Dalla vendetta a colpi di pistola a bordo di un vespino 50, alla strage di Natale; dall’attentato che lo costringe alla sedia a rotelle, fino alla follia sanguinaria di Duisburg. E in mezzo, evasioni, fughe all’estero e ricoveri sotto falso nome: la storia di Francesco Pelle, alias Ciccio Pakistan, riportato giovedì in Italia dopo il suo arresto in Portogallo, si lega a doppio filo con quella della faida di San Luca e chiude il cerchio, a 16 anni dall’eccidio tedesco, con una delle pagine più violente della storia criminale italiana.
Trenta anni di omicidi, agguati e lupare bianche sullo sfondo di un paese, San Luca, in ginocchio. Trenta anni in cui l’uomo che fu la causa scatenante della strage davanti al ristorante “da Bruno”, ha avuto il tempo di ritagliarsi un posto alla tavola di quelli che contano. Un posto guadagnato sul sangue di una faida senza fine, iniziata con quella che sembrava un’innocua bravata nel giorno di Carnevale del 1991, e terminata a Ferragosto del 2006 con i sei cadaveri di Duisburg.
Sangue caldo
Francesco Pelle è ancora un ragazzino quando entra in diretto contatto con le guerre di ‘ndrangheta. È il primo maggio del 1993 – il crimine organizzato calabrese lega da sempre le proprie azioni omicide con le giornate di festa – e San Luca è diventato un posto pericoloso già da due anni, con i primi morti della guerra sulla montagna. Durante la mattina del giorno dei lavoratori, in una stalla arroccata in una frazione montana, cadono sotto i colpi dei killer, Giuseppe Vottari e Vincenzo Puglisi, organici della potente cosca dei “Frunzu”, giustiziati da un commando degli storici rivali dei Nirta – Strangio.
Un agguato a cui sarebbe dovuto seguire una nuova azione degli alleati dei killer, con il “pattugliamento” del paese per frenare sul nascere ogni tentativo di reazione. Ma nei primi anni ’90 le comunicazioni possono essere un problema serio anche per gente organizzata e disposta a tutto, e la seconda parte del piano salta, favorendo l’immediata reazione delle famiglie dei Pelle – Vottari.
È una fonte confidenziale raccolta dai carabinieri di San Luca a indicare proprio l’allora giovanissimo Ciccio Pakistan come uno degli autori del commando che al doppio omicidio della mattina risponderà, nel primo pomeriggio, con gli omicidi di Giuseppe Pilia e Antonio Strangio, ammazzato nella propria auto il primo, freddato davanti alla sua macelleria in paese il secondo.
Secondo quell’anonimo informatore, Ciccio Pakistan avrebbe guidato l’assalto guidando una Vespa truccata. Mai formalmente accusato di quel doppio omicidio, Ciccio Pakistan, che a quei tempi è ancora un pesce piccolo ma dalle parentele (i Gambazza e i Vanchelli) pesantissime, sparisce dai radar, rifugiandosi in Germania. Un esilio volontario, alla maniera dei boss, che gli servirà per acquisire nuovi contatti.
Ammazzateli tutti
Le faide di ‘ndrangheta non sono guerre “normali”, a volte vanno in sonno, per poi riesplodere violentissime alla prima occasione. Nel caso della faida di San Luca l’elemento che riapre le ostilità è segnato dalla cattura di uno degli storici boss del crimine organizzato calabrese, Giuseppe Morabito “il tiradritto”, scovato dalle forze dell’ordine dopo una latitanza da guinness dei primati.
In seguito alla cattura del mammasantissima africoto, restano sul terreno Antonio Giorgi e Salvatore Favasulli. I due pezzi grossi delle ‘ndrine della montagna vengono uccisi a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro e segnano il passo per l’agguato che lascerà per tutta la vita su una carrozzina il nuovo boss dei Pelle.
In questo vortice impazzito di violenza folle, dove al sangue si risponde solo col sangue, Ciccio Pakistan viene colpito alla schiena da un commando di fuoco che ha sparato da lontano: «Mi hanno voluto fare il regalo per il bambino» dirà Pelle intercettato dai carabinieri nella sua stanza d’ospedale durante la degenza per i colpi subiti. Proprio quel giorno, il 31 luglio del 2006, il figlio neonato di Pelle era stato portato a casa, ad Africo, per la prima volta.
La strage di Natale e quella in Germania
Il clima a San Luca è pesante come non mai in quei giorni, persino il ramo dei Pelle “Gambazza” tenta di mediare con il boss ferito per evitare nuovo sangue, ma senza risultato. Nel pomeriggio del giorno di Natale del 2006 infatti, un gruppo armato fino ai denti si presenta davanti al n. 150 di via Corrado Alvaro, a San Luca, la casa del boss Giuseppe Nirta, capocosca dei “Versu”. Sono decine i colpi esplosi che uccidono Maria Strangio, moglie di Giovanni Luca Nirta, vero obiettivo del commando di fuoco che intendeva vendicare il ferimento di Pakistan, e feriscono in modo grave altre tre persone, tra un cui un bambino di 4 anni.
Sarà proprio la strage di Natale a costare la condanna a fine pena mai per il boss di San Luca, che di quell’azione è stato considerato il mandante. Passano pochi mesi, a San Luca si continua a morire (ma in quel periodo erano attive anche le faide tra i Cataldo e i Cordì a Locri e quella tra i Commisso e i Costa a Siderno) ma è in Germania che la vendetta assumerà i termini più tremendi. A Duisburg, duemila e passa chilometri dal paesino arroccato in Aspromonte, vengono trucidati in sei. A guidare il commando, Giovanni Strangio, giovane fratello della donna morta ammazzata pochi mesi prima. Sarà l’atto finale della faida della Montagna, una follia di violenza senza senso che oggi, con l’arrivo in manette a Ciampino di Ciccio Pakistan, può, forse, ritenersi definitivamente chiusa.
«Quello della pace è un discorso soggettivo, personale e sindacabile. E io, nonostante la pace, continuavo a covare rancore. Brusaferri aveva tentato di ammazzare mio zio Domenico, sono cose che non si dimenticano. Ma la guerra aveva portato tanti omicidi, tanti carcerati e nessun risultato, per questo mio zio Giuseppe Cataldo e il cognato dei Cordì, Vincenzo Cavaleri, siglarono la pace».
Camicia a righe, spalle alla telecamera e toni bassi, nelle prime dichiarazioni di Antonio Cataldo (il primo a portare quel nome così pesante a collaborare con la giustizia) emergono, tra montagne di omissis, spiragli di quella che fu una delle guerre di mafia più lunghe e feroci del crimine organizzato sul mandamento jonico.
Una guerra iniziata nel 1967 con la strage di piazza Mercato e poi congelata fino al 1993, quando una bomba a mano lanciata sull’auto in corsa di Giuseppe Cataldo – uscito praticamente incolume assieme alla moglie dalla carcasse fumante dell’utilitaria Fiat ormai distrutta – riaccese gli animi, in una Babele di violenza che insanguinerà le strade di Locri per quasi un ventennio.
Il fuoco sotto la cenere
Nel racconto di Cataldo, poco più di un underdog del narcotraffico ma dal nome pesantissimo, una vita passata tra il carcere e lalatitanza e un presente da “appestato” rincorso «dagli amici e dai nemici», viene fuori uno spaccato inedito sulla pace tra i due clan santificata sull’altare degli affari: una pace che frena la violenza ma conserva il rancore. «Seppi della pace da mia zia Teresa che mi portava in carcere una ambasciata di mio zio. Quel giorno mi disse: da ora, saluta tutti». Forma e sostanza, come da tradizione ‘ndranghetistica, si fondono assieme e quel saluto, prima negato, agli esponenti della cosca rivale dei Cordì rinchiusi nello stesso carcere, sugella l’accordo che pone fine alla mattanza.
