Sono state le onde di scirocco a fare sbattere il bialbero carico di migranti sulla spiaggetta di Pantanizzi a Siderno, ennesimo approdo sulla “rotta turca” che collega lo Jonio calabrese ai flussi migratori in movimento dal medio oriente. In un video che circola su internet si vede l’attimo in cui, prima pochi alla volta poi tutti insieme, uomini donne e bambini si lanciano sulla spiaggia sotto il vecchio pontile per cercare rifugio.
Almeno due di loro non ce l’hanno fatta, sopraffatti dal mare molto agitato. Un altro invece è stato salvato dagli uomini del commissariato di Siderno, giunti per primi sul posto, mentre cercava di raggiungere faticosamente la riva. Ma le operazioni di ricerca in mare e dall’alto sono andati avanti per ore alla ricerca di qualche sopravvissuto rimasto in acqua. O di qualche corpo.
L’odissea dei migranti in mare
Sono 109 tra loro anche donne e diversi bambini, hanno dichiarato di venire dal Pakistan e dall’Afghanistan e di avere viaggiato per mare per 5 giorni dopo essersi imbarcati in una spiaggia isolata in Turchia. Vanno ad aggiungersi ai gruppi arrivati nei giorni scorsi, con Roccella capolinea di quattro sbarchi in meno di 40 ore per oltre 400 migranti accolti e rifocillati prima sotto il tendone allestito dalla Croce Rossa sulle banchine e poi nelle strutture del territorio che di volta in volta vengono utilizzate.
Forse a morire sono stati i due scafisti
Dalle prime testimonianze raccolte, i due uomini rinvenuti cadavere potrebbero essere gli stessi che hanno pilotato la piccola barca a vela lungo il Mediterraneo. «Sono russi, si sono buttati prima di arrivare sulla spiaggia» racconta uno dei migranti nel suo stentatissimo inglese. Sull’identificazione dei due corpi stanno lavorando gli uomini della polizia coordinati dalla Procura di Locri.
Ma non sarebbe la prima volta che gli scafisti pagano con la vita l’avere tentato di raggiungere a nuoto la riva e sfuggire quindi ai controlli. Un paio di anni fa, durante un analogo “sbarco autonomo” – uno di quelli non intercettati dalle motovedette della capitaneria o della finanza e che quindi si spiaggia sull’arenile ormai privo di guida – tra i comuni di Riace e Stignano, i due scafisti, entrambi provenienti dal Kigikistan, provarono a scappare lanciandosi in acqua a una decine di metri dalla spiaggia. Solo uno era riuscito a raggiungere la riva. Il corpo del secondo uomo, poco più che ventenne, fu restituito dal mare quattro giorni dopo. Lo trovò sulla battigia un bagnante mattiniero.
I migranti sulla spiaggia di Siderno
Emergenza continua
L’allarme dalla Prefettura è già arrivato ai sindaci della riviera: tutto fa prevedere che gli sbarchi continueranno almeno fino ad ottobre. Come ormai succede da più di venti anni. E nonostante il flusso di disperati in arrivo sia continuato ad aumentare nelle ultime stagioni, ogni volta che un barchino sfugge ai controlli e non viene veicolato verso Roccella – unico centro “attrezzato” tra Crotone e Reggio – i sindaci si trovano di fronte agli stessi problemi. Chiuso e in attesa dell’avvio dei lavori di ristrutturazione l’ex “ospedaletto” di Roccella, capace di ospitare per la prima accoglienza circa 250 persone, i migranti vengono di volta in volta ospitati, per l’identificazione e la prima accoglienza, nelle strutture comunali dei paesi dove avvengono gli approdi.
