale che sospende il giudizio sul presente. Nel frattempo, i modelli continuano a migliorare la capacità di imitare, di combinare, di rispondere, di accompagnare. Rimangono, tecnicamente, macchine di simulazione; ma la densità delle interazioni che intratteniamo con esse e il loro radicamento nelle nostre vite quotidiane continuano a rendere meno nitida la linea che separa il “come se” dall’“essere”. È forse in questa zona grigia che si concentrano oggi le questioni più delicate.

    Intelligenze potenti senza corpo, né biografie

    Potenti intelligenze senza corpo né storia

    Non tanto nella possibilità di una coscienza artificiale forte, quanto nel modo in cui sistemi privi di esperienza vissuta possono comunque assumere un ruolo significativo nella costruzione del senso, delle narrazioni, delle decisioni umane. La filosofia, la sociologia, l’etica, sono chiamate a pensare questa presenza paradossale: dispositivi potentemente linguistici, senza corpo né biografia, che tuttavia entrano a far parte delle trame biografiche di chi li adopera. Quanto questo cambi il nostro modo di raccontarci, di riconoscerci, di attribuire valore alle parole, resta una questione aperta, che continuiamo, forse senza accorgercene del tutto, a esplorare nel semplice gesto di rivolgere una domanda a uno schermo e attendere che qualcosa, dall’altra parte, risponda.

  • El Pantanillo: un Sabato argentino al Laghicello di San Benedetto Ullano

    El Pantanillo: un Sabato argentino al Laghicello di San Benedetto Ullano

    Ernesto Sábato (1911-2011) è stato uno dei più noti, importanti, originali –e controversi- scrittori argentini della generazione cresciuta intorno al gruppo di giovani intellettuali che intorno agli anni ’30 del Novecento si riuniva intorno alla rivista di letteratura Sur, oltre che per decenni una personalità centrale nella vita culturale e politica del suo paese, l’Argentina. Di origine italiana, anzi calabrese. Per via di queste ascendenze familiari, nel 1999 aveva riacquisito «con enorme desiderio e soddisfazione» la cittadinanza italiana, oltre a quella argentina di nascita.

    La militanza, il peronismo, la dittatura

    Gli studi di fisica, la militanza comunista, il peronismo, i rapporti strategici e sfuggenti con la Giunta capeggiata da Videla ne fanno un personaggio controverso come tanti intellettuali d’argentina. In realtà poi nessuno può negare il suo impegno in prima persona quando svolgerà un ruolo importante soprattutto in mezzo ai difficilissimi anni Ottanta, presiedendo in prima persona la Conadep (Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas). Fu infatti Sabato a presiedere la commissione sugli scomparsi (Desaparecidos) dal 1973 al 1986, passata alla storia come il Nunca más. Più di 30 mila vittime accertate negli anni della tirannide militare argentina, a cui si pose fine, grazie anche all’azione civile e diplomatica promossa dalla commissione presieduta da Sabato, che consentì senza altri spargimenti di sangue il passaggio alla democrazia con il governo di Raul Alfonsin.
    Ma quella di Sabato fu considerata una posizione definita compromissoria e attendista, che non teneva conto di quanti, tra gli scrittori, gli intellettuali o i militanti democratici, che non avevano commesso reati e tantomeno erano implicati nella lotta armata, fossero già stati comunque sequestrati e assassinati dal regime.

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    Ernesto Sabato e Jorge Luis Borges

    Ernesto Sabato, outsider di lusso

    Lo scrittore argentino Ernesto Sabato è stato un outsider di lusso che imprime il suo sigillo narrativo in territorio un di confine, che nel suo caso possiamo cifrare tra autori più densamente morali, come Dickens, Hugo, Tolstoj o Dostoevskij. Il suo romanzo capitale, Sopra eroi e tombe, è proprio una incandescente scheggia novecentesca di quel vecchio genere emotivo ed eticamente tormentato, fatto di chiaroscuri contrastati e di flussi di tormentate ricostruzioni filosofiche e morali che Sabato ha rifuso a modo suo, in materiali narrativi che spesso cozzano tra loro ma che nell’insieme formano un blocco di storie di poderosa grandezza epica: uno di quei libri in grado stralunare e tramortire il lettore. E in fondo oggi Sabato lo si legge poco proprio in virtù di questi aspetti epicamente esasperanti ed eticamente contrastanti, che sempre sfiorano l’assurdo.

    Ma forse anche per questa sua drammatica frequentazione del margine, che la sua narrativa piacque tanto, invece, all’inquieta genialità meridiana di Albert Camus. Sabato ha goduto l’ammirazione del Nobel francese (anche lui un immigrato senza patria), al punto che questi si impegnò per farlo tradurre dal suo stesso editore, Gallimard che pubblicò in Francia nel 1956 il suo primo romanzo, Il Tunnel, scritto nel 1948.
    Questo grande romanziere argentino morto alla soglia venerabile del secolo di vita, che ha vissuto «l’infanzia di un ragazzino solitario e spaventato di un villaggio della Pampa», avrebbe potuto essere benissimo, insieme alla sua famiglia di emigrati espatriati per l’avventura del sogno della grande Argentina, un ragazzino spaventato abitante di un qualsiasi villaggio della Calabria dei primi del ‘900.

