Autore: Vincenzo Imperitura

  • I gran rifiuti: Reggio e provincia in cerca di una discarica

    I gran rifiuti: Reggio e provincia in cerca di una discarica

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    Una discarica “di servizio” da realizzare ma ancora in attesa dell’individuazione di un comune disposto ad accollarsela. Un’altra in costruzione da oltre un decennio ma sospesa nel limbo per il rischio di infiltrazioni nell’acquedotto che serve il centro più popoloso della provincia. Poi un impianto di trattamento dei rifiuti profondamente trasformato e (quasi) in consegna. E un altro che resta appeso al braccio di ferro tra la città metropolitana – che lo ha inserito come parte integrante dell’Ato provinciale – e il Comune di Siderno.

    Quest’ultimo, invece, teme i rinculi ambientali che l’opera provocherebbe e si è rivolto ai giudici amministrativi per ottenere una sospensiva ai cantieri. E, ancora, i lavori al termovalorizzatore di Gioia Tauro – l’unico in Regione – che da anni va avanti a mezzo servizio. In questo marasma disordinato e costoso, Reggio e la sua provincia annaspano sotto il peso di un miserrimo 32% di raccolta differenziata. Sono circa 15 punti percentuali in meno della media regionale.

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    Il termovalorizzatore di Gioia Tauro

    Guarascio re dei rifiuti e le proroghe

    È un disastro che pone la città più grande della Calabria appena sopra il fanalino di coda Crotone e che è andato peggiorando – certifica il report annuale di Arpacal – negli ultimi due anni. Un disastro gestito “a monte”, di proroga semestrale in proroga semestrale, da Ecologia Oggi, il gruppo che fa capo al “re dei rifiuti” Eugenio Guarascio. Gruppo che, dopo avere preso in mano l’intero comparto al dileguarsi della multinazionale francese Veolia, ha gestito, di fatto da monopolista, tutti gli impianti presenti nel Reggino. Ma è uscito sconfitto nella gara – l’unica finora espletata dalla Città metropolitana – per la gestione dell’impianto di Sambatello, i cui lavori di rewamping dovrebbero essere completati entro fine anno.

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    L’ingresso dell’impianto di Sambatello

    Reggio città e l’ecodistretto

    Reggio città ha contabilizzato negli ultimi anni una perdita percentuale di quasi 6 punti sul dato della raccolta differenziata. Il suo ecodistretto – tre in totale quelli previsti per tutta la provincia, con Siderno e Gioia – se la passa meglio, almeno in prospettiva: i lavori appaltati nel 2020 per l’impianto di Sambatello dovrebbero essere consegnati entro fine anno. I 41,5 milioni di euro finanziati con fondi Por hanno consentito una profonda trasformazione del sito.

    Si è passati da tecnologia meccanica-biologica a una piattaforma di recupero dei rifiuti con una linea per il secco e una per il trattamento anaerobico dell’organico con produzione di biometano. Un passo avanti importante, per un impianto che si appoggerà alla discarica di Motta San Giovanni per i materiali di scarto frutto della lavorazione del differenziato. Scarti che ad oggi, per la mancanza di siti attualmente attivi, finiscono fuori dai confini provinciali, con inevitabile aumento delle tariffe.

    Melicuccà: la storia infinita

    La mancanza di discariche finali rappresenta uno dei punti più dolenti dell’intera vicenda legata al trattamento dei rifiuti in Calabria e ancora di più nel reggino. In attesa di una ancora lontanissima autosufficienza, sono state previsti i lavori per la realizzazione di due siti distinti: il primo, individuato nel territorio di Melicuccà e destinato a servire gli scarti del termovalorizzatore di Gioia, è diventato, suo malgrado, simbolo ormai storico dell’inefficienza dell’intero comparto.

    Posto a 550 metri di quota sul versante tirrenico d’Aspromonte, il sito di contrada La Zingara “vanta” una storia antica di violenze ambientali. Sede per decenni della vecchia discarica comunale, nel 2006 arrivò l’ordine di dismissione per una serie di violazioni alle leggi di tutela dell’ambiente. Poi, nel 2009, la Regione anche nell’ottica dell’eterna emergenza rifiuti, individuò, proprio accanto alla vecchia discarica dismessa, un altro sito dove costruirne una nuova.

    L’interno del sito di trattamento dei rifiuti di Melicuccà

    Falde a rischio inquinamento

    La scelta portò in piazza centinaia di persone in protesta. «Sotto il sito individuato dalla Regione – dicevano i rappresentanti delle associazioni di cittadini che si oppongono all’opera – scorrono le falde che alimentano l’acquedotto Vina che serve Palmi e Seminara». La successiva denuncia presentata da Legambiente portò al sequestro dell’area. Siamo nel 2014, quando i lavori erano già iniziati da un pezzo.

    Per uscire dallo stallo servirebbe un’approfondita analisi geologica del terreno, ma nessuno se ne occupa e l’indagine decade per decorrenza termini. Passano gli anni ma quello di contrada La Zingara è sempre il sito su cui Regione e città Metropolitana puntano per costruire la discarica di servizio, e così nel 2021, con un finanziamento di 15 milioni di euro, i lavori per una discarica “monstre” da 400 mila tonnellate ripartano.

    Le indagini (e lo stop) a cantieri quasi pronti

    Prima però che le indagini tecniche affidate al Cnr (incaricato dalla Città Metropolitana) e all’Ispra (chiamata in causa dal comune di Palmi) possano stabilire se esista un rischio di inquinamento delle falde acquifere. E così, come da migliore paradosso calabrese, quando arrivano i risultati delle due indagini, i cantieri – siamo nel dicembre dello scorso anno – sono quasi pronti.

    Ma le conclusioni dei due istituti di ricerca concordano nel ritenere possibile il rischio di inquinamento delle falde. Per entrambi gli studi, infatti, la conformazione geologica del terreno, fatto di sabbie e rocce granitiche frammentate, ha creato una serie di sacche d’acqua. E queste potrebbero alimentare, a valle, i torrenti sotterranei che alimentano la sorgente Vina.

    Una sorta di pietra tombale scientifica sulla possibilità dell’entrata in esercizio del sito (e conseguentemente sul completamento delle strutture previste dall’Ato 5 Reggio Calabria) a cui Regione e metrocity proveranno a mettere una pezza attraverso Arpacal che dovrebbe realizzare la «perimetrazione della fonte» mettendo così una parola definitiva all’ennesimo rischio ambientale.

    L’emergenza rifiuti…che nessuno vuole

    Se sul Tirreno il tira e molla sulla discarica va avanti da quasi venti anni, sul versante jonico della provincia, il sito destinato a servire l’impianto di trattamento dei rifiuti di Siderno, non è stato nemmeno individuato. Nonostante la possibilità di incassare le royalties per la presenza del sito sul proprio territorio comunale (Siderno incassa 7 euro per ogni tonnellata di monnezza trattata nel Tmb) nessuno dei 42 sindaci infatti si è fatto avanti per avanzare la propria candidatura.

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    I capannoni dell’impianto di Siderno

    Questo stallo imbarazzante dura da anni. Non si è fermato nemmeno davanti alla nomina dell’ennesimo sub commissario regionale che, nel 2020, avrebbe dovuto d’imperio individuare un sito. Alla soluzione dall’alto, però, si preferì una scelta condivisa tra tutti gli amministratori della Locride che, da allora, non sono riusciti a trovare un’intesa. Sul rinvio della scelta del luogo, va detto però che almeno in questa occasione si è preferito, al contrario di quanto successo a Melicuccà, attendere la relazione sui territori che rispondono alla caratteristiche tecniche necessarie ad un intervento di questa portata.

    Ne resterà solo uno

    Arrivata la mappa, ora ci si concentrerà sui comuni da escludere: quelli che non rientrano per conformità del terreno così come quelli che ospitano, o hanno ospitato in passato, impianti o siti destinati ai rifiuti. Escluse quindi Caulonia, Bianco e Melito, che ospiteranno i centri di smistamento di zona. Fuori anche Casignana, nel cui territorio ricade la terrificante discarica dismessa. E fuori quindi anche Siderno, dove è presente il Tmb su cui a giorni si attende la pronuncia del Tar che dovrà decidere sui lavori di rewamping che prevedono nuove costruzioni per oltre 60 mila metri quadri. Di quanti ne mancano, ne resterà soltanto uno. E dovranno sceglierlo gli stessi sindaci.