Palazzetti, scuole, tendoni dove ogni volta, gli amministratori devono inventarsi qualcosa visto che generalmente, in queste struttura raccattate all’ultimo minuto, non ci sono nemmeno le cucine. Tanto che in più di un’occasione, a Locri e Ardore e anche a Caulonia e Brancaleone, sono stati i ristoratori del posto a offrire i pasti ai migranti. Il gruppo sbarcato venerdì a Siderno è stato trasferito nel pomeriggio nella frazione collinare della cittadina jonica, in una struttura di competenza comunale
Sarebbero stati i soldi frutto dei mancati versamenti Iva di almeno tre società della galassia che fa capo a Luca Gallo, a tenere viva la Reggina nelle ultime stagioni calcistiche. Il Gip Annalisa Marzano lo scrive nero su bianco elencando i capi d’imputazione che hanno portato il patron amaranto agli arresti domiciliari nella sua casa di Roma. Soldi che passano di società in società per poi confluire nelle casse disperate di una Reggina che stava nuovamente per scomparire dal panorama sportivo dopo il fallimento del 2015 e che Gallo “salvò” all’ultimo minuto: un’operazione, sostengono i giudici, che serviva a nascondere al fisco parte degli obblighi Iva che le società dell’imprenditore romano aveva nel frattempo volatilizzato.
La galassia di Luca Gallo e la Reggina
“M&G Multiservizi”, “M&G Service” e “M&G Company”: sono queste le tre società che secondo il nucleo di polizia economica e finanziaria della Guardia di Finanza di Roma avrebbero fatto da collettore di denaro verso la “Club Amaranto” a cui fa capo la squadra dello Stretto. È una storia complessa quella che hanno ricostruito gli inquirenti. E ha per protagoniste società che confluiscono, tutte, su Luca Gallo che ne è legale rappresentante, con in mezzo anche la malcapitata Reggina. In questo gioco di matrioske allestito sulla pelle di una città che trema all’idea di vedere naufragare la propria squadra di calcio, entrano tutte o quasi le operazioni su cui Gallo ha costruito il suo personaggio da “presidente Paperone”.
Luca Gallo nella sede di una delle sue società nel mirino della Procura
Il sistema ipotizzato dagli inquirenti
Il primo tassello della scalata risale al gennaio del 2019. In quell’occasione la “M&G Multiservizi” paga, con assegni circolari, 356 mila euro per l’acquisizione del 100% del capitale sociale della “Club Amaranto” dai vecchi proprietari Mimmo, Demetrio e Giuseppe Praticò. Quei soldi, ipotizzano gli inquirenti, vengono dal mancato versamento dell’Iva per l’anno 2017. E finiscono per scomparire davanti agli occhi del fisco perché la Multiservizi, semplicemente, non presenta i bilanci.
Lo stadio Oreste Granillo di Reggio Calabria
Da quello stesso bilancio “truccato” arrivano anche i soldi che la Multiservizi utilizza per acquistare, in parte attraverso la “Club Amaranto” e in parte con bonifici diretti, il 13% delle quote della “Reggina 1914” – la vecchia Urbs Reggina – dai vecchi proprietari. In questo ginepraio di aziende e denaro, arriva anche l’acquisto, dalla curatela fallimentare, del «ramo d’azienda sportiva per l’attività del calcio» della gloriosa Reggina Calcio ormai fallita. Poco più di 380 mila euro che Multiservizi paga attraverso assegni circolari e bancari: i soldi, dicono gli investigatori, vengono sempre dall’Iva non versata della Multiservizi ma controparte dell’affare, miracoli della finanza, risulta essere la Reggina 1914.
Dalle società satellite di Luca Gallo alla Reggina
E se l’ancora di salvezza dal baratro del fallimento era arrivata dalla Multiservizi, a rimpolpare le casse societarie della squadra di calcio, arrivano i soldi della “M&G Service”, altro satellite della galassia Gallo, che mette sul piatto un versamento da 1,4 milioni di euro in favore della Reggina. Anche in questo caso, scrive il giudice, il sospetto è che l’operazione, resa possibile dalla mancata presentazione del bilancio della “Service” sia stata portata avanti solo per schermare al fisco il flusso di denaro derivante dai mancati pagamenti Iva per gli anni 2017 e 2018.
