Autore: Vincenzo Imperitura

  • Aeroporto Crotone, due milioni per un radiofaro inutilizzato

    Aeroporto Crotone, due milioni per un radiofaro inutilizzato

    Royalties da investire e radiofari da collaudare, rotte a singhiozzo e utenti inferociti. Nemmeno un bar dove prendere un caffè o un’edicola per un cruciverba e un quotidiano in attesa di uno dei (pochissimi) voli. È tratteggiato a tinte fosche il futuro del moribondo aeroporto Pitagora, lo scalo aereo più anziano (e più derelitto) della regione.

    Tra chiusure, riaperture, finti rilanci e progetti di sviluppo, si trascina in un limbo fatto di disservizi e incompiute. Relegato a Cenerentola tra i tre aeroporti calabresi (con cui condivide la governance sotto le insegne di Sacal), quello di Crotone ha vissuto un’esistenza estremamente travagliata cambiando più volte utilizzo e rimanendo chimera di un territorio già confinato agli ultimi posti delle graduatorie nazionali.

    Cronaca di un fallimento

    Costruito, primo in Calabria, nel comune di Isola Capo Rizzuto come aviosuperficie per le esigenze belliche del secondo conflitto mondiale, il Pitagora apre alle rotte commerciali alla metà degli anni ’60. Lega il suo nome alla compagnia Itavia, che garantisce le prime rotte su Roma e Bergamo. E inaugura a stretto giro anche il servizio cargo e una serie di tratte coperte da voli charter che collegano quel pezzo di Calabria a diverse destinazioni internazionali.cc

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    Il DC-9 Itavia precipitato ad Ustica

    Ma le cose sono destinate a durare poco. E quando, alla fine dei ’70, si inaugura lo scalo di Lamezia la situazione per Crotone cambia drasticamente. «Hanno trasferito la rappresentanza Itavia a Catanzaro, di notte. Poi – racconta Nicola Fodaro, per anni presidente dell’Aeroclub cittadino – hanno trasferito anche il servizio cargo spogliando San’Anna di ogni servizio. La chiusura era inevitabile, la tragedia di Ustica che ha mandato a gambe all’aria la compagnia ha fatto il resto».

    Sull’altare di Lamezia

    Sacrificato sull’altare della più appetitosa Lamezia e senza più traffico civile, l’aeroporto resta in piedi solo grazie all’aeroclub, che si garantisce un contratto con Alitalia per la prima formazione dei futuri piloti. Ma di prendere un volo per raggiungere una qualsiasi destinazione, neanche a parlarne. Si dovrà attendere il 1996, con l’arrivo di AirOne, per rivedere una aereo di linea atterrare a Crotone. Sembra la rinascita. Nel 2003 arriva l’inaugurazione del nuovo terminal, capace – almeno in teoria, visto che quei numeri non si sono mai raggiunti – di sopportare un traffico annuo di 250 mila passeggeri. Comunque l’aeroporto in quegli anni funziona e garantisce una serie di collegamenti (Venezia, Torino, la Germania) in grado di allentare l’isolamento di una città ristretta tra una statale da incubo e una linea ferroviaria da film in costume.

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    Un aereo fermo sulla pista del Pitagora

    Arrivano anche nuovi investimenti – la nuova torre di controllo, il sistema di radiofaro per gli atterraggi che però non entrerà mai in funzione – ma anche in questo caso la favola dura poco. La “Sant’Anna spa”, la società che gestisce lo scalo, comincia a mostrare il fiato corto e volare da Crotone torna ad essere piuttosto complicato con i collegamenti ridotti al lumicino. Fino al 2018 quando la società finisce in bancarotta, e dallo scalo di Sant’Anna partono, di fatto, solo i charter del Crotone calcio e qualche sparuto volo turistico. Poi il bando Enac e l’approdo, assieme a Reggio e Lamezia, sotto la gestione Sacal.

    Terno al lotto

    Oggi, partire da Crotone è un terno al lotto. Quattro voli settimanali con destinazione Bergamo, tre collegamenti con Bologna, in attesa della primavera e del nuovo, temporaneo, collegamento con Venezia. Devono bastare per un’utenza calcolata sulla carta in oltre 450 mila utenti (compresi nel dittico 100km/1h di spostamento) lungo tre province. Anche perché il bando per le nuove tratte indetto a dicembre 2020, nonostante gli aiuti di Stato che avevano garantito allo scalo la continuità territoriale così come succede in Sicilia e in Sardegna, è andato mestamente deserto. E di quello nuovo ancora non si è vista traccia.

    Due milioni di euro per nulla

    In attesa delle nuove, fantomatiche, tratte verso Roma e Torino, se si ha la fortuna di trovare un biglietto (prenotando online in questi giorni, un collegamento andata/ritorno con la Lombardia nella settimana di Natale varia tra i 250 e i 400 euro) si deve sperare di trovare una bella giornata. In caso di maltempo e di scarsa visibilità infatti gli aerei non possono atterrare nello scalo di Sant’Anna che tra le sue mille contraddizioni, è riuscito a dotarsi di un moderno sistema Ils che garantisce l’atterraggio strumentale ma non lo ha mai messo in funzione. Siglato il contratto d’utilizzo e ultimata l’installazione infatti, il radiofaro (costato oltre 2 milioni) non è mai stato collaudato e di conseguenza mai utilizzato. Con buona pace delle speranze di capacità attrattiva dello scalo.

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    Le royalties

    Eppure, per garantire i necessari collegamenti del crotonese con il resto del paese, qualcosa era stato fatto. Nel 2018, la Regione e i comuni del comprensorio (oltre al capoluogo, anche Crucoli, Isola, Cirò, Cutro, Strongoli e Melissa) avevano trovato un accordo con Sacal per la ripartizione di parte delle royalties (il 15% del totale) derivanti dallo sfruttamento in mare dei giacimenti di metano. Avrebbero dovute essere investite per la sopravvivenza dello scalo e lo sviluppo turistico dell’intera zona. Un gruzzolo di circa un milione di euro l’anno «che i comuni hanno garantito con la stipula di un formale protocollo, ma che è servito a ben poco» dice amareggiato Giuseppe Martino che da anni guida il comitato cittadino Crotone vuole volare.

  • Reggio violenta: quei giovani cresciuti a “sciarre” e malandrineria

    Reggio violenta: quei giovani cresciuti a “sciarre” e malandrineria

    Risse a chiamata, violenze tra le mura domestiche, danneggiamenti e vandalismi. E poi furti e rapine, risalendo la scala della gerarchia del crimine fino al narcotraffico e all’associazione mafiosa. È un mondo complesso quello dei minori che finiscono nei guai con la giustizia: un mondo che, anche in Calabria, sta “ridefinendo” i propri confini, dopo il lungo periodo di “cattività” seguita allo scoppio della pandemia da Covid, sui binari di una violenza “gratuita” che vede i minori come protagonisti attivi e passivi. Quello che registrano le statistiche e che gli operatori della giustizia minorile (magistrati, avvocati, assistenti sociali, terapeuti) riscontrano ogni giorno, è infatti un preoccupante aumento dei casi di violenza “spicciola”, soprattutto tra coetanei.

    Le risse organizzate

    «La convivenza forzata e prolungata dovuta al Covid – filtra dalla procura minorile di Reggio Calabria – ha esasperato gli animi di tutti, e ha reso evidenti quei conflitti nascosti in tante famiglie. Dalla riapertura abbiamo riscontrato un sensibile aumento di aggressioni e violenze maturate all’interno delle mura domestiche ai danni dei più giovani. Violenze e aggressioni che poi si ripropongono anche fuori da casa». E così, nei fascicoli che transitano negli uffici del tribunale minorile reggino, si nota un preoccupante aumento di un fenomeno prima marginale: gli appuntamenti per le risse.