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    Il Laghicello di San Benedetto Ullano (foto Piesse da sito Fondoambiente.it)

    Sabato e il Laghicello di San Benedetto

    Del distinto richiamo dei luoghi ancestrali e del fervore epico del suo antico sangue calabrese Sabato ha liricamente chiosato nel suo libro di commiato, Prima della fine: «I mei due genitori calabresi abbandonarono i loro luoghi d’origine, ma non li dimenticarono mai; avevano lasciato lì tutto, partirono con le loro poche cose e non tornarono più indietro».
    E sempre pensando ai suoi genitori, che arrivarono in Argentina a fine ‘800 da due minuscoli paesi viciniori come Fuscaldo (Francesco, il padre) e San Martino di Finita (la madre Giovanna Maria Ferrari) posti sulla catena costiera in provincia di Cosenza, scriveva ancora nella vividezza dei suoi ricordi d’infanzia: «Quanti italiani avrebbero continuato a vedere le loro montagne e i loro fiumi, separati dal dolore e dagli anni, nelle strade labirintiche e disperse di Buenos Aires, in questa metropoli costruita su un porto e trasformata in un deserto di ammucchiate solitudini».

    Sabato, gli antenati calabresi e il Laghicello

    Quando rivolgeva lo sguardo ai ritratti ingialliti dei suoi antenati calabresi Sabato lo faceva con profondi accenti di commozione e di rimpianto. Sentimenti che neanche i riconoscimenti, la fama, i suoi successi personali nel paese del nuovo mondo avevano risarcito.
    Sabato avrebbe desiderato ritornare a ritroso sino alle origini, indietro nel tempo, e nello spazio, dove? Fin dove, ci si chiede? E cos’hanno a che vedere con la sua vicenda spesso finita al centro delle cronache mondiali per la sua letteratura e il suo impegno a difesa dei diritti umani, con i richiami di memoria, con le strofe delle vecchie canzoni popolari calabresi della terra di suo padre: «Ricordo che certe volte la sera mio padre mi teneva sulle ginocchia e mi cantava le canzoni antiche della sua terra, melodie malinconiche e delicate.

    Era una grande emozione», o il Mediterraneo «la cui luce azzurra quando la vidi per la prima volta, era così intensa che mi offuscò lo sguardo», o ancora quella volta che andò in Calabria a conoscere il piccolo luogo montano dove un giorno il padre s’innamorò di sua madre? Laghicello e Pantanillo, un luogo che si fa specchio dell’altro; il tempo oltre lo spazio, lo spazio che annulla il tempo, come in uno dei suoi vertiginosi sofismi letterari.

    Il Pantanillo di Ernesto Sabato è anche un bel libro di Pedro Jorge Solans, pubblicato in Italia da Luigi Pellegrini Editore. Ho curato personalmente la nota al testo, mentre la traduzione dallo spagnolo è dello scrittore Marino Magliani.

    Il Pantanillo di Ernesto Sabato (Luigi Pellegrini Editore)

    Le radici e il ricordo dell’Unical

    Dopo la morte dello scrittore l’Università della Calabria di Arcavacata di Rende (Cosenza), decise di conferire al letterato, ma anche al fisico, Ernesto Sabato la Laurea ad honorem dell’Ateneo. Morì prima di poter ritirare la pergamena nel 2011; venne sua nipote diretta, Isabelita Sabato, che in quell’occasione ricordava: «La sofferenza e il ricordo dell’emigrazione meridionale dei suoi genitori calabresi in Argentina e l’importanza della pace nel mondo, sono stati concetti su cui Ernesto Sabato ha insistito fino alla fine. E fino alla fine mio zio voleva sapere tutto della Calabria, e ricordo che anche nel suo ultimo anno di vita, pochi mesi prima di lasciarci, quasi con le lacrime agli occhi e con enorme rimpianto, mi disse: ‘prima di morire tornerò nella terra di mio padre».

    Il buen retiro

    Gran parte della sua opera e del suo lavoro di scrittore Sabato lo ha svolto in un luogo lontano e appartato, distante quasi 900 chilometri dal caos della metropoli bairense, dove si era ritirato sin dal 1948. Un buen retiro che in realtà era una sorta di eremo francescano, un piccolo rancho di poche stanze, quasi invisibile, senza acqua corrente, né luce elettrica o strade.

    Il luogo vissuto in povertà da Sabato con i suoi familiari e la compagnia di alcune mitiche figure di rurales del posto e le visite sporadiche pochi intimi amici e letterati, racconta tutto il mondo di Sabato e la sua solitudine, la sua ferrea disciplina di asceta della letteratura. Fu questo il suo unico rifugio mentre l’Argentina post-peronista attraversava gli anni più bui e luttuosi della dittatura militare, mentre imperversava il dramma dei giovani desapericidos, gli oppositori politici fatti sparire a migliaia dalla repressione dei generali delle giunte militari argentini al potere.

    Sabato al Pantanillo come al Laghicello 

    La Casa di Ernesto Sabato, il suo luogo memoriale al Pantanillo (nella regione di Cordoba, a 900 km da Baires), è rimasta una dimora incredibilmente povera e spoglia.
    Al Pantanillo, in questa umile casa di campagna, non lontano da un piccolo specchio d’acqua lacustre che tanto somiglia al Laghicello, la località montana vicina a Fuscaldo ma che ricade nel Comune di San Benedetto Ullano, luogo prediletto dai suoi genitori calabresi, si può visitare il piccolo patio o contemplare il semplice lettino in cui dormiva lo scrittore, intorno solo poche stanze quasi anguste in cui sono raccolti oggetti e suppellettili domestiche, poche cose essenziali: un lume per la notte, dei libri raggruppati in piccoli scaffali, una macchina per scrivere su un tavolino accanto alla finestra.

    Non ci sono tracce di lussi o di cimeli della fama e dei riconoscimenti dei successi ottenuti in vita da Sabato negli spazi angusti e corruschi di questa piccola casa rurale al Pantanillo, che potrebbe essere benissimo un umile casalino rurale in un angolo disperso dell’appennino calabro, risorto per magia di desiderio e di ricordo in un lembo della grande terra d’oltreoceano. Le stesse stanze povere ed essenziali che fino alla fine sono servite a Sabato, scrittore e uomo tormentato dal dubbio, solo per radunarvi  il necessario per vivere, in cui le crepe nell’intonaco corrono serpeggiando sui muri come il tempo scosso dal peso di giorni che nessuno più si preoccupa di fermare sui fogli di un calendario.

