Autore: Vincenzo Imperitura

  • La diga da 70 miliardi con la monnezza al posto dell’acqua

    La diga da 70 miliardi con la monnezza al posto dell’acqua

    Più di dieci anni di cantiere, un capitolato di spesa lievitato fino all’inverosimile e uno status di servizio breve e un po’ deprimente, prima dello svuotamento e del sostanziale abbandono in cui versa da quasi dieci anni: la storia della diga sul Lordo, invaso artificiale alle spalle di Siderno, è lunga e piena di inciampi. Pensata per soddisfare il fabbisogno irriguo della Locride e costruita – assieme alla “gemella” sul Metramo, sul versante tirrenico d’Aspromonte – dal consorzio di imprese Felovi (acronimo per Ferrocemento, Lodigiani e Vianini), la diga, di proprietà regionale ma gestita dal consorzio di bonifica dell’alto Jonio reggino, avrebbe dovuto garantire il fabbisogno d’acqua dei numerosi paesi a vocazione agricola del territorio e implementare, di molto, la capacità di acqua potabile disponibile. Ma è diventata, in attesa dell’ennesimo finanziamento, un enorme catino vuoto e desolante.

    Cancelli chiusi dopo la chiusura del 2013

    Vent’anni dopo…

    Partito nel 1983, il cantiere per la costruzione dell’invaso artificiale – i fondi li mette la Cassa del Mezzogiorno – procede a mozzichi e bocconi. Per dieci anni ingloba una serie di terreni agricoli e vecchi poderi che si trovano nella piccola valle di contrada Pantaleo. Nel 1993, pochi metri alla volta, l’acqua inizia a confluire nel catino appena costruito. Arriva dal Lordo, piccola fiumara che vive praticamente solo dell’afflusso delle acque piovane. E a farle compagnia c’è quella del Torbido, grazie ad una condotta sotterranea lunga più di 9 chilometri che si collega nel comune di Grotteria, poco più a nord.

    Le operazioni di parziale riempimento e di collaudo vanno avanti per quasi 10 anni fino al raggiungimento dei 9 milioni di metri cubi di acqua che rappresentano il limite massimo a pieno regime. Dalla posa della prima pietra sono ormai trascorsi quasi 20 anni. I costi sono lievitati fino a 70 miliardi e del progetto iniziale è sparita una buona parte. Nessuno ha realizzato le condotte previste che avrebbero dovuto rifornire di acqua ad usi irrigui i paesi a nord e a sud dell’impianto. La diga si limita, per i pochi anni in cui è rimasta in esercizio, a rifornire solo le campagne di Siderno, che del territorio è il comune con meno vocazione agricola.

    L’oasi e la cattedrale

    Poco dopo la messa in esercizio dell’invaso, partono anche i lavori per la potabilizzazione delle acque che dovrebbe “ripulire” parte del carico della diga prima di ridistribuirlo nelle reti dei comuni vicini. L’impianto viene costruito proprio di fronte alla muraglia artificiale che chiude la valle, sotto uno dei viadotti della nuova 106. Finiti i lavori però, la struttura, di proprietà della Sorical, non è mai entrata in funzione. Da anni rimane inutilizzata, ennesima cattedrale nel deserto della Locride.

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    Nonostante i mille problemi funzionali però, il nuovo lago artificiale piace. Incastrata sotto Siderno superiore, affacciata allo Jonio e circondata da una natura prepotente, la diga diventa presto uno dei posti più frequentati del comprensorio. Appassionati di trekking, pescatori, cultori del jogging e della mountain bike: le colline di questo pezzo di Calabria si popolano di turisti e cittadini e anche molte specie di uccelli migratori iniziano a fare tappa fissa sulle acque del Lordo durante le loro migrazioni da e verso l’Africa. Le associazioni cittadine più volte avevano lanciato la proposta dell’istituzione di una oasi naturalistica – anche nel tentativo di fermare i cacciatori di frodo che degli stormi di uccelli migratori che facevano tappa a Siderno ne avevano fatto la propria personale riserva di caccia – senza però ottenere alcun risultato.

    Danni alla diga, svuotare tutto

    I problemi veri però, iniziano nel 2013. I tecnici del consorzio che curano la funzionalità della diga si accorgono infatti di una serie di crepe nella struttura in cemento armato del pozzo dentro cui è ospitata la camera di manovra per le paratie che regolano il deflusso delle acque dalla diga. Inizialmente si pensa ad un danno superficiale ma le cose peggiorano in fretta e, poco meno di un anno dopo, in seguito ad un ispezione dei tecnici del Ministero, si decide per il progressivo svuotamento dell’invaso che viene portato al 70% della capacità massima.

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    L’invaso svuotato dopo la scoperta dei problemi per il cemento armato

    Gli ingegneri si accorgono infatti che le crepe nel cemento sono il frutto di un movimento franoso (traslazione, in termini tecnici) che interessa il costone destro dell’impianto, quello posto sotto il versante dell’antico borgo collinare di Siderno. Movimento di cui nessuno, né durante la fase di costruzione, né durante quella di collaudo e di messa in esercizio si era accorto prima. Il rischio è serio, la decisione inevitabile: se il pozzo crolla, i comandi per muovere le paratie (e quindi regolare il livello dell’acqua contenuta nella diga) diventano irraggiungibili, l’unica strada è quella di svuotare tutto. In pochissimo tempo, quella che era diventata un’oasi nel cuore della Locride, diventa terreno di conquista per discariche abusive e pascoli altrettanto illeciti.

    Un nuovo progetto per la diga

    Questa situazione si trascina da anni e si è incastrata anche con le guerre intestine all’interno del Consorzio di bonifica, retto oggi da un commissario – l’ex sindaco di Sant’Ilario, Pasquale Brizzi – nominato dall’allora presidente Oliverio e in gara per il rinnovo delle cariche previste a giorni. Ma potrebbe sbloccarsi grazie a un nuovo progetto di intervento attualmente al vaglio del Ministero per la fase esecutiva dello stesso. Vale 9,27 milioni di euro, già finanziati dal fondo Coesione e Sviluppo e approvati con delibera del Cipe, e prevede il consolidamento del costone e la ricostruzione del pozzo con la camera di manovra.

    L’invaso oggi

    La progettazione dell’intervento è andata a bando per oltre 600 mila euro ed è stata vinta dallo studio Di Giuseppe con un ribasso – unico discriminante previsto dal bando – di circa il 60%. Burocrazia permettendo – l’intero progetto potrebbe passare sotto l’ala del Pnnr, pappandosi così quasi un terzo dei finanziamenti previsti nel comparto idrico per la Calabria e strappando altri sei mesi alla scadenza massima, per non perdere i fondi già stanziati, a metà 2023 – la diga potrebbe essere rimessa in funzione entro il 2026. Sempre se, nel frattempo, l’invaso che per un breve tempo era stato un’oasi, non continui a riempirsi con spazzatura e scarti di cantiere.

  • Martone, il paesino di 400 anime con un ambasciatore e due ministri

    Martone, il paesino di 400 anime con un ambasciatore e due ministri

    Roma caput mundi, Martone secundi: gli abitanti del minuscolo centro appollaiato sulle colline dello  Jonio reggino (e le migliaia di concittadini sparsi un po’ per tutto il pianeta) se lo ripetono come un mantra, scherzando, ma non troppo.
    Poco più di 400 abitanti “effettivi” Martone, come tutti i micro paesi che lo circondano, combatte una guerra (quella allo spopolamento) che difficilmente potrà vincere: una storia fatta di emigrazione forzata (e ininterrotti ritorni) che ha creato una rete capillare di martonesi in giro per il mondo che, partiti da questo pezzettino di Calabria, il mondo se lo sono conquistati. Come il neo ambasciatore in Turchia Giorgio Marrapodi, approdato ad Ankara nei primi giorni di gennaio, e ultimo arrivato, in ordine di tempo, di un parterre de rois in grado di scalare i vertici degli apparati pubblici nei pezzi di mondo via via “colonizzati” dall’emigrazione made in Martone.
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    Panorama di Martone, piccolo centro nella Locride

    L’abate illuminista di Martone

    A braccetto con Nelson Mandela, impegnati sul fronte delle rotte migratorie lungo il Mediterraneo o alla guida dello Stato più importante d’Australia, la storia recente è piena di concittadini di Orazio Lupis – abate, dotto illuminista e grande manovratore del mondo accademico della Catanzaro di metà ‘700 – in grado di ritagliarsi un posto al sole nel Paese in cui la forzata emigrazione li ha spinti.