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    Il tribunale per i Minori di Reggio Calabria

    A volte basta pochissimo, uno sguardo a una ragazza, una parola sfuggita tra i denti, un tamponamento. Tutto può funzionare da detonatore, e una volta che la miccia ha preso fuoco fermarsi diventa molto complicato. Come nel caso della maxi rissa di Campo Calabro, prima periferia di Reggio Calabria. Lo scorso febbraio, la piazza centrale del paesino affacciato sullo Stretto, fu infatti teatro di un vero e proprio scontro tra due improvvisate bande di giovanissimi (quasi tutti minorenni).

    In quella occasione, una banale questione di cuore tra adolescenti aveva provocato uno tsunami partito con un appello in chat che aveva finito per coinvolgere diverse “comitive” che si erano presentate all’appuntamento a bordo di scooter e minicar con corredo di mazze e catene. Una sorte di sfida all’Ok Corral recitata tra lo sgomento dei residenti e finita con diversi contusi al Pronto Soccorso.

    Le “sciarre”

    E poi le sciarre nei bar, che a Reggio ormai esplodono con cadenza sempre più frequente. L’ultima in ordine di tempo, appena una manciata di giorni fa in occasione di Halloween: esplosa in un locale del centro ha finito per coinvolgere anche gruppi di persone che erano estranee alla vicenda ed è costata un ricovero con prognosi di 20 giorni per un ventenne colpito sul viso con una bottiglia rotta. E qualche giorno prima un’altra sciarra sul lungomare che vedeva coinvolti gruppi di giovanissimi, immortalati in un video diventato virale su youtube mentre si lanciano tavoli e suppellettili varie gli uni contro gli altri tra le urla dei passanti, che ha portato il sindaco della città a richiedere al Prefetto una riunione del comitato per l’ordine e la sicurezza.

    I figli di ‘ndrangheta

    E se le violenze “spicciole” tra minori si spingono oltre i confini consueti, in Calabria e in provincia di Reggio in particolare, dove l’oppressione delle consorterie di ‘ndrangheta pesa di più, una fetta dei reati che finiscono per coinvolgere i più giovani, riguarda quelli legati al crimine organizzato. Sono diversi infatti i casi di giovani, per lo più adolescenti, coinvolti, loro malgrado, nelle dinamiche criminali mafiose. Cresciuti a “Paciotti e malandrineria” spesso vengono inseriti fin da giovanissimi alla periferia della cosca, con compiti che però possono anche diventare importanti.

    Come nel caso di un adolescente di Palmi che qualche anno fa, con il resto dei parenti più prossimi blindati in galera da sentenze pesantissime per mafia, si ritrovò suo malgrado a fare il “lavoro” dei grandi. Era lui, avevano scoperto i carabinieri, che si era presentato ad un imprenditore cittadino chiedendo un “fiore” per i parenti in galera. Una “sottoscrizione” da 5000 euro per pagare gli avvocati e aiutare le famiglie dei carcerati per mafia. E fu sempre il ragazzo catapultato nel ruolo del boss ad aggredire il figlio minorenne dell’imprenditore che si era rifiutato di pagare il pizzo al clan.

    Nella rete dei clan

    Accanto ai “figli di ‘ndrangheta” poi – i minori che crescono in ambienti fortemente condizionati dalle dinamiche del crimine organizzato finendo spesso per rimanerne invischiati – gli operatori della giustizia minorile si sono trovati ad affrontare un rinnovato interesse delle cosche verso quei minori che non vengono da famiglie legate a doppio filo con il crimine organizzato, ma che galleggiano in un mondo fatto di disinteresse e solitudine.

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    Armi, munizioni e marijuana trovate a un minorenne nel quartiere Ciccarello

    È a loro, registrano gli inquirenti, che i boss si rivolgono per il lavoro sporco legato soprattutto al traffico di stupefacenti e ai danneggiamenti. «A volte – annotano amaramente gli investigatori – per coinvolgerli basta dimostrare un minimo interesse nei loro confronti. Farli sentire coinvolti in un progetto, seppure dalle dinamiche criminali». L’ultimo caso in ordine di tempo risale a pochi giorni fa: durante un blitz dei carabinieri a Ciccarello, popoloso quartiere della città dello Stretto, i militari hanno fermato un diciassettenne che custodiva due scacciacani a salve, una manciata di proiettili calibro 12 e della marijuana.

  • Riace, la brigata Bella Ciao di Lerner e padre Zanotelli abbraccia Lucano

    Riace, la brigata Bella Ciao di Lerner e padre Zanotelli abbraccia Lucano

    Le prime auto sono arrivate già dalla mattina. Da Napoli, da Cosenza, da Parma, da Messina: alla fine saranno un migliaio i sostenitori dell’ex sindaco Mimmo Lucano. Tutti approdati a Riace per rispondere alla “Chiamata delle arti”, la manifestazione a sostegno del “curdo” organizzata a poco più di un mese dalla sentenza del Tribunale di Locri. Lucano ha subito una condanna a 13 anni e due mesi di reclusione.

    Mimmo Lucano in piazza a Riace con Gad Lerner e padre Alex Zanotelli

    Presenti militanti, attivisti, i partigiani dell’Anpi e i giovani dei centri sociali. Non mancavano due ex candidati alla presidenza della Regione, Mario Oliverio e Luigi De Magistris. Tra i manifestanti anche l’ex sindaco movimentista di Messina, Renato Accorinti.

    Padre Alex Zanotelli e il sindaco con la falce e martello

    Spunta qualche amministratore locale della provincia – il neo rieletto sindaco di Polistena, Tripodi, munito di bandiera con falce e martello – e l’immancabile padre Alex Zanotelli che con Riace e il suo progetto di accoglienza dal basso ha un rapporto antico. Ma sono i giovani i veri protagonisti di questa giornata di festa salutata dallo scirocco. Ci sono i bambini arrivati in questo pezzetto di Calabria con le loro famiglie negli anni passati e quelli che a Riace sono nati, e ci sono i ragazzi delle scuole (una classe di un liceo di Messina ha continuato a girare lungo tutto il corteo per vendere una fanzine del loro «gruppo rivoluzionario che intende distruggere il capitalismo»).

    L’indifferenza dei ragazzi del posto

    Quelli che mancano sono i ragazzi del posto che non hanno risposto all’appello. Così come tiepida è stata la risposta dei cittadini del paesino jonico. Un gruppo di anziani gioca a carte nel bar appena fuori il “Villagio Globale”. Guardano a quella massa rumorosa di estranei con l’indolenza tipica di queste parti e non si fanno vedere nella piazza principale. Gli altri sono tutti in fila ordinata lungo la strada che dal Santuario di Cosma e Damiano conduce fino al paese. Un Santuario dove, grazie all’interessamento dell’allora vescovo Bregantini, furono ospitati i curdi del primo sbarco a Riace. Era il 1998.

    Bella Ciao con Gad Lerner e Ascanio Celestini

    Un corteo lungo e colorato di rosso che Lucano, mano nella mano con due dei bambini migranti che a Riace sono rimasti nonostante la tagliola disposta dall’allora ministro Salvini, guida tra le manifestazioni di affetto e vicinanza dei manifestanti. E ancora Gad Lerner e Ascanio Celestini per un serpentone rumoroso che avanza al ritmo di Bella Ciao fino all’anfiteatro con i colori della pace. E qui che, rispondendo alle domande dello stesso Lerner, Mimmo Lucano ha ripercorso le ultime tappe della sua vicenda. Una vicenda legata a doppio filo con la “rotta turca” che da più di venti anni continua a riversare disperati sulle spiagge della Locride.