    Mauro Francesco Minervino

     

     

  • Messi a nudo, l’arte di fottersene della censura

    Messi a nudo, l’arte di fottersene della censura

    Negli ultimi anni, il mondo dell’arte sta vivendo un nuovo capitolo di repressione e autocensura, che rischia di mettere in discussione i valori fondamentali della libertà creativa. Sono sempre più frequenti i casi di opere e artisti messi al bando, criticati o censurati perché le loro espressioni vengono giudicate scomode, troppo provocatorie o semplicemente troppo sincere. Questa tendenza all’oscurantismo culturale, alimentata dalla spettacolarizzazione dei casi di scandalo, minaccia di limitare un diritto fondamentale: quello di esprimersi liberamente, senza paura di essere giudicati o repressi.

    Felicien Rops, Pornokrates, 1878,

    La censura su Gauguin 

    Tra i più noti episodi della storia recente, si può ricordare la decisione di vietare le mostre dedicate a Paul Gauguin, accusato di aver avuto rapporti con minorenni, o la rimozione di alcune opere di Balthus, ritenute ingiustamente simbolo di pedofilia. L’arte erotica e la sua storia millenaria dimostrano come il sentimento, la provocazione e la libertà di rappresentazione siano parte integrante del percorso umano e culturale. Dalle pitture rupestri del Paleolitico alle raffigurazioni erotiche dell’antica Grecia, passando per le ceramiche Moche, le stampe shunga giapponesi e il Kāma Sūtra indiano, la storia dell’arte ci parla di un continuo confronto tra tabù e desiderio, tra moralità e libertà espressiva.

    L’erotismo come bellezza

    La stessa arte rinascimentale e i grandi maestri come Boucher, Fragonard o Courbet ci insegnano come l’erotismo possa essere veicolo di bellezza, simbolo di un’umanità fragile e potente allo stesso tempo  e loro sono stati sottoposti a giudizi moralistici. Allora come oggi, questi giudizi gratuiti hanno alimentato un clima di intolleranza ma se allora restava in qualche testo o giornale o in una discussione da salotto perbenista, oggi si estende ai social media, i quali, paradossalmente, se da un lato ricoprono il ruolo di libera piattaforma di opinione e creazione, dall’altro si trasformano a volte in censori di immagini di nudo e arte erotica, oscurando opere che hanno fatto parte della storia culturale dell’umanità.

    Picasso, Scena erotica, 1903, olio su tela

     

    All’inizio del ‘900, mentre Pablo Picasso creava i suoi primi dipinti erotici, Jean Renoir affermava che un quadro per essere buono doveva essere prodotto con i genitali. A Vienna operano Gustav Klimt ed il suo discepolo Egon Schiele; quest’ultimo, a causa dei suoi ritratti considerati esageratamente spinti e pornografici ha trascorso diverso tempo in prigione: molte tra le sue opere (soprattutto dipinti di giovani donne nude) sono state distrutte dalle autorità con l’accusa di essere rappresentazioni oscene che offendevano il buon costume ed il senso comune del pudore.

    L’asfissia censoria si manifesta anche in modo più politicizzato, con episodi come quello delle statue coperte durante la visita dell’allora presidente iraniano Hassan Rouhani in Italia nel 2016: un caso emblematico di come si utilizzi il simbolo e l’immagine pubblica come strumenti di controllo, spesso alle spalle di un’analisi critica o culturale più approfondita. È un paradosso che i nuovi “censori” provengano in molti casi dagli ambienti progressisti, che si ergono a difensori di ciò che percepiscono come “moralità” e “rispetto”, dimenticando invece che l’arte autentica nasce proprio dall’audacia di mettere in discussione i valori e le convenzioni più radicate.

    Erotismo e pornografia

    Dove si colloca, quindi, il confine tra libertà e offesa? È evidente che questa linea sia labile e soggetta a interpretazioni personali e culturali. La distinzione tra arte erotica e pornografia rappresenta un esempio lampante: la prima, intesa come espressione estetica che utilizza elementi erotici per veicolare significati più profondi e universali, è da sempre parte integrante della storia dell’umanità; la seconda, invece, come rappresentazione esplicita di scene sessuali finalizzate esclusivamente a provocare eccitazione, viene spesso relegata a genere di nicchia o, peggio, a materiale “osceno”. La soggettività, infatti, gioca un ruolo centrale nel giudizio estetico, ma anche nel riconoscimento della libertà di espressione: ciò che è considerato arte per alcuni può essere offensivo o inaccettabile per altri, ma questo non deve diventare motivo di repressione, bensì di confronto e dialogo.

    La provocazione dell’arte

    La lunga storia dell’arte ci testimonia come caratteristiche di provocazione, tabù e sfide morali siano state spesso le leve più potenti per scuotere le coscienze, stimolare idee nuove e abbattere pregiudizi radicati. Dalle raffigurazioni erotiche dell’antica Grecia alle opere di artisti rinascimentali come Boucher, Fragonard e Courbet, il continente europeo ha sempre avuto un rapporto complesso con la rappresentazione del desiderio e della sensualità. La stessa tradizione rivoluzionaria della pittura “erotica” di epoca moderna, con opere emblematiche come “Il bagno” di Manet o “L’origine del mondo” di Courbet, rivela come l’arte sia uno strumento potente anche per mettere in discussione i tabù morali e sociali, utilizzando la provocazione come veicolo di libertà.