Nel 2020 è di nuovo la Multiservizi a scendere in campo per rifornire di denaro contante le casse del team dello Stretto. Anche in questo caso i soldi verrebbero dall’omissione delle spettanze Iva da parte dell’azienda di Gallo che fa trasferire nelle casse della Reggina quasi 7 milioni di euro con bonifici bancari in favore della Reggina 1914. E ancora altro denaro che rimbalza tra una società e l’altra. L’ultimo bonifico su cui puntano l’attenzione gli uomini delle fiamme gialle riguarda fondi per 460 mila euro che alla Reggina arrivano dopo essere partiti dalla M&G Company ed essere transitati attraverso la Multiservizi e la Club Amaranto, in un vortice impazzito di movimentazione bancarie create ad arte per nasconderne la provenienza.
Si trova agli arresti domiciliari il patron della Reggina Calcio, Luca Gallo. I militari della Guardia di finanza di Roma hanno arrestato l’imprenditore romano questa mattina: l’accusa è di autoriciclaggio e omesso versamento di imposte. I finanzieri, ancora impegnati nelle operazioni di perquisizione, hanno poi sequestrato beni e quote sociali di 17 società riconducibili al patron amaranto per un valore di 11,5 milioni di euro.
I sospetti su Gallo e la scalata alla Reggina
La Reggina non rientra tra le società sotto sequestro. Secondo la Procura della Capitale, titolare delle indagini, Gallo avrebbe usato le società del gruppo “M&G” per creare un articolato sistema di appalti fittizi e autofinanziando la propria attività d’impresa non versando le imposte relativa a Iva, ritenute e contributi ai lavoratori dipendenti (sono 1700 quelli che risulterebbero nella galassia del gruppo di Gallo). Gli inquirenti sospettano inoltre che Gallo possa aver utilizzato parte del denaro al centro dell’indagine nella scalata che lo portò alla guida della società amaranto.
Il futuro degli amaranto: parla l’amministratore giudiziario
Il club dello Stretto – fresco di penalizzazione di due punti in classifica a causa dei mancati pagamenti con l’Erario – non è direttamente sotto sequestro, ma in sostanza cambia poco. Il Tribunale di Roma ha infatti disposto i sigilli per la società “Multiservizi” che possiede per intero il capitale sociale della società “Amaranto” che a sua volta risulta proprietaria della Reggina Calcio. «Mi sento di poter dire ai tifosi della Reggina che possono stare tranquilli – dice al telefono l’amministratore giudiziario appena nominato dal Tribunale, Katiuscia Perna – e che verranno poste in essere tutte le attività opportune per salvaguardare il futuro del parco calciatori, della società Reggina Calcio e del “capitale umano” che la Reggina rappresenta per Reggio e per i suoi tifosi».
Fermi da più di dieci anni, i treni della vecchia Calabro-Lucananella Piana di Gioia Tauro, sono rimasti a consumarsi in un angolo dismesso della linea a scartamento ridotto nella città del porto. Per quasi un secolo hanno garantito la mobilità tra il mare e l’entroterra. Sono stati a lungo unico, o quasi, mezzo di trasporto della zona. Ora stanno lì, vicino al terminal bus, abbandonati dal 2011 quando, con un fonogramma di dieci righe, la linea venne sospesa a tempo indeterminato. Vandalizzate dai soliti tag dozzinali e depredate di tutto, le carcasse rosse dall’inconfondibile stile retrò dei trenini che per decenni hanno portato su e giù per le campagne del reggino migliaia di cittadini, sono solo uno dei segni del declino senza ritorno del trasporto interno su rotaia.
Il rosso della ruggine ricopre treni e rilevato ferroviario nella vecchia Ferrovia Calabro-Lucana
Il tracciato dimenticato delle ferrovie
Due linee distinte, due tracciati diversi ma uniti nello stesso finale amaro. Una, la linea più antica, collegava la costa Viola con il versante tirrenico d’Aspromonte arrampicandosi sulla montagna fino al capolinea di Sinopoli. L’altra, la più importante, garantiva i collegamenti tra la città del porto e il ricco entroterra della Piana, fino a San Giorgio Morgeto e a Cinquefrondi: entrambe le linee, anche se chiuse in anni diversi, sono ormai solo un ricordo; con il materiale ferroviario – almeno quello che non è stato portato via dai tecnici di “Ferrovie della Calabria” – lasciato al suo destino in attesa di una riapertura che, visti i costi, non avverrà mai o di una riconversione del tracciato che per ora resta solo nelle idee innovative di qualche tesi d’architettura.