    Il corteo per Mimmo Lucano sta per raggiungere il centro storico di Riace
    Le parole di Mimmo Lucano

    «Quello che proprio non riesco a sopportare di questa vicenda – ha detto l’ex sindaco – è la delegittimazione morale di quanto abbiamo fatto in tutto questo tempo. Questo non posso davvero sopportarlo. In una terra come la Locride, umiliata dal crimine organizzato e con un sistema sociale ed economico fragilissimo, noi abbiamo proposto un riscatto per il nostro territorio, occupandoci di un fenomeno epocale come quello migratorio». Il racconto del “curdo” ripercorre tutte le tappe di un “anomalia” capace di sorgere in contrapposizione agli slum spuntati, negli stessi anni, nelle campagne della piana di Gioia Tauro e il pensiero non può che andare a Beky Moses. «Una ragazza – ha ricordato ancora Lucano – a cui era stata rifiutata l’accoglienza e che era stata obbligata a lasciare Riace».  Che disse a Lucano: «Tu sei l’ultimo che può darmi una mano».

    Il giornalista Gad Lerner con Mimmo Lucano a Riace
    «La Prefettura di Reggio mi chiedeva di accogliere»

    Lucano continua: «Come potevo rifiutare? Non mi sono mai pentito di avere firmato quella carta d’identità anche se non è servito a niente visto che quello stesso documento è stato ritrovato qualche giorno dopo tra i resti del rogo che la uccise, nell’inferno di San Ferdinando». E poi la cooperativa che si occupava dei rifiuti a dorso di mulo «e che aveva rotto il monopolio dei soliti noti ma per cui sono stato comunque condannato» e le continue chiamate dalla Prefettura reggina che «mi chiamava San Lucano e mi chiedeva continuamente di accogliere altra gente perché non sapevano dove sistemarla». Quello di Mimmo è un racconto serrato e interrotto più volte dagli applausi del pubblico.

    Le parole del corteo di oggi a Riace
    Zanotelli: indagano Lucano invece di occuparsi di ‘ndrine 

    E se per Lerner la pesantissima sentenza di condanna che, in primo grado, è costata un totale di 87 anni di carcere per 15 dei 27 imputati rappresenta «un vero e proprio stupro nei confronti di Mimmo Lucano e del suo progetto di accoglienza», per il missionario comboniano Zanotelli, il vero rebus resta l’impegno della Procura di Locri «che al posto di occuparsi dei mille problemi causati dalla ‘ndrangheta in questo territorio, ha speso due anni per imbastire questa indagine contro una brava persona come Mimmo Lucano».

  • Catanzaro: cosche, affaristi e istituzioni, gli intrecci dietro il sequestro del ponte

    Catanzaro: cosche, affaristi e istituzioni, gli intrecci dietro il sequestro del ponte

    «Spiccona un po’ di più, spiccona un po’ di più che diventa ruvido». Hanno tratti surreali alcune delle intercettazioni captate dagli investigatori durante le indagini che hanno portato al sequestro, con facoltà d’uso, del ponte Morandi di Catanzaro. E surreali sono i comportamenti di alcuni dei protagonisti dell’ennesimo scandalo legato agli appalti pubblici finiti nelle mani di imprenditori legati al crimine organizzato: manager che discutono della inadeguatezza dei materiali da usare sui cantieri e la cui unica preoccupazione «è che facciamo brutta figura», controllori che si accordano con i controllati per riscrivere informative di pg mentre puntano il trasferimento al Ministero, segretarie che diventano manager e che «magari ci facciamo assumere» dalla società che sulla carta dirigono.

    Tutti ingranaggi, sostengono i magistrati della Distrettuale antimafia di Catanzaro, agli ordini dei fratelli Sgromo, gli imprenditori catanzaresi da anni comodamente seduti alla tavola degli appalti che contano e che, grazie ad un complicato giro di società fantasma e compiacenti teste di legno a cui le stesse venivano di volta in volta assegnate, sarebbero riusciti a nascondere allo Stato, un gigante economico da 50 milioni di euro di fatturato annuo. E poi i Giampà e il senatore Ferdinando Aiello, e ancora il compianto Paolo Pollichieni e il maresciallo gdf infedele, in un baratro di affarismo famelico che si ripropone ogni volta uguale a se stesso.

    Sei le ordinanze di arresto disposte dal tribunale di Catanzaro. Le manette sono scattate per i due imprenditori e per una serie di loro collaboratori oltre che per un maresciallo della guardia di finanza attualmente in forza a Reggio. Gli indagati rispondono, a vario titolo, di intestazione fittizia di beni e associazione per delinquere aggravate dalle finalità mafiose, corruzione, autoriciclaggio, frode in pubbliche forniture e truffa.

    I lavori al Morandi

    Quella malta non piaceva proprio a nessuno. Non piaceva al rifornitore abituale dei materiali che aveva messo in guardia il cliente: «Fai una figura di merda, quel prodotto non funziona». Non piaceva a Gaetano Curcio, direttore tecnico della Tank (la società gestita dagli Sgromo che si occupa dei lavori di ristrutturazione al viadotto Bisantis e lungo la statale tra Lamezia e Catanzaro) che temeva quel prodotto «perché se non bagni bene il supporto si fessura».

    Non andava giù nemmeno al direttore dei lavori dell’Anas, Silvio Baudi, che dei lavori necessari per rendere migliore la resa del prodotto più scadente aveva paura: «non è che mi piaccia molto, meno di un centimetro non mi piace». E ovviamente, la malta Repar Tix – che la Tank aveva appena comprato in sostituzione del prodotto usato abitualmente ma molto più costoso – non piaceva agli operai che quel prodotto poi avrebbero dovuto usarlo sui cantieri: «L’abbiamo usato al Morandi, con questo materiale l’abbiamo fatto e casca tutto. Posso spicconare nu poco di più ma non va bene se mettete un altro tipo di materiale».

    A nessuno piaceva quella malta da utilizzare sui cantieri, raccontano le intercettazioni raccolte dagli investigatori, e tutti erano perfettamente consapevoli che non avrebbe reso come da progetto. Ma i soldi in azienda in quel periodo scarseggiano e la liquidità necessaria per rifornirsi della malta tradizionalmente utilizzata non c’è: inevitabile svoltare su un prodotto scadente ma decisamente più economico. D’altronde era stato lo stesso Sgromo a dare il via libera all’intera operazione «pur a conoscenza – scrive il Gip – della scarsa qualità del prodotto e dell’inopportunità di mischiare i prodotti».

    Un via libera che aveva cancellato tutti i dubbi. Sia nel direttore tecnico della Tank, che si affretta a presentare l’ordine di acquisto per il nuovo prodotto perché anche se «è una porcheria… è una questione finanziaria e il cantiere non si può fermare» e sia nell’ingegnere dell’Anas che, espresse le proprie perplessità, non fa una piega e firma l’ordine per 30 mila chili della malta che «aggrippa» premurandosi di promuoverne la consegna urgente.

    E così, nonostante la omogenea presa di coscienza della totale inutilità del prodotto, come da perfetto copione calabrese, nei lavori Anas per il risanamento strutturale di opere del lotto 5 Calabria (che comprendono anche il ponte simbolo del capoluogo e la bretella che collega Catanzaro con l’autostrada e l’aeroporto) ci finisce proprio la malta che non fa presa sulle superfici lisce. Tanto basta «spicconare un po’ di più. Tu spiccona un po’ di più che poi diventa ruvido».