    Edvard Munch, Cupido, 1907

    La società del controllo

    Ma perché, oggi, si tende invece a censurare o a reprimere questa stessa libertà? La risposta si trova in un contesto culturale e sociale che ha ormai radicato nel proprio DNA il desiderio di conformismo e di controllo. La paura di offendere, di disturbare o di essere giudicati impone un’ingessatura che rischia di soffocare anche i messaggi più autentici e necessari. È importante ricordare che l’arte, al suo livello più profondo, è semplice e pura libertà.  Del resto Gustav Courbet diceva: «Ho cinquant’anni ed ho sempre vissuto libero; lasciatemi finire libero la mia vita; quando sarò morto voglio che questo si dica di me: Non ha fatto parte di alcuna scuola, di alcuna chiesa, di alcuna istituzione, di alcuna accademia e men che meno di alcun sistema: l’unica cosa a cui è appartenuto è stata la libertà».

    Armando Rossi

    architetto e docente di Storia dell’arte

  • Telesio e il mondo magico ed ermetico (VIDEO)

    Telesio e il mondo magico ed ermetico (VIDEO)

    Bernardino Telesio da Cosenza è uno dei fari del pensiero filosofico. Francesco Bacone, l’autore del Novum Organum, pensava fosse il primo dei moderni per la sua capacità di superare frontiere e barriere. A spiegare il cammino del più illustre dei cosentini, seppure mai amato davvero, è stato il professore Roberto Bondì, ordinario di Storia della Filosofia all’Università della Calabria. Bondì ha aperto la Biennale di Filosofia a Cosenza in uno dei luoghi simbolo della cultura e della memoria pubblica cittadina, l’Archivio di Stato adiacente alla Chiesa di San Francesco di Paola. Tra libri antichi e pezzi importanti di storia, Bondì ha dialogato con i ragazzi delle scuole superiori.

    Bernardino Telesio ci ha insegnato che per capire noi stessi e il mondo che ci circonda possiamo fare riferimento a principi che sono solo naturali. Bondì ha spiegato anche il rapporto tra l’autore del De Rereum Natura iuxta propria principia e tutta la tradizione magica ed ermetica. Da una parte abbiamo continuità, dall’altra profonda rottura; soprattutto nella concezione democratica del sapere in Telesio che non poteva in alcuno modo condividere l’impostazione elitaria e iniziatica delle correnti esoteriche. Una rottura nella continuità. Perché non esiste mai una divisione totalizzante tra le idee ma un mescolamento che produce novità, superamenti, innovazioni, fratture.

  • Paolo Virno e noi del Cubo 18 C

    Paolo Virno e noi del Cubo 18 C

    «Ci vediamo tra due sigarette». Quelle che Paolo Virno avrebbe fumato nell’intervallo tra la prima e la seconda ora di lezione all’Università della Calabria. Il prof ci ha lasciati a 73 anni. Ricordo bene la forza del suo insegnamento e quei pomeriggi passati ad ascoltarlo e prendere appunti seduto tra i banchi del cubo 28C. Ho fatto parte pure io della cantera di FSCC (Filosofia e scienze delle comunicazione e delle conoscenza) un po’ di anni fa, il nostro cubo di riferimento era il 18 C.

    A distanza di tempo rileggo quegli appunti e trovo sempre quella circolarità e quella quadratura delle sue lezioni, simili a certe partiture geometriche di Bach. Ah, Bach, Virno lo chiama in causa quando parla dell’attività senza opera (autotelica) di Aristotele nelle mani del pianista “artista esecutore” Glenn Gould, quello delle Variazioni Goldberg. Il prof poi spiegava l’altra faccia di questa medaglia, la creatività che cambia le regole (Chomsky), l’azione trasformativa rintracciata nel Saggio sul motto di spirito di Freud.

    PAOLO VIRNO, IL VOCABOLARIO DELLA “MOLTITUDINE”

    Virno aveva una potenza intellettuale notevole. Tutto compresso in quel gigante magro con il viso scavato e gli occhi azzurri, lo sguardo malinconico di uno che ne ha viste tante; troppe. Compresa la militanza politica in Potere operaio, le accuse, il carcere e poi l’assoluzione. Ha condiviso la voglia di leggere nelle contraddizioni del capitalismo con autori, alcuni anche suoi amici, come Toni Negri. Lo ha fatto cogliendo i fiori di pensatori fuori dagli schemi come Baruk Spinoza e in quella sua “moltitudine”, parola con dentro un mondo che ha alimentato il vocabolario del Movimento. Da leggere, tra i suoi libri, proprio “Grammatica della moltitudine” (DeriveApprodi 2014).

    I PARADOSSI DI PAOLO VIRNO

    Inconfondibile quel suo accartocciare la mano, quasi volesse trattenere i concetti. Ha lasciato una traccia importante all’Università della Calabria per poi passare all’Università Roma Tre. Amante di paradossi (in greco parà-doxa cioè contro l’opinione comune) – spiegati da Zenone a Russell -, non fu da meno quando un giorno iniziò un suo corso con una delle sue frasi memorabili: «Parleremo di un Marx anti-marxista». Noi tutti spiazzati, ci guardavamo disorientati. Poi capimmo il perché. Eravamo abituati al materialismo dialettico, ma ci eravamo persi il gran finale dell’autore dei “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica”.