«Da quel giorno ho iniziato a salutare i Cordì e a parlare con loro. Ho parlato anche con Guido Brusaferri – nipote dei mammasantissima Cosimo e Antonio Cordì – eravamo in carcere a Reggio Calabria ma gli ho parlato un paio di volte, nonostante la pace ed i buoni rapporti, io li consideravo comunque nemici: sono loro che hanno fatto uccidere mio fratello e mio zio. Brusaferri mi aveva invitato al pranzo di Natale in cui c’erano i locresi e io non sono andato. Dopo l’attentato a mio zio, mio fratello era uscito di casa con la pistola per vendicarsi proprio su Guido Brusaferri che nell’agguato aveva avuto sicuramente un ruolo, ma poi non fece niente perché qualcuno lo avvisò e non riuscì a trovarlo».
L’attentato
Ma se sotto la cenere il fuoco continua a bruciare, la pace ritrovata consente lo scambio di informazioni. Ed è durante una passeggiata «all’aria» nel carcere di Reggio che Cataldo raccoglie dall’antico nemico Brusaferri, la confidenza sull’idea maturata nella locale locrese, di un attentato al figlio del Procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri.
«Eravamo all’aria con Brusaferri che mi disse che tutta quella storia della guerra era stata uno sbaglio e poi mi ha raccontato il fatto di Gratteri. Era il periodo che si diceva che Gratteri sarebbe potuto diventare ministro della Giustizia e tutti ne parlavano in carcere. I detenuti erano terrorizzati dall’idea che Gratteri diventasse ministro della giustizia. Lui è uno che la ‘ndrangheta la conosce ed è un uomo severo: tutti temevano leggi ancora più severe. Brusaferri mi disse: “deve sembrare una disgrazia, se lo fanno ministro simuleremo un incidente con il motorino”». Vittima designata, il figlio del magistrato di Gerace, da 30 anni ormai sotto scorta. Una circostanza che Cataldo aveva già raccontato agli investigatori e che poi aveva ritrattato ma che per fortuna di Gratteri e suo figlio non è mai stata portata a compimento.
Mi cercano tutti
La nuova collaborazione di Cataldo – che con i magistrati aveva iniziato a parlare già nel 2013, ritrattando poi in aula le dichiarazioni rilasciate agli inquirenti durante gli interrogatori «perché avevo deciso di farmi i fatti miei» – riprende solo all’inizio di questa estate. Abbandonato dalla moglie e dalla famiglia «quando sono uscito dal carcere sono andato a casa di mia madre ma la mia famiglia non mi voleva e le mie sorelle chiamarono i carabinieri per farmi andare via», rimasto senza un soldo e guardato come un paria dai vecchi compari, è lo stesso Cataldo a raccontare i motivi della sua decisione di collaborare con la giustizia.
«Nelle carte di un’operazione erano uscite delle intercettazioni in cui io facevo commenti su mio cugino e su Vincenzo Cordì. Temevo per la mia vita, in quei giorni mi cercavano con insistenza in tanti sia tra i miei parenti Cataldo sia tra gli uomini delle cosche avverse dei Cordì e dei Floccari». Ed è la paura per quello che potrebbe succedergli che spinge Cataldo a precipitarsi dai carabinieri della compagnia di Locri nella notte del sette giugno e a vuotare il sacco. Con gli investigatori dell’Arma, Cataldo parla per ore e ore, per poi ripetersi, nel pomeriggio, anche con i magistrati dell’Antimafia. Un racconto per ora coperto da numerosi omissis, ma che potrebbe fare luce su una delle pagine più oscure della storia criminale di Locri.
«Scusate, sapete quando riaprono la strada? L’autobus mi ha lasciata alla chiesa ed è tornato indietro, dice che non si passa. Sono dovuta venire a piedi». Più che una vera risposta, la signora con passo affannato che si affaccia a parlare con un volontario della protezione civile al lavoro nella ex scuola di Arghillà cerca una sponda con cui lamentarsi, dopo la scarpinata in salita che si è dovuta sorbire di ritorno dalla città. Lo stradone che taglia in due questa estrema periferia di Reggio Calabria è ancora in parte bloccato dalle macerie lasciate ieri dalla protesta volante contro l’arrivo dei migranti sbarcati al porto qualche ora prima e gli autobus hanno smesso di fare il giro completo del quartiere, in attesa che qualcuno sgombri la carreggiata.
Arrivano i migranti
La targa all’ingresso recita “Istituto comprensivo Radice – Alighieri”, ma è stata una scuola solo per una manciata d’anni, giusto il tempo di rimettere in sesto lo stabile di Catona che era stato dichiarato inagibile. Poi i lavori nella scuola a valle sono terminati e i bambini del comprensorio, così come erano arrivati ad Arghillà, sono tornati via e la struttura, che in passato ha anche ospitato gli uffici dell’ottava circoscrizione e un presidio della polizia, è tornata ad essere sprangata e assediata dalle erbacce.
Almeno fino a martedì pomeriggio quando il Comune, “sorpreso” dall’arrivo in porto dell’ennesima carretta del mare carica di disperati, ha scelto proprio quel palazzone della periferia nord per sistemare temporaneamente il nuovo carico di migranti. Ad Arghillà – palazzoni occupati, strade invase da montagne di spazzatura e capannoni sventrati dal tempo su una terrazza magica affacciata sulla Sicilia – non hanno preso per niente bene la decisione, tanto che all’arrivo dei primi autobus con a bordo i migranti – tra loro anche famiglie con bambini – in tanti sono scesi in strada.
Fuoco alla barricata
La protesta è degenerata con la costruzione di una barricata di rifiuti a cui è stato successivamente dato fuoco. Si è rimasti sull’orlo di una crisi di nervi per diverse ore, con le forze dell’ordine a mantenere calmi gli animi. Infine, la decisione salomonica dell’amministrazione reggina: confermata la presenza dei 72 migranti già nella scuola, rinculato il resto del gruppo (80 persone) verso lo “scatolone”, il palazzetto a due passi dal Granillo.
Dal canto loro, i migranti stanno bene, e dopo gli iniziali momenti di tensione hanno trascorso una notte tranquilla. Su di loro, oltre alle auto di carabinieri e polizia che presidiano la struttura, vegliano i volontari della protezione civile che hanno provveduto a portare i beni di prima necessità, giocattoli compresi, alle famiglie venute dal mare.
Lo slalom verso il carcere
Un po’ rivolta contro l’arrivo dei migranti, un po’ grido d’allarme su una periferia abbandonata che ricorda degradi pasoliniani, il giorno dopo la protesta di Arghillà quello che resta è una striscia indefinita di vecchi mobili e sacchi d’immondizia bruciati che ancora bloccano a metà la strada principale del quartiere e attraverso cui sono costretti a fare manovra anche i mezzi della penitenziaria e le auto di magistrati e forze dell’ordine che devono raggiungere il carcere poco più a monte.
«La protesta non è stata violenta ma erano tanti – dice Marco, che davanti alla montagna di rifiuti che martedì è stata data alle fiamme, gestisce un tabaccaio – e non ce l’avevano tanto con i migranti. Quelli sono solo l’ultimo dei problemi di questo quartiere. Si guardi intorno, avevano pulito dalla spazzatura un po’ di tempo fa, ora siamo di nuovo punto e a capo. Non si può vivere così». Qualche curioso si ferma a guardare la barricata che occupa metà della strada, altri allungano il collo verso la ex scuola, indicando le persone alle finestre: «Si levanu giovedì, rissiru. Virimu».