    Il maresciallo e il senatore

    I fratelli Sgromo sono sotto la lente della Dda dal 2016. A febbraio, un’informativa della Guardia di Finanza, anche a seguito delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, li bolla come imprenditori di riferimento della cosca Giampà: per gli investigatori delle Fiamme gialle, gli Sgromo sono agli ordini de “u professora”.
    Consapevoli dell’interessamento dell’antimafia, i due fratelli cercano qualcuno tra le forze dell’ordine che lavorano al caso che li tenga informati e che, magari, riesca a intervenire in loro aiuto. L’uomo giusto, sostengono gli inquirenti, è il maresciallo Michele Marinaro, in forza alla Dia di Catanzaro ma smanioso di un trasferimento alla Presidenza del Consiglio dei ministri.

    È Paolo Pollichieni (il direttore del Corriere della Calabria deceduto due anni fa), raccontano gli screenshot finiti nell’indagine, che nel 2017 fornisce il nome di un investigatore «del posto» che lavora a quella indagine. Sgromo e Marinaro cominciano così a frequentarsi: sul piatto l’intervento direttamente sulle indagini che vale il tanto agognato trasferimento. E così mentre i fratelli Sgromo, nelle informative della Pg redatte da Marinaro si trasformano progressivamente da imprenditori legati al clan e accusati di associazione mafiosa, in imprenditori vessati dalla mafia e quindi imputabili del solo favoreggiamento per non avere denunciato, la carriera di Marinaro segue la rotta che ormai era stata tracciata.

    Ad occuparsene è Eugenio Sgromo in prima persona che da quel momento intensifica i propri rapporti con “Ferd”, inteso l’ex senatore Ferdinando Aiello che, annota il Gip «si è interessato per risolvere la questione che interessa il Marinaro, e cioè il suo trasferimento alla Presidenza del Consiglio». Un intervento che, ipotizzano gli investigatori, sblocca la situazione in pochi mesi. «Ho visto Ferdinando – scrive Sgromo al maresciallo – mi ha detto che ti hanno chiamato, ah che bella notizia, sono contento».

  • Roccella: sbarcano 300 migranti e l’accoglienza va in tilt

    Roccella: sbarcano 300 migranti e l’accoglienza va in tilt

    Era solo questione di tempo e alla fine, come prevedibile, il banco è saltato. L’ennesimo approdo di migranti sulle banchine del porto delle Grazie ha infatti mandato in tilt la stremata macchina dell’accoglienza di Roccella, costretta ad affrontare l’arrivo continuato di barchini e carrette del mare stipati all’inverosimile di disperati in arrivo dal Medio Oriente sulla rotta che collega la Turchia allo specchio di Jonio che va da Crotone a Reggio Calabria. Martedì, soccorsi da una vedetta della Capitaneria di porto a una decina di miglia dalla costa, sono sbarcati in 300, tra loro anche diversi minori.

    Un gruppo enorme che ha costretto, per la prima volta in quasi venti anni, il piccolo comune reggino ad alzare bandiera bianca dichiarandosi impossibilitato a fornire la prima accoglienza. Il cancello dell’Ospedaletto – la struttura semi fatiscente in cui da anni vengono veicolati i migranti arrivati dal mare prima di essere trasferiti nei centri di accoglienza o sulle navi quarantena e che fino a qualche anno fa ospitava un piccolo ambulatorio medico – era infatti sbarrato da giorni per una sanificazione straordinaria dovuta al continuo afflusso di arrivi di queste ultime settimane.

    L’interno dell’ospedaletto di Roccella Jonica
    Sotto pressione

    Unico avamposto “attrezzato” tra Crotone e Reggio, Roccella si trova al centro di una delle rotte migratorie più battute del Mediterraneo. E qui che convergono i mezzi dei soccorritori quando i barchini sono intercettati al largo delle coste. Un flusso ininterrotto di persone in fuga dal Medio Oriente che negli ultimi tempi ha registrato un notevole aumento. E se, di fatto, il numero degli sbarchi è praticamente raddoppiato – negli ultimi quattro mesi replicatisi al ritmo di uno ogni due giorni – sono invece rimaste pressoché identiche le forze che di quella marea umana si prende cura nelle primissime ore. Un esercito di volontari, dipendenti comunali, forze dell’ordine e associazioni sanitarie, stremate da un impegno costante.

    Chiuso per sanificazione

    Preceduta da una lettera inviata dal sindaco Zito al Prefetto, la serrata della struttura di prima accoglienza si era resa necessaria dopo gli sbarchi delle ultime settimane. Impossibile rimandare ancora le operazioni di pulizia straordinaria e sanificazione dei locali dopo il transito di centinaia di persone in pochi giorni. Quando le operazioni di prima verifica sanitaria sui migranti si stavano esaurendo sulle banchine del porto, poche centinaia di metri più in là, quelle di sanificazione dell’ospedaletto erano ancora in corso. E così, il gruppo di 300 migranti – schierati in tre gruppi di cento all’ombra dei relitti dei barconi degli sbarchi precedenti – approdati alle prime luci dell’alba è rimasto sulla banchina nord anche per le operazioni di identificazione da parte delle forze dell’ordine.

    L’esterno dell’ospedaletto di Roccella Jonica
    In prestito dal poligono

    E così, in mancanza di una struttura idonea, la macchina dei soccorsi – Roccella è praticamente l’unico caso italiano interessato da grossi flussi migratori in cui non esiste un hub gestito dal Ministero, e tutte le procedure d’accoglienza gravano sulle spalle dell’amministrazione comunale – si è dovuta ingegnare. Accanto al container della Croce Rossa (i cui volontari sono in campo a pieno organico da anni nelle operazioni di soccorso), i tecnici del comune hanno montato un gazebo che hanno dovuto chiedere in prestito al circolo del poligono cittadino, e le operazioni di identificazione da parte della polizia sono potute proseguire al “coperto”.

    Emergenza continua

    Il raddoppio del numero degli sbarchi di quest’ultimo anno ha messo seriamente in difficoltà la macchina dell’accoglienza, facendo emergere una serie di crepe evidenti nel sistema che accompagna il flusso migratorio che interessa la Locride. A partire dall’Ospedaletto, su cui a breve dovrebbero partire i lavori di ristrutturazione. Negli ultimi tempi all’interno degli stanzoni della struttura a nord di Roccella sono stati ospitati fino a 250 migranti per volta, ben oltre le capacità effettive che prevedono un tetto massimo di 130 ospiti. Una situazione di difficoltà straordinaria che si ripercuote sui migranti e poi, a cascata, su tutti gli operatori che in quelle condizioni si trovano ad agire.

    E quando la carretta del mare sfugge ai controlli delle forze dell’ordine, le cose, se possibile, vanno anche peggio. Quando un barchino si arena sulle spiagge della riviera dei Gelsomini infatti, i sindaci sono costretti ad individuare una struttura idonea a garantire la prima accoglienza. Con i risultati che ci si può immaginare. Palazzetti che diventano dormitori, vecchi edifici riconvertiti per poche ore in ostelli di fortuna, persino vecchie scuole riadattate all’ultimo minuto, come a Siderno Superiore o come nel caso di Arghillà, quando il traporto di una 70ina di migranti arrivati al porto di Reggio provocò una mezza insurrezione, con tanto di barricate di immondizia data alle fiamme e polizia in assetto anti sommossa.

  • Rifiuti raddoppiati tra vigne e uliveti? Siderno sfida la Regione

    Rifiuti raddoppiati tra vigne e uliveti? Siderno sfida la Regione

    Case che diventano aziende agricole, nuovi capannoni che si nascondono dietro anglicismi tattici, limiti ambientali cancellati d’imperio, strade che non esistono e su cui dovrebbero passare decine di camion al giorno: è finito, inevitabilmente, a carte bollate il braccio di ferro tra la Regione e il comune di Siderno sul “rinnovo” dell’impianto di trattamento dei rifiuti di San Leo. Un ricorso al Tar, presentato sull’ultima curva disponibile dalla terna commissariale che regge la cittadina jonica dopo l’ennesimo commissariamento per mafia, che mira a una sentenza sospensiva per i previsti lavori di profonda ristrutturazione dell’impianto gestito da Ecologia Oggi, società del gruppo Guarascio che in provincia di Reggio già gestisce il termovalorizzatore di Gioia Tauro.