    Scoprimmo con Virno che Marx aveva intuito perfettamente cosa sarebbe successo a ridosso dei nostri anni: il Capitale va oltre la tipica e violenta aggressione al lavoro, salario, risparmio. Il suo obiettivo più ambizioso e subdolo resta la natura umana, la creatività. E la natura umana è quella che i greci chiamavano logos, pensiero e linguaggio. Eccolo, il linguaggio azzannato dove Virno incollava il nuovo fordismo dei call center. Io le ricordo ancora quelle lezioni: dal Frammento sulle macchine (che già a evocarlo sembra esserci una sorta di mistica) alla dimensione transindividuale, al General intellect.
    Virno non si è mai sottratto a dare il suo contributo. Nei suoi libri, nelle conferenze, nelle pagine scritte per Il Manifesto dove di tanto in tanto rincontravo le sue parole. Oggi quelle parole mancheranno un po’ a tutti noi del cubo 18 C.

    Alfonso Bombini

  • Catasti e clientelismi, la Calabria di Gioacchino Murat è adesso

    Catasti e clientelismi, la Calabria di Gioacchino Murat è adesso

    Mezzo secolo fa, Umberto Caldora si spegneva nelle residenze dell’Università della Calabria, l’ateneo che aveva contribuito a fondare e che lo aveva appena nominato ordinario di Storia Moderna. La sua morte interrompeva un percorso intellettuale che, a partire dagli archivi napoletani, aveva saputo trasformare la polvere dei dispacci in una mappa vivente delle società rurali. Il lascito più denso di questo metodo è “La Calabria nel 1811. Le relazioni della statistica murattiana”, (originariamente pubblicato negli anni ’60; ed. definitiva a cura del Centro Editoriale e Librario dell’Università della Calabria, 1995, ISBN 978-8886067232), un volume che è un’operazione di antropologia storica ante litteram.

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    Umberto Caldora, storico meridionalista, tra i primi docenti dell’Unical

    La “Statistica murattiana”

    Nel 1811 Gioacchino Murat, cognato di Napoleone e re di Napoli dal 1808, ordina una “statistique générale” del regno meridionale. Lo strumento con cui l’Impero intende tradurre il territorio in numeri, rendendolo leggibile e quindi riformabile. In Calabria, la circolare del 15 marzo 1811 arriva ai sindaci dei 405 comuni della provincia attraverso i prefetti di Cosenza, Catanzaro e Crotone. Il questionario è lungo 37 punti: popolazione per sesso ed età, bestiame, colture, strade, scuole, ospedali, debiti pubblici, usi civici, consuetudini matrimoniali.

    Caldora non si limita a trascrivere le 1.200 pagine manoscritte conservate nell’Archivio di Stato di Napoli (Fondo Intendenza, buste 1811-1813). Le confronta con i verbali delle sottocommissioni provinciali, le lettere di accompagnamento dei sindaci, le annotazioni marginali dei funzionari francesi. Ne emerge un testo ibrido dove da un lato si nota il linguaggio amministrativo di Parigi, dall’altro la voce filtrata delle comunità, spesso reticente o strategica.

    La “fotografia” della Calabria

    La Calabria del 1811 conta 498.732 abitanti (dato medio tra le tre province), con una densità di 33 ab./km², concentrata lungo le valli del Crati e del Savuto. Caldora evidenzia la struttura piramidale delle famiglie: nuclei di 7-9 persone, con alta natalità (42‰) compensata da mortalità infantile del 28%.

    Un caso paradigmatico è il comune di Acri (Cosenza), dove il sindaco don Giuseppe Salfi dichiara 11.214 anime, ma Caldora scopre che il numero è gonfiato per ottenere più esenzioni dalla leva. Confrontando i registri parrocchiali conservati nella curia vescovile, l’autore riduce la stima a 10.680, rivelando una pratica diffusa di “famiglie fittizie” create per eludere la coscrizione. Qui la statistica diventa etnografia: il censimento non registra solo corpi, ma strategie di sopravvivenza parentale.

    Il 78% della superficie è montagna o collina; solo il 12% è seminativo. La relazione di “Castiglione Cosentino descrive 1.200 ettari di uliveti, ma Caldora nota che i sindaci omettono sistematicamente i terreni demaniali usurpati. Attraverso le denunce al tribunale di Cosenza, ricostruisce la mappa delle “difese” (recinti abusivi) che riducono la transumanza del Pollino.

    Lo studio delle forme di economia

    Un altro dato: la produzione di seta greggia è di 42.000 kg annui, concentrata nelle mani di 180 famiglie di commercianti ebrei a Rossano. Caldora usa le bollette doganali per tracciare la filiera fino ai mercati di Lione, mostrando come l’occupazione francese trasformi una risorsa locale in merce imperiale.

    Le donne sono il 51% della popolazione attiva nei campi, ma compaiono solo nei capitoli “mortalità” e “matrimoni”. Caldora integra le relazioni con i processi per bigamia e abbandono di coniugi: nel 1811 si contano 42 casi a Catanzaro, tutti legati alla leva maschile. Emerge un quadro di “resistenza domestica”: donne che falsificano certificati di vedovanza per riscattare i fratelli, o che gestiscono il contrabbando di sale lungo il Neto. La statistica murattiana, pensata per razionalizzare, diventa involontariamente archivio di pratiche subalterne.

    A Caldora è stata intitolata una delle aule architettonicamente più rappresentative dell’Unical

    E dei mutamenti sociali

    L’edizione del 1995 è arricchita da “cinque appendici”. Una tabella sinottica dei 405 comuni con variazioni demografiche 1806-1811; un indice dei toponimi con varianti dialettali; un glossario di termini amministrativi francesi tradotti in calabrese;  una serie di carte tematiche (riprodotto da Caldora su lucidi negli anni ’70); un repertorio delle fonti secondarie (oltre 120 titoli).

    Ogni relazione è accompagnata da note critiche che confrontano i dati ufficiali con le memorie orali raccolte da Caldora nei mercati di Castrovillari e Spezzano Albanese tra il 1958 e il 1965. È qui che la storia si fa antropologia: il documento non è mai neutro, è sempre negoziato tra potere centrale e comunità periferica.