  • Rocco Gatto: il mugnaio rosso che non aveva paura della ‘ndrangheta

    Rocco Gatto: il mugnaio rosso che non aveva paura della ‘ndrangheta

    «È venuto uno e mi ha chiesto la mazzetta, i soldi. E io non glieli ho dati. Qualcuno invece paga e non dice niente: non c’è unità nella lotta a questa gente. Io, da parte mia, li lotto sempre, fino alla morte». Quando Rocco Gatto racconta allo sbigottito inviato Rai come ci si oppone alla mafia nella Gioiosa del 1976, le coppole storte agli ordini di Vincenzo Ursini gli hanno già bruciato il mulino e la casetta sulle colline di Cessarè. Gli hanno fatto sparire gli orologi che amava riparare nei ritagli di tempo. Gli hanno fatto sentire quanto pesi, nella Calabria di quei tempi, mettersi di traverso agli ordini di una mafia che ha già fatto il grande salto verso i traffici di droga e i sequestri di persona.

     

    Il Colore Del Tempo (2008), scritto e diretto da Alberto Gatto, nipote di Rocco, con Ulderico Pesce, Renato Scarpa, Nino Racco, Carlo Marrapodi e Lara Chiellino

     

    È un periodo duro quello a metà degli anni ’70 in questo pezzo di Calabria: la prima guerra di ‘ndrangheta è ancora in pieno svolgimento. Gli equilibri cambiano, i morti ammazzati si contano a decine in tutto il reggino. A Gioiosa il bastone del comando lo ha preso il clan degli Ursini: feroci e famelici, agli ordini del capobastone Vincenzo, i picciotti puntano le terre migliori del paese, quelle di Cessarè. Vogliono quei terreni, li pretendono. Iniziano uno stillicidio di richieste e intimidazioni. I campi coltivati sono devastati dalle mandrie di vacche sacre lasciate libere dagli uomini del clan. Una situazione asfissiante.

    Gioiosa e il sindaco Modafferi

    Ma quelli sono anche mesi di grandi fermenti politici e culturali. E Gioiosa ne è attraversata in pieno. Sindaco della cittadina jonica è Ciccio Modafferi, intellettuale arguto e dirigente del Pci: incurante delle minacce subite, Modafferi si mette alla testa dei cittadini che reclamano giustizia e insieme a sindacati, parrocchie, alleati e avversari politici proclama lo sciopero generale. Nel dicembre del 1975, per la prima volta nella storia, un paese calabrese si ferma per protestare contro la ‘ndrangheta.

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    Il sindaco di Gioiosa Jonica, Ciccio Modafferi

    Rocco Gatto è in prima fila in quel giorno di presa di coscienza collettiva. E lo sarà nei mesi a seguire, quando continuerà a scacciare dal suo mulino gli sgherri del clan che pretendono il pizzo dal suo lavoro e quando, decretando così la sua condanna a morte, denuncerà ai magistrati i mafiosi che volevano chiudere la città per il lutto del loro capo.

    Rocco Gatto e il clan Ursini

    Rocco Gatto ha poco più di cinquant’anni, è il primo dei dieci figli di Pasquale, classe 1907, contadino e stalinista. Dal padre ha ereditato la passione per la politica e il rigore sul lavoro e nella vita. Entra da giovanissimo come tuttofare in un mulino di Mammola e piano piano riesce a mettere da parte i soldi per mettersi in proprio. Attivista politico e antimafioso coriaceo, è convinto che non bisogna mai abbassare la testa alle prepotenze della ‘ndrangheta. Idee pericolose che il mugnaio comunista mette in pratica contrastando e denunciando gli uomini del clan – figli della sua stessa Gioiosa – che strozzano il paese.

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    La manifestazione contro la ‘ndrangheta del 1976 a Gioiosa

    Nonostante la manifestazione, infatti, gli Ursini continuano a taglieggiare i commercianti e ad accumulare potere e ricchezze. Quando, nel novembre del 1976, Vincenzo Ursini viene ammazzato in uno scontro a fuoco con i carabinieri del capitano Niglio, il clan decide di rispondere nel più eclatante dei modi all’attacco dello Stato.

    Chiuso per lutto

    È la notte tra il 6 e il 7 di novembre. Tra poche ore gli ambulanti di mezza provincia converranno a Gioiosa per il tradizionale mercato della domenica. Non ci arriveranno mai. Gli Ursini hanno presidiato tutte le vie d’accesso in città, obbligando con le minacce i malcapitati ambulanti ad una frettolosa marcia indietro. Quel giorno il paese deve considerarsi chiuso per lutto, in onore del mammasantissima ammazzato dai carabinieri. Un ordine perentorio che, con una deriva inarrestabile, si muove dalla periferia fino al centro: anche i negozi del paese devono tenere le serrande abbassate.

    Gli uomini degli Ursini non sono gli unici però a muoversi in quelle ore. Anche Rocco Gatto sta facendo i soliti giri mattutini legati alla raccolta del grano e si accorge di quei movimenti strani sulle vie d’accesso a Gioiosa: riconosce gli sgherri del clan che impongono la chiusura ai negozianti e non ci pensa due volte. Telefona ai vigili urbani, avvisa i carabinieri che intervengono per fare riaprire almeno i negozi cittadini, non si nasconde, in pubblico dice «li spezzo».

    Rocco Gatto deve morire

    Tutti in paese sanno chi è stato a denunciare. Anche gli Ursini lo sanno. Passano le settimane, le minacce di fanno ancora più insistenti, ma Gatto non demorde e pur consapevole di cosa lo aspetti, nel febbraio del 1977 firma davanti ai magistrati di Locri, la denuncia contro i setti picciotti che è riuscito a riconoscere. Nessun altro lo farà.
    Ormai è solo questione di tempo prima che il clan faccia la sua mossa, anche Rocco lo sa. Da qualche giorno ha preso a portarsi dietro il suo fucile da caccia con il colpo in canna, nei suoi giri per le campagne della Locride. La mattina del 12 marzo del 1977 – 45 anni fa – due uomini aspettano il suo furgoncino carico di sacchi di grano dietro una curva della vecchia provinciale che porta verso Roccella. Lo colpiscono tre volte: per il mugnaio che si era opposto alla ‘ndrangheta non c’è scampo.

    La riscossa: il primo Comune parte civile contro i clan

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    L’Unità del 16 aprile 1978

    L’omicidio di Rocco Gatto lascia ferite profonde in quelli che avevano creduto nel cambiamento. Ma non ferma quel sentimento di rivalsa contro le prepotenze della mafia che era maturato negli anni precedenti. A tenere alta la guardia della società civile ci pensa Pasquale, l’anziano padre di Rocco che da quel giorno e fino alla sua morte, combatterà la sua personale battaglia contro il crimine organizzato: «A uno lo possono sparare, a cento no» dirà davanti alle telecamere di Piero Marrazzo. Le denunce per il raid al mercato intanto sono andate avanti, le indagini dei carabinieri sono state meticolose e si arriva così a processo dove, con un mandato forte dell’unanimità del Consiglio comunale, il sindaco Modafferi, per la prima volta in Italia, si costituisce parte civile contro la mafia in nome del comune di Gioiosa Jonica.

    Il quarto stato dell’antimafia

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    Il murales dedicato a Rocco Gatto nel 1978 e restaurato trent’anni dopo dall’associazione Da Sud

    Una svolta epocale che contribuirà a tenere alta l’attenzione degli italiani – anche grazie all’opera del partito e della Cgil – su quel paesino a sud della Calabria che aveva saputo trovare una spinta di innovazione da tutta quella violenza. Quando, esattamente un anno dopo l’omicidio, la Corte d’assise di Locri firmò la condanna per i sette picciotti che volevano chiudere il paese, le vie di Gioiosa accolsero un’altra grande manifestazione. Migliaia di persone da tutta Italia, nella primavera del ’78, arrivarono nella Locride per marciare in ricordo di quel mugnaio coraggioso. In ricordo di quel giorno sulla piazza che la mafia voleva chiusa campeggia il murale del quarto stato dell’antimafia.

    Pertini e la medaglia al padre di Rocco Gatto

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    Sandro Pertini consegna a Pasquale Gatto la medaglia

    Anche il processo per l’omicidio di Gatto arriva in tribunale. Alla sbarra ci sono Luigi Ursini e un suo sodale. A sostenere l’accusa non bastano però la forza e la dignità del vecchio Pasquale che racconta in aula di come fosse maturato l’omicidio, indicandone i colpevoli. I due imputati vengono condannati per le violenze subite dal mugnaio, ma l’accusa d’omicidio cade per insufficienza di prove. Nessuno pagherà per la morte di Rocco Gatto. Sarà lo stesso Pasquale a ricordarlo al Presidente Sandro Pertini che, durante la cerimonia ufficiale di consegna della medaglia d’oro alla memoria, mandò al diavolo il cerimoniale per abbracciare quel vecchio ostinato che non si era stancato di combattere.