    Il ricorso ai giudici amministrativi che potrebbe avere sviluppi già nei prossimi giorni. Presto gli si affiancherà quello che i cittadini dell’associazione «Siderno ha già dato» stanno preparando a supporto e integrazione del primo. Una battaglia che tra riunioni infuocate, consigli comunali aperti e manifestazioni di protesta, covava da mesi. E che è esplosa quando dal dipartimento di Tutela ambientale della Regione, è arrivata l’autorizzazione all’ampliamento.

    Le tappe

    Quella del raddoppio dell’impianto di San Leo è una storia vecchia. Dal dicembre 2016 – quando il Consiglio regionale approvò il Piano regionale di gestione dei rifiuti – incombe su un pezzo di Calabria sottratto alla fiumara e piazzato a poche centinaia di metri dal mare, più o meno a metà tra i territori di Siderno e Locri, i centri più grandi dell’intero comprensorio. Nel piano originario approvato a Palazzo Campanella nel 2016, San Leo sarebbe dovuta diventare un eco-distretto attraverso la creazione di nuove linee di produzione per i rifiuti differenziati e l’adozione della tecnologia anaerobica per il trattamento della forsu e del “verde” per la produzione di biogas.

    Una trasformazione profonda a cui si misero di traverso cittadini e amministrazione comunale in un braccio di ferro durato fino all’aprile del 2018. All’epoca la struttura regionale fa parziale marcia indietro accogliendo le istanze del territorio e limitando i lavori previsti nel centro di San Leo ad un profondo restyling che passava attraverso la riqualificazione delle linee di trattamento dei rifiuti e il potenziamento delle sezioni di aspirazione e biofiltrazione.

    Un progetto differente

    Quando la pratica per i lavori al centro di San Leo sembrava essere finita stritolata negli elefantiaci ingranaggi burocratici della cittadella di Germaneto, nel 2020 c’è una decisa accelerazione dell’iter. A settembre, sull’onda dell’interminabile emergenza monnezza, sul sito del Dipartimento Ambiente spunta la pubblicazione del progetto: un progetto che però, sostengono gli uffici comunali della cittadina jonica, si differenzia in maniera sostanziale dalla bozza venuta fuori durante la conferenza di servizi e gli incontri con i cittadini e a cui la terna prefettizia risponde quindi con parere sfavorevole ai lavori.

    Quel parere non ferma però gli uffici regionali che, lo scorso 12 agosto «decretavano il provvedimento autorizzativo n° 8449» per la trasformazione dell’impianto di San Leo. Un muro contro muro che, inevitabilmente, è finito in tribunale con i giudici amministrativi chiamati a valutare il ricorso presentato dalla terna prefettizia lo scorso primo ottobre.

    La relazione tecnica

    Sono tanti i punti critici evidenziati dalla dettagliata relazione degli uffici comunali contro il piano regionale per San Leo. A cominciare dalle nuove strutture da realizzare: da una parte il progetto regionale, che parla di «modeste modifiche all’attuale assetto morfologico dell’area interessata… che possono determinare un ulteriore moderato impegno di territorio necessario per garantire le nuove e più complesse funzioni operativi dell’impianto», dall’altra gli uffici comunali che, nero su bianco, rispondono «alla bizzarra tesi» avanzata da Catanzaro quantificando le modeste modifiche in «62mila metri quadri di nuova superficie pesantemente trasformata ed edificata che produrrà più di un raddoppio delle dimensioni fisiche dell’attuale impianto».

    Nella sostanza, dicono da Siderno, tutto quello che non era entrato dalla porta, sta rientrando dalla finestra. Quello delle nuove costruzioni rappresenta però solo la punta di un iceberg che rischia di mandare a monte l’intero programma regionale sui rifiuti: nel ricorso presentato al Tar infatti sono evidenziate tutte le criticità avanzate in conferenza di servizi e “superate” di forza dalla Regione.

    La monnezza tra le eccellenze

    L’impianto di San Leo è stato costruito infatti «nelle immediate vicinanze di un nucleo abitato» che nel progetto diventa invece magicamente «azienda agricola non residenziale» e, «adiacente alla fiumara Novito e quindi estremamente vulnerabile alla pericolosità idraulica della stessa». Ricade quasi interamente «all’interno dei 150 metri dalla fiumara e quindi in zona sottoposta a vincolo paesaggistico». E poi l’impatto sulle produzioni agricole di pregio: la zona in cui sorge l’impianto di trasformazione dei rifiuti e che si troverebbe a dovere ospitare nuove strutture per 62mila metri quadri, ricade «in quella porzione di territorio comunale dove è più spiccata la presenza di produzioni di vino greco Doc, vino della Locride Igt e bergamotto, clementine e olio di oliva Dop».

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    Mariateresa Fragomeni si è imposta nel ballottaggio e guiderà il Comune di Siderno

    E ancora, la strada di collegamento – che sulle carte non esiste e che nella realtà è una mulattiera sterrata costruita su una lingua di terra strappata alla fiumara e divenuta nel tempo, discarica a sua volta – e il documento definitivo di impatto ambientale che non sarebbe mai stato presentato, per una rogna sociale prima ancora che legale, che rischia di esplodere nelle mani del nuovo sindaco di Siderno. Dal canto suo, la neo eletta Mariateresa Fragomeni prende tempo: «Sono sindaca da meno di 24 ore, nei prossimi giorni leggeremo tutte le relazioni e valuteremo come muoverci anche sentendo la Regione e la città metropolitana».

  • San Ferdinando, la dignità in vendita a 50 centesimi

    San Ferdinando, la dignità in vendita a 50 centesimi

    Alla “nuova” tendopoli di San Ferdinando ci si arriva attraversando il deserto della seconda zona industriale, alle spalle del porto di Gioia. La presenza sempre più ingombrante di immondizia stanziale indica la vicinanza al nuovo ghetto. È sorto in risposta allo sgombro della vecchia baraccopoli.

    La “nuova” tendopoli di San Ferdinando

    Sul piazzale di quello che una volta era l’ingresso ufficiale del campo (e che ora è solo uno dei tanti varchi d’accesso all’area) i medici dell’Asp e i mediatori culturali sono in campo. Si occupano della somministrazione delle seconde dosi di vaccino per i “residenti”. Chi deve completare il percorso vaccinale, chi ha già contratto il covid durante la “zona rossa” e deve fare la prima dose, chi è in attesa del green pass che ancora non è arrivato. Tutti, più o meno, sono ordinatamente in fila davanti al campo che c’è ma che allo stesso tempo non esiste.

    L’approccio emergenziale ha fallito

    Una sorta di paradosso quantico-burocratico di stampo calabrese per cui – dopo l’inevitabile resa del sindaco di San Ferdinando e l’infinito rimpallarsi di responsabilità di Regione, Città metropolitana e ministero dell’Interno, che continuano ad approcciarsi al fenomeno solo sotto l’aspetto emergenziale – la tendopoli è, da mesi, in fase di smantellamento e quindi non riceve più servizi ufficiali (mensa, raccolta della spazzatura, controllo degli accessi e dei residenti, manutenzione) ma continua paradossalmente a essere accettata, anche se i problemi sono aumentati negli ultimi mesi, come residenza per gli stranieri “regolari” che la utilizzano per i loro documenti e che lì, in condizioni subumane, ci vivono.