A Roccella va peggio
E se Reggio piange, a Roccella la situazione è sull’orlo del collasso. I continui sbarchi delle ultime settimane hanno infatti messo a dura prova la collaudata macchina dell’accoglienza. Il problema è sempre lo stesso: se i trasferimenti verso le strutture attrezzate non arrivano in tempo, i migranti finiscono per essere stipati per giorni e giorni in stabili non adeguati. In questo momento sono circa 300 le persone arrivate sulle banchine del porto delle Grazie di Roccella negli ultimi venti giorni e rimaste ancora in zona in attesa di trasferimento.
Sono in 123 all’ex ospedaletto, alla periferia nord della cittadina jonica; altri 80 sono sistemati alla meno peggio dentro il palazzetto dello sport e altri 90 sono stati parcheggiati in una struttura di Siderno Superiore, per una situazione che sta mettendo a dura prova tutti gli attori impegnati nella prima accoglienza, dalle forze dell’ordine ai volontari della croce rossa e della protezione civile.
Dai pizzini da distruggere appena letti ai moderni criptofonini in grado di blindare messaggi e telefonate da occhi indiscreti: archiviato inevitabilmente come obsoleto il “metodo Provenzano”, boss e narcos hanno cavalcato le nuove tecnologie nel tentativo di schermare le proprie conversazioni, in una corsa a perdifiato lungo le nuove strade della crittografia tecnologica che alza continuamente l’asticella della privacy a tutti i costi.
E in questa gara, giocata sempre sul labile confine tra ciò che è (ancora) legale e ciò che non lo è più, le organizzazioni criminali di mezzo pianeta hanno svolto un ruolo di primo piano, risultandone da sempre tra i massimi fruitori. Nella corsa all’ultimo ritrovato della tecnologia, il crimine organizzato calabrese si è ritagliato un posto in prima fila, ennesima dimostrazione che “coppole storte” e “fiori” da elargire sull’altare di antichi rituali, vanno tranquillamente di pari passo con server occulti e cloud inviolabili.
Le origini
In principio fu la Pretty Good Privacy, una tecnologia ideata da un matematico statunitense che, in un mondo ormai sempre più aperto, proponeva un nuovo modo di nascondere le proprie conversazioni. Una rivoluzione vera e propria, rimasta alla base delle attuali tecnologie di messaggistica, che finì col costare a Phil Zimmermann anche un’indagine delle autorità federali statunitensi durata tre anni prima di essere archiviata. Quello fu il punto di partenza. Da quel giorno nel 1991 molto è cambiato, meno la lotta tra chi vuole tenere segrete le proprie conversazioni e chi invece – Dea, Dda, Interpol in testa – lavora per scardinarle.
Phil Zimmermann
All’alba del nuovo millennio, quando ancora gli smartphone erano privilegio per pochi, furono i Blackberry a venire utilizzati per nascondere i messaggi agli investigatori. Nelle operazioni delle distrettuali antimafia dei primi anni 2000 infatti, sempre più spesso, i narcos – piccoli e grandi – venivano trovati muniti dei telefonini della multinazionale canadese, oggetti allora decisamente costosi.
Da Apple a Ecc
Nelle chat che si credeva inviolabili gli inquirenti, una volta trovata la “chiave”, scovavano conversazioni scottanti e numeri e contatti poi utilizzati per ricostruire l’organizzazione criminale che se ne serviva. Poi, dal 2014, sul mercato sbarcò il sistema crittografico utilizzato dagli iPhone che portò l’asticella ancora più in alto. E così come successo pochi anni prima, nelle retate delle forze dell’ordine sempre più spesso grossi calibri e piccoli underdog dello spaccio venivano pizzicati con decine di telefonini marcati Cupertino.
Ma anche questa rivoluzione durò poco. E le “armi” messe in campo dagli inquirenti – spyware in testa – portarono ad un nuovo salto verso livelli crittografici ancora più complessi e difficili da decifrare. Un salto che porta direttamente alla Ecc, acronimo che sta per elliptical curve cryptography, un particolare tipo di sistema crittografico che rende ancora più complesso il lavoro delle forze dell’ordine. Un sistema che, ovviamente, è stato immediatamente adottato anche dalle consorterie di ‘ndrangheta, da tempo ormai al vertice dei traffici mondiali di stupefacenti. Come nel caso dei due giovani narcos di Natile di Careri fermati a Locri nella primavera scorsa per un normale controllo e sorpresi con un carico di 17 chili di cocaina pronta per essere immessa sul mercato.
La Locride come il New Mexico
Le successive perquisizioni dei carabinieri in uno dei paesi più poveri d’Europa consentirono il ritrovamento di una montagna di denaro. Dentro alcuni bidoni a tenuta stagna interrati nel giardino di casa, in una rivisitazione casereccia di una delle scene più iconiche di Breaking Bad, i militari trovarono infatti quasi sei milioni di euro divisi ordinatamente per taglio. Nascosti vicino ai bidoni poi, i militari trovarono una ventina di telefonini modificati dalla Skyecc, una multinazionale canadese, con la tecnologia Ecc, impossibili da decriptare. Erano stati acquistati online e inviati nella Locride direttamente dal Sud Africa e da Algeria e Tunisia. Lo stesso tipo di telefonini “truccati” che i carabinieri di Roma trovarono durante un blitz alla Rustica, quadrante est della Capitale, qualche settimana più tardi.
https://www.youtube.com/watch?v=OjGj_pW4Cvg
Anche in quell’occasione i narcos erano giovani, incensurati e tutti originari della Locride. E anche in quell’occasione, oltre al sequestro di quasi sei chili di cocaina arrivata in Italia direttamente dal Perù, gli inquirenti si trovarono di fronte a numerosi criptofonini. La gang li utilizzava per trattare i movimenti della droga su un asse che riusciva ad estendersi dal centro e sud America fino alla Turchia e all’Albania. All’interno dei device sequestrati dalle forze dell’ordine, la chiave per ricostruire i movimenti delle nuove leve del clan – tutti giovanissimi, tutti incensurati – sono rimasti a lungo lettera morta.
Il mercato si evolve
Poi storia di poche settimane dopo, un’indagine dell’Europol su un monumentale giro di droga tra il Belgio e l’Olanda ha consentito di scardinare il forziere segreto dentro cui le mafie nascondevano parte dei loro movimenti informatici. Un’operazione di decriptazione imponente – resa possibile probabilmente dall’utilizzo di una talpa – che di fatto escluse dal mercato il colosso canadese.
Chiusa però la porta di Skyecc – che vendeva a prezzi esorbitanti i propri prodotti alla luce del sole, magnificandoli su internet come ultima frontiera della riservatezza – ecco che (quasi) immediatamente si è aperta una nuova finestra. Sono arrivate nuove compagnie – una di queste si chiama Ghost e i suoi banner si possono trovare online tra quelli che pubblicizzano jammer e bonifiche ambientali – che utilizzano una tecnologia simile. Promettono una crittografia «di livello militare», in una gara senza fine che vede ai nastri di partenza anche i tradizionalissimi mafiosi nostrani.
I mesi che precedettero l’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale furono estremamente difficili per gli italiani d’Australia. Ore di fila davanti alle caserme di polizia, tesserini identificativi, divieti di possedere apparecchi radiofonici o macchine fotografiche, restrizioni su alcuni tipi di lavoro: la loro normalità finì sconvolta.
Da una parte c’erano i dettami della white policy sostenuta dal governo del quinto continente, che mirava a un paese abitato quasi unicamente da persone bianche (e gli italiani, così come i greci e gli jugoslavi, non erano considerati propriamente bianchi). Dall’altra, la paura che la comunità italiana presente sull’isola (in quegli anni stimata intorno alle 30mila unità che ne faceva il gruppo etnico non anglosassone più numeroso), potesse agire da quinta colonna in favore delle forze dell’Asse.