    A cinquant’anni dalla morte, il volume rimane “l’unico censimento integrale” della Calabria napoleonica. Eppure, è anche un monito, dal momento che le inchieste dall’alto producono conoscenza, ma anche silenzi. I comuni arbëreshë (San Basile, Lungro) dichiarano solo il 30% della popolazione reale per evitare la coscrizione; i pastori del Sila omettono i capi vaccini per non pagare la tassa sul bestiame.

    L’osservazione della storia e della vita quotidiana

    Rileggere Caldora oggi significa riconoscere che la Calabria contemporanea – con i suoi 1,9 milioni di abitanti e un tasso di emigrazione del 2,1% annuo – porta ancora le cicatrici di quelle griglie napoleoniche: catasti incompleti, clientelismi radicati, resistenze silenziose. Il viale di Castrovillari intitolato al suo nome non è solo toponomastica, ma è un invito a continuare a leggere tra le righe dei questionari, dove la storia ufficiale incontra la vita quotidiana.

  • Ester e il sovversivo: Pedretti racconta amore e Resistenza

    Ester e il sovversivo: Pedretti racconta amore e Resistenza

    È con un avvio mozzafiato («Era arrivato alla fine del mondo») che il sovversivo Ludovico, protagonista di “Ester e il sovversivo” (Edizioni Efesto pag. 218 euro 15,00), esordio narrativo di Perluigi Pedretti – approda a Grimaldi, un borgo incastonato nel cuore della catena costiera cosentina, lì confinato dal lontano Trentino. Il libro del prof Pedretti cosentino ma di origini mitteleuropee sarà presentato lunedì 10 novembre alle 16:00 nella biblioteca Stefano Rodotà del liceo classico “Bernardino Telesio” di Cosenza. A dialogare con l’autore sarà la professoressa Marta Leonetti.

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    Firmacopie di Pierluigi Pedretti, prof e scrittore

    Ester e il sovversivo, Pedretti racconta il fascismo in provincia

    È proprio il sovversivo attraverso l’incontro con Ester, «una giovane magrissima e dai folti capelli neri che lo scrutava con i suoi occhi» – ad illuminare uno dei quarantotto capitoli del romanzo. Se come ha opportunamente segnalato lo storico David Bidussa, in assenza dei testimoni è difficile raccontare e trasmettere la memoria delle atrocità e degli abusi commessi dal fascismo, Pedretti è riuscito ad accostare il triste contesto della Prima guerra mondiale a quello della seconda metà degli anni ’30 del Novecento non solo grazie ad alcune testimonianze orali (che riprendono «lunghe chiacchierate su antichi fatti grimaldesi») ma soprattutto alla documentazione relativa agli atti processuali (raccolti nell’appendice del libro) relativi ad alcuni fatti di sangue effettivamente verificatisi e che l’autore riprende e rielabora collocandoli in ambienti sociali e geografici agli antipodi, pur se permeati dalle medesime contraddizioni, innescate dall’avvento della dittatura fascista.

    Un sovversivo dal Trentino a Grimaldi

    Così di Ludovico Calza il “sovversivo” protagonista, vengono puntualmente ripercorsi non solo gli eventi più significativi della sua esistenza a Fiavè in Trentino – dal dolore per la morte della moglie Erminia, stroncata dal tetano alla struggente nostalgia per il figlio Teo, lasciato alle cure della nonna – ma anche la progressiva maturazione della sua scelta antifascista grazie all’incontro decisivo con l’insegnante d’arte e scultore Giuseppe Firiaci che lo guiderà sulla strada di una profonda educazione etico-letteraria. Assai più complesso è l’impatto con il paese sperduto di Grimaldi e con la Calabria stessa, una regione stupenda geograficamente anche se impervia, «un paradiso abitato da diavoli», segnata da una netta divisione di classe: da un lato gli «sciammergari», cioè i notabili, dall’altro i «turreri», ovvero i contadini sottomessi.

    Ester e il sovversivo, gli antifascisti nelle parole di Pedretti

    Nonostante l’apparente rassegnazione dei grimaldesi al regime, la rivalità e lo scontro tra il gruppuscolo di antifascisti e e la violenta squadraccia di miliziani che opera in paese la tensione rimane altissima al punto che il socialista Franco Lavorini, che aveva diretto la Società Operaia e aveva dato filo da torcere ai signorotti locali, viene trovato impiccato. I fascisti, capeggiati da Giovanni Fiore, che cova un bilioso risentimento per la sua condizione di reduce di guerra, avevano infatti giurato morte ai bolscevichi. Ludovico poco a poco entra nell’orbita di quei tenaci antifascisti locali che si ritrovano nella calzoleria di mastro Bruno Sefardelli, socialista dichiarato dopo l’esperienza come minatore in Carnia, e lì prende forma la sua coscienza politica.

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    Partigiane nel 1943 (foto Istituto storico Modena /Anpi)

    La forza di Ester

    L’incontro fondamentale è però con Ester, ebrea orfana cresciuta dalla nonna Rachele, nota per il suo spirito anticonformista e per essere l’unica donna che aveva aderito alla “Società Operaia”. Entrambe vivono ai margini della società e sono additate come “strie” (streghe): in realtà entrambe eredi di una conoscenza ancestrale, di un sapere altro come era spesso tipico del mondo contadino, nel quale sopravvivevano ancora sacche non cristianizzate. Sarà proprio Ester a prendersi cura di Ludovico sanandolo nel corpo e nello spirito e l’amore che sboccia inarrestabile diventa, in qualche modo, motore di trasformazione: Ludovico impara, cambia prospettiva, entra più profondamente nella realtà calabrese; Ester abbandona la solitudine, da vulnerabile diventa più forte proprio grazie all’affetto e al legame con il “sovversivo”.