  • Caulonia, il paese che sprofonda

    Caulonia, il paese che sprofonda

    A Caulonia più di mille anni di storia sono, letteralmente, in bilico sullo sbalanco. Chiese barocche, antichi teatri, una manciata di abitazioni e giardini da cartolina: tutto appeso agli umori di ciò che resta della rupe su cui sono stati costruiti. La stessa rupe, che per secoli ha protetto l’antica Castelvetere dalle incursioni degli eserciti e dalle scorrerie dei saraceni, e che ora si sgretola. Il dissesto idrogeologico –  incurante dei cantieri realizzati e di quelli pronti a partire, degli interventi rimasti solo sulla carta e dei lavori da ultima spiaggia messi in campo dopo ogni pioggia seria – è andato avanti negli anni, minando la solidità stessa di una parte di Caulonia.

    Un video della frana girato da Ivan Reale nel 2017: da allora la situazione si è aggravata

    La situazione si è incancrenita con il tempo nonostante i quasi 20 miliardi di vecchie lire già spesi fino ad ora. Adesso si proverà a mettere una pezza – l’ennesima – con i nuovi lavori di consolidamento in partenza a giorni. Il finanziamento è di 1,9 milioni di euro, da dividere tra la rupe del borgo e la parte alta della Marina. Tolta l’Iva e gli oneri, restano poco più di 900mila euro di corsa contro il tempo, in attesa di altri fondi. Si tratta di altri 900mila e rotti attualmente in attesa di approvazione per la base della rupe. A questi bisogna aggiungere i soldi per gli ulteriori cantieri, in fase di progettazione, che dovranno completare quelli che stanno per partire. È uno stillicidio senza fine, cucito sulla pelle di un paese già fortemente vandalizzato da incurie e abusi.

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    I segni visibili del dissesto idrogeologico a Caulonia

     

    Cronaca di un disastro

    Mortida, Maietta, Carminu: hanno nomi figli delle dominazioni che si sono alternate nel corso dei secoli i quartieri di Caulonia già colpiti dal disastro. Le case costruite sul ciglio della rupe, alla Mortida, sono state le prime a venire giù. Sono state sgomberate e abbattute negli anni ’90 a causa di un concreto rischio crollo.

    Ma il problema è più antico e già alla fine del decennio precedente l’erosione della rupe su cui poggia la parte di Caulonia che guarda alla valle dell’Amusa, era finita al centro dell’attenzione della commissione Grandi rischi dell’allora ministero della Protezione civile. Due sopralluoghi degli ingegneri della Prociv hanno certificato la necessità di intervento immediato. Il problema, comune a quasi tutti i centri del territorio, investiva la rupe nella sua interezza.

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    Crepe profonde sulle strade di Caulonia

    E già dal 1988 esisteva un piano di fattibilità da 12 miliardi che avrebbe consentito di mettere in sicurezza l’intero paese. I primi tre miliardi di finanziamento per il dissesto arrivano nel ’91. Sarebbero destinati agli interventi di risanamento per la zona di San Biagio e di Tinari oltre che per quella della Maietta. Ma i soldi non bastano e i lavori vanno avanti solo nei primi due rioni.

    Si deve aspettare qualche anno prima che i cantieri raggiungano il lato meridionale della rupe. Però gli interventi, seppure economicamente impegnativi, non risulteranno decisivi per contrastare il dissesto idrogeologico. Si arriva così alla fine dei ’90 quando si interviene in modo consistente. La rupe viene bloccata con contrafforti intirantati connessi tra loro da un cordolo in cemento armato. Un intervento importante, figlio di quel piano di fattibilità elaborato 10 anni prima e realizzato solo in parte. Così si blocca, almeno temporaneamente, il degrado del costone e mette in sicurezza il sito.

    Le avvisaglie a Caulonia

    Almeno fino all’ottobre del 2015, quando in seguito a diversi giorni di pioggia battente, una parte di via Maietta sprofonda di un paio di metri. L’ha mangiata da sotto lo sbriciolarsi delle argille che compongono la parte superficiale della rupe. Un crollo improvviso, ma che aveva avuto le prime avvisaglie qualche anno prima. All’epoca, infatti, diverse costruzioni poste alla base della rupe furono pesantemente crepate (e sgomberate) da un movimento franoso sotterraneo che scende verso la fiumara.

    Il problema dipende questa volta soprattutto dalle infiltrazioni d’acqua. Tra quella piovana e quella mal regimentata degli scarichi fognari della zona, la rupe si ritrova corrosa “dall’interno”. Lo certificano, pochi giorni dopo il crollo, gli ingegneri della protezione civile. Nella loro relazione di primo intervento annotano tra gli scenari attesi «nuovi sprofondamenti simili a quello già evidenziato» e la loro «accentuazione». Suggeriscono tra le altre cose «la regimentazione delle acque di ruscellamento che insistono sul piazzale impedendone o riducendone significativamente l’infiltrazione».

    Parole al vento

    Ma di quel suggerimento nessuno sembra prendersi cura. E le cose, mese dopo mese, continuano a peggiorare. L’acqua piovana si infiltra anche dalle nuove voragini che via via si aprono su via Maietta. Solo nel 2017, un ulteriore finanziamento pubblico di 100mila euro consentirà l’installazione di una serie di tubi di plastica per regimentare le acque piovane e riversarle alle spalle della rupe, lungo le vinede strette del paese. L’ennesimo intervento di rattoppo serve però a poco e la gravità della situazione comincia a mostrarsi anche sui muri della chiesa che dà il nome alla piazza. Crepe profonde sull’abside barocca, sul sagrato, nei passaggi che portano all’organo monumentale e al giardino.

    I tubi di plastica per regimentare le acque piovane a Caulonia

    La situazione è così grave che dal novembre del 2019, l’intera area – su cui si trova anche la seicentesca chiesa di San Leo a Caulonia, da qualche anno riconvertita a sala prove per la banda del comune – è stata interdetta anche al traffico pedonale: sgomberate le case che affacciano sulla rupe – anche se è non raro trovare qualcuno tra i vecchi abitanti ancora affacciato alle finestre –, chiusa al culto la chiesa costruita sui ruderi del convento degli Agostiniani. Tutto sbarrato sperando che nuove forti piogge non facciano venire giù tutto prima della fine dell’ennesimo intervento. Vengono anche installati dei sensori per monitorare continuamente lo stato della frana.

    I nuovi lavori

    Arriviamo così ai giorni nostri, con il nuovo cantiere per il «consolidamento rupe centro storico» che dovrebbe essere aperto nel mese di marzo. E che, non ancora partito, già segna il passo rispetto ad una situazione drammatica che è continuata a peggiorare. Nella relazione tecnica inviata dal Rup del progetto alla Cittadella regionale, infatti, si legge che «l’area di intervento individuata nel progetto appare meno preoccupante di zone limitrofe non comprese nel Ppbg, in cui sono stati rilevati fenomeni di retrogressione del ciglio, sprofondamenti significativi e scavernamenti della parete. Tali risultanze – scrive ancora il Rup Ilario Naso analizzando i rilievi eseguiti in parete dai geologi rocciatori – sono maggiormente gravose rispetto a quelle rilevate in passato ed evidenziate sul progetto finanziato».

    Il circo può ripartire quindi, con la speranza che nuove bombe d’acqua non mandino tutto all’aria e anche se già si sa che l’intervento, così come è strutturato, non sarà risolutivo. Almeno fino al prossimo finanziamento.

  • Capitale della cultura 2025: la Locride sogna senza cinema, scuole e teatri

    Capitale della cultura 2025: la Locride sogna senza cinema, scuole e teatri

    «Superare gli stereotipi, rendere visibile il patrimonio materiale e immateriale di una terra unica al centro del Mediterraneo, ancora tutta da scoprire»: usa slogan intriganti la campagna di lancio per la candidatura della Locride a Capitale della cultura per il 2025. Slogan che parlano di territorio che «genera cultura» e che sperimenta «metodologie e buone prassi per il recupero e la valorizzazione del patrimonio culturale» ma che sembrano fare a pugni con la quotidianità di un territorio che negli anni ha visto diminuire – e di molto – l’offerta culturale destinata ai residenti e ai turisti che scelgono di passarci del tempo.

    Teatri con le porte sbarrate da anni o mai aperti, fondi librari lasciati a marcire in improbabili sottotetti, sfregi e violenze sul patrimonio architettonico e urbanistico ereditato da secoli di dominazioni diverse, persino i Rumori Mediterranei di Roccella jazz – per 40 anni massima espressione della “cultura diffusa” in tutto il territorio reggino – “ridimensionati” ed esclusi dai finanziamenti dei Grandi eventi regionali per opera dell’ex facente funzioni Nino Spirlì. Per non dire delle scuole, con buona parte dei micro paesi della Locride che, negli anni, hanno perso anche gli istituti primari o, nel migliore dei casi, li hanno mantenuti ricorrendo al sistema delle multiclassi.