    Marrapodi ambasciatore in Austria e Turchia

    La storia di Giorgio Marrapodi è figlia delle migrazioni “moderne”, quelle che si ripetono anche oggi, con i ragazzi che, finito il liceo, sbarcano nelle grandi città universitarie d’Italia e lì rimangono per costruirsi un futuro diverso da quello che la Regione più sgangherata del Paese potrebbe offrigli. Nato a Martone nel ’61 e approdato a Firenze, negli anni ’80, dopo la laurea in giurisprudenza, Marrapodi entra nel mondo delle feluche facendosi le ossa, e non potrebbe essere altrimenti, nella Direzione generale dell’emigrazione. Poi gli incarichi nelle ambasciate di Madrid e Bucarest e quello all’Onu a New York, fino al ruolo di ambasciatore a Vienna prima e ad Ankara adesso.

    La “rotta turca” dei migranti che porta nella Locride

    Una poltrona che scotta e su cui l’ambasciatore in Turchia è finito seguendo il Risiko delle nomine seguite al mezzo terremoto politico-amministrativo provocato dall’insediamento del Governo Draghi. Nelle sue mani, ora, la patata bollente della “rotta turca” che vede proprio la Locride approdo preferito, da venti anni, di uno dei flussi migratori più imponenti che interessano l’Europa. È dalla Turchia che partono, con frequenza sempre più stringente, i barchini carichi di migranti provenienti dal Medio Oriente ed è sempre nel Paese di Erdogan che la grandi organizzazioni criminali che quel traffico lo intrecciano, fanno convergere gli improvvisati scafisti.
    Le distrettuali antimafia calabresi su Ankara hanno puntato i riflettori da tempo, quello di Marrapodi non sarà un lavoro semplice. Ospite fisso delle estati calabresi, il neo ambasciatore d’Italia in Turchia, da anni è in prima fila all’alzata della “’ntinna”, l’albero della cuccagna tagliato sulle montagne e portato in paese da una coppia di buoi  ed elevato in onore al “doppio” Santo – in paese è doveroso dire Santo San Giorgio – per una tradizione pagana che accomuna tutti i martonesi.

    Un primo ministro d’Australia

    In paese come a Sydney, dove la comunità martonese, tra prima e seconda generazione, è quasi 10 volte più numerosa di quella presente in patria. Ed è anche grazie ai voti dei suoi concittadini che Morris Iemma – che “downunder” ci è nato poche ore dopo essere sbarcato dal piroscafo che portava all’altro capo del mondo la sua famiglia che era partita dalle colline reggine – ha scalato i vertici dei labouristi della più grande città d’Australia fino a diventare Primo ministro dello stato del New South Whales.
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    Morris Iemma, primo ministro dello Stato del New South Wales in Australia
    Un “regno” durato quattro anni e costruito nel cuore della foltissima comunità italiana: figlio di un operaio dalla marcate idee comuniste e di una sarta, Iemma ha rappresentato l’ala “destra” del partito dei lavoratori australiano per oltre un decennio. Profondamente legato al paese d’origine, non sono rare le sue presenze al “San Giorgio” di Sydney, feticcio della comunità calabrese in Australia e strano mix di tradizioni vere e stereotipi altrettanto reali.

    Ministro dell’Istruzione in Canada

    Figlio delle migrazioni dei ’60 era stato invece Tony Silipo, che a Martone era nato e da cui era andato via, a seguito della famiglia, subito dopo la licenza elementare. Sydney per qualche anno, come tanti prima di loro, poi una nuova rivoluzione e lo sbarco in Ontario, sponda orientale del Canada per una nuova ripartenza. Lo studio in giurisprudenza, l’impegno in politica nei labour canadesi, le prime vittorie alle elezioni parlamentari: un crescendo che lo porta a guidare il ministero del tesoro prima e quello dell’istruzione poi.
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    Tony Silipo è stato ministro del Tesoro e dell’Istruzione in Canada

    Quella volta con Nelson Mandela

    Una carriera interrotta dalla malattia nel 2012 per un martonese che con la sua terra non aveva mai tagliato i ponti. Tanto da rimettere in piedi la vecchia casa abbandonata dai genitori in cerca di una vita migliore, e tornarci, praticamente ogni estate come tradizione impone. Ed è in quella piazzetta – che il comune intende dedicargli – che Silipo raccontava ai suoi amici di un tempo, di quella volta che, da ministro dell’istruzione, introdusse ai suoi studenti il futuro presidente del Sud Africa, Nelson Mandela, protagonista della lotta all’apartheid che, proprio su input del ministro Silipo, era diventata materia di studio nelle scuole canadesi. Piccole storie che si intrecciano con la Storia e che hanno come comune denominatore un paesino minuscolo e sempre sull’orlo del baratro ma confidando che, in fondo, Roma caput mundi, ma Martone secundi.
  • Platì punta sul turismo: i bunker delle ‘ndrine trasformati in musei

    Platì punta sul turismo: i bunker delle ‘ndrine trasformati in musei

    Trasformare i bunker in sale espositive, riconvertendo i cunicoli del malaffare scavati nel ventre del paese in moderne “passeggiate” sotterranee aperte ad «arte ottica e concettuale, folklore, sistemi con pannelli e mostre». Un progetto che il comune di Platì intende portare avanti – al costo di oltre due milioni di euro – per provare a dare nuova (e diversa) vita al sistema di capillari collegamenti criminali scavati nella roccia in quasi mezzo secolo per nascondere latitanti, prigionieri, droga e armi. Un “controcanto” che il piccolo centro – poche migliaia di abitanti sul versante jonico d’Aspromonte – vorrebbe intonare per mostrare il volto ripulito di una cittadina che, suo malgrado, è considerata da sempre come una della capitali storiche della ‘ndrangheta.

    Contrastare il binomio Platì-criminalità

    Un progetto dai tratti vagamenti bipolari, nato per smarcarsi da una nomea pesantissima e che non manca di cedere alla retorica un po’ vittimistica di tv, giornali e social che «le hanno riccamente documentate, spesso in maniera malevola con intenti di criminalizzazione generalizzata della popolazione» in una narrazione «folkloristica che contribuisce a infangare l’intera comunità». Da una parte vuole contrastare il binomio Platì uguale mafia. Dall’altra intende portare i turisti proprio in quello che a lungo è stato il regno sommerso di alcune delle più influenti famiglie di narcos a livello globale.

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    L’effige della Madonna di Polsi in un bunker della ‘ndrangheta a Platì
    La città nascosta

    E d’altronde erano state proprio le cosche platiesi a costruire la città sotto la città. Gallerie, cunicoli, bunker e stanze nascoste che i boss, in anticipo di un ventennio sulle gallerie scoperte al confine tra Messico e Stati Uniti, avevano commissionato per i propri intenti criminali. E che squadre di “bunkeristi” specializzati avevano realizzato collegando le nuove strutture a vecchi scarichi fognari e grotte naturali per un reticolo imponente di nascondigli e vie di fuga che a lungo avevano protetto i segreti del crimine organizzato locale.