Vecchio casello ferroviario a Cinquefrondi
Un patrimonio storico del trasporto pubblico
Trentadue chilometri di tracciato, 13 fermate, una manciata di automotrici e un patrimonio di storia del trasporto pubblico che ha attraversato (quasi) tutto il secolo breve prima di naufragare sotto i colpi di una gestione diventata sempre meno redditizia. È entrata in funzione nel 1924 nel tratto tra Gioia e Cittanova, l’hanno ampliata fino a Cinquefrondi tre anni più tardi. La linea avrebbe dovuto originariamente “scavalcare” il passo della Limina e ricongiungersi a Mammola con il tratto di rotaie che arrivava fino allo Jonio. Ma il progetto presentava costi troppo elevati. Così fu accantonato definitivamente.
Interi paesi uscirono dall’isolamento
Nella Calabria del primo XX secolo però, quella trentina di chilometri di binari a scartamento ridotto, rappresentano un salto in avanti importante. Un intero territorio fatto di paesi densamente popolati, veniva finalmente interconnesso in maniera stabile, economica e comoda, con le stazioni a due passi dalle piazze principali dei centri. Un servizio ininterrotto (curato dalla società Calabro Lucane fino ai primi anni ’90 e poi da Ferrovie della Calabria) andato avanti fino al 2011. Poi è stato sospeso, dopo anni di agonia, con la giustificazione dei problemi di sicurezza. I limitati interventi di manutenzione sul tracciato e l’avanzata età del materiale rotabile, infatti, avevano costretto la linea a viaggiare a velocità estremamente ridotta. Elementi che hanno reso poco pratico il trenino, che ormai utilizzavano praticamente solo gli studenti.
Gli immancabili murales sulle pareti esterne dei caselli abbandonati
Da quel giorno di 11 anni fa, poco o niente e cambiato. Nessuno, in Regione, si è mai preso la responsabilità di dismettere definitivamente la linea. Uno status di “sospensione” che, di fatto, ne impedisce ogni altro utilizzo. Ai limiti dettati dalle normative di sicurezza sui percorsi ferrati poi, dal 2019, si è aggiunto anche il vincolo della soprintendenza di Reggio che ha emesso un decreto di interesse culturale sulle linee Taurensi, in quanto memoria storica.
Anche se di memoria, ormai, rischia di rimanerne poca. Smontato lo smontabile – le aste dei passaggi a livelli, i semafori – il resto del tracciato è rimasto abbandonato. I tecnici delle ferrovie si limitano a tagliare l’erba lungo i binari e nelle stazioni prima della stagione estiva. Nessuna manutenzione sui binari, sugli scambi o sui numerosi viadotti presenti sul tracciato. Nessun intervento nelle stazioni che cadono a pezzi (fatto salvo un piccolo recupero della piattaforma che “girava” i treni, nel capolinea di Cinquefrondi). Nessuna idea di riconversione all’orizzonte. E con il rischio sempre più concreto che episodi come quello di Sinopoli – quando gli Alvaro fecero costruire un edificio in muratura sui binari ancora caldi dal passaggio dell’ultima littorina – possano moltiplicarsi.
Quattro ragazzini e un pallone lungo il vecchio tracciato delle Ferrovie calabro-lucane
Il turismo green corre sui binari
Per l’ex assessore regionale Catafalmo, storia di un anno fa, «la rimessa in esercizio della Gioia-Cinquefrondi non risulta sostenibile da un punto di vista economico e finanziario». A tenere “vivo” il vecchio tracciato ci pensano le associazioni di appassionati e escursionisti. Organizzano giornate di trekking lungo i binari, attraverso un percorso prezioso sotto gli ulivi giganteschi di questo pezzo di sud. E poi ci sono le idee e i progetti di tanti laureandi. Su quel tesoro fatto di stazioni e binari d’acciaio, hanno immaginato il futuro del territorio.