    Una bomba sociale pronta ad esplodere

    Una sorta di non luogo che, come gli esempi che lo hanno preceduto, si sta trasformando nell’ennesima bomba sociale pronta ad esplodere. E come nella storiella del calabrone che vola pur non essendo adatto a farlo, la tendopoli che non esiste, continua ad attirare lavoratori migranti, con nuove tende che vengono allestite ai margini del campo e baracche di legno e cartone costruite dove capita.

    Storie di ordinario degrado nella nuova tendopoli di San Ferdinando
    Il ghetto

    Il vecchio ingresso con badge di identificazione e telecamere è andato distrutto durante la sommossa scoppiata durante la prima fase della pandemia, in seguito all’istituzione della zona rossa che blindava all’interno tutti i migranti. Da quando le istituzioni hanno alzato bandiera bianca nessuno si occupa più di censire i residenti. Anche il presidio fisso di polizia è stato smantellato, con le volanti che nei giorni “normali” si limitano ad una ronda discreta. Con lo stop ai progetti (e quindi ai fondi ad essi legati) il campo vive in una sorta di autogestione traballante.

    Il vecchio ingresso con badge di identificazione
    Restano i volontari di Emergency

    Sono rimasti solo sindacato e associazioni di volontariato. Danno una mano e garantiscono una serie di servizi essenziali, dall’assistenza legale a quella sanitaria fino alle consulenze di carattere amministrativo. I medici del presidio di Emergency vengono sul posto due volte al giorno. Curano l’aspetto sanitario quotidiano. Ma i malati cronici vanno incontro a mille difficoltà.

    «Amed ha un grosso problema cardiaco, finalmente dopo mille telefonate siamo riusciti ad ottenere una visita specialistica a Polistena. Lo portiamo noi, a spese nostre». Ferdinando e Fabio sono due volontari della Caritas, in passato inseriti in uno dei progetti di gestione del campo.

    Quando i soldi sono finiti, non hanno smesso di occuparsi della tendopoli e nel nuovo ghetto alle porte di San Ferdinando, continuano a venirci almeno tre volte la settimana: «Ci occupiamo di aiutarli con i documenti, distribuiamo cibo e vestiti, ma è sempre più difficile, sono spariti quasi tutti».

    Botte e morti non sono mancati

    Attualmente nel campo ci sono circa 250 residenti, di una quindicina di nazionalità diverse. Le tensioni sono all’ordine del giorno e in passato numerosi sono stati gli episodi di violenza esplosi tra residenti, e i morti non sono mancati. Tutti uomini con età media attorno ai 30 anni, vivono in quello che resta delle tende piazzate dal Ministero. Ma i numeri sono destinati a crescere.

    Tra un paio di settimane si aspetta la prima ondata dei raccoglitori di kiwi e quando anche la stagione delle clementine entrerà nel vivo, in quella sorta di universo parallelo che cresce alle spalle del porto, la popolazione potrebbe sfiorare le mille unità. E infatti, in ogni pezzettino di terra disponibile, spuntano nuove capanne improvvisate mentre in quelle vecchie si stendono i tappeti con funzione isolante. Ma escamotage e piccoli interventi non cambiano la sostanza delle cose e le condizioni di vita restano agghiaccianti.

    Capanne costruite con materiali improvvisati
    La bottega dell’acqua calda

    Inizialmente erano state predisposte delle centraline elettriche, ognuna in grado di garantire luce e riscaldamento per sei tende. Ma quando le cose hanno iniziato a precipitare nessuno ha più curato la manutenzione, cosa che ha favorito il moltiplicarsi degli allacci abusivi alle centraline superstiti che, a cascata, provoca continui blackout mandando a farsi strabenedire ogni proposito di sicurezza.

    Stesso discorso per l’acqua. Quella calda ormai è un miraggio, tanto che tra le baracche di nuova costruzione ne è spuntata una in cui “lavora” Keità, un gigante del Senegal di poco meno di 30 anni. Ogni giorno si occupa di tenere acceso il fuoco sotto i bidoni colmi d’acqua messa a scaldarsi: la vende a secchi, 50 centesimi ciascuno. I migranti la usano per lavarsi dopo una giornata di lavoro.

    Keità, il gigante del Senegal nella bottega dell’acqua calda

     

    Issa viene dal Gambia e ripara bici

    La bottega dell’acqua calda non è però l’unica operativa all’interno della tendopoli. Issa viene dal Gambia e nella tendopoli ci vive da anni. In quella sgombrata prima e in questa che non esiste adesso. Ripara biciclette (la quasi totalità dei migranti africani si muove sulle bici, e in passato non sono mancati gli incidenti mortali lungo le strade che collegano le città del porto) «ma solo quando non mi faccio la giornata di raccolta delle arance, qui non si guadagna molto. In questo momento non siamo tanti e il lavoro di meccanico è ridotto, ma quando comincia la stagione della raccolta arrivo a riparare anche 15 bici al giorno».

    La bottega dell’acqua calda nella nuova tendopoli di San Ferdinando
    Cronaca di un fallimento
    Dai capannoni fatiscenti della Rognetta in cui covò la rivolta del 2010, alla baraccopoli dell’orrore costruita dietro il capannone sequestrato ai Pesce e sgombrata a favore di telecamera dall’allora ministro Salvini, fino alla nuova tendopoli, allestita 500 metri più in là della vecchia che, se ufficialmente risulta in via di smantellamento da mesi, brulica invece di umanità e si prepara ad accogliere la nuova ondata di stagionali: la storia dei ghetti per neri della piana di Rosarno racconta di un fallimento lungo più di 10 anni, con favelas più o meno autorizzate spuntate un po’ ovunque tra i casolari diroccati delle campagne e gli spiazzi abbandonati della semi deserta zona industriale alle spalle del porto.

     

    È un problema politico, non burocratico
    Un fallimento costruito sulle spalle dei lavoratori migranti, quasi tutti regolari, e su quelle degli abitanti dei paesi della zona che quei ghetti li hanno subiti a loro volta. Un fallimento da cui le istituzioni hanno pensato di uscire con la stipula di un documento (storia di una manciata di settimane fa) tra Regione, città metropolitana, Prefettura e comuni interessati «per il superamento della situazione emergenziale – recitava la nota ufficiale – che caratterizza le condizioni dei lavoratori stranieri presenti della piana di Gioia Tauro».
    Le difficili condizioni in cui vivono i lavoratori stagionali a San Ferdinando
    Un documento che lascia molte questioni in sospeso e che lo stesso sindaco di San Ferdinando, Andrea Tripodi, guarda con disincanto. «Fino a quando continueranno ad affrontare un evento epocale come quello migratorio con un approccio unicamente di tipo emergenziale e caritativo non andiamo da nessuna parte. Questo tipo di interventi finisce sempre col determinare tensioni che finiscono per scaricarsi sulla società che, a sua volta, reagisce con la pancia. Qui bisogna affrontare l’intera vicenda dal punto di vista politico e smetterla di riversare tutte le responsabilità sulle amministrazioni comunali che non sono neanche preparate ad affrontare questo tipo di situazioni».
    La dignità a 50 centesimi
    E mentre a Riace, sul versante jonico della provincia, l’accoglienza dal basso immaginata da Lucano nelle case abbandonate dagli emigrati locali è costata 13 anni e rotti di carcere, nello slum della piana di Rosarno, la dignità umana si vende a secchi. Cinquanta centesimi ciascuno.
  • Lucano torna a Riace: «Non mi pento di nulla»

    Lucano torna a Riace: «Non mi pento di nulla»

    «Non mi pento di niente di quello che ho fatto. Bisogna rimanere per continuare a sognare». Dopo lo sconforto di ieri in seguito alla pesantissima condanna rimediata nel processo Xenia, il ritorno a Riace dell’ex sindaco Mimmo Lucano si apre sotto una luce diversa. Tanta la solidarietà piovuta su Mimmo “il curdo” e sul suo progetto di accoglienza che, negli anni, aveva sottratto Riace all’azzeramento culturale ed economico a cui sembrava destinata.

    riace_solidale

    Un esercito a Riace

    Solidarietà che si è materializzata nel paese dei Bronzi con centinaia di persone che, nel pomeriggio del day after, hanno accolto tra gli applausi l’ex sindaco. Sui gradoni dell’anfiteatro coi colori della pace, un esercito di attivisti, amministratori, candidati, rappresentanti delle Ong che pattugliano il Mediterraneo: tutti stretti all’ideatore di un modello d’accoglienza che, tra difficoltà, errori e tanto entusiasmo ha proposto un punto di vista alternativo, finendo per diventare un caso internazionale.