    L’ex presidente facente fuzioni della Regione Calabria, Nino Spirlì

    Locride Capitale della cultura

    L’idea di avanzare la candidatura unitaria dei 42 paesi che compongono il territorio a Capitale italiana della cultura per il prossimo 2025, è venuta al Gal Terre locridee. Ha visto l’immediata adesione dei sindaci che, in ordine sparso, stanno firmando il protocollo d’intesa presentato nei mesi scorsi. Così come quella dell’assessore regionale all’agricoltura, Gallo, che ha garantito «il sostegno della Regione e il pressing sul Ministero». L’idea, si legge nel manifesto, è quella di costruire «un progetto unitario che attivi forme di resilienza, economia circolare, partecipazione, sostenibilità» lungo un percorso in grado di rappresentare la Locride «in modo complessivo come territorio che genera cultura, in modo coeso, partecipato e condiviso».

    Un’idea – l’ennesima – nel tentativo di rilanciare il territorio. «Sulla falsariga di quello che è successo a Matera – dice il presidente dell’assemblea dei sindaci Giuseppe Campisi – quando fu scelta come Capitale italiana della cultura. Ci saranno eventi, progetti e manifestazioni per sponsorizzare la nostra candidatura. Contiamo di fare conoscere meglio il nostro territorio con le sue particolarità e con le sue ricchezze, a partire da quelle archeologiche di Locri e Kaulon».

    Il passato glorioso della Locride

    Poco più di 150 mila abitanti distribuiti tra il mare e le montagne d’Aspromonte e delle Serre, la Locride ha maturato un rapporto quasi bipolare con le meraviglie naturali e storiche che ha avuto la fortuna di ritrovarsi. Un patrimonio – borghi medievali, monasteri arroccati, castelli e torri di guardia, oltre naturalmente ai resti delle civiltà magnogreche e romane – buono da esibire quando si tratta di vendere pacchetti turistici ma che si scontra con una realtà caratterizzata da inefficienze e sprechi. Come nel caso del parco archeologico di Monasterace, minacciato da anni dall’irruenza dello Jonio e che attende ancora il completamento della recinzione e l’istallazione dell’impianto di video sorveglianza. O quello della rupe su cui sorge Caulonia, che si disfa pezzo dopo pezzo in attesa dell’ennesimo intervento.

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    Il mosaico dei draghi e dei delfini nel parco di Kaulon

    E poi una serie di sfasci e storture che hanno riguardato decine di singoli beni un po’ in tutto il comprensorio. Come il settecentesco casino di caccia sulle colline di Stignano, privo di ogni controllo e vittima indifesa di graffitari dozzinali e zozzoni da gita fuoriporta. O come il balcone in cemento e mattoni costruito impunemente sulla cinquecentesca abitazione natale di Tommaso Campanella a Stilo. Un’oscenità denunciata durante un convegno sugli studi campanelliani nel 2019 e che la terna prefettizia alla guida del Comune, pochi giorni dopo, ordinò di rimuovere.

    Serbatoio di acqua sui ruderi del Castello di Caulonia

    Caulonia e gli scontri tra Comune e Soprintendenza

    E ancora Caulonia, borgo tra i più belli in Regione, che negli anni, non si è fatto mancare proprio niente. Dalla costruzione del serbatoio dell’acqua potabile, edificato negli anni ’50 in spregio a un migliaio di anni di storia, sui resti del castello normanno, all’invasivo restauro della cinquecentesca chiesa matrice, fino alla polemica sul recupero dell’affresco del Cristo Pantacreatore, testimonianza antichissima della lunga dominazione bizantina e vittima suo malgrado di un tira e molla tragicomico. Il Comune voleva farci attorno una piazzetta in cotto con contorno di colonne doriche; la Soprintendenza minacciò di staccare la pittura da ciò che resta dell’abside di San Zaccaria per portarlo “in salvo” all’interno di un museo.

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    L’orribile copertura in vetro che protegge il mosaico del Cristo Pantacreatore a Caulonia

    La polemica è durata mesi ed è finita con un’imbarazzante copertura in acciaio e vetro. La stessa soluzione che a Placanica, pochi chilometri a nord, è stata individuata per il nuovo ascensore esterno in dotazione al castello. Un intervento pesante e dal forte impatto visivo che consentirà l’accesso ai disabili ma che ha scatenato una montagna di polemiche che hanno coinvolto la stessa Soprintendenza.

    L’ascensore esterno in vetro e acciaio del Castello di Placanica

    Accesso negato

    E se il patrimonio ereditato dal passato – punto di forza della candidatura – continua a camminare su un terreno minato, il rapporto attuale tra il territorio e la possibilità di accesso e fruizione alla cultura, è altrettanto contorto. Solo due i cinema superstiti in tutto il comprensorio, uno a Locri, l’altro a Siderno, e trovare un film che non sia un giocattolo della Marvel o un cartoon della Pixar, non è cosa da tutti i giorni. Sulle dita di una mano di contano poi le librerie, fatte salve quelle che riforniscono i testi scolastici, e anche ascoltare della semplice musica dal vivo, tolti i canonici due mesi di stagione estiva, è diventato molto più difficile che in passato.

    Il fantasma del palcoscenico

    Capitolo a parte meritano i teatri. Se buone vibrazioni arrivano dai ragazzi di Fuorisquadro – che hanno recuperato e rimesso a nuovo a loro spese il vecchio cinema liberty del paese per riconvertirlo in un teatro da 90 posti – pessime notizie arrivano da Gioiosa, unica struttura “ufficiale” che era rimasta aperta al pubblico nella Locride. Problemi all’impianto elettrico hanno fermato il cartellone: «I lavori da fare – dice il direttore artistico Domenico Pantano – sono tanti, soldi non ce ne sono. Ad oggi non è possibile ipotizzare una data per la riapertura».

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    Il teatro mai finito di Siderno: in costruzione dal 2002

    E se a Gioiosa il teatro chiude, a Siderno non ha mai aperto. E dire che la prima pietra per l’opera risale ai primi anni del nuovo secolo. Un iter elefantiaco fatto di errori e ritardi che ha fatto salire all’inverosimile i costi dal progetto iniziale e che si nutre di continui nuovi finanziamenti: l’ultimo, 2 milioni di euro garantiti con delibera del Cipe del 2018, prevede il completamento del teatro e la sistemazione della piazza adiacente ma i tempi di realizzazione non sembrano brevi.

    Il collaudo in contumacia

    Surreale poi la storia del teatro comunale Città di Locri – centro che dalla sua può comunque vantare un antico cartellone estivo in scena nel parco archeologico – che non solo ha chiuso i battenti pochi mesi dopo essere stato inaugurato nel 2018, ma è finito, suo malgrado anche nelle aule del tribunale cittadino. Il montacarichi, indispensabile per spostare su è giù dal palco le attrezzature necessarie alla messa in scena degli spettacoli infatti, non era mai stato installato.

    Lo ritrovarono a casa di un privato cittadino che, ignaro, lo aveva acquistato al doppio del prezzo dallo stesso imprenditore che aveva vinto l’appalto per il teatro, e di cui era suocero. Una storia dai tratti surreali, finita con sei rinvii a giudizio e una condanna con pena sospesa in abbreviato. Alla sbarra, oltre all’imprenditore che avrebbe messo in moto il doppio raggiro, ci sono finiti anche i tecnici che hanno firmato il collaudo dello stesso montacarichi: una sorta di collaudo “in contumacia” visto che il piccolo ascensore era da un’altra parte.

  • Devetia e Cosenza: Offerti 12 milioni?  Forse li ha chiesti Guarascio, ora si riparte da zero

    Devetia e Cosenza: Offerti 12 milioni? Forse li ha chiesti Guarascio, ora si riparte da zero

    «La proposta è seria, il gruppo solido e presente nel mondo del calcio da anni, dove opera come fondo d’investimento. Le polemiche? Ne so poco, certo quando ho accettato il mandato della Devetia Limited ho chiarito le cose: se volete che sia io a gestire questa vicenda, devo gestirla a modo mio». Torna sotto i riflettori della cronaca l’interessamento di Oleg Patakarcishvili e del suo gruppo ucraino per le sorti del Cosenza.

    Usmanov scompare, resta Patakarcishvili

    Leopoldo Marchese, l’avvocato che ha inoltrato alla società di Guarascio una formale richiesta di trattativa d’acquisto, è il professionista a cui è stato commissionato l’incarico di portare avanti la trattativa. Una trattativa che, dal mese di dicembre, si rincorre tra voci impazzite, smentite sdegnate e video dal sapore demenziale. E mentre la giostra riparte – con la squadra impantanata nei bassifondi della classifica e pronta ad un nuovo ribaltone in panchina dopo l’esonero di Occhiuzzi – un po’ di quella nebbia che aveva sepolto l’intera vicenda comincia a diradarsi.