    Era il marzo del 2010 quando i carabinieri del gruppo di Locri durante una retata si erano imbattuti nella “catacombe” platiesi. Perquisendo un garage nella disponibilità del clan Trimboli, i militari avevano scovato un portello automatizzato e ben mimetizzato tra calcinacci e vecchi mobili. Dietro si nascondeva l’ingresso al “sottosopra” criminale platiese. Un mondo al contrario che le cosche avevano fatto scavare negli anni e che, grazie al lavoro mastodontico di una serie di operai “specializzati”, aveva sostituito le precedenti gallerie (meno sofisticate) scoperte nel 2003.

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    Opere di carpenteria nei bunker di Platì
    Ingegneria mineraria al soldo dei clan

    Gli investigatori, che a lungo tennero riservata la notizia del rinvenimento, si trovarono di fronte ad una vera e propria opera di ingegneria mineraria. Dal piccolo box nel cuore del paese vecchio infatti, partiva una galleria lunga più di 200 metri costruita 8 metri sotto il livello del suolo e larga poco meno di un metro. Dotata di un moderno impianto di aerazione che consentiva il continuo ricambio dell’aria e di un funzionale impianto di luci al neon, la galleria collegava diversi bunker, a loro volta infrattati nelle intercapedini nascoste delle case dei boss, per un sistema quasi perfetto di mimetizzazione. Grazie ad esso capi e gregari delle cosche – che, come da tradizione mafiosa, difficilmente si allontanano dal proprio feudo d’appartenenza – erano rimasti a lungo al sicuro.

    Fuori case senza intonaco, dentro rubinetti d’oro

    E così, attorno alle case cadenti del centro storico, le magioni dei mammasantissima – nudo intonaco fuori, rubinetti d’oro nei bagni e mobilio d’ebano nel tinello –erano state dotate, tra picchi d’ingegneria mineraria e folkloristiche immagini della Madonna di Polsi lasciate a presidiare il territorio, di un sistema “arterioso” artificiale che poteva essere usato di volta in volta dalle primule rosse del malaffare della montagna. Un mondo al contrario che, scavato sotto i ruderi di un paese in rovina e stritolato dallo strapotere dei clan di ‘ndrangheta, oggi vuole essere riconvertito in un’operazione “acchiappaturisti” dal retrogusto amaro.

    Militari davanti a un'abitazione di Platì
    Militari davanti a un’abitazione di Platì
    Vita da topi

    E se le “catacombe” di Platì rappresentano, probabilmente, un unicum dell’ingegneria votata al malaffare, i bunker dentro cui si rintanano i pezzi da novanta del crimine organizzato calabrese sono invece una presenza costante in tutto il territorio reggino. Anche perché una delle regole non scritte del crimine organizzato, prevede che un capo, anche se braccato, non si allontani mai troppo dal proprio territorio di “competenza”. E così, nascosti dietro finte pareti, occultati dietro porte scorrevoli e botole meccaniche, i nascondigli dei boss sono sempre più sofisticati e costruiti con tutte le comodità dettate dai tempi moderni, per consentire un soggiorno degno del blasone di chi lo ha commissionato.

    Il “bilocale” di Ciccio Testuni a Rosarno

    Come nel caso del mini appartamento che Francesco Pesce, alias Ciccio Testuni, si era fatto costruire proprio sotto un deposito giudiziale nelle campagne di Rosarno. Braccato dalle forze dell’ordine in seguito all’operazione All Inside, l’allora reggente del potentissimo clan della Piana, si era “sistemato” in un bilocale sotterraneo di circa 40 metri quadri costruito di nascosto da veri esperti del settore. Tv satellitari, impianto di video sorveglianza esterno, collegamento internet e consolle per videogiochi: nella residenza nascosta di Pesce, i carabinieri del Ros (che la mattina del ritrovamento si presentarono al cancello della Demolsud con ruspe e scavatori meccanici) trovarono tutto l’occorrente per trascorrere una latitanza tranquilla.

    Militari nelle gallerie sotterranee dei clan a Platì
    I muratori specializzati nei bunker

    Una tradizione, quella dei bunker, che coinvolge praticamente tutte le cosche criminali del territorio e che ha creato, paradossalmente, operai specializzati che le stesse cosche si contendono: «Ricordo – aveva raccontato agli inquirenti la collaboratrice di giustizia Giusy Pesce, che di Ciccio Testuni è prima cugina – di avere più volte visto un muratore di Rosarno, uscire dalla casa abbandonata di mia nonna. Era sempre vestito con una tuta da lavoro e mio padre mi spiegò che l’operaio stava ristrutturando per conto suo un vecchio bunker nascosto nella casa».

  • Circo o intrigo internazionale? Se il Cosenza piace ad oligarchi e mafia dell’Est

    Circo o intrigo internazionale? Se il Cosenza piace ad oligarchi e mafia dell’Est

    Il magnate uzbeko e la società londinese, il giornalista spagnolo e il faccendiere italiano: sembra una storiella di quando eravamo bambini e invece sono (alcuni) dei presunti protagonisti che dalla notte prima della vigilia di Natale rimbalzano tra i muri di Cosenza, raccontando dell’interesse di un potente oligarca nei confronti della squadra di calcio della città, da anni nelle mani del “re dei rifiuti”, Eugenio Guarascio. Una storia urlata da un piccolo sito sportivo napoletano e lievitata piano piano, rimbalzando sui social e sui media tradizionali fino ad arrivare sulla scrivania del patron rossoblu, che ha bollato tutto sotto la voce boutade.

    Una storia che mischia nomi altisonanti, personaggi più che chiacchierati e funambolici appalti per “l’allargamento” del porto di Gioia Tauro o il waterfront di Lamezia. In attesa che le ruspe uzbeke spianino San Ferdinando per fare posto all’allargamento dello scalo, la storia della vendita del Cosenza, giorno dopo giorno, si arricchisce di nuovi improbabili elementi, in un caravanserraglio felliniano dove ormai mancano solo Gradisca e Saraghina.

    https://www.youtube.com/watch?v=KkG-5Icd-zs

    L’oligarca

    In questa spystory dai contorni un po’ pecorecci, il ruolo da assoluto protagonista spetterebbe a Alisher Usmanov, quasi settantenne oligarca di origine uzbeka con un patrimonio stimato di 17 miliardi di dollari e un passato recente in club che hanno fatto la storia del football come l’Arsenal. Emerso da una prigione sovietica dopo sei anni di condanna (poi cancellata dal governo Putin), Usmanov si ritaglia un posto al sole con il nuovo regime.

    Alisher Usmanov insieme a Vladimir Putin
    Alisher Usmanov insieme a Vladimir Putin

    Dirigente di primo piano di Gazprom, magnate dell’industria, alfiere della scherma e filantropo, Usmanov è stato a lungo sotto i riflettori dei media inglesi per le sue condotte più che spregiudicate negli affari, finendo anche sul taccuino dell’ex presidente Trump, a cui l’ala più oltranzista dei repubblicani si era appellata per ottenerne la messa all’indice. Famoso per avere un pessimo rapporto con la stampa non allineata, Usmanov avrebbe messo sul piatto 12 milioni di euro in tre tranche per ottenere il controllo del 90% del Cosenza Calcio.

    L’ufficio stampa del gruppo del magnate uzbeko, però, ha tenuto a precisare con un’email alla nostra redazione che «le informazioni che indicavano Alisher Usmanov come possibile acquirente del club del calcio italiano Cosenza non corrispondono alla realtà. Il signor Usmanov non prende in considerazione né l’acquisto del club specificato, né di un altro club in Italia».