Un futuro fatto di piste ciclabili e servizi integrati con i vecchi tracciati delle ferrovie dismesse in grado di catalizzare l’interesse di un turismo lento, che cerca attrazioni lontane dalle mete più frequentate. Le vecchie stazioni che diventano sale espositive e vetrine per i prodotti del territorio, le traversine in rovere che trovano nuova vita come pavimento esterno, persino le rotaie, smontate e riadattate per scale e recinzioni: le idee ci sono, il rischio è che restino chiuse nel cassetto.
Da covo di segugi a rifugio per anziani; da centro nevralgico per la ricerca dei sequestrati, a punto d’aggregazione per la piccola comunità di Canolo Nuovo. Si chiude così, a distanza di una decina d’anni dalla dismissione e con un progetto di inclusione sociale da due milioni di euro per la riconversione dell’ex campo Naps (il nucleo antisequestro della Polizia), una delle pagine più nere della storia calabrese recente.
Una storia fatta di vite rubate e mamme coraggio, di banditi feroci e fondi neri che li hanno ingrassati. E sullo sfondo l’Aspromonte, bollato con infamia come “la montagna dei sequestri” e per anni a sua volta vittima di bande di malviventi che tra le sue gole e i suoi boschi fitti, nascondevano uomini e donne trattenuti in catene. Una storia terminata solo quando le grandi famiglie di ‘ndrangheta virarono i propri interessi verso i più redditizi (e più sommersi) mercati del narcotraffico. E a cui lo Stato rispose, con imbarazzante ritardo, catapultando sull’Aspromonte migliaia di uomini e donne con l’ordine di setacciarne ogni anfratto alla ricerche di carcerati e carcerieri.
Quel che resta del campo della polizia di Canalo Nuovo nel Parco d’Aspromonte
Prova di forza
I Naps a Canolo Nuovo, Campo Steccato e Mongiana, nel cuore d’Aspromonte. E poi il nuovo commissariato a Bovalino e le sedi della Mobile a Locri e Gioia Tauro: nel giro di pochi mesi, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, gli effettivi della polizia stanziati nel reggino passano da 867 a 2173: una cinquantina di agenti in più rispetto all’intero contingente presente in regione fino ad allora. Una risposta massiccia (e tardiva) al clamore mediatico e all’allarme sociale che avevano generato i sequestri di persona negli anni precedenti.
Una parte di quegli agenti fu destinata al campo di Canolo Nuovo, costruito a quota mille metri sulla soglia della porta settentrionale del Parco d’Aspromonte, proprio di fronte alla piazza principale della piccola comunità che, unica nel reggino, quando il dissesto idrogeologico rese necessario lo sviluppo di un nuovo insediamento urbano, rifiutò di scendere a valle, per rifugiarsi ancora di più verso il cuore della montagna.
Caldo, gelo e blitz
Trasferiti in fretta e furia in Calabria dalle sedi più diverse, gli agenti del Naps furono alloggiati tra le baracche appena allestite dal Viminale. Una grande sala comune dove mangiare e socializzare, una serie di stanzette anguste dove preparare i blitz e i pattugliamenti, file e file di dormitori più che spartani in lamiera, gelidi sotto la neve e roventi sotto la canicola d’estate.
Da queste baracche partivano i blitz coordinati anche con carabinieri e fiamme gialle. Blitz che cinturarono paesi – l’epicentro dell’anonima sequestri da sempre gravitava attorno ai centri di San Luca, Platì, Natile di Careri e Ciminà – e rastrellarono la montagna alla ricerca dei covi – poco più che buchi nel terreno dove era impossibile anche solo stare in posizione eretta – in cui erano tenuti i prigionieri.
Le vittime dei sequestri erano nascoste in luoghi introvabili dell’Aspromonte
Il progetto
Ora, questo campo fatto di baracche malmesse, preda dell’incuria e dei soliti vandali, e ufficialmente dismesso dal ministero degli Interni ad inizio secolo, potrebbe tornare a vivere anche se profondamente trasformato. Sul piatto ci sono due milioni di euro che il Comune di Canolo, proprietario del terreno su cui sorge il campo, conta di raccattare grazie allo scorrimento di una vecchia graduatoria per una richiesta di finanziamento datata 2015.