    Alisher Usmanov insieme a Vladimir Putin
    Alisher Usmanov insieme a Vladimir Putin. Il magnate uzbeko ha smentito ogni coinvolgimento nella trattativa per il Cosenza

    «Non so niente di Usmanov. Io ho accettato il mandato a trattare dal gruppo del signor Patakarcishvili che da quanto so non ha nulla a che fare con l’oligarca». Dal canto suo, il magnate uzbeko, raggiunto dalle voci che da mesi lo accostano alla società rossoblu, ha smentito ieri ogni interessamento «al club specificato o altro club in Italia», ridimensionando lo strano risiko di interessi internazionali che aveva circondato il primo tempo di questo strano film.

    Dodici milioni: offerti o richiesti?

    In campo ora, resta ufficialmente solo la Devetia, con la sua storia di acquisizioni societarie eccellenti e cessioni altrettanto rumorose. «È troppo presto per parlare di cifre – dice ancora l’avvocato Marchese – prima di tutto bisogna vedere le carte del club. Serve una due diligence prima di qualsiasi altra cosa: le persone che rappresento devono capire la situazione finanziaria reale della società, poi potremo sederci e parlare di cifre. Da quanto è a mia conoscenza, le voci riguardo ai 12 milioni circolate nei mesi scorsi, dovrebbero riferirsi a quanto richiesto dal Cosenza. Ma io non mi occupavo ancora della trattativa, ripartiamo da zero».

    Il circo

    La partenza di questa seconda fase della trattativa per l’acquisizione del Cosenza Calcio, sembra quindi avere rinunciato alle stranezze che ne hanno caratterizzato gli albori. Scomparsi i link “manomessi” che parlavano di improbabili processi in Ucraina a carico del presidente Guarascio e quelli dei precedenti rapporti economici tra lo stesso “re dei rifiuti” e la Devetia ai tempi dell’investimento sulla squadra brasiliana del Corinthians.

    Fernando Martinez Vela
    Fernando Martinez Vela, protagonisti di alcuni video in cui si millanta fin dal titolo la presenza di Alisher Usmanov nella trattativa per l’acquisto del Cosenza, gestita ora dall’avvocato Leopoldo marchese

    Tornato ai suoi incarichi sportivi nel gruppo Devetia, anche il “beckettiano” Fernando Vela, autore di una serie di compulsivi video su Youtube dove si districava tra surreali tutorial sul mondo del calcio e degli investimenti e non richiesti “consigli” (de)piliferi ai giornalisti. «Pensiamo a quelli come periodi bui – dice ancora l’avvocato – e poi lo sappiamo come sono fatti questi russi. Sono impulsivi, si accendono subito. Ora però sono io a gestire le cose e non ci saranno altri video né altre dichiarazioni azzardate».

    Cosenza, la palla passa da Devetia a Guarascio

    Compiuto quindi il primo passo ufficiale con l’invio della mail certificata con la dichiarazione d’interesse, la palla ora passa alla dirigenza rossoblu, chiamata a rispondere alle sollecitazioni arrivate dal fondo d’investimento ucraino. «Questo è un gruppo serio, con grosse disponibilità finanziarie. Hanno interessi in Calabria e hanno veramente intenzione di rilevare il Cosenza. Ma prima bisogna vedere le carte. Aspettiamo una risposta dalla dirigenza che ancora non è arrivata, anche se bisogna dire che è passato ancora pochissimo tempo. Poi cominceremo a guardarci attorno».

    Tifosi del Coseeza al San Vito-Marulla
    Tifosi del Cosenza al San Vito-Marulla prima che gli spalti si svuotassero

    Il Piano B

    La prima scelta resta quindi il Cosenza, ma non è l’unica: se Guarascio dovesse rispondere picche infatti, gli interessi del gruppo potrebbero indirizzarsi dal Cosenza verso un’altra realtà calcistica calabrese. La Vibonese sembra purtroppo destinata a tornare tra i semi-pro della Lega D. Quindi la rosa si restringerebbe alle altre “tre sorelle” del mondo della pedata regionale. «Il costo più alto? – chiosa Marchese – non sarebbe un ostacolo, il gruppo non ha problemi di denaro».

  • Gli assassini del podere accanto

    Gli assassini del podere accanto

    Morire per un filare di olivi in più, per un pascolo conteso, per il confine di un podere spostato di una manciata di metri: non ci sono solo gli interessi del narcotraffico e del “controllo” del territorio a insanguinare le strade del reggino, anzi. Da tempo, con la sostanziale “pace” armata siglata dalle cosche del crimine organizzato che nel reggino, dopo l’esaurirsi degli ultimi rinculi delle guerre di ‘ndrangheta, hanno ridotto drasticamente l’abitudine di spararsi tra loro, le pagine di cronaca del territorio si sono colorate del nero degli omicidi tra familiari, vicini di casa o di terreno.

    «Qualche assassinio senza pretese» – cantava De André – maturato in un mondo antico, legato alla terra, agli animali, a quella “roba” verghiana che continua a dividere le famiglie e a provocare lutti. Un mondo che sembra non tenere conto del tempo che passa. E che riporta indietro agli scenari delle pagine di Saverio Strati e Corrado Alvaro, quando la legna di una quercia da abbattere o un vitello da portare al pascolo rappresentavano praticamente l’unica ancora di salvataggio per un futuro sempre incerto.

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    Lo scrittore di San Luca, Corrado Alvaro

    L’erba del vicino

    I tempi sono cambiati, ma per i fatti legati alla terra si muore ancora, e non solo per volere della ‘ndrangheta. Ultimo, in ordine di tempo, l’omicidio di Leo Romeo, morto per un colpo di fucile che lo ha colpito al collo in seguito ad una rissa con un suo cugino, Rosario Foti: una rissa, ha confessato il presunto autore dell’omicidio agli inquirenti, maturata sullo sfruttamento di un pascolo conteso tra le due famiglie. Teatro della vicenda, la piccola Gallicianò, gioiello semi-deserto della valle dell’Amendolea: è alla periferia del piccolo borgo che ricade nel comune di Condofuri che i dissidi tra i due parenti, storia di una paio di settimana fa, sono naufragati nell’omicidio.

    Da quanto emerso – il gip ha confermato il fermo del presunto assassino nei giorni scorsi – la lite tra i due andava avanti da tempo. Si era incancrenita a causa dello sfruttamento di un pascolo al confine tra le due proprietà. Pascolo che la vittima avrebbe utilizzato senza autorizzazione. Un omicidio maturato fuori dai contesti del crimine organizzato, anche se la vittima, un pastore di 42 anni, era stato in passato coinvolto, e infine assolto, in un’indagine della distrettuale antimafia che lo bollava come appartenente alla locale di Condofuri. Resta il mistero sull’arma, un fucile: l’omicida reo confesso ha raccontato agli inquirenti di averlo preso alla sua vittima e di averlo abbandonato accanto al corpo dopo la lite. Nessuno però lo ha mai ritrovato.

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    La valle dell’Amendolea

    «Poso il fucile e ti aiuto»

    Per una disputa sulla raccolta delle olive sarebbero invece morti Giuseppe Cotroneo e Francesca Musolino, marito e moglie di mezza età, dipendenti dell’Asp di Reggio, giustiziati nella campagne di Calanna, alle porte della città, da un loro parente, Francesco Barillà. I carabinieri lo hanno arrestato dopo un mese di indagini serrate.

    Secondo la ricostruzione degli inquirenti Barillà, anziano cugino delle vittime e loro vicino di casa, avrebbe discusso violentemente con la coppia – intenta a raccogliere le olive in un terreno di una terza persona, adiacente al podere del presunto omicida – prima di fare fuoco con il suo fucile da caccia registrato legalmente.

    Un duplice omicidio assurdo, commesso da un anziano incensurato che, per una manciata di olive, avrebbe aperto il fuoco sui suoi stessi parenti. Un blitz eseguito approfittando della momentanea assenza del figlio delle due vittime. Quella mattina era al lavoro con loro e si era allontanato per sistemare in auto parte delle cassette raccolte. E fu proprio al presunto omicida che il ragazzo, ironia della sorte, chiese aiuto quando si accorse della strage: un appello a cui Barillà rispose con un surreale «poso il fucile e torno».

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    Africo vecchio

    L’omicidio per qualche albero in più

    Un confine territoriale conteso sarebbe invece la causa dell’omicidio di Salvatore Pangallo, il giovane agricoltore ammazzato a colpi di fucile nella sua casa tra le campagne di Africo. Ad aprire il fuoco sarebbero stati Santoro e Pietro Favasulli, padre e figlio costituitisi ai carabinieri di Bianco dopo una caccia serrata durata tre giorni e, anche in questo caso, parenti del ragazzo ucciso. In quell’occasione, rimase gravemente ferito anche il padre di Pangallo, che durante lo scontro aveva provato a fare scudo al figlio con il suo corpo. Un epilogo tremendo per una lite che sembra andasse avanti da anni a causa di una linea di confine spostata di pochi metri. Una furia omicida che, secondo le ricostruzioni degli investigatori, sarebbe stata organizzata in anticipo dai due presunti omicidi che, dal loro parente a discutere di quel terreno, ci sarebbero andati armati di un fucile mai ritrovato dalle forze dell’ordine.