    Calcio moderno

    Partner di questa trattativa, ad andare dietro alle mille voci di questa strana vicenda, sarebbe la Devetia Limited, esempio paradigmatico della nuclearizzazione del calcio moderno. La società in questione, con base a Odessa, fu protagonista, in partnership con la inglese Media Sport Investment, della scalata al Corinthians, antica roccaforte brasiliana della “democratia” cantata da Socrates (l’ex stella della Selecao e leader anarchico della Fiorentina di prima anni ’80), e finita suo malgrado a vendersi e ricomprarsi giocatori che restavano di proprietà di Devetia e Msi.

    Le future stelle Carlos Tevez e Javier Mascherano passano dal Corinthians al West Ham United: è il primo grande (e sospetto) affare della Msi nel mondo del calcio
    Le future stelle Carlos Tevez e Javier Mascherano passano dal Corinthians al West Ham United: è il primo grande (e discusso) affare della Msi nel mondo del calcio

    A rappresentare questa oscura società di intermediazione calcistica ci sarebbe poi – così racconta lo screenshot di una presunta pec inviata al rappresentante del Cosenza per confermare l’interessamento all’acquisto da parte del magnate Usmanov – l’avvocato Roberto Rodríguez Casas: già protagonista nelle tormentate trattative per il passaggio di mano di Malaga e Real Murcia ad altrettanti miliardari dell’est, il legale spagnolo è una vecchia conoscenza della giustizia iberica.

    Nel 2011 finì agli arresti in una storia di riciclaggio di denaro proveniente dal business della droga sulle piazze della movida madrilena. Secondo gli investigatori sarebbe stato lui – difensore dell’uomo considerato a capo della mafia bulgara nella capitale spagnola –  il punto di contatto con uno dei boss del narcotraffico.

    La lettera di Rdriguez Casas che attesterebbe la veridicità della trattativa
    La lettera di Rodríguez Casas che attesterebbe la veridicità della trattativa
    Il circo

    A confondere le acque ci sono poi una serie di link che da qualche giorno girano tra i cronisti di mezza Calabria. Vecchi articoli online in cui si parla di Guarascio come partner della Devetia con cui sarebbe in affari già dal 2014, oscuri blog spagnoli in cui si riferisce di un fantomatico processo a Odessa contro Campisano e Guarascio, del quale la magistratura locale avrebbe chiesto l’estradizione all’autorità giudiziaria italiana.

    Il blog spagnolo che parla dei presunti legami in Brasile tra Guarascio e gli ipotetici acquirenti del Cosenza
    Il blog spagnolo che parla dei presunti legami in Brasile datati 2014 tra Guarascio e gli ipotetici acquirenti del Cosenza: il dettaglio sul presidente del Cosenza, però, da una verifica alla cache sarebbe stato aggiunto solo di recente al post

    Secondo quanto si legge nei resoconti firmati con il nome del giornalista televisivo madrileno Ramon Fuentes – che sui social informa i suoi follower ogni volta che si soffia il naso e che retwitta compulsivamente ogni suo pezzo, meno, ovviamente, quelli che parlano di Guarascio e del Cosenza – i due sarebbero a processo (in Ucraina) per una presunta combine durante Pordenone–Cosenza e, testimone d’accusa, sarebbe Oleg Patakarcishvili, che della Devetia sarebbe il padre padrone.

    Lo stesso blog spagnolo pochi giorni prima di Natale riporta la notizia di un'inchiesta a Odessa sulla partita Pordenone-Cosenza
    Lo stesso blog spagnolo pochi giorni prima di Natale riferisce di un’inchiesta a Odessa sulla partita Pordenone-Cosenza

    Un circo senza senso in cui è finito di tutto, anche una telefonata surreale, poi rimossa da Youtube, tra un rappresentante del Cosenza Calcio e i presunti rappresentanti del gruppo acquirente. Un circo dentro cui fa la sua figura anche il faccione di «Fernando del gruppo d’investitori Devetia», alias Fernando Martinez, che da sabato sera gira su Youtube con un video degno di Terry Gilliam.

    Capello laccato e albero sullo sfondo, “Fernando del gruppo ecc” si rivolge direttamente al popolo, aizzandolo contro «Guaracho» e minacciando di portate a supporto delle sue tesi, testimoni «che hanno vinto la Champions e che non sono dilettanti come questo Guaracho». Un video che è un capolavoro di nonsense e che mischia «i lavori del porto di Lamezia che fruttano 3000 posti», presunte trattative con le squadre di mezzo pianeta e pistolotti di real politik sul marcio che gira nel calcio e dentro cui il suo gruppo, legittimamente, si pregia di prosperare.

    Il precedente

    Un circo da cui ci si aspetta, da un momento all’altro, un nuovo elemento che tenga alta l’attenzione su quello che succede attorno al Cosenza. Un circo su cui non è ancora calato il sipario e che ricorda da vicino la vicenda della scalata alla Lazio che Giorgio Chinaglia, oltre 15 anni fa, portò avanti a forza di bordate contro la dirigenza che «non voleva mostrare le carte». Nel 2006, il tribunale di Roma determinò l’arresto di “Long John”.

    L’ex bandiera della Lazio e della nazionale era stato messo a capo di un fantomatico gruppo di miliardari dell’est che volevano allungare le mani sulla squadra della capitale, subentrando a Lotito, che quella squadra l’aveva presa dal crack Cragnotti e la cui luna di miele con la tifoseria biancoceleste era già finita da un pezzo. Una storia paradossale che, un paio di anni dopo, si arricchì di una nuova indagine della digos che dimostrò come dietro al fantomatico gruppo dell’est ci fossero i soldi dei Casalesi in combutta con criminali del calibro di Fabrizio “Diabolik” Piscitelli, giustiziato qualche anno dopo in un parco di Roma sud con un colpo alla nuca.

  • Quei magistrati calabresi trasferiti, sospesi e arrestati

    Quei magistrati calabresi trasferiti, sospesi e arrestati

    Trasferiti, sospesi, ridimensionati, in qualche caso finiti addirittura in manette. Non ci sono solo i magistrati protagonisti dell’indagine interna del Csm per l’affaire Palamara nella storia recente dei togati dei distretti giudiziari calabresi inciampati in problemi con la giustizia. In alcuni casi, trasferimenti e punizioni derivano da “incompatibilità ambientali” sorte tra magistrati. In altri le indagini alla base dei provvedimenti disciplinari sono naufragate in richieste di archiviazione presentate dalla stessa accusa. E in diverse circostanze gli approfondimenti degli investigatori hanno smascherato un vero e proprio sistema di corruzione giudiziaria.

    Il mercato delle sentenze

    Come nel caso di Marco Petrini, il giudice della Corte d’Appello di Catanzaro arrestato dai magistrati di Salerno (competenti per territorio) nel gennaio del 2020, sospeso dalle funzioni dal Csm e condannato in primo grado a 4 anni e 4 mesi di reclusione per corruzione in atti giudiziari. Una classica storia di malaffare quella scovata dai finanzieri di Crotone che individuarono una serie di personaggi – tra cui Mario Santoro, un medico in pensione ex dipendente dell’Asp di Cosenza – che avrebbero stipendiato il giudice per aggiustare, in secondo grado, una serie di processi penali finiti, in prima battuta, con condanne pesanti. Un sistema che tornava buono anche per ritoccare le misure di prevenzione reale come sequestri e confische di beni.

    Il filone che coinvolge anche il sindaco di Rende

    Un vero e proprio suq di sentenze di cui si è tornato a discutere, stavolta davanti ai giudici d’Appello salernitani, lo scorso venerdì con l’inizio del processo in secondo grado. In attesa di definizione poi – i pm di Salerno hanno chiuso le indagini nell’ottobre scorso – il secondo filone dell’inchiesta. Coinvolge, oltre all’ex giudice Petrini, anche il sindaco di Rende Marcello Manna, che secondo l’ipotesi dell’accusa avrebbe corrotto Petrini per ottenere in appello l’assoluzione del boss Francesco Patitucci (di cui Manna era legale) che era invece stato condannato in primo grado a 30 anni per l’omicidio di Luca Bruni.