In mezzo loro, migliaia di contadini, maestri, pescatori, muratori che avevano deciso di trasferirsi down under nel tentativo di accedere a una vita migliore. Una situazione da separati in casa che precipitò il 10 giugno del ’40 quando Mussolini, tra gli applausi osannanti della folla di piazza Venezia, rese pubblica la dichiarazione di guerra contro la Francia e contro il Commonwealth britannico, di cui l’Australia era parte integrante. Il rovinoso ingresso in guerra del Bel Paese segnò infatti l’inizio di un periodo tremendo per gli italiani d’Australia, Da quel giorno e fino alla fine del conflitto divennero, loro malgrado, enemy aliens, nemici stranieri.
In internamento
Fascisti, antifascisti, anarchici ma anche semplici cittadini che avevano avuto il “torto” di avere fatto il servizio militare in patria o che finirono al centro delle delazioni dei vicini di casa. Furono tantissime le segnalazioni degli australiani che guardavano con sempre maggiore sospetto a quella comunità così eterogenea che stava mettendo radici nel loro paese. Bastava pochissimo per finire nella lista.
Migliaia di uomini e donne – molti dei quali avevano già ottenuto la cittadinanza australiana o erano stati naturalizzati – da un giorno all’altro finirono in un incubo nascosto dietro nomi rassicuranti come Loveday, Orange e Hay. Nei tre maggiori campi costruiti nelle zone più remote del continente dall’esercito australiano per contenere quella massa indistinta di umanità, furono rinchiusi in quasi 5000, poco meno del 20% dell’intera comunità italiana. Una percentuale enorme se confrontata ai medesimi provvedimenti adottati per gli enemy aliens nelle altre nazioni con cui eravamo in guerra.
Il campo d’internamento di Loveday in Australia
I primi arresti seguono di pochi giorni la dichiarazione di piazza Venezia. Nel mirino del ministero della Guerra finiscono tutti quelli che potrebbero, anche lontanamente, costituire una minaccia per il Commonwealth, donne e anziani compresi. Una rete dalle maglie fittissime in cui finiscono impigliati migliaia di innocui lavoratori, in una sorta di criminalizzazione etnica che lasciò strascichi pesantissimi sulla comunità italiana. Famiglie divise, attività economiche perdute, sequestri di beni: una pagina nerissima della storia australiana del ventesimo secolo costruita più su un pregiudizio razziale che su un reale pericolo.
Arrestateli tutti
I primi a finire in arresto, oltre ai pochi fascisti che agivano alla luce del sole, furono i pescatori di Bagnara Calabra che agli antipodi avevano messo in opera le loro conoscenza del mare diventando, assieme ai colleghi di Molfetta in Puglia, i maggiori protagonisti del settore ittico in New South Whales e in South Australia. La loro colpa, muoversi su pescherecci d’altura che avrebbero potuto favorire l’ingresso nel Paese di spie e armi per la conquista del continente.
Ma a finire nei campi d’internamento – vere e proprie carceri con torrette, filo spinato e guardie armate, costruite a migliaia di chilometri dai centri abitati spesso nelle zone desertiche del continente – furono tantissimi semplici lavoratori che nulla avevano a che fare col fascismo e nulla avevano a che fare con la guerra.
Processi sommari
«È italiano, è giovane, ha svolto il servizio militare. Queste sono le uniche cose che bisogna prendere in considerazione. La domanda deve pertanto essere respinta»: si erano infrante su queste poche parole, pronunciate a margine dell’udienza per la sua scarcerazione, le speranze di Giuseppe Panetta di ritrovare la libertà. La polizia militare lo aveva arrestato a Cabramatta, una trentina di chilometri a sud est di Sydney, tre mesi prima, nell’ottobre del 1940.
Ma già nelle settimane e nei mesi precedenti, gli uomini in divisa si erano presentati alla sua porta tante volte per interrogarlo. Due anni prima, nell’agosto nel 1938, si era imbarcato in terza classe sul transatlantico Oronsay assieme al fratello Michele: partivano da Martone, piccolo borgo arroccato sulle colline dello Jonio reggino, destinazione Sydney.
Giuseppe Panetta fu una delle vittime della giustizia australiana
«Sono venuti ad arrestarmi, ma nessuno di loro mi ha detto perché. Mi hanno chiesto dove lavoravo, dove vivevo e con chi, ma nessuno mi ha mai letto le accuse per cui venivo arrestato». Sono passati tre mesi dalla sera in cui i militari lo hanno trasferito nel campo di detenzione di Hay, nelle desolate zone desertiche del NSW e Panetta è riuscito, grazie all’aiuto di un altro detenuto calabrese che farfuglia qualche parola d’inglese, a presentare domanda di rilascio al tribunale che si occupa degli enemy aliens.
«Io sono venuto in Australia per lavorare – racconta ai giudici – perché in Italia non guadagnavo abbastanza per mantenere la mia famiglia. Sono arrivato qui grazie alla chiamata di mio zio e appena avrò denaro sufficiente farò arrivare anche mia moglie e i miei quattro figli». La sua storia è simile a quella di tanti che come lui sono finiti senza prove nei campi disseminati nel bush australiano.
La lettera con cui Panetta prova a spiegare di non aver avuto mai legami col fascismo prima del suo arrivo in Australia
Ma ai giudici che lo interrogano, paradossalmente, non interessa troppo la sua vita in Australia: loro vogliono sapere di quando si trovava in Italia. «Sì, ho fatto il militare quando avevo 21 anni – risponde Panetta, che di anni ormai ne ha 33 – tre mesi di addestramento in artiglieria e poi il resto della leva a riparare dormitori e caserme. Facevo il muratore. Non sono mai stato iscritto al partito fascista, non mi interessava». In effetti Panetta non ha mai preso la tessera del partito e quella scelta aveva finito anche per pagarla molto cara, ma i giudici non gli credono e su quel tasto insistono parecchio.
«Nessuno mi ha mai chiesto di iscrivermi al partito fascista, e io non sono mai andato a cercarli – racconta ancora ai giudici – non avevo niente da spartire con i fascisti. Prima di venire in Australia avevo anche chiesto al potestà del mio paese di poter partire per l’Etiopia, ma la mia richiesta fu respinta perché non avevo la tessera del partito. Mi disse che se volevo partire, avrei potuto farlo come soldato, ma che senza la tessera non mi avrebbero mandato come semplice colono».
La scheda delle forze armate australiane su Panetta
Non era un fascista Giuseppe Panetta (così come non erano fascisti migliaia degli internati nei campi), né una minaccia: era un lavoratore, un migrante economico ante litteram. E in testa aveva solo il pensiero di fare un po’ di soldi per farsi raggiungere dalla famiglia. Esattamente come i disperati che ogni giorno arrivano sulle nostre coste a bordo di scassati barchini. La sua colpa era di essere giovane, in salute e di provenire da un paese lontanissimo ma in guerra con il paese dove si era rifugiato per scappare dalla miseria.
«Pur non essendoci alcuna prova di attività fasciste del soggetto – annota a verbale J.D. Holmes, rappresentante della pubblica accusa in nome del ministero della Guerra britannico – egli ha vissuto nei sei mesi precedenti all’ingresso in guerra dell’Italia a casa di un iscritto al partito fascista (un conterraneo per cui Giuseppe Panetta lavorava e che gli aveva concesso, compreso nel salario, l’uso di una brandina dove dormire, ndr). E se è vero che il padrone non è tenuto a dare spiegazioni ai propri operai sulle proprie attività politiche – dice il pm – lui non poteva non sapere. Abbiamo davvero poco materiale per attaccare lui o il suo comportamento in Australia, tuttavia il soggetto ha quella nazionalità (italiana, ndr), è giovane e ha prestato servizio militare. Questi, signori, sono gli unici argomenti che occorre sottolineare».