  • Mimmo Lucano al contrattacco: 140 pagine per ribaltare la condanna

    Mimmo Lucano al contrattacco: 140 pagine per ribaltare la condanna

    Una ricostruzione della realtà «macroscopicamente deforme rispetto a quanto emerso in udienza», un atteggiamento «aspro, polemico, al limite dell’insulto» e la preoccupazione di trovare Mimmo Lucano colpevole «ad ogni costo». Hanno ritmi sferzanti le argomentazioni utilizzate da Giuliano Pisapia e Andrea Daqua nelle quasi 140 pagine di richiesta d’appello alla sentenza con cui, in primo grado, il Tribunale di Locri ha “sepolto” l’ex sindaco di Riace, condannato nel settembre scorso a 13 anni e due mesi di reclusione.

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    La lettura della sentenza di condanna per Mimmo Lucano

    Una puntigliosa ricostruzione del lungo processo a carico di Mimmo “il curdo” Lucano, che prova a smontare, pezzo per pezzo, le monumentali motivazioni (oltre 900 pagine) con cui i giudici locresi hanno messo la parola fine a quel progetto di accoglienza integrata che aveva portato il piccolo paese jonico all’attenzione dei media internazionali. Nel fascicolo presentato in Appello, i legali di Lucano ribadiscono quanto espresso in udienza, sottolineando la totale estraneità del loro assistito alle accuse che lo hanno visto condannato per i reati di associazione a delinquere, falso in atto pubblico, peculato, abuso d’ufficio e truffa: 21 i reati in totale, contenuti in 10 capi d’accusa dei sedici originari.

    Pezzo per pezzo

    Sono tanti e dettagliati i punti che non tornerebbero nella sentenza di primo grado e che gli avvocati difensori sottolineano per sostenere l’innocenza di Mimmo Lucano. Punti che bollano la sentenza emessa dal giudice Fulvio Accurso come «in toto censurabile» e dalla cui lettura «matura la netta convinzione» che il giudicante «sia incorso in un palese errore prospettico che ha condizionato pesantemente il giudizio, restituendo una ricostruzione della realtà macroscopicamente deforme rispetto a quanto emerso in udienza».

    Incongruenze e errori che secondo Pisapia e Daqua avrebbero riguardato tutte (o quasi) le determinazioni della sentenza: dalle intercettazioni «utilizzate oltremodo» con un’interpretazione «macroscopicamente difforme dal suo autentico significato», al cambio in corsa del capo di imputazione da abuso d’ufficio a truffa aggravata, fino all’ipotesi di associazione a delinquere dove la sentenza «appare raggiungere il massimo livello di creatività». E poi le spinte all’accoglienza dell’ex sindaco che sarebbero state dettate dalla voglia di arricchirsi e dalla necessità di mantenere gli equilibri per continuare a guidare Riace da primo cittadino: tutte, mettono nero su bianco gli avvocati difensori «letture forzate, se non surreali, dei risultati intercettivi».

    Mimmo Lucano, un caso politico

    Travolto da una copertura mediatica imponente, il processo a Mimmo Lucano si è soffermato a lungo sul ruolo politico rivestito dall’ex sindaco. Dichiaratamente disobbediente e legato agli ambienti della sinistra radicale, Lucano ha riproposto attraverso il modello Riace un’idea diversa dell’accoglienza, nella stessa terra in cui gli slums di Rosarno e San Ferdinando riempiono le pagine della cronaca. Ed è proprio analizzando il ruolo politico di Lucano – e il conseguente utilizzo dei migranti per ottenere la rielezione, come ipotizzato dal Tribunale – che gli avvocati affondano il colpo.

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    Giuliano Pisapia

    Pisapia e Daqua sottolineano «le malevoli interpretazioni, le contraddizioni, il rovesciamento di senso, le enfatiche distorsioni» di un giudizio «preoccupato, più che a valutare gli elementi probatori forniti dall’istruttoria dibattimentale, a “dipingere” e “romanzare” la figura di Lucano. Dov’è lo scambio politico? – si chiedono gli avvocati nell’istanza di appello – Dove sono i voti di riscontro all’atteggiamento omissivo che Lucano avrebbe tenuto? Dov’è quella tanto ricercata (ma inesistente) ricchezza, quel vantaggio economico acquisito dal Lucano attraverso lo sfruttamento del sistema integrazione?».

    Ricostruzioni fantasiose

    Una sentenza pesantissima quella emessa dal Tribunale di Locri che ha, di fatto, raddoppiato la pena avanzata dalla Procura che in sede di requisitoria aveva chiesto la condanna a sette anni. Una sentenza che, scrivono ancora i difensori di Lucano si baserebbe su «ricostruzioni apodittiche e fantasiose» e che si rivolge all’imputato Lucano con «espressioni caratterizzate da una aggettivazione aspra, polemica, al limite dell’insulto», descrivendolo «coma una figura avida, infida, arrogante, una controparte da perseguire più che una persona da sottoporre a giudizio»

  • Sergio Pugliesi, la rivoluzione della liuteria si fa a Scilla

    Sergio Pugliesi, la rivoluzione della liuteria si fa a Scilla

    Uscire dal recinto obbligato delle tarantelle classiche. Allontanarsi dalle atmosfere ipnotiche della tradizione popolare calabrese. Sposare ritmi e melodie che non si vergognano ad abbracciare il jazz e il pop e virano su rotte che guardano senza timore al passato remoto (e a quello più prossimo) restando con i piedi nel presente. Un presente fatto di un nuovo interesse per uno degli strumenti principe della tradizione popolare: la chitarra battente. È il percorso di tradizione “in movimento” che è diventato il marchio di fabbrica di Sergio Pugliesi. Artista del legno per vocazione familiare e liutaio quasi per caso, con le sue Oliver si è ritagliato negli anni la fiducia di tanti musicisti in giro per il mondo.

    Autodidatta

    Il Dams nella Cosenza degli anni ’90, gli studi e le ricerche sugli strumenti della tradizione, il laboratorio di falegnameria che era stato di suo padre e di suo nonno prima di lui: gli elementi c’erano tutti. Il detonatore lo fa la passione per la musica. L’innesco, la voglia di costruirsi, da autodidatta, un basso elettrico. «Sì, ma alla fine il risultato non fu eccelso. Avevo già fatto delle cose con il legno – racconta Puglisi appoggiato al banco da lavoro del piccolo laboratorio sul lungomare di Scilla, a due passi dallo Stretto – se vieni da una famiglia come la mia, dove tutti avevano in qualche modo a che fare con il legno, è inevitabile. Ma non avevo nessuna esperienza e non suonava bene».

    Da quel primo tentativo – che ricorda da vicino il modello suonato da Les Claypool dei Primus e che ora osserva dall’alto del soffitto la creazione dei nuovi strumenti – molte cose sono cambiate. Le prime riparazioni agli strumenti dei musicisti locali, le prime creazioni originali sul solco della tradizione, l’intuizione di trasformare passione e talento in un lavoro vero e proprio.

    Animo rock

    L’approccio di Sergio Pugliesi al mondo della tradizione popolare è quindi influenzato dalla contemporaneità – «ai tempi dell’università con un mio professore avevamo fondato il nucleo combattente contro la tarantella», racconta sorridendo – che consente all’artigiano di sforare i dogmi dei «talebani della tradizione» ritagliando alla chitarra battente, strumento divenuto ormai cavallo di battaglia della sua produzione, un nuovo ruolo nel panorama musicale contemporaneo, per uno strumento camaleontico, capace di sposare la musica colta da cui nasce, e quella popolare da cui è stato adottato.

    Un pezzo alla volta

    L’ebano o il palissandro per la tastiera, il mogano per il manico e la sequoia centenaria e il tiglio per la cassa armonica. E poi il pero, il gelso e l’ulivo, in una ricerca continua di materiali e tecniche che seguono la tradizione anche nell’utilizzo delle ricchezze del territorio. Ma anche la fibra di carbonio come rinforzo al manico, e l’acciaio inox per i tasti. E ancora colle e solventi di origine naturale. Tutti elementi essenziali che entrano nel processo creativo di Sergio Pugliesi che realizza a mano ogni suo lavoro.

    Un percorso solitario e che va incontro alle esigenze di chi si è messo in fila per ottenere una battente Oliver. «Istruire un aiutante sospenderebbe di fatto la produzione. Questo è un lavoro di estrema precisione, non ho davvero tempo per insegnarlo a qualcuno. Forse un giorno, se qualcuno dei miei figli dimostrerà interesse…».