    L’ex procuratore aggiunto Vincenzo Luberto
    L’ex sostituto procuratore aggiunto della Dda, Vincenzo Luberto

    Sullo stesso piano anche la posizione dell’ex procuratore aggiunto nella distrettuale antimafia di Catanzaro, Vincenzo Luberto, sotto processo a Salerno con l’ipotesi di corruzione, falso, omissione e rivelazione di segreto d’ufficio assieme all’ex parlamentare Ferdinando Aiello. Trasferito dalla commissione disciplinare del Csm alle mansioni di giudice civile al tribunale di Potenza, Luberto, secondo l’accusa, avrebbe ricevuto dall’ex parlamentare una serie di pagamenti per viaggi di lusso tra il 2018 e il 2019, in cambio di un suo sostanziale asservimento alle richieste avanzate dall’ex deputato.

    Secondo quanto ricostruito dai magistrati campani (competenti territorialmente sui colleghi del distretto della Corte d’Appello di Catanzaro), Luberto avrebbe informato l’ex parlamentare rispetto alle indagini ai suoi danni, omettendo poi di iscriverlo al registro degli indagati quando le notizie via via raccolte dagli investigatori lo avrebbero richiesto. Accuse sempre rispedite al mittente dall’ex aggiunto catanzarese il cui processo è attualmente in corso.

    Il trasferimento di Lupacchini

    Fece molto rumore anche un altro intervento del Consiglio superiore della Magistratura sui togati del distretto catanzarese: il trasferimento dell’ex procuratore generale Otello Lupacchini, spedito a Torino senza compiti direttivi e con perdita di tre mesi d’anzianità per avere criticato, durante un’intervista televisiva, il procuratore capo Nicola Gratteri all’indomani della maxi retata di Rinascita Scott. Apice di un rapporto fortemente conflittuale tra i due magistrati, l’intervento del Csm arrivò, su sollecitazione dei consiglieri in quota Magistratura Indipendente e Area, per verificare se esistessero i presupposti per un trasferimento per incompatibilità ambientale.

    L’ex procuratore generale di Catanzaro, Otello Lupacchini
    Quel post su Facciolla

    Magistrato di lungo corso – fu protagonista delle indagini sulla banda della Magliana e sul fronte del contrasto alla lotta armata nera e rossa – Lupacchini è finito davanti alla disciplinare del Csm per un’intervista video in cui lamentava il mancato coordinamento dell’ufficio retto da Gratteri con il suo, e definendo le indagini dell’antimafia catanzarese come «evanescenti». Tra i capi di “incolpazione” all’ex Pg del capoluogo, anche un post Facebook con cui Lupacchini sosteneva una campagna on line in favore di Eugenio Facciolla, ex Procuratore capo a Castrovillari, trasferito dal Csm in seguito ad un’indagine aperta nei suoi confronti dalla Procura di Salerno. Incolpazione poi caduta davanti al Plenum del Csm che nelle settimane scorse, ha reso definitivo il trasferimento di Lupacchini a Torino.

    L’arresto del Gip di Palmi

    E se nel distretto giudiziario centrosettentrionale le acque restano ancora agitate per gli inevitabili strascichi delle vicende penali che hanno coinvolto magistrati importanti, nel reggino bisogna tornare un po’ indietro nel tempo per trovare precedenti così pesanti. Nel 2011 furono i magistrati della distrettuale antimafia di Milano ad arrestare Giancarlo Giusti – all’epoca Gip a Palmi e con alle spalle un procedimento della disciplinare del Csm (da cui uscì assolto) per alcuni incarichi commissionati sempre agli stessi professionisti – nell’ambito di una maxi inchiesta sugli interessi del clan Valle – Lampada in Lombardia.

    Sui giornali finirono i soggiorni milanesi pagati dal boss al magistrato di origine catanzarese (con corredo di tutto il campionario voyeuristico su gusti sessuali e goderecci) e Giusti, condannato in via definitiva a 3 anni e 10 mesi di reclusione, non resse il colpo, togliendosi la vita pochi giorni dopo la lettura della sentenza.

    Intercettato mentre passava notizie al boss

    E fu sempre l’antimafia milanese, con l’inchiesta Infinito, a stringere le manette ai polsi di Vincenzo Giglio, all’epoca presidente della Sezione misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria. Un arresto clamoroso per un magistrato considerato, all’epoca, tra i più intraprendenti del distretto reggino: protagonista di innumerevoli manifestazioni antimafia ed esponente di rilievo di Magistratura Democratica, l’ormai ex magistrato fu intercettato dagli investigatori mentre sul divano della sua casa reggina, passava notizie riservate al boss Giulio Lampada, che di quel salotto era un frequentatore abituale.

    Una storiaccia che coinvolse anche l’ex consigliere regionale Francesco Morelli e che costò all’ex giudice una condanna a quattro anni e 5 mesi di reclusione ed a un risarcimento, stabilito dalla Corte dei conti pochi mesi fa, di oltre 50 mila euro nei confronti del ministero della Giustizia per il terrificante danno d’immagine provocato.

  • Lucano visto dai giudici: l’accoglienza? «Solo per trarre profitto»

    Lucano visto dai giudici: l’accoglienza? «Solo per trarre profitto»

    Il frantoio e le carte d’identità, le case dell’albergo diffuso e quelle dei migranti, gli ammanchi di denaro e le gare di solidarietà: ci sono tre anni di “progetto Riace” dentro il monumentale faldone della sentenza Xenia. Migliaia di intercettazioni, decine di controlli, cinque diverse relazioni prefettizie e due anni di dibattimento serrato con (più) di un occhio alla forte pressione mediatica che l’indagine ha sollevato sin dalle prime battute. Una mole di materiale imponente che i giudici del Tribunale di Locri sgranano con puntigliosità per costruire le basi di una sentenza pesantissima su un sistema d’accoglienza che si sarebbe trasformato in un mezzo «solo per trarre profitto» e senza «nessuna connotazione altruistica, né alcunché di edificante».

    Un sistema collaudato

    Una ricostruzione durissima che, basandosi sulla gestione economica dei vari progetti (Sprar, Cas e Msna), demolisce l’idea stessa dell’intero “sistema Riace”, o almeno di quello degli ultimi tre anni. Altro non sarebbe stato che «un sistema che si basava su una piattaforma organizzativa collaudata e stabile che si avvaleva dell’esperienza e della forza politica che Lucano possedeva». Ed è proprio sulla figura dell’ex sindaco, e sui suoi comportamenti anche durante il dibattimento, che il presidente Fulvio Accursio punta l’indice. Secondo il giudizio di primo grado infatti, Mimmo Lucano sarebbe a capo di «un’organizzazione tutt’altro che rudimentale che rispettava regole ben precise a cui tutti puntualmente si assoggettavano».

    Modello o illusione?

    Secondo la ricostruzione dei giudici, il gruppo avrebbe attirato verso Riace buona parte dei disperati che arrivavano in Italia, solo per tornaconto personale. Da una parte lo stesso Lucano, che avrebbe agito oltre che per interesse, anche «a beneficio della sua immagine pubblica». Dall’altra i suoi sodali che lo avrebbero aiutato a mettere in piedi “l’illusione Riace”, per poter saccheggiare i fondi dei progetti d’accoglienza. L’equazione tracciata dal tribunale di Locri è semplice: più migranti ci sono in paese, più soldi arrivano. E più i numeri possono confondersi, più il gruppo ne può approfittare.