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    E così, tra “vecchi compagni” e giovani attivisti – e col consueto corollario di giornalisti, italiani e stranieri, che hanno assediato il piccolo centro jonico dalle prime ore del mattino – Lucano ha provato a raccontare il suo punto di vista su una vicenda processuale che, in primo grado, ha seppellito il “modello Riace” sotto 80 anni di carcere e risarcimenti milionari.

    Quando la Prefettura chiamava

    «Se hanno condannato me, allora avrebbero dovuto condannare anche la Prefettura, che mi chiamava San Lucano quando mi implorava di accettare nuovi arrivi» racconta Lucano tra gli applausi di una platea che si irrobustisce con il passare dei minuti. Arriva Peppino Lavorato, l’ex sindaco che negli anni ’90 fu splendido e coraggioso protagonista della “primavera rosarnese”, e Abaubakar Soumahoro, il sindacalista di origine ivoriana diventato icona della lotta al caporalato. Seduto nel pubblico c’è pure Sisi Napoli, l’anestesista che, schivando la baraonda mediatica, a Riace ha aperto un ambulatorio medico che si prende cura, gratis, di chiunque si presenti alla porta, immigrato o italiano che sia.

    Carte d’identità

    «Mi hanno condannato per avere rilasciato la carta d’identità ad un bambino di quattro mesi che senza quel documento non avrebbe potuto accedere alle cure del servizio sanitario nazionale – dice Lucano – Una cosa che rifarei altre mille volte e mi chiedo, allora perché non mi hanno imputato la carta d’identità che ho rilasciato a Becky Moses (la ragazza nigeriana costretta ad abbandonare Riace dalla burocrazia che le negava il permesso di soggiorno, e arsa viva, una manciata di giorni dopo avere lasciato Riace, nella vergognosa baraccopoli di Rosarno, ndr)? Forse perché responsabile di quel campo dove è morta quella ragazza era la Prefettura?».

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    Un modello polverizzato

    E poi i messaggi della mamma di Carlo Giuliani e di Roberto Saviano, oltre alle testimonianze dei rappresentanti del Baobab di Roma e della Mediterranea, la Ong che si occupa tra una montagna di polemiche di prestare soccorso alle carrette del mare alla deriva, in un abbraccio colorato e festoso che non cancella però i 13 anni e rotti di carcere con cui il Tribunale di Locri ha polverizzato l’intero modello.

  • Mimmo Lucano, se questo è un fuorilegge

    Mimmo Lucano, se questo è un fuorilegge

    Finisce sepolto sotto 13 anni e due mesi di reclusione il sogno di Mimmo “il curdo” Lucano. Un sogno fatto di integrazione reale, di solidarietà dal basso, di ricerca della pari dignità tra uomini di terre diverse. Un sogno che si infrange su una sentenza piombata come un asteroide in una terra di frontiera come la Locride, dove gli sbarchi dei disperati in fuga da guerra e fame si susseguono al ritmo di uno ogni due giorni.

    Una condanna pesantissima – praticamente il doppio della richiesta avanzata dai Pm durante la requisitoria – arrivata in coda ad un processo dai tratti vagamente surreali e che, in poco meno di due anni, potrebbe avere posto una pietra tombale su un modello di accoglienza unico nel panorama europeo. Un modello, nato a due passi e in contrapposizione agli slum per immigrati di Rosarno, che era riuscito nel doppio intento di tendere la mano ai migranti e di ripopolare un paese, Riace, che aveva visto i propri abitanti originari, emigrare alla ricerca di lavoro e stabilità. Una sorta di sistema di vasi comunicanti interrotti dall’indagine che ha portato alle condanne di oggi.

    La tarantella in Prefettura

    Alla genesi dell’indagine della Guardia di finanza ci sono una serie di relazioni della Prefettura che, a leggerle, raccontano realtà completamente diverse: tra gennaio e giugno del 2017, sono cinque le ispezioni che si susseguono a Riace inviate dall’allora prefetto Michele Di Bari, il funzionario che durante il suo mandato in riva allo Stretto si fece notare per il numero di comuni commissariati e che, con nomina del governo Conte 1 e in seguito alla inarrestabile chiusura dei progetti Sprar in provincia di Reggio, fu promosso nel 2019 a capo del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione al ministero dell’Interno, all’epoca sotto la gestione di Matteo Salvini.

    Ed è in quelle relazioni così diverse tra loro che emergono le differenze più marcate sul modello finito sul banco degli imputati. Nella prima relazione consegnata dai funzionari sbarcati a Riace, con gelido linguaggio burocratico, si evidenziano numerose criticità legate ai residenti “a lungo termine”, sulla condizione delle case e sulla gestione del denaro. Una relazione che, nella sostanza, sembra guardare solo all’aspetto burocratico dell’integrazione senza accorgersi della quotidianità “diversa” di Riace e che tra i suoi estensori vedeva anche la presenza di un funzionario, Salvatore Del Giglio, finito invischiato pochi mesi dopo, ironia della sorte, in un’indagine della Procura di Palmi che lo accusava di avere steso una relazione falsa sul progetto Sprar operativo a Varapodio, sul versante tirrenico d’Aspromonte. Sarà questo il documento che darà il via all’inchiesta.

    E se la prima relazione aveva “smontato” il modello Riace, nel maggio del 2017 arrivano nel piccolo borgo jonico altri tre funzionari della Prefettura di Reggio che di quel piccolo paese, tracciano un quadro che sembra venire da un’altra dimensione rispetto a quello precedentemente redatto dalla Prefettura. I funzionari ministeriali girano per il paese, ne respirano il profumo e raccontano di una scuola riaperta che grazie alla nuova linfa dei bambini venuti dal mare era diventata «un miscuglio di razze, dialetti, diademi e treccine» perché, annotano «una scuola senza bambini è la conclusione ingloriosa di un mondo, un universo senza futuro. Riace ora ha la sua scuola, degli insegnanti, dei ragazzi che apprendono».

    Un mondo al contrario

    Scuola che, in seguito alla serrata dei progetti d’accoglienza, ha mestamente richiuso i battenti, costringendo i pochissimi bimbi rimasti in paese a raggiungere l’istituto della Marina, dieci chilometri a valle. E poi le case «umili ma pulite e confortevoli» e le botteghe e le cooperative per la raccolta rifiuti a dorso di mulo, per una realtà che rappresenta «un microcosmo strano e composito che ha inventato un modo di accogliere e investire sul proprio futuro e che ha ricominciato a fare tante cose» per un’esperienza «che è segno distintivo di quelle buone pratiche che possono far parlare bene di questa regione».

    Una relazione che, superando l’aspetto burocratico, raccontava di un paesino minuscolo che splendeva di luce propria, nel deserto sociale ed economico della Locride, finendo per incuriosire intellettuali e artisti, da anni in pellegrinaggio sulle colline dello Jonio reggino per toccare con mano quel mondo al contrario creato nella Calabria degli ultimi. Wim Wenders, per dirne uno, a Riace ci ha girato anche un film. Una relazione che, a leggere il dispositivo della sentenza e in attesa delle motivazioni, sembra non avere rivestito nessun ruolo.