    Lunghe attese per le chitarre Oliver

    Ci vogliono infatti diversi mesi di lavoro per realizzare ogni pezzo e la lista d’attesa per ordinare l’agognato strumento può arrivare anche a sfiorare un anno. I prezzi variano da strumento a strumento – oltre alle chitarre, il laboratorio sforna anche lire calabresi e altri strumenti della tradizione che si affiancano a chitarre e bassi elettrici.

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    Sergio Pugliesi e il basso rivestito di peluche realizzato per sua figlia (foto Vincenzo Imperitura)- I Calabresi

    «Quello nero ricoperto con il peluche l’ho fatto per mia figlia che sta imparando a suonare». Per una battente si arriva a pagare anche 2.500 euro, un prezzo che non ha scoraggiato decine di musicisti in giro per il pianeta. Che si sono messi in fila, in questo piccolo laboratorio affacciato sul mare, per poter utilizzare l’arte di questo artigiano calabrese: la battente sul tavolo da lavoro aspetta gli ultimi ritocchi prima di approdare in Cile.

    I sogni nella capsula del tempo

    All’orizzonte, frontiere ancora più sfacciate rispetto all’intoccabile mondo della tradizione calabrese. «Sto pensando a una battente elettrica, ma non mi invento niente, Pino Daniele la usava già negli anni ‘80». E, soprattutto, l’idea di fissare nel tempo la “paternità” degli artisti che suoneranno le battenti di Scilla in giro per il mondo. «Il processo di creazione di ogni battente si alimenta del confronto continuo con il musicista che l’ha ordinata e che la vuole realizzata secondo le proprie indicazioni».

    Francesco Loccisano, compositore e docente della prima classe di chitarra battente in Italia al Conservatorio Tchaikovsky, con una delle creazioni di Sergio Pugliesi

    «Chiederò a ogni musicista con cui lavorerò di scrivere una lettera che descriva il suo carattere, le sue motivazioni, i suoi sogni e la inserirò all’interno della cassa. Sto già lavorando al tipo di colla migliore da utilizzare per fissarla. Ogni chitarra battente diventerà una piccola capsula del tempo che porterà al suo interno la storia del suo possessore originale». Per uno strumento che nella tradizione popolare è costruito con materiali di fortuna – e che, di norma, non è destinato a durare nel tempo – è un’altra piccola rivoluzione targata Sergio Pugliesi.

  • Da Rosarno a San Ferdinando: il Far West del lavoro nero in Calabria

    Da Rosarno a San Ferdinando: il Far West del lavoro nero in Calabria

    Ammassati nella tendopoli a San Ferdinando o nel campo di contrada Russo a Taurianova. Ospiti dell’accampamento container di Testa dell’Acqua a Rosarno o dei tanti casolari abbandonati tra gli aranceti della Piana di Gioia: dalla rivolta dei migranti del 2010 poco o niente è cambiato, con i nuovi insediamenti (più o meno) abusivi, che si sono sovrapposti ai vecchi, mutuandone le stesse dinamiche. Una situazione grave, sostanzialmente immutata nel tempo e incancrenita da inefficienze e sprechi. Una situazione che si lega, inevitabilmente, con il mercato del comparto agricolo – che della manodopera migrante, nella Piana, si serve per sopravvivere – divenuto a sua volta un vero e proprio Far West fatto di caporalato e sfruttamento, norme cervellotiche e finanziamenti a pioggia.

    La rivolta di Rosarno del 2010

    Le battaglie solo annunciate

    Sono tra sei e settemila (anche se un censimento accurato non è mai stato realizzato) i lavoratori migranti che nella stagione della raccolta convergono nelle campagne alle spalle del porto di Gioia Tauro. E se anche i numeri si sono parzialmente ridimensionati nei due anni di pandemia, sono sempre i lavoratori africani a sostenere l’intero comparto, fatto, in questo pezzo di Calabria, di una proprietà più che atomizzata, costituita da migliaia di minuscole aziende a conduzione familiare.

    Micro appezzamenti di uno, massimo due ettari di estensione, divisi tra filari di agrumi e kiweti, per aziende – circa 13 mila in totale – che non riescono a creare rete e che, in genere, sopravvivono con ricavi che somigliano a mance. Quelle delle grandi aziende di produzione di succhi, che pagano per i frutti, in molti casi raccolti direttamente a terra, meno di dieci centesimi al chilo. E quelle delle catene della grande distribuzione, che comprano attraverso aste al ribasso arance e mandarini destinate al consumo e pagate ai produttori tra i 20 e i 25 centesimi al chilo. Va un po’ meglio con i kiwi, che riescono a ritagliarsi un prezzo vicino agli 80 centesimi.

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    Frutta e verdura in esposizione all’interno di un supermercato

    Una decina di anni fa, le associazioni di categoria (Confagricoltura e Coldiretti) avevano annunciato – con tanto di convegno in grande stile e annessa sfilata di trattori – una battaglia campale su due fronti: da una parte il prezzo minimo al chilo da ottenere dalle multinazionali che si riforniscono nella Piana, dall’altra la percentuale minima di succo da inserire nelle bevande. Una rivoluzione che avrebbe fatto bene all’intero settore. Passati gli anni, di quella battaglia su cui si sarebbe dovuta riscrivere la nuova economia agricola della Piana, resta solo qualche poster ingiallito dal tempo, ma di risultati neanche a parlarne.

    Far West

    E se la parcellizzazione esasperata della proprietà agricola non aiuta, a complicare ulteriormente le cose per uno dei settori che in passato era stato la forza di questo territorio ci sono una serie di regole legate al mercato del lavoro agricolo che sembrano essere state scritte per facilitare il lavoro nero. Regole che fissano a 102 il tetto massimo per le giornate lavorative per ogni ettaro di terra che possono essere frazionate a più lavoratori e che possono essere regolarizzate nei giorni successivi all’effettiva prestazione resa.

    Un meccanismo controverso che, anche a causa della antica carenza di ispettori del lavoro, favorisce la mancata contrattualizzazione dei raccoglitori che, quando va bene, riescono a farsi mettere in regola solo per poche giornate al mese. Il resto, raccontano le innumerevoli operazioni della Procura, finisce sul “mercato” delle attestazioni lavorative false. Un mercato illegale così esteso (sfruttato principalmente per ottenere benefici pensionistici) che diventa difficile anche solo provare a quantificarlo. A pagarne il prezzo, ovviamente, i migranti, che di questa Babele sono l’anello più debole. La mancata o, nel caso migliore, la parziale contrattualizzazione, favorisce infatti il fenomeno dello sfruttamento del lavoro in nero, con i braccianti africani costretti per bisogno ad accontentarsi di salari più che dimezzati rispetto alla norma.

    In strada per salari decenti

    Una deriva che, sul campo, è contrastata dalle associazioni di volontariato e dal cosiddetto “sindacato di strada” che la Flai Cgil mette in campo da anni nel tentativo di informare i lavoratori di San Ferdinando e dintorni rispetto ai loro diritti. Tra le complanari di campagna alla ricerca dei braccianti che attendono il “caporale” di turno o all’esterno delle aziende agricole, durante le poche pause dal lavoro, Rocco Borgese e i suoi colleghi del sindacato, passano le giornate a tentare di convincere i lavoratori a non piegarsi ai salari da fame che gli vengono proposti.

    Un servizio su base volontaria (a cui si aggiunge quello di assistenza legale e sanitaria) portato avanti anche da due lavoratori africani che si perpetua tre volte a settimana e che è riuscito anche a raccogliere i primi frutti. Ma che rappresenta, purtroppo, solo una goccia nel mare in un’emergenza lavorativa che si ripercuote anche sulla possibilità di affittare una normale abitazione. Fatta salva una consistente sacca di razzismo e diffidenza infatti, molti dei migranti non riescono ad affittare un alloggio decente proprio a causa della precarietà del loro lavoro. Nessuno (o quasi) è disposto ad affittare loro un casa vera e, di conseguenza, insediamenti abusivi e baraccopoli più o meno regolarizzate sono spuntate come funghi in tutti i comuni della Piana.

    Nuova chiusura per San Ferdinando

    Sorto qualche giorno dopo e a distanza di poche centinaia di metri dalla baraccopoli sgomberata dopo un blitz dell’ex ministro dell’interno Salvini, l’accampamento nato nel retroporto continua ad essere uno dei punti di riferimento per la forza lavoro africana che nelle stagioni della raccolta si concentra sul territorio da tutta Italia. Ufficialmente dismessa dall’estate del 2021 (ma ancora popolata da circa 500 persone che ci vivono in condizioni subumane), la tendopoli di San Ferdinando dovrebbe avere i giorni contati. Nelle settimane passate infatti il Prefetto di Reggio ha annunciato la futura chiusura del sito: chiusura che però resta condizionata all’intervento della Regione, che dovrebbe dare il via alla riconversione in foresteria di una delle tante strutture industriali abbandonate presenti in zona.