    Il contesto ignorato

    Un’equazione da cui però manca la variabile umana, il contesto dentro cui si è sviluppata l’intera vicenda: nessun accenno all’emergenza che inondava di richiedenti asilo e varia umanità disgraziata, il piccolo centro jonico; nessun riferimento alle decine di persone ospitate oltre i numeri consentiti, in abitazioni vere, proprio per soddisfare le richieste di Prefettura e ministero dell’Interno né ai tanti risultati raggiunti nel rilancio del paesino abbandonato dai suoi stessi abitanti.

    Condanna raddoppiata

    Associazione a delinquere, falso in atto pubblico, peculato, abuso d’ufficio e truffa: 21 i reati contenuti in 10 capi d’accusa (sui 16 totali in cui era stato coinvolto) alla base della condanna dell’ex primo cittadino che è invece stato assolto dalle ipotesi di concussione e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Dieci capi d’accusa divisi in due, differenti, ordini di reati che sono alla base della condanna per Lucano. Due ordini di reati la cui «sommatoria dei segmenti di pena comporta la condanna alla pena complessiva di anni 13 e mesi 2».

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    I giudici del Tribunale di Locri pronunciano la sentenza di condanna nei confronti di Mimmo Lucano

    Secondo i calcoli del collegio locrese quindi, da una parte si deve considerare l’associazione a delinquere con tutti i delitti individuati durante il processo e che sono da considerarsi in continuità, dall’altra gli altri reati legati agli abusi d’ufficio e alla falsità ideologica, anche questi da considerarsi in continuità. Ed è sommando questi due distinti «disegni criminosi» che il presidente Fulvio Accursio dispone la condanna a 13 anni e due mesi, praticamente il doppio di quanto richiesto dall’accusa che quelle stesse ipotesi di reato, le aveva invece considerate come un unico insieme.

    Nessuna attenuante

    Una condanna a cui, scrive ancora il tribunale nelle motivazioni della sentenza, per due ordini di motivi, non vanno conteggiate neanche le attenuanti generiche. Da una parte il fatto che Lucano si è sottratto ad interrogatorio durante il dibattimento limitandosi a due dichiarazioni spontanee, e dall’altra, nonostante si parli di un imputato incensurato, non «vi è alcuna traccia dei motivi di particolare valore morale o sociale per i quali egli avrebbe agito, essendo invece emerso… che le finalità per cui egli operò per oltre un triennio non ebbe nulla a che vedere con la salvaguardia degli interessi dei migranti».

    Lucano: «Rifarei tutto»

    Un giudizio impietoso che ha provocato l’immediata reazione dello stesso Lucano che, in trasferta in Emilia Romagna, ha rilanciato la sua battaglia. «Rifarei tutto, anche più forte di prima – ha dichiarato Lucano a margine di una manifestazione organizzata in suo sostegno – ci sono tante contraddizioni e il giudice mi ha condannato dicendo che pensavo al futuro, ma sono cose non vere. Il modello Riace è stato un modello di libertà e di rispetto dei diritti umani».

    La battaglia continua

    Dello stesso tenore anche le dichiarazioni dei difensori dell’ex sindaco, Giuliano Pisapia e Andrea Daqua: «Dopo la lettura approfondita delle motivazioni, siamo ancora più convinti dell’innocenza di Mimmo Lucano. Queste infatti contrastano con le evidenze processuali emerse in un dibattimento durato oltre due anni. I giudici poi – dicono ancora gli avvocati – in contrasto anche con una sentenza delle sezioni unite di Cassazione sull’uso delle intercettazioni telefoniche, negano la verità sullo stato di povertà dell’ex sindaco, confermata invece da tutti i testimoni e le acquisizioni documentali. Contrasteremo nel merito i singoli capi d’imputazione e le argomentazioni dell’accusa e del Tribunale, a partire da quelle sui reati più gravi: associazione a delinquere e peculato».

  • Mimmo Lucano, il modello Riace? Per i giudici era «arrembaggio»

    Mimmo Lucano, il modello Riace? Per i giudici era «arrembaggio»

    «Lenti deformanti», «visioni» del processo «da lontano», «fughe in avanti»: sono numerose le pagine che i giudici del Tribunale di Locri dedicano alle tesi difensive che gli avvocati di Mimmo Lucano (e le migliaia di persone che hanno manifestato in tutta Italia all’indomani della condanna) hanno sostenuto durante il processo che ha visto l’ex sindaco di Riace condannato a 13 anni e 2 mesi di reclusione e ad una serie di risarcimenti record nell’ambito del processo Xenia.

    Persecuzione politica? No, «arrembaggio»

    Tesi che sostenevano «una presunta persecuzione di natura politica» che di fatto, scrivono i giudici nelle 904 pagine di motivazioni della sentenza di primo grado, «si dimostrerà essere del tutto inesistente». Nella sostanza, il modello Riace sarebbe stato solo fumo negli occhi per nascondere «un arrembaggio» fatto di «meccanismi illeciti e perversi, fondati sulla cupidigia e sull’avidità».

    Virtù e vizi

    Usano parole pesantissime i togati locresi che, pur ammettendo «l’integrazione virtuosa e solidale che nei primi anni veniva senz’altro praticata su quel territorio, ove si era riusciti mirabilmente a dare dignità e calore a uomini e donne venuti da terre remote» puntano l’indice «sulla sottrazione sistematica di risorse statuali e della Ue» che avrebbe messo in secondo piano l’accoglienza stessa, rimasta «in forma residuale e strumentale… così alimentando gli appetiti di chi poteva fare incetta di quelle somme senza alcun a forma di pudore».

    E alla guida di questo gruppo – sono 27 in tutto gli imputati – ci sarebbe Mimmo Lucano che avrebbe costruito «un sistema clientelare che gli ruotava attorno» e che «lo sosteneva politicamente, con fedeltà assoluta, ben sapendo che quell’appoggio che essi gli fornivano – di cui egli aveva spasmodica necessità e che, peraltro, costituiva l’unico criterio tramite il quale essi erano stati prescelti – era ampiamente ricambiato da forti ritorni di natura economica».

    Senza un soldo

    Parole durissime che rappresentano una pietra tombale su un progetto durato più di venti anni e che aveva portato Riace fuori dall’immobilismo in cui versava, impoverita e abbandonata dai suoi stessi abitanti. E poco importa, se di soldi a Lucano non ne sono stati trovati in tre anni di indagini. Per i giudici di Locri si tratta di «un falso mito».

    L’ex sindaco, scrivono, «è stato molto accorto nell’allontanare da sé i sospetti dell’essere stato autore del sistematico accaparramento di risorse pubbliche» e quindi «nulla importa che l’ex sindaco sia stato trovato senza un euro in tasca – come orgogliosamente egli stesso si è vantato di sostenere a più riprese – perché ove ci si fermasse a valutare questa condizione di mera apparenza, si rischierebbe di premiare la sua furbizia, travestita da falsa innocenza».

    Modello o menzogna?

    In sostanza, mette nero su bianco il presidente Fulvio Accurso, l’intero modello Riace si sarebbe trasformato in una grossa menzogna: menzogna era l’integrazione, menzogne erano i bimbi nella scuola riaperta e le case abbandonate nuovamente vissute. Menzogne create da Lucano «per alimentare l’immagine di politico illuminato che egli ha cercato di dare di sé ad ogni costo». Menzogne, annota il giudice sgambettando l’onda popolare da mesi schierata in sostegno dell’imputato Lucano, condivise «da tanta gente che non ha voluto vedere quanto sussisteva a suo carico nel processo»

  • Sistema Palamara, il ruolo dei Pm di Castrovillari e Paola

    Sistema Palamara, il ruolo dei Pm di Castrovillari e Paola

    Hanno «trasgredito le regole» e «prodotto una grave lesione dell’affidamento che l’ordinamento e la collettività necessariamente devono riporre in coloro che sono chiamati a svolgere quella funzione costituzionalmente prevista». Le motivazioni della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura con cui vengono sospesi 5 ex membri togati dello stesso Csm – due dei quali in forza a tribunali calabresi – ripercorrono il filo della cena del maggio 2019 all’hotel Champagne di Roma, quando si decisero le sorti del successore di Giuseppe Pignatone alla Procura di Roma.