Una giustizia tremendamente ingiusta a cui il governo australiano tenterà di porre rimedio, con scuse ufficiali per quella ingiustificabile sospensione dei diritti civili, solo nel 1991. In quel campo, Panetta, ci trascorrerà altri tre anni prima di essere trasferito, assieme a tanti altri detenuti italiani, nei Civil Aliens Corps, le unità che raggruppavano lavoratori da destinare ai settori economici interni che più pagavano l’assenza di manodopera australiana impegnata al fronte.
Lavori forzati
All’alba dell’armistizio quindi, siamo nel 1943, la situazione per gli enemy aliens all’interno dei campi comincia un po’ ad alleggerirsi. Ma le autorità militari australiane non sono ancora disposte a rilasciare gli internati per farli tornare alle loro case e alle loro professioni. Vengono così istituite delle unità lavorative in cui incanalare gli uomini che venivano rilasciati dai campi d’internamento: minatori nelle cave di sale, taglialegna nelle foreste pluviali, operai impegnati nella costruzione della ferrovia panaustraliana che deve collegare, attraverso migliaia di chilometri di deserto, il Northern Territory con il South Australia. Nei Civil Alien Corps poi finiscono anche quegli enemy aliens che erano riusciti a scampare agli arresti del ’40: «In pratica – scrive Isabella Cosmini Rose dell’università di Adelaide – ogni uomo compreso tra i 18 e i 60 anni poteva essere costretto a prestare servizio nei Cac».
Il DIpartimento della Difesa australiano imponeva alla popolazione non britannica di registrarsi in un apposito elenco
Ma i campi di lavoro sono diversi da quelli d’internamento. Le regole sono dure ma meno stringenti, le baracche non hanno le sbarre e i lavoratori, se il loro comportamento viene giudicato consono, possono anche tornare dalle loro famiglie per un paio di giorni ogni mese. E poi nei Cac, gli enemy aliens vengono pagati, anche se con stipendi decisamente inferiori a quelli dei colleghi australiani. Ma i lavori a cui gli enemy aliens vengono destinati sono duri, in alcuni casi durissimi. E sono tanti che, sfruttando l’assenza di guardie armate, ne approfittano per scappare e tornare qualche giorno a casa. Multe salatissime e il concreto rischio di arresto non furono sufficienti a trattenere i lavoratori nel campo.
Domenico Cirillo era partito da Caulonia nel 1935, destinazione Adelaide. Quando fu “arruolato” nei Civil aliens corps fu mandato a Port Price nella penisola di York a lavorare nelle cave di sale. «A Port Price estraevamo il sale con le pale e i picconi. C’erano altri 6 italiani con me e dormivamo sul pavimento senza un materasso, solo con un cuscino e un lenzuolo. A terra era così freddo che si rischiava il congelamento e così un giorno chiesi al mio capo il permesso di tornare a Adelaide a prendere qualche coperta ma si rifiutò. Determinato a prendere le coperte, un venerdì notte, presi segretamente il furgone della posta fino a Port Wakesfield e da lì il treno fino a Adelaide. Il mattino dopo sono andato al commissariato e sono stato multato di 50 sterline».
Tra il 1942 e il 1945 furono 1058 i procedimenti avviati e 947 furono le condanne emesse. In 305 casi le sentenze furono di internamento e i rimanenti procedimenti finirono con delle multe. Uno degli stranieri fu punito con 21 giorni di carcere con l’accusa di avere lasciato il campo viaggiando da Port Augusta a Findon senza permesso.
L’uomo, Luigi Fazzolari anche lui partito da Caulonia, ha raccontato: «All’Allied Works Council mi avevano detto che mi avrebbero dato un lavoro leggero ma quando sono arrivato là, il capo mi ha detto che avrei lavorato con il piccone e la pala. Gli ho detto che non avrei potuto farlo a causa delle mie condizioni di salute e gli ho chiesto un lavoro più leggero o di essere messo nelle cucine. Mi ha risposto che non c’erano lavori leggeri e che non mi avrebbe messo in cucina. Così ho deciso di tornare a Findon dalla mia famiglia. Volevo tornare là per vedere un medico e per andare all’Allied Works Council a chiedere ancora che mi dessero un lavoro leggero».
Una pagina nerissima e colpevolmente poco conosciuta dell’emigrazione in Australia che vide coinvolti centinaia di calabresi che dall’altra parte del mondo ci erano finiti per inseguire una vita migliore e a cui furono sospesi diritti civili e di cittadinanza.
Canadair che non si trovano e quando si trovano può capitare che, nel bel mezzo di un intervento, debbano tornare a Ciampino per il cambio turno dell’equipaggio. Soccorsi che non conoscono la montagna e alla difficoltà dell’intervento devono aggiungere quelle per trovare la strada giusta. Piromani agguerriti al soldo di interessi senza fine e attivi H24. Autobotti e pick up disseminati col contagocce, e bilanci dedicati alla prevenzione che, per entità dei fondi, se la giocano con la sagra della melanzana porchettata.
L’Aspromonte brucia da settimane: ettari e ettari di boschi e memorie persi per sempre, che riaprono vecchie ferite e che riportano a galla vecchi problemi. Dopo anni di relativa quiete, le fiamme hanno riaggredito la montagna su più fronti come nell’estate del 2012, l’ultima in ordine di tempo in cui si sono registrati danni simili a quelli di questi giorni. In dieci anni molte cose sono cambiate, e non sempre in meglio.
Il fuoco corre veloce
«Quando un incendio non viene contrastato efficacemente nelle prime ore, poi è difficile riuscire a domarlo. Le nostre montagne sono impervie, in molti punti quasi inaccessibili. È difficile intervenire quando il vento si alza e le fiamme diventano alte. A San Lorenzo il canadair si è visto dopo due giorni. Troppo tardi». Pietro è un vecchio operaio travasato dall’Afor a Calabria Verde, una vita passata nelle squadre antincendio che operano nel parco. «Il vero problema resta la prevenzione. Una volta eravamo in centinaia ad occuparci del bosco, ora nella mia squadra siamo in 19 quasi tutti anziani come me e prossimi alla pensione. Noi facciamo il nostro, ma il territorio è gigantesco».
Il Parco d’Aspromonte avrebbe le carte in regola
Sono 64 mila ettari spalmati dal Tirreno allo Jonio passando per i 2000 metri di Montalto, un patrimonio naturale inestimabile, uno scrigno di storie e di memorie. In poco più di venti giorni, di questa meraviglia tutta calabrese, sono andati in fumo quasi 5 mila ettari. Un disastro che solo per caso non ha distrutto anche le faggete vetuste di San Luca, fresche di nomina a patrimonio dell’umanità e che ha reso evidente come più di qualcosa, nei meccanismi a tutela del parco stesso, non sia girata per il verso giusto. E non solo per colpa dei canadair.
Eppure, almeno a livello teorico, il parco d’Aspromonte ha tutte le carte in regola. Dettagliatissimo il piano quinquennale anti incendiboschivi. Al suo interno le linee guida per gli interventi di prevenzione e spegnimento degli incendi con tanto di tabelle storiche, fattori di rischio, idee per la salvaguardia del territorio da realizzare a braccetto con chi quel territorio stesso lo vive. Ma quello che splende sulla carta, a volte, non brilla della stessa luce nella realtà.