    Il valzer dei processi

    E poi i vari giudizi così diversi che, nel tempo, sono arrivati dai magistrati che si sono occupati dell’affaire Riace. Dai pm di Locri che ipotizzavano l’associazione che «mitizzava l’accoglienza sulle spalle dei migranti», al Giudice per le indagini preliminari che, in prima istanza, disponendo gli arresti domiciliari per Lucano, ridimensionava fortissimamente le accuse, dispensando bordate sulla fragilità delle indagini, passando per il Gup Monteleone, che quelle accuse di associazione a delinquere, abuso d’ufficio, concussione e malversazione le aveva resuscitate rinviando Lucano e altri 26 a giudizio, finendo al Presidente Accursio che, nel disporre il giudizio, raddoppia di fatto, la richiesta di condanna avanzata dalla Procura.

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    I giudici del Tribunale di Locri pronunciano la sentenza di condanna nei confronti di Mimmo Lucano

    E mentre la parola fine, almeno in primo grado, chiude il discorso sul modello Riace, nei 13 anni inflitti a Lucano, finisce anche la carta d’identità che l’ex sindaco rilasciò a un bambino di una manciata di mesi e alla sua mamma: documento senza il quale il bambino non avrebbe potuto accedere alle cure mediche di cui necessitava (cure garantite dalla Costituzione) che per Lucano rappresenta una bandiera, ma che per la giustizia italiana invece, resta solo un illecito amministrativo.

  • Lucano a sentenza: quale finale per il modello Riace?

    Lucano a sentenza: quale finale per il modello Riace?

    Dalla copertina di Fortune ad un’aula del tribunale di Locri, dalle continue richieste d’aiuto arrivate dalla Prefettura durante la crisi di Lampedusa, all’accusa di «ricerca e di mantenimento a tutti i costi del potere politico»: è prevista per giovedì la sentenza su Mimmo Lucano, l’ex sindaco ideatore del “modello Riace”, trascinato in giudizio con accuse pesantissime (rischia una condanna a 7 anni e 11 mesi di reclusione) e protagonista di quella che da più di venti anni è bollata come “emergenza” immigrazione.

    E così, ad una manciata di ore dal silenzio elettorale – Lucano è capolista alle regionali tra le fila del candidato presidente Luigi de Magistris – arriverà la parola fine, almeno in primo grado, per un processo «che non è e non vuole essere – disse il Procuratore capo di Locri D’Alessio in fase di requisitoria – un processo politico» ma che, per usare le parole dell’ex primo cittadino di Milano e avvocato difensore di Mimmo “il curdo” Lucano, Giuliano Pisapia, certamente assomiglia «a un caso di accanimento non terapeutico» nei confronti di un modello di integrazione, operativo dal 1998 e studiato, per la sua unicità, nelle università di mezzo pianeta.

    Le accuse

    Sono 27 gli imputati del procedimento Xenia, considerati, a vario titolo, come cardini di un sistema nato per caso con l’arrivo sulle coste di Riace, nell’autunno del 1998, di un barcone carico di disperati curdi, e cresciuto negli anni fino a diventare un “caso” internazionale. Lucano viene arrestato dalla Guardia di finanza all’inizio di ottobre del 2018 con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e fraudolento affidamento del servizio di raccolta della spazzatura, nell’ambito di un’inchiesta più vasta che uscì fortemente ridimensionata dal vaglio del giudice per le indagini preliminari.

    Il Gip infatti rigettò le accuse più pesanti ipotizzate dai magistrati locresi (associazione a delinquere, concussione, truffa ai danni dello Stato e malversazione) definendo la gestione del denaro arrivato a Riace come «disordinata ma senza illeciti». Un giudizio severo (e correlato di numerose critiche sulla superficialità delle indagini) a cui nel tempo si sono aggiunte le sentenze del tribunale del Riesame, della corte di Cassazione e della corte dei Conti che hanno ulteriormente smontato buona parte dell’ipotesi accusatoria. Pronunciamenti che però non convinsero il Gup Monteleone che, disponendo il giudizio, dopo 7 ore di camera di consiglio e 4 udienze preliminari, resuscitò le accuse più pesanti, a partire dall’ipotesi di associazione a delinquere e abuso d’ufficio.

    A giudizio un modello

    Ora, a distanza di tre anni da quell’arresto salutato con soddisfazione dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, sarà la Corte guidata dal neo presidente del Tribunale Fulvio Accursio a decidere sulla sorte degli imputati e, di conseguenza, sul modello Riace. Un modello rappresentato dai Pm come «l’opposto dello spirito dell’accoglienza; un sistema che ha attirato congrui finanziamenti e che è caratterizzato da una “mala gestio” che vede come parte lesa i migranti stessi».

    Non aveva usato mezzi termini il Procuratore D’Alessio, nel descrivere l’ipotesi dell’accusa: da una parte la difesa del procedimento «che non ha nulla di politico, né nella sua genesi, né nel sul sviluppo successivo ma che ha avuto una eco mediatica molto difficile da sostenere», e dall’altra la “demolizione” di ciò che aveva portato il piccolo centro jonico al centro dell’attenzione mondiale per il suo modello di integrazione “controcorrente”. «Qui l’accoglienza è stata mitizzata. Il denaro arrivava cospicuo, ma ai migranti finivano solo le briciole perché tutto veniva gestito mirando al consenso personale per coltivare le proprie clientele elettorali – diceva ancora D’Alessio – personalmente auspico che Riace possa tornare al centro dell’attenzione del mondo intero per l’accoglienza, ma non sulle spalle di tutte queste persone “portate dal vento”».

    La difesa

    «È un santo o un diavolo? Io credo che sia solo un uomo che ha messo la sua vita a disposizione dell’umanità. Un uomo senza un soldo, che viveva con l’aiuto economico del padre e che ha rinunciato a candidature sicure al Parlamento italiano e a quello europeo per restare fedele ai suoi ideali». Si potrebbe compendiare in queste poche parole il senso dell’arringa di Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano e avvocato di Lucano che più volte, difendendo l’ex sindaco ha posto l’accento sul senso stesso del sistema Riace.

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    Giuliano Pisapia

    «Un sistema che durante il mio mandato di sindaco – ha detto ancora Pisapia – portò Riace ad accogliere 100 immigrati sbarcati a Lampedusa negli stessi giorni in cui la mia città, Milano, ne accoglieva solo 20, perché un conto è parlare di leggi, codici e opportunità, e un conto è dare una risposta nel momento del massimo bisogno per evitare il disastro. Era la Prefettura a dare a Lucano le liste con i migranti da accogliere. E ora si imputa a Lucano di non averli allontanati, ma chi può davvero pensare che Mimmo potesse cacciarli dal paese? Loro non volevano andarsene e Mimmo non voleva cacciarli. La Prefettura era a conoscenza di questa situazione».

    Un finale da scrivere

    Nelle parole di Pisapia e Daqua – arrivate in aula mentre sulle coste della Locride si vive l’ennesima emergenza sbarchi con migliaia di disperati arrivati negli ultimi due mesi – rivive il progetto che trasformò Riace da borgo in fin di vita a centro di integrazione, capace di ripopolare la scuola e le strade di un paese che si era negli anni desertificato. Un progetto creato da Lucano «perché credeva in quell’idea che sta scritta nella nostra Costituzione e non per la ricerca del potere» ha detto ancora Pisapia che, citando Calamandrei, ha ricordato alla Corte che «un giudice è anche uno storico, nel senso che scrive la storia». Una storia che, in un modo o in un altro, troverà conclusione giovedì.