    In lizza per quella nomina, ballavano, tra gli altri, i nomi di Francesco Lo Voi, a capo della procura di Palermo, Giuseppe Creazzo, Procuratore capo a Firenze con un passato importante nella trincea di Palmi e Marcello Viola, procuratore generale nel capoluogo Toscano, che fu indicato come favorito.

    Due magistrati in forza ai tribunali calabresi

    I cinque togati finiti davanti alla disciplinare – Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli, Gianuigi Morlini e i “calabresi” Luigi Spina ex Pm a Castrovillari e Antonio Lepre ai tempi sostituto procuratore a Paola – assieme all’ex presidente dell’Associazione nazionale Magistrati, Luca Palamara, all’ex ministro Lotti e al parlamentare dem Cosimo Ferri, furono intercettati dal trojan installato dagli investigatori che indagavano sul cosiddetto “sistema Palamara”, mentre in una saletta appartata di un albergo romano, decidevano di una delle nomine più pesanti in seno a tutta la Magistratura italiana.

    Le motivazioni della sezione disciplinare del Csm

    Decisioni che sarebbero state prese su input dell’ex presidente dell’Anm che avrebbe agito per motivi di vendetta e interesse personale. Il capo del presunto gruppo di potere in grado di movimentare le nomine dei magistrati come fossero pedine su una scacchiera è stato riconosciuto in Palamara. Che è stato già radiato dalla magistratura e sotto processo a Perugia con l’ipotesi di corruzione. La commissione disciplinare del Csm ha certificato nelle oltre 100 pagine di motivazioni di come i cinque togati sospesi dalla funzione agissero «per interferire in segreto sulla libera formazione del convincimento dei componenti del Csm rimasti estranei alla discussione, come pure dei candidati al posto di Procuratore della Repubblica di Roma, in riferimento a loro eventuali revoche delle domande presentate».

    Il pm considerato «longa manus» di Palamara

    Ritenuto «pienamente responsabile» di quanto gli viene imputato, l’ex pm di Castrovillari Luigi Spina in quota Unicost, è stato sospeso per 18 mesi dalle funzioni di magistrato. È considerato dal tribunale disciplinare come «longa manus» di Luca Palamara. Sarebbe lui, sottolineano i magistrati «ad avere maggiore intensità di rapporti con il dottor Palamara, con il quale manifesta una piena e consapevole comunione di intenti».

    E sarebbe sempre Spina che – aveva detto in sede requisitoria il procuratore generale Gaeta – si può individuare come «l’uomo di fiducia in grado di veicolare all’interno del Consiglio i suoi desiderata». Tutte mosse, in questo quadro desolante passato alla storia come “mercato delle nomine”, che sarebbero state messe in opera asservendosi «alle intenzioni di chi aveva un concreto interesse nella scelta dell’organo requirente presso il quale era stato indagato e imputato».

    «Adesione agli illeciti propositi» 

    «Piena partecipazione e effettiva e consapevole adesione agli illeciti propositi» ci sarebbe stata anche da parte di Antonio Lepre, pm in forza al tribunale di Paola ed ex consigliere Csm in quota Magistratura Indipendente, sospeso per 18 mesi dalla funzione. Secondo i giudici della disciplinare, nel comportamento di Lepre, che era relatore per la nomina del nuovo procuratore capo di piazzale Clodio, «era evidente non solo la consapevolezza e volontà di adottare un comportamento connotato da un notevole grado di scorrettezza, ma anche di agire, peraltro in violazione dell’obbligo di segreto e del dovere di riserbo, turbando deliberatamente la trasparente e libera formazione della volontà dell’organo al quale apparteneva».

  • Migranti come schiavi, sotto inchiesta la moglie dell’ex prefetto anti Lucano

    Migranti come schiavi, sotto inchiesta la moglie dell’ex prefetto anti Lucano

    È durato poco più di due anni e mezzo l’interregno di Michele Di Bari al comando del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero degli Interni, organo che si occupa di gestire tutti, o quasi, i migranti nel nostro Paese. L’ex Prefetto di Reggio e Vibo ha presentato alla ministra Lamorgese le proprie dimissioni. Pochi minuti prima le agenzie avevano battuto la notizia dell’indagine costata a Rosalba Livrerio Bisceglia – moglie di Di Bari – un provvedimento di obbligo di dimora e l’obbligo di firma alla Pg.

    Il tribunale di Foggia
    Il tribunale di Foggia

    Secondo le accuse della procura di Foggia la donna, proprietaria di un’azienda agricola in Puglia, si sarebbe rivolta ad un uomo di origine gambiana per il reclutamento di alcuni operai, risultati poco più che schiavi e vittime di quel sistema di caporalato e sfruttamento del lavoro che accomuna il nord della Puglia al sud della Calabria. «Sono dispiaciuto moltissimo per mia moglie che ha sempre assunto comportamenti improntati al rispetto della legalità. Mia moglie – ha dichiarato Di Bari comunicando il suo passo indietro – insieme a me, nutre completa fiducia nella magistratura ed è certa della sua totale estraneità ai fatti contestati, confidando che presto la misura dell’obbligo di dimora sarà revocata».

    Foggia come Rosarno

    C’è dell’ironia nelle dimissioni dell’ex Prefetto di Reggio che, completamente estraneo all’indagine, è caduto per “opportunità politica” proprio a causa di un’inchiesta che affonda le radici in quel sistema di mancata integrazione e semi schiavitù che, da prefetto calabrese, lo ha visto protagonista di tante pagine della cronaca recente. Sbarcato in riva allo Stretto nel 2016 Di Bari può “vantare” un curriculum fatto di 19 commissioni d’accesso spedite in altrettanti comuni del reggino, con uno score di 18 commissariamenti per mafia ottenuti, praticamente un record.

    Ma è con i migranti che Di Bari si fa notare, guadagnandosi sul campo il posto nella cabina di regia del Viminale mantenuto fino a venerdì. I carabinieri di Manfredonia hanno individuato nella baraccopoli della “ex pista” di Borgo Mezzanotte lo slum dove i migranti vittima di caporalato protagonisti della vicenda foggiana trovavano rifugio. Uno slum praticamente identico a quello sorto alle spalle del porto di Gioia Tauro all’indomani della rivolta del 2010 e che la Prefettura guidata da Di Bari fece sgomberare in favore di telecamera durante una visita dell’allora titolare del Viminale, Matteo Salvini.

    Le tendopoli di San Ferdinando

    Uno sgombero reso necessario dalle condizioni disumane in cui erano costretti i migranti ospitati (e nel quale trovò la morte, tra gli altri, anche Becky Moses, la donna nigeriana costretta dai decreti sicurezza ad abbandonare i progetti di Riace, e arsa viva nella baracca dove aveva trovato rifugio). E che si dimostrò praticamente inutile, visto che a distanza di qualche giorno, una nuova tendopoli, autorizzata dalla stessa Prefettura, fu installata 500 metri più in là, in uno dei tanti slot vuoti del deserto post atomico della zona industriale del porto di Gioia.