Il Parco difeso da sei autobotti
«La rapidità dell’intervento deve essere assicurata sia da una corretta e omogenea dislocazione delle squadre e dei mezzi antincendio – si legge nel piano Aib del parco nazionale d’Aspromonte – e sia dall’esistenza e corretta percorribilità delle vie di comunicazione». Passati ormai i tempi dell’elefantiaca pianta organica dell’Afor – diventata negli anni, suo malgrado, ricettacolo di clientele e favoritismi – la realtà del 2021 si scontra con una penuria di mezzi e uomini disarmante.
Nel territorio del parco svolgono servizio 5 autobotti dell’azienda Calabria Verde – a cui si devono aggiungere quelle dei vigili del fuoco che operano nelle caserme comprese entro i confini del parco – più una del consorzio di bonifica. Sei mezzi in totale, dei quali quattro stazionano in aree di competenza dell’ente e due sono invece parcheggiate, rispettivamente, a Reggio e Roccella, decine di chilometri lontani dalle montagne.
La localizzazione delle autobotti attive nel Parco nazionale d’AspromonteLa localizzazione delle autobotti e della altre strutture A.I.B. nel Parco del Pollino
Stesso discorso per i pick-up, i mezzi in genere in forza alla protezione civile e che hanno comunque una capacità di una cisterna ridotta che varia tra i 300 e i 500 litri. Nel parco d’Aspromonte sono sette, disseminati un po’ a pelle di leopardo e per fare rifornimento, spesso devono fare tragitti di ore con tempi morti che posso risultare decisivi. Il confronto con la forza schierata dal parco nazionale del Pollino – per buona parte ricadente in Calabria – è disarmante.
Il prezzo della sicurezza
Tra una sagra al fantomatico km zero culinario e uno spot tra vecchi con la coppola storta, i fondi destinati alle cose serie sono andati via via scemando e così, anche il parco d’Aspromonte si è trovato a fare i conti con la nuova realtà. Una realtà così striminzita che ha portato l’ente a stilare un piano di spesa antincendio di 120mila euro l’anno valevole fino al 2022. Una somma ridicola – solo mandare in tv durante le Olimpiadi il mortificante spot targato Muccino è costato cinque volte di più alle casse pubbliche – che comprende le spese per le attività di previsione, prevenzione, avvistamento, acquisto macchine e attrezzature, attività informative, sorveglianza e interventi di recupero.
Sintesi economica del piano A.I.B. del Parco d’Aspromonte
In soldoni, fanno circa due euro per ettaro speso in prevenzione e spegnimento. Un recinto striminzito, stretto tra 100mila di fondi propri e 20mila bollati come «altri fondi» che per oltre metà (70mila euro) viene investito per pagare le squadre di sorveglianza e che lascia alle attività di prevenzione (interventi di silvicoltura, piste forestali, punti d’acqua) una mancia di 30 mila euro.
«Nessuno ha spento il fuoco. Si è spento da solo, quando non c’era più niente da bruciare». Pietro e Nino sono nati a San Lorenzo, 150 abitanti appollaiati a 800 metri d’altezza sul versante jonico d’Aspromonte. Nell’ultima settimana hanno visto, impotenti, la loro montagna bruciare. Ettari e ettari di castagni, pini (zappini li chiamano da queste parti), querce, ulivi, abeti.
Cenere e desolazione nel Parco d’Aspromonte dopo i terribili incendi dei giorni scorsi
Zio e nipote divorati dalle fiamme
Le fiamme si sono mangiate tutto, scendendo e risalendo i costoni delle montagne fino a sfiorare quota 1200, a due spanne dalle foreste di faggi e minacciando da vicino anche i borghi di Roccaforte del Greco, Bagaladi e Roghudi. È qui, nella valle che aggira il paese e ridiscende verso il mare, che si sono registrate le prime due vittime dell’estate degli incendi. Cercavano di mettere in salvo il loro uliveto: sono morti a pochi metri di distanza, zia e nipote, sorpresi dalle fiamme nel cuore grecanico del parco d’Aspromonte.
A Santa Maria, piccola frazione appena fuori dal centro abitato, le fiamme hanno annerito i muri di due case distruggendo un deposito di legna e un paio di mezzi agricoli: «Qualche settimana fa il proprietario di quel capanno è morto per essersi ribaltato con il trattore mentre ripuliva il suo fondo, ora il fuoco ha fatto il resto» racconta Nino Pellicanò, cinquantenne che da San Lorenzo non si è mai mosso e che le montagne le conosce come le sue tasche, mentre la strada comincia a salire e il panorama cambia in modo radicale.
Le api sterminate dagli incendi dei giorni scorsi
Gi animali non hanno avuto scampo
Quello che sorprende è il silenzio. Un silenzio irreale coperto solo dal borbottio del pandino 4×4 che si arrampica sulla terra nuda. Non ci sono più uccelli a sorvolare le cime di questo pezzo di montagna spogliato di vita. Solo corvi, a decine: volano bassi e banchettano con i resti degli animali che non sono riusciti a scappare dalle fiamme. «Tassi, faine, scoiattoli, martore: i mammiferi più piccoli e più lenti non hanno avuto scampo ma sono morti anche cinghiali, volpi e lepri. Gli animali sono stati accerchiati dal fuoco e confusi dal fumo, non avevano scampo». È quanto racconta Pietro Luca, poco più di 30 anni, una laurea in scienze forestali in tasca e un lavoro da tecnico dei computer in Friuli, 1400 km dalle sue montagne.
Il fuoco trasforma la montagna in un set lunare
Il rogo risparmia solo la vecchia Lancia del medico
La stradina risale il fianco occidentale della montagna e i danni del fuoco diventano sempre più evidenti. Scheletri di pini marittimi anneriti, carcasse di quelle che erano state ginestre: il fuoco ha attaccato duro, muovendosi su più fronti e rendendo vano anche il lavoro delle squadre dei vigili del fuoco e i lanci del canadair «che nei primi due giorni di incendio comunque non si è visto», dice ancora Nino.
Sulla cima di Peripoli, c’è una piccola chiesa dai muri scrostati. Dentro, oltre alla lapide che ricorda la figura del vecchio medico condotto del paese a cui la chiesa è dedicata, c’è una vecchia Lancia Flavia. L’auto è parcheggiata dietro l’altare. La comprarono i cittadini di San Lorenzo al loro dottore che da quel giorno non dovette più andare a fare le visite a piedi e lì, accanto al suo ex padrone, è stata seppellita. Sono le uniche cose rimaste integre su questo cucuzzolo: la radura tra gli “zappini” in cui è stata costruita l’ha salvata dalle fiamme, il resto è terra bruciata su cui si affacciano le altre cime della montagna ormai spogliata dal fuoco.
La pinete spazzata via
Risalendo verso punta d’Atò, oltre i mille metri di quota, l’intera pineta che ricopriva la cima della montagna è stata letteralmente spazzata via. Qui le temperature hanno raggiunto picchi così alti che anche la terra sembra essersi liquefatta e anche muoversi a piedi diventa complicato. La stradina si inerpica tra migliaia di tronchi distrutti dal fuoco e sdraiati sul terreno molle.
«Questi alberi tenevano in piedi la montagna – ci dice Nino, che con il parco d’Aspromonte in passato si è trovato anche a collaborare – per capire l’entità della tragedia che ci ha colpito basterà aspettare le prime piogge e contare i danni che si lasceranno dietro». «La mia paura è che nessuno raccoglierà quei tronchi – gli fa eco amaramente il giovane agronomo forestale – e quando il sottobosco ricrescerà e scoppierà un nuovo incendio, quei tronchi anneriti saranno ulteriore combustibile per la prossima tragedia».