    L’amore è sempre sovversivo

    Il termine rimanda anche a questo: l’amore è visto come una forma di sovversione rispetto a un regime che cerca di livellare, reprimere, cancellare differenze e anche come una ribellione morale alla solitudine e all’ingiustizia. È chiaro che la relazione tra Ester e Ludovico non è una romance: è segnata dal tempo storico, dal contesto, dalle perdite. Ma proprio per questo acquista valore: il loro legame diventa simbolo di resistenza, di possibilità di futuro, di umanità.

    Gian Marco Martignoni

  • Futuri possibili per la città

    Futuri possibili per la città

    Calvino racconta che «La città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie…», come un segreto ben celato, ma pronto a svelarsi a chi mostrasse di amarla. I protagonisti di Futuri Urbani e poi del Cosenza open Incubator, di amore ne hanno avuto parecchio verso la parte della città più trascurata e che quasi pudicamente si nasconde, le antiche pietre della città storica.

    Dall’Unical al Centro storico

    L’esperienza di Futuri Urbani ha inizio nel 2021 per iniziativa dell’Università della Calabria e specificatamente del Dispes. A ideare il progetto furono Mariafrancsca D’Agostino, che insegna Migrazioni e cittadinanza globale, Francesco Raniolo, docente di Scienza politica e Felice Cimatti, professore di Filosofia del Linguaggio presso lo stesso ateneo, con il fondamentale sostegno di Maurizio Muzzupappa, delegato al Trasferimento tecnologico dal rettore Nicola Leone. Il campo d’azione è stato il centro storico cittadino, scelto per sperimentare la possibilità di dare vita a forme critiche di sapere e a processi di sviluppo sociale ed economico nuovi.

    Si è trattato a tutti gli effetti di un sperimento di “ecologia urbana”, di ricerca che si è svolta incrociando per un verso l’analisi dei processi di neo liberalizzazione che da anni  interessano le città e tra esse Cosenza, ma anche l’osservazione dei nuovi processi di partecipazione che stanno emergendo nelle realtà urbane più marginalizzate.

    La rigenerazione urbana parte dalla partecipazione diffusa ai progetti

    Contrastare le disuguaglianze

    La potenza di quella esperienza è venuta dalla partecipazione attiva delle diverse associazioni, che avendo condiviso il progetto ne sono diventate partner e con il loro operato hanno trasformato in azione “politica” l’impianto teorico di studio. Gli interventi realizzati avevano lo scopo di contrastare le disuguaglianze e provare a mitigare gli effetti sociali dell’impoverimento materiale e immateriale del territorio.

    La contaminazione tra università, realtà urbane e associazionismo ha dato vita a una forma inedita di realizzazione della Terza missione dell’Unical, dove lo scambio è stato trasversale, tra saperi sofisticati, esperienze radicate nei luoghi e formazione relativa alla nascita di possibilità di nuove forme di economie sostenibili.

    Palazzo Spadafora, nel centro storico di Cosenza, sede dei progetti dell’Unical

    Palazzo Spadafora e le startup

    Oggi parte una seconda fase, forte dell’esperienza fin qui costruita. Si tratta di una sorta di passaggio di testimone che prevede l’inclusione nell’Open Incubator che l’Unical ha aperto dentro Palazzo Spadafora, di una serie di iniziative non soltanto economiche e imprenditoriali, ma anche di rigenerazione culturale. In questo ambito le associazioni GaiaAghia Sophia e Radio Ciroma, operano anche dentro il Palazzo, favorendo l’idea di un “incubatore sociale” che lavori sulla multiculturalità, le politiche di genere, la riappropriazione degli spazi, esercitando forme di partecipazione civica dal basso.

    Il ruolo delle associazioni

    Le associazioni da parte loro hanno accolto con grande favore il coinvolgimento giunto dal Dispes,  infatti dall’Unical non sempre c’è stata una uguale attenzione verso il centro storico. Oggi Palazzo Spadafora, sede dell’incubatore di dieci startup, è anche punto di partenza di una animazione territoriale. Ed è qui che entrano in gioco le associazioni, da diverso tempo presenti nel quartiere. Per tutto il mese di novembre si svolgeranno iniziative laboratoriali, eventi capaci di coinvolgere i cittadini e le scuole. Si tratta di un segnale di vitalità, che dimostra concretamente che attuare pratiche differenti di vivere e animare gli spazi urbani riempiendoli di senso, è possibile.

    I progetti comprendono la valorizzazione delle antiche attività artigiane

    I destinatari di questi segnali sono certamente l’università, il resto della città e ovviamente l’amministrazione comunale. Si tratta di una azione dalla valenza culturale, è ovvio, ma di cui non si può non cogliere la portata politica, che si manifesta attraverso mostre artistiche, eventi culturali, forme di richiamo tra le antiche pietre dei vicoli della città vecchia. Sono modi di reclamare per quei luoghi, spesso dimenticati, una centralità che potrebbero ancora avere, una  forma di rivendicazione di dignità per le popolazioni che li abitano.

    Il radicamento delle associazioni dentro il quartiere ha fornito loro legittimazione e autorevolezza presso gli stessi abitanti. Ecco quindi, che le loro iniziative, come quelle di Radio Ciroma, di formazione dei giovani alle forme di comunicazione, hanno trovato accoglienza e consenso.