    In seguito ad un vertice tra i sindaci di Gioia e San Ferdinando (Rosarno è guidata da una terna prefettizia in seguito all’arresto del sindaco Idà) e i funzionari regionali, la scelta è caduta sui capannoni dell’ex Opera Sila, lo stabilimento per la trasformazione delle olive da anni in rovina e già utilizzato dai lavoratori africani come rifugio improvvisato, prima dello scoppio della rivolta. L’area, di proprietà della Regione, necessita però di un radicale intervento di bonifica e trasformazione e i tempi di realizzazione del progetto non saranno brevi. Così, in attesa della riconversione dell’opificio regionale si naviga a vista, con progetti in corso d’opera che, per tamponare l’emergenza, ripropongono l’uso di moduli abitativi temporanei (leggi container) o si appoggiano a fondi di garanzia di matrice assistenzialistica che finora non hanno riscosso risultati apprezzabili.

    Le case fantasma da tre milioni di euro

    Sullo sfondo, rimangono le palazzine nuovissime costruite alla periferia di Rosarno grazie ai quasi 3 milioni di euro di fondi per l’emergenza migranti e ancora in attesa di assegnazione. Restano disabitate, in contrada Torricelle, ennesimo monumento incompiuto all’inefficienza amministrativa calabrese. Sostanzialmente completate da tre anni, le palazzine (4 padiglioni in tutto capaci di ospitare comodamente 250 persone) avrebbero bisogno degli ultimi lavori di rifinitura e del collettamento alla rete fognaria cittadina. Un progetto nato tra le polemiche e che sembra essersi smarrito a un passo dal traguardo, soffocato da vecchie e nuove baraccopoli.

  • “Pazza idea”: una funivia nel cuore dell’Aspromonte senza che il Parco ne sappia nulla

    “Pazza idea”: una funivia nel cuore dell’Aspromonte senza che il Parco ne sappia nulla

    Raggiungere in funivia il cuore dell’Aspromonte direttamente dal mare, garantendo un collegamento veloce tra Condofuri e Roccaforte del Greco, seguendo il corso dell’Amendolea. Si tratta della fiumara più importante del reggino che, partendo da quota 1900 metri, taglia in due la parte grecanica della Montagna fino allo Jonio. Un progetto ambizioso (e costosissimo) pensato dalle amministrazioni dei due piccoli centri e presentato nei giorni scorsi tra le proteste di una decina di agguerrite associazioni locali. Ma, soprattutto, tra lo sconcerto dei vertici del Parco nazionale (entro i cui confini si troverebbe a passare per intero il tracciato “volante”). Dell’idea della funivia immaginata dai sindaci Tommaso Iaria e Domenico Penna, non sapevano assolutamente nulla.

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    Roccaforte del Greco, capolinea della funivia che dovrebbe attraversare la valle dell’Amendolea

    Il progetto della funivia

    Quasi 15 chilometri di tracciato, un dislivello di 930 metri e una capacità potenziale di 800 – 1000 passeggeri ogni ora che, se la scheda presentata in Regione nell’ambito dei Cis (contratti istituzionali di sviluppo) dovesse essere finanziata, porterebbe i potenziali utenti da San Carlo di Condofuri fino a Roccaforte del Greco in 16 minuti. Un risparmio di una mezz’oretta sul tragitto consueto lungo le stradine di uno degli ultimi ritagli di natura non vandalizzata del reggino, che verrebbe a costare 2,7 milioni di euro a chilometro: un percorso “aereo” coperto da una ropeway di sei cabine in continuo movimento in grado di trasportare 20 persone per ogni “guscio”. Un progetto ambizioso e controverso che ha scatenato il consueto vespaio di polemiche. E che ha messo a nudo, ancora una volta, la sconcertante assenza di comunicazione tra il Parco nazionale d’Aspromonte e i comuni, 37 in tutto, che ne costituiscono il cuore.

    Zona protetta

    Tutta la valle dell’Amendolea – la fiumara colonizzata dai primi migranti greci che tanto hanno caratterizzato il territorio nei secoli passati, da lasciarvi in dote, tra le altre cose, anche una lingua vera e propria – ricade nella “Zona di protezione speciale” prevista dalla “Rete natura 2000”, il progetto europeo nato a tutela dell’avifauna; e in questi mesi, proprio in quell’aerea, è attivo il progetto per il ripopolamento del nibbio, un particolare tipo di rapace trasferito sulle montagne reggine da un’analoga riserva in Basilicata. Il percorso della funivia, con i suoi tralicci, i suoi cavi, le sue sei cabine coperte e con la stazione di sosta di metà percorso alla periferia della meravigliosa Gallicianò, ci passerebbe proprio in mezzo.

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    Un grifone in volo sull’Amendolea

    Rette parallele

    «Io, come sindaco, non sono tenuto a informare il Parco per ogni progetto che presento per il mio comune. Con il Parco ne parleremo se e quando il progetto verrà finanziato». Arroccato dietro l’autonomia comunale, il primo cittadino di Condofuri Tommaso Iaria – passato alle cronache per avere esposto nel suo ufficio il manifesto di giuramento delle Waffen SS italiane, prima di rimuoverlo in seguito alle proteste dell’Anpi – difende l’idea della funivia e rilancia: «I Cis chiedevano progetti riguardanti le “vie verdi”, e noi ci siamo adeguati. La funivia è un progetto ecosostenibile e bellissimo e va a colmare una parte del gap infrastrutturale che la nostra terra paga nei confronti del resto del Paese. Con questo progetto raggiungiamo due obiettivi: da una parte favoriamo l’afflusso di un sempre maggiore arrivo di turisti togliendo le auto e i pullman dalla strada, dall’altra garantiamo la mobilità per i residenti dei due paesi collegati».

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    Gallicianò (foto Parco Nazionale dell’Aspromonte)

    E poco importa se, tra Gallicianò e Roccaforte del Greco, i residenti siano poco più di un centinaio e di autorizzazioni e nulla osta dai vari enti interessati non se ne è proprio parlato. «Non capisco che problema possa esserci. Le Dolomiti sono patrimonio dell’umanità eppure sono sature di impianti di risalita. È vero siamo nel territorio del Parco – dice ancora il sindaco che del Parco d’Aspromonte, paradossalmente, è membro del Consiglio direttivo e della Giunta esecutiva – e quando riceveremo la risposta dagli uffici regionali a cui abbiamo sottoposto la nostra idea, parleremo di autorizzazioni e nulla osta».

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    Leo Autelitano, presidente del Parco

    E se il comune si è guardato bene dall’informare dell’iniziativa i vertici dell’ente, dal canto suo, il presidente Leo Autelitano – travolto dalle polemiche la scorsa estate in seguito ai devastanti incendi che in pochi giorni hanno distrutto ettari e ettari di montagna protetta, portando devastazione e morte proprio in quei territori dove si vorrebbe far passare la funivia – cade dal pero, relegando a boutade l’intera faccenda. «Abbiamo saputo di questo progetto dai giornali – dice Autelitano – ma stiamo parlando del sesso degli angeli. Io sono di Bova superiore e di funivie se ne parla da quando ero ragazzo. Ma così, tanto per dire. Io ufficialmente non so niente di questa storia, quando ci presenteranno il progetto lo valuteremo, ma io non posso andare dietro alle stravaganze di 37 comuni».

    Le associazioni contro la funivia

    Ufficialmente, il Parco non ha preso nessuna posizione restando in attesa del progetto. Una posizione netta l’hanno presa invece una decina di associazioni del territorio, che del progetto della funivia non ne vogliono proprio sentire parlare. Presenti all’esterno dell’auditorium comunale durante la conferenza stampa di presentazione, i rappresentanti delle associazioni contrarie – guide turistiche, residenti, appassionati di archeologia e di montagna – si sono messe di traverso ai piani di Iaria e Penna.

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    Lo striscione di protesta contro la funivia esposto durante la presentazione del progetto

    «Il nostro è un turismo molto particolare» racconta Francesco Manglaviti, responsabile dell’associazione archeologica Valle dell’Amendolea. «Un turismo lento, che punta a scoprire un angolo alla volta di questa meraviglia che abbiamo la fortuna di abitare, e che non ha bisogno di scorciatoie. La funivia rappresenta una vera e propria violenza. Da anni ci battiamo per l’azzeramento del consumo del territorio, ogni angolo qui ha qualcosa da raccontare, e sono proprio gli stessi turisti che ogni anno accompagniamo su e giù per la valle che ci spingono, con le loro considerazioni e i loro suggerimenti, a tenere duro su questo aspetto».