Anche un piccolo parco giochi per bambini divorato dalle fiamme in Aspromonte
L’emblema del dissesto idrogeologico
La strada sterrata riprende a salire mostrando vecchie armacere, muri a secco fino a ieri nascosti dalla rigogliosità della montagna. Sopra di esse una foresta di castagni, i tronchi anneriti, le chiome devastate dalle fiamme: «L’unica speranza è che qualche fronda, tra quelle in cima, sia rimasta integra. Solo così le piante potrebbero riprendersi, ma la situazione è davvero drammatica, è andato tutto distrutto». Nel silenzio artificiale di questa parte di Aspromonte ferito, rimbomba il rumore di un elicottero antincendio che vola verso i versanti più settentrionali della montagna dove ancora insiste qualche focolaio. Si allontana sorvolando la frana di Colella, diventata emblema del dissesto idrogeologico calabrese e simbolo stesso dello “sfasciume pendulo” che rischia di diventare l’Aspromonte.
Quello che ti colpisce immediatamente è l’odore: una cappa di fumo, cenere e plastica liquefatta che graffia la gola e ti impedisce di vedere a qualche decina di metri di distanza. La mattina successiva al grande incendio che ha messo in ginocchio i margini settentrionali del parco d’Aspromonte e messo a repentaglio la sicurezza stessa di due comuni della valle del Torbido, evacuati per precauzione, il panorama è cambiato profondamente. Delle querce alte come palazzi di tre piani e degli ulivi secolari con tronchi grandi come macine da mulino, resta giusto qualche moncherino fumante, a dominare un paesaggio ormai lunare che, imprevisti esclusi, impiegherà decenni a tornare in sesto. Impossibile ancora una prima conta dei danni, con i focolai che non lasciano tregua e i canadair che dalle prime luci dell’alba di giovedì hanno ripreso a fare la spola tra il mare e i primi anfratti della montagna.
Il paesaggio spettrale a Grotteria dopo l’incendio di ieri: il verde delle colline ha lasciato il posto al grigio della cenere
Evacuati
Martone, San Giovanni di Gerace, Grotteria: sono tre i micro paesi della Locride a pagare il tributo più alto al super lavoro dei piromani. «Una situazione mai vista prima – racconta Vincenzo Loiero, primo cittadino di Grotteria, poche centinaia di anime arroccate a poche spanne dal mare – a lungo abbiamo temuto che le fiamme raggiungessero le case. Siamo certamente di fronte all’opera dell’uomo. Troppi i focolai e troppo distanti l’uno dagli altri per pensare ad altre situazioni, questi sono certamente incendi di origine dolosa».
La situazione è andata peggiorando con il passare delle ore ed è diventata così grave da convincere lo stesso sindaco a firmare, nel tardo pomeriggio di ieri, un’ordinanza di evacuazione del borgo che, nella sostanza però, quasi nessuno ha rispettato. Nessuno, o quasi, ha voluto lasciare le proprie case che rischiavano di finire divorate dal fronte dell’incendio che dalle montagne aveva raggiunto la prima periferia del paese.
Da protettrice a protetta
Alla fine saranno solo una decina le famiglie costrette ad abbandonare le proprie abitazioni in via precauzionale. Gli altri sono rimasti in paese, nel tentativo di dare una mano alle quattro squadre dei vigili del fuoco che per l’intera giornata hanno lottato per fronteggiare il muro di fiamme che marciava dai monti della Limina e che nel pomeriggio si era preso la vita di Mario Zavaglia, pensionato di 77 anni sorpreso dal fuoco mentre tentava di salvare i suoi animali in una casetta colonica.
Con sifoni da giardino, con i secchi di plastica, con le pale: tutti si sono dati da fare per cercare di rimediare ad una devastazione che sembrava ormai inarrestabile. Quando le fiamme hanno raggiunto la rupe su cui si affacciano il municipio e la chiesa di San Domenico, sono stati i fedeli ad agire in prima persona per spostare la statua della Madonna di Pompei – patrona del paese – dalla sua nicchia e metterla in salvo. Sistemata inizialmente sul sagrato della chiesa, la statua è stata trasportata all’interno di un’abitazione privata che non era direttamente minacciata dall’incendio.
Niente più acqua potabile
Solo verso la mezzanotte l’allarme è rientrato, con le fiamme che sono state respinte a pochi metri dal centro abitato che alla fine della giornata conterà una solo casa distrutta dalle fiamme. Peggio è andata invece nelle frazioni più interne dove il calore provocato dall’incendio ha letteralmente sciolto le tubature in plastica dentro cui scorre l’acqua potabile, lasciando decine di famiglie a secco. Il servizio idrico è garantito grazie al continuo via vai delle autocisterne.
Ciò che rimane della casa distrutta dalle fiamme a Grotteria
Sedici famiglie allontanate
Grave la situazione anche nel limitrofo comune di San Giovanni di Gerace: anche qui le fiamme hanno lambito le prime case del borgo e il sindaco è stato costretto ad allontanare 16 famiglie dalle proprie case che rischiavano di essere distrutte dall’incendio. La situazione è migliorata nel corso della notte, ma anche qui il verde aggressivo delle colline è stato sostituito con una brulla grigia che puzza di morte.
Il cuore della montagna in fumo
E se a Grotteria si tira un sospiro di sollievo dopo ore di angoscia, le preoccupazioni si spostano su Martone, appena una manciata di chilometri più a nord, dove il satellite segnala il fronte di fuoco più ampio attualmente attivo nel reggino. Ancora lontani dal centro abitato, gli incendi qui hanno colpito duro con decine di ettari di boschi andati distrutti: anche la pineta della Rina, consueto rifugio cittadino nelle giornate di canicola estiva, è stata spazzata via.
E addentrandosi nel cuore della montagna le cose vanno ancora peggio. Nella serata di mercoledì solo l’intervento di alcuni volontari ha consentito di portare in salvo una mandria di mucche che rischiava di finire bruciata. Un lavoro pericoloso – la stalla è stata distrutta dalle fiamme pochi minuti dopo l’evacuazione – ma preziosissimo e che ha consentito di portare in salvo anche un grosso allevamento di api: piccoli segnali di ottimismo, sull’orlo di una situazione drammatica.
Mucche in quel che resta dei pascoli dopo l’incendio di ieri
«Abbiamo provato a interrompere il fronte del fuoco servendoci anche della strada – racconta Renzo Calvi, giovane assessore all’Ambiente del comune – ma avevamo solo un idrante e la forza della nostra disperazione. All’inizio sembrava ce la potessimo fare, ma quando si è alzato il vento le cose sono precipitate e le fiamme hanno finito per tagliarci il passo. È andato tutto in fumo».
Vengono dal Kirghizistan e dall’Uzbekistan, spesso dall’Ucraina o dalla Russia profonda, qualche volta dal Tagikistan col loro carico di migranti. Sono quasi sempre uomini giovani, raramente c’è qualche donna. Catapultati sulle spiagge dello Jonio calabrese, il loro viaggio inizia mesi prima nei villaggi semisperduti delle steppe dell’ex Unione Sovietica. Poi prosegue attraverso la Turchia e termina, nella maggior parte dei casi, in una cella delle carceri di Locri e di Reggio. Gli scafisti che da anni si occupano di pilotare i barchini a vela dalle coste dell’Asia Minore fino alle nostre spiagge hanno sempre profili che si somigliano.
Sono giovani, spesso sotto i 30 anni, e arrivano da microvillaggi di Stati e staterelli poverissimi (oligarchi esclusi, ovviamente). Sono quasi sempre incensurati, non si accaniscono contro i migranti durante il viaggio. Cresciuti in regioni lontanissime dal mare, raccontano di essere stati reclutati a domicilio e trasportati sulle coste della Turchia. Lì, dopo un training di una manciata di giorni sulle regole base della navigazione, finiscono al timone dei velieri rubati nei tanti porticcioli di quel pezzo di Mediterraneo. Rappresentano l’ultimo incastro di una tratta che si perpetua identica (o quasi) da oltre venti anni.