    Da Riace a Roma

    E se a Rosarno era stato necessario l’utilizzo delle ruspe per radere al suolo la baraccopoli della vergogna, a Riace furono gli ispettori inviati dalla Prefettura di Di Bari, a smantellare il progetto di accoglienza ideato dall’ex sindaco Mimmo Lucano. Progetto che di quello che succedeva a Rosarno rappresentava l’esatta antitesi. Sono almeno cinque le relazioni che i funzionari reggini hanno stilato, a partire dal 2016, sul modello di integrazione e accoglienza che tra mille difficoltà aveva portato Riace, minuscolo e semi spopolato paesino dello Jonio reggino, all’attenzione di mezzo pianeta.

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    Mimmo Lucano

    E se in una delle relazioni – sulla quale si è basata parte dell’indagine della guardia di finanza – si sottolineavano le tante criticità legate alla gestione del denaro, in un’altra – a lungo “impantanata” negli uffici della Prefettura reggina da cui è riemersa solo dopo una formale denuncia – si certificava la capacità propositiva e inclusiva di un “modello” capace di ripopolare con profughi e richiedenti asilo, un centro abbandonato dai suoi stessi abitanti a loro volta migrati lontano in cerca di maggiore stabilità. Un modello ormai sepolto dai 13 anni di condanna inflitti all’ex sindaco dal tribunale di Locri, ma che era stato già minato dalla progressiva serrata dei progetti d’accoglienza. Serrata in cui Di Bari recitò un ruolo da protagonista.

    La “maledizione di Lucano”

    Di Bari non è l’unico funzionario finito – seppure di riflesso – nel tritacarne di un’indagine sui migranti in seguito alla chiusura dei progetti di Riace. Per uno strano caso del destino infatti anche altri due funzionari sono rimasti invischiati in altrettante indagini a pochi mesi dalla chiusura del paese dell’accoglienza. Come nel caso di Salvatore Del Giglio, che di una di quelle relazioni prefettizie fu estensore e che finì indagato dalla Procura di Palmi per una presunta relazione falsa legata ai progetti d’accoglienza a Varapodio, sul versante tirrenico d’Aspromonte. O come nel caso di Sergio Trolio – che nel processo locrese fu uno dei testimoni dell’accusa come ex tutor dei servizi Sprar – finito indagato dalla Procura di Crotone per una serie di presunte truffe legate proprio al mondo dei migranti.

  • Aeroporto Minniti, Reggio è la cenerentola degli scali calabresi

    Aeroporto Minniti, Reggio è la cenerentola degli scali calabresi

    L’aeroporto Tito Minniti fu pensato per essere porta d’ingresso per le due città metropolitane, canale d’arrivo e di partenza privilegiato per una fetta di Sud da oltre un milione di abitanti. Ma è finito nell’angolino più angusto del sistema dei trasporti del fondo dello Stivale. Lo scalo di Reggio Calabria arranca tra un emorragia di passeggeri che non conosce sosta – è all’ultimo posto per utenti trasportati tra gli scali calabresi – e un’offerta anemica che si limita a Roma e Milano, con prezzi da tratte internazionali che dirottano su altri aeroporti (Catania e Lamezia) anche buona parte dell’utenza “domestica”.

    Il prezzo dell’incanto

    Incastrato tra le ultime ombre d’Aspromonte e la meraviglia dello Stretto, lo scalo reggino paga, tra le altre cose, una serie di limitazioni dettate proprio dalla posizione in cui lo hanno costruito e dalla difficoltà nelle manovre di atterraggio. Dotato di due piste (anche se i voli di linea atterrano e decollano solo su quella principale) è uno dei pochi scali italiani a prevedere un’abilitazione particolare per il pilota (in fase di atterraggio è necessaria una manovra gestita direttamente in cabina).

    Limitazione che si somma a quelle legate all’impossibilità di dotare lo scalo con i moderni sistemi di radiofaro per l’atterraggio strumentale degli aerei e che, di fatto, resta come un macigno sospeso sui progetti di sviluppo visto che molte compagnie, low cost in testa, preferiscono puntare su scali incatenati da minori restrizioni e quindi accessibili a costi più bassi.

    Uno scalo per due

    Reggio e Messina come bacino naturale, il Tito Minniti (in memoria dell’aviatore reggino protagonista della guerra colonialista d’Abissinia) non è mai riuscito a diventare veramente attrattivo per i viaggiatori in partenza e in arrivo dalla sponda siciliana dello Stretto. Più veloce e più comodo per l’area metropolitana di Messina (nonostante la maggiore distanza) raggiungere lo scalo catanese di Fontana Rossa, che garantisce una maggiore offerta e prezzi decisamente più competitivi.

    Oggi, se un utente messinese volesse decollare da Reggio servendosi di mezzi pubblici potrebbe scegliere tra: prendere un autobus (privato) dalla città peloritana che, attraversato lo stretto via traghetto fino a Villa, lo lasci in aeroporto dopo il tragitto in autostrada o, in alternativa, prendere un aliscafo fino al porto di Reggio e da lì raggiungere lo scalo con un mezzo Atm: in entrambi i casi, oltre un’ora di tragitto scomodo e costoso che scoraggerebbe anche il più entusiasta dei viaggiatori.

    Arrivare in aeroporto dal mare

    Eppure qualcosa era stato fatto in passato per migliorare il collegamento. Nata durante la primavera di Reggio con Italo Falcomatà, l’idea di dotare il Minniti con un approdo pensato per gli aliscafi, si concretizzò nell’era Scopelliti, ma le cose non andarono bene. Modificato il vecchio molo della stazione aeroporto e “sistemata” la via d’accesso diretta tra la stazione e il Minniti, il nuovo percorso che consentiva l’accesso diretto allo scalo (con check in possibile direttamente a Messina) non riuscì mai a sfondare.

    Troppo lungo il tragitto via mare (nell’entusiasmo di quei giorni un consigliere comunale arrivò a invocare l’adozione degli hovercraft per il collegamento super veloce delle due sponde dello Stretto), scomodo e lento il trasbordo sulla navetta dalla stazione. Il servizio rimase in piedi per una manciata di mesi soltanto. Poi, così come era venuta, l’idea di arrivare al Minniti dal mare è naufragata in fretta. E ha lasciato come (costosa) dote, un molo ristrutturato e ormai in disuso e un sottopassaggio inutilizzato prima vandalizzato da una discarica abusiva e poi mestamente chiuso al traffico.

    Scartamento ridotto

    Il Minniti è passato sotto la gestione di Sacal all’indomani del rovinoso fallimento della Sogas, la compartecipata pubblica che gestiva lo scalo andata a gambe per aria nel 2016 con uno strascico di 10 indagati. Ha evitato così una rovinosa chiusura grazie a una gestione provvisoria che gli ha consentito di non perdere le necessarie autorizzazioni. Ma l’aeroporto reggino ha continuato a perdere collegamenti e passeggeri in un’emorragia senza fine aggravata dal baratro Covid e dalle scelte di Sacal che, accusano da Reggio, «spinge Lamezia e lascia al palo Reggio e Crotone».

    Il biglietto costa il doppio di Lamezia

    Sul piatto restano i milioni del rinnovato piano industriale previsti dal gestore per i tre scali calabresi. Una fetta dovrebbe essere destinata a Reggio per l’adeguamento della pista e dell’aerostazione e il rilancio dello scalo: «Vogliamo portare Reggio a un milione di viaggiatori», disse l’allora facente funzioni Spirlì durante una conferenza stampa della scorsa estate.

     

    In attesa del milione di passeggeri, al Minniti, nel mese di ottobre, si sono avventurati poco più di 13 mila utenti che rendono lo scalo reggino ultimo tra i tre aeroporti calabresi per numero di passeggeri. Anche perché, prenotare per la settima di Natale, un andata e ritorno sia da Roma che da Milano (uniche tratte sopravvissute alla desertificazione dei voli) costa al malcapitato viaggiatore poco meno di 400 euro. Circa 200 euro in più delle medesime tratte in vendita, nel medesimo periodo, sullo scalo lametino.