    Le associazioni svolgono anche un ruolo formativo all’interno del quartiere

    Dare continuità alla costruzione del futuro

    Adesso si tratta di guardare oltre, dare continuità a un percorso coraggioso e certamente difficile, il cui esito positivo era tutt’altro che scontato, scaturito dalla capacità di coniugare efficacemente saperi sofisticati con la necessità di are forma concreta a quelle idee. Futuri urbani non è stata una esperienza accademica, anche se alcuni protagonisti provenivano dalle aule universitarie, ma una forma di confronto e sperimentazione di idee audaci e possibili che sono diventate realtà. Di qui la necessità che l’attenzione dell’università verso questa esperienza non vada smarrita, ma trovi rinnovata continuità.

  • Il vizio necessario della Memoria

    Il vizio necessario della Memoria

    Quando il ricordo diventa plurale, ampiamente condiviso dentro una comunità, allora si dà inizio a una memoria collettiva, una costruzione sociale che è la malta che tiene assieme le persone e riempie di senso le singole storie. Per questo il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Unical ha scelto la Memoria come tema dell’inaugurazione del nuovo anno accademico. Non una memoria qualunque, ma quella legata agli accadimenti che condussero alla Liberazione e dunque alla nascita della democrazia. Una Memoria che fin qui ha fatto da trama per un tessuto sociale cresciuto attorno ai valori resistenziali e della democrazia, ma che da qualche tempo appaiono sotto attacco, come senza infingimenti ha sottolineato Albertina Soliani, Presidente dell’Istituto A.Cervi e vicepresidente dell’Anpi e ospite della prima giornata dei lavori accademici.

    Il nuovo Rettore, Gianluigi Greco accanto ad Albertina Soliani, presidente dell’Istituto A.Cervi

    Il valore della Memoria collettiva

    La scelta del tema della Memoria ha consentito uno sguardo plurimo, che comprende quello propriamente sociologico, legato all’origine del ricordo come memoria sociale, ma pure l’aspetto storico – politico, che ci conduce in un vero e proprio viaggio dentro la Repubblica e infine il dato educativo, rappresentato dalla fondamentale trasmissione immateriale di valori ereditati dalla Liberazione, che dentro scuole e università dovrebbero essere vivi. Una specie di punto di osservazione trasversale, cui il Dispes è abituato, non solo perché «è per sua natura interdisciplinare», come ha detto il direttore Giap Parini, ma soprattutto perché da tempo e con successo è stato avviato un percorso di ricerca che chiama alla collaborazione studiosi provenienti da diverse aree scientifiche. Una scelta strategica condivisa e apprezzata dal nuovo Rettore, Gianluigi Greco, presente all’inaugurazione dell’anno accademico. Del resto Greco è stato in più occasioni protagonista dei seminari organizzati dal Dispes sulla necessità di avviare un dialogo interdisciplinare e i suoi contributi, in quelle occasioni, dimostrarono le potenzialità di una possibile coniugazione tra le “scienze dure” e quelle “molli”, tra chi crea l’Intelligenza artificiale e chi osserva il mondo attraverso la sensibilità sociologica.

    Albertina Soliani, Giap Parini e Teresa Grande

    Le eredità da salvare

    Ma quante facce può avere la Memoria? Essenzialmente quelle delle cose passate e di cui abbiamo ricevuto l’eredità e Parini le elenca tutte, perché saranno i temi che si susseguiranno nel corso dei tre giorni di studio: l’eredità del pacifismo e dell’europeismo, dell’eguaglianza, della solidarietà, dell’arte e dello sviluppo. Insomma tutto quello di cui il mondo avrebbe bisogno.

    E però per capire il senso di una memoria condivisa serve fare un passo indietro, partendo al ricordo soggettivo, che solo poi muta in patrimonio condiviso perché legato alla sfera pubblica. A condurre quasi per mano la platea della prima mattina di lavori in questo suggestivo cammino è stata la Lectio magistralis di Paolo Jedlowski, lungamente docente di Sociologia presso il Dispes, professore Emerito e sensibile osservatore del ruolo sociale della memoria.

    Beniamino Andreatta, economista e fondatore dell’Università della Calabria

    Il ricordo di “Nino” Andreatta

    Purtroppo però la memoria si scopre fragile. Le parole di Albertina Soliani sono dolenti e preoccupate. «La Memoria delle scelte che portarono a costruire la nostra identità» è in pericolo, spiega con fermezza la Presidente dell’Istituto Cervi. La sua voce è ferma, racconta dell’amicizia tra la famiglia Cervi e il partigiano calabrese Facio, spiega che oggi Memoria vuol dire «responsabilità» verso una storia di cui siamo figli ed eredi. La piccola donna che cura le pagine della resistenza si commuove solo quando, parlando dell’Unical, ricorda “Nino” Andreatta, primo Rettore e protagonista di un sogno, svelando che dalla sua Emilia si guardava verso la nostra nascente università come «una speranza per l’intero Paese» e pure questa è memoria.

    La platea presente nel corso del primo giorno dei lavori del Dispes

    La Ragione e la Forza

    Cosa resti dell’eredità di chi ha messo le fondamenta della nostro Paese lo ha poi raccontato Francesco Raniolo, politologo, Coordinatore del Dottorato in Politica, Cultura e Sviluppo. Raniolo ha strappato il velo dell’ipocrisia dominante, che ci ha convinti che i tempi che abbiamo vissuto siano stati tempi cin cui la Ragione ha governato prevalendo sulla Forza, garantendo così pace e convivenza. Invece la Forza l’avevamo “esternalizzata”, affidando la soluzione dei conflitti ad altri. Oggi le cose, spiega il politologo sono mutate, i conflitti sono in casa e la Ragione arretra lasciando terreno all’uso pericoloso della Forza. Un motivo in più per coltivare la Memoria di ciò da cui proveniamo e avere cura del lascito di libertà che abbiamo avuto in dono.