Gli ultimi tre in ordine di tempo li ha sorpresi una pattuglia dei carabinieri a Brancaleone nei primi giorni di luglio. Dopo avere avvicinato alla spiaggia il piccolo veliero carico di 27 persone che avevano pilotato attraverso il Mediterraneo, si erano lanciati in mare. Tentavano di raggiungere la costa e far perdere le loro tracce, li hanno ripresi a qualche centinaia di metri dal luogo dell’ennesimo sbarco. Vengono dalla Russia e dall’Ucraina, uno di loro è di nazionalità turca. Andranno a rimpolpare la colonia di connazionali che affolla il carcere di Arghillà, nella periferia reggina. Su di loro pende l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Le condanne, quando arrivano, superano raramente i quattro anni e i procedimenti, sempre più spesso, si concludono con un patteggiamento.
L’ingresso del carcere di Arghillà a Reggio Calabria
Quindici metri, 69 migranti
Farrukh Pardaboev e Fasliddin Sultanov hanno poco meno di trent’anni. Vengono da un piccolo centro dell’Uzbekistan non troppo lontano da Samarcanda, migliaia di chilometri lontani dallo specchio di mare più vicino. Un pattugliatore della Guardia di finanza li ha sorpresi a una decina di miglia dalle spiagge di Riace nel luglio dello scorso anno mentre erano alla guida del “L.A. Dancer” – uno sloop, monoalbero di 15 metri battente bandiera statunitense – con il suo carico di 69 migranti pakistani, venti dei quali minorenni.
Gli investigatori li hanno identificati attraverso il loro passaporto. Interrogati dagli inquirenti, hanno raccontato di avere barattato il costo del biglietto per il viaggio con il loro lavoro, e di essere stati istruiti sulle tecniche di navigazione in mare aperto nei giorni immediatamente precedenti alla partenza. Storie che non possono essere verificate e che si infrangono su numeri segnati nelle rubriche telefoniche e già svaniti: Eughenia e Memet, la loro interfaccia in Turchia, che intanto hanno cambiato nome e utenza, inghiottiti da una delle piazze di transito più trafficate del pianeta.
Un viaggio a caro prezzo
Alexandro Voievodin di anni ne ha 24 quando si lancia in acqua a una trentina di metri dalla spiaggia di Camini. È la fine di ottobre del 2020, il mare ha la faccia placida dell’autunno calabrese, l’alba è sorta da poco, l’acqua è gelata. Sul barchino, stipati sotto coperta, ci sono 76 migranti, assieme a lui, sul ponte, c’è un suo amico d’infanzia: insieme hanno governato il piccolo monoalbero. Anche il secondo scafista si butta in acqua. Finirà inghiottito dal mare. I sommozzatori dei vigili del fuoco arrivati da Reggio ritroveranno il suo corpo solo dopo due giorni di ricerche serrate. Insieme erano partiti dal loro villaggio in Kirghizistan, paese satellite dell’ex Unione Sovietica arroccato sulle montagne dello Tien Shan, in Asia Centrale. Si erano messi alla guida del monoalbero una settimana prima, dopo un breve periodo passato sulle colline alle spalle di Smirne, in Turchia.
A raccontare la loro storia è stato lo stesso Voievodin, durante l’interrogatorio per la convalida del suo arresto. Davanti al pm della Procura di Locri, il ragazzo, tra le lacrime, ha raccontato di quell’idea di sottrarsi alla vita che gli era capitata. Dell’infanzia trascorsa spalla a spalla con l’amico, della partenza dal suo lontano paese e dell’ultimo viaggio dopo il mini addestramento sulle spiagge al di là del Mediterraneo. Fino a quel tuffo che non ha lasciato scampo allo scafista venuto dalle montagne, ennesima vittima della tratta degli esseri umani tra la Turchia e la Calabria.
Su quella tratta le procure territoriali indagano a braccetto con le distrettuali antimafia. A leggere nomi e nazionalità delle persone coinvolte, vien da pensare alla presenza di organizzazioni criminali internazionali in grado di tessere reti che uniscono le steppe dell’Asia centrale alle coste della Calabria jonica, in una tavola sempre imbandita. A cui, questo è il sospetto, potrebbe avere trovato comodo posto anche la ‘ndrangheta.
I Decreti Salvini hanno ammazzato anche la scuola di Riace, chiusa per mancanza di alunni. Il grande murales con il faccione imponente degli antichi guerrieri venuti dal mare mostra i segni del tempo. Da quasi tre anni i bambini non passano più sotto l’effigie dei bronzi che li attendevano ad ogni suono della campanella. Anche i corsi di italiano per stranieri e per gli stessi riacesi sono stati sospesi, tutto spostato nel plesso della frazione a mare. Con buona pace dei progetti di rilancio del borgo che avevano portato il paesino jonico sulle prime pagine dei media di mezzo pianeta.
A lezione solo grazie ai migranti
Come tanti micro paesi arroccati sulle colline di questo spicchio di Meridione, il borgo dei santi Cosma e Damiano paga lo scotto di uno spopolamento inarrestabile. Tra gli effetti immediati compare la chiusura sistematica di quelle scuole che non raggiungevano il numero minimo di alunni necessari a tenere aperti i battenti. Nella scuola di Riace però le cose sono precipitate solo negli ultimi tempi. Fino a tre anni fa infatti, l’istituto comprensivo – che raccoglie asilo, scuola dell’infanzia, elementari e medie – era riuscito a mantenere aperta la scuola del borgo grazie all’affluenza massiccia dei piccoli studenti venuti da terre lontane. Eritrei, pakistani, afghani. Gli alunni stranieri hanno rimpolpato per oltre un decennio le fila degli studenti che ogni mattina frequentavano la piccola scuola colorata nel cuore del borgo.
La mazzata dei decreti Salvini
Poi, con l’approvazione dei decreti Salvini varati dal primo governo Conte, i progetti Cas e Sprar sono stati via via smantellati, con le famiglie costrette ad abbandonare il paese in cerca di nuove possibilità. E così, anche le due pluriclassi – un corso per i bimbi dei primi due anni, un altro per il triennio conclusivo delle elementari – sono state chiuse e i bambini trasferiti nel plesso della marina, dove convergono anche i giovanissimi studenti di Camini. Sono poco più di una ventina i bambini rimasti a vivere nelle vecchie case addossate l’una all’altra, tra loro anche una manciata di alunni migranti che, nonostante la chiusura dei progetti, non si sono mai mossi dalle colline a due passi dal mare dei bronzi.
Il sindaco leghista gongola
Troppo pochi i bambini per giustificare la riapertura della scuola. Con il municipio e la stazione dei carabinieri rappresentava l’unico presidio dello Stato sul territorio. I vicini borghi di Stignano e Placanica hanno pagato la stessa drammatica emorragia di studenti in seguito alla chiusura dei progetti d’accoglienza diffusa. Ma gli amministratori locali hanno tentato fino all’ultimo di scongiurare la partenza dei ragazzi.
A Riace le cose hanno preso una piega diversa, con il sindaco leghista Antonio Trifoli (che ha preso il posto dell’ex primo cittadino Mimmo Lucano, indagato dalla Procura di Locri). Trifoli non rimpiange la vecchia realtà. «Se anche fosse possibile mantenere l’apertura della scuola – racconta il primo cittadino – se ci fosse un così alto numero di persone in accoglienza, io non sarei d’accordo a creare delle classi con persone che vengono solo da altri Paesi». E termina: «Io penso che la vera integrazione si faccia quando le altre persone si possono inserire studiando accanto ai bambini del posto. Questa è la vera integrazione. Creare le scuole ghetto, cioè dove ci sono solo bambini immigrati, secondo me non è una cosa buona».
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