«Sarà il nuovo centro nevralgico del paese – dice il sindaco Larosa – se tutto va come pensiamo, il finanziamento dovrebbe essere garantito dal Ministero e a breve potrebbero partire i lavori». E pazienza se, come sempre più spesso succede, non si sia registrato nessun contatto preventivo con i vertici del Parco d’Aspromonte, che del progetto di riconversione non ne sanno nulla. «Chiederemo i nulla osta al Parco quando sarà il momento, quando cioè saremo sicuri del finanziamento» chiosa ancora il sindaco.
In attesa del finanziamento – e del propedeutico progetto di bonifica del sito di cui ancora non si trova traccia – le baracche abbandonate di Canolo Nuovo restano lì, nella radura a due passi dall’altopiano dello Zomaro, a segnare il tempo di una stagione amara.
John Paul Getty III rapito dalla ‘ndrine nel 1973
La stagione dei sequestri
Quando gli agenti del Naps arrivano a Canolo, siamo nel 1990, quello dei sequestri è un “mercato” in forte ridimensionamento. Passati i tempi dei riscatti miliardari come quello di Paul Getty III – sequestrato a Roma nel ’73 da un commando dell’anonima e rinchiuso in Aspromonte fino al pagamento di 1,7 miliardi da parte del nonno petroliere del ragazzo – le cosche hanno capito da tempo che quello dei sequestri è un gioco a perdere: troppo alti i rischi, troppo costosa la gestione degli ostaggi, troppo violenta la reazione dello Stato, troppo alto l’allarme sociale provocato.
Nel maggio del 1990, le immagini di Carlo Celadon, il ragazzo di Arzignano rilasciato a Piano dello Zillastro, tra i comuni di Platì e Oppido Mamertina, dopo 831 giorni di prigionia, fanno il giro del mondo. Rapito all’alba dei suoi 18 anni, Celadon viene rinchiuso per più di due anni – il sequestro più lungo in Italia – in un buco tra i boschi della montagna.
Incatenato al terreno, picchiato e continuamente vessato dai sequestratori, quando il ragazzo torna libero è molto più vecchio dei suoi 20 anni. Magro all’inverosimile, barba lunghissima e volto emaciato, fa fatica a rimanere in piedi mentre si fa largo tra l’esercito di giornalisti che assediano il tribunale di Locri: «Ecce Homo» lo chiameranno i media.
Angela, madre di Cesare Casella: con la sua battaglia per la liberazione del figlio rapito ha scosso le coscienze di tutta l’Italia (foto Gigi Romano)
Madre coraggio
Ma il vero punto di non ritorno di questa storia di «sudiciume sociale» è sicuramente rappresentato dal sequestro di Cesare Casella e dalla forza strepitosa di sua madre Angela. Questa donna minuta riuscì, praticamente da sola, a risvegliare le coscienze di un popolo stordito e immobile davanti a tanta violenza. Quando “mamma coraggio” pianta la sua tenda nel centro della piazza principale di Locri, il reggino è una polveriera. I rinculi della seconda guerra di ‘ndrangheta riempiono le cronache di morti ammazzati e svuotano le strade.
Cesare Casella sarà liberato il 30 gennaio del 1990 dopo una terribile prigionia
Sarà questa signora dall’aria risoluta, mossa solo dalla forza della disperazione, a smuovere le cose. Gira per le stradine di Platì e di San Luca, da sola, in una Regione dove non era mai stata prima. Incontra le donne del luogo che rompono la diffidenza iniziale e fanno loro la sua invocazione di aiuto, in una ricerca di riscatto sociale che esplode e si diffonde tra i paesi della Locride. Cesare Casella sarà liberato il 30 gennaio del 1990, dopo avere passato 743 giorni incatenato ad un albero. Pochi giorni prima era stato uno dei sequestratori, Giuseppe Strangio, rimasto ferito in uno scontro a fuoco con i carabinieri del Gis, a chiedere in diretta tv la liberazione dell’ostaggio.
I fondi neri
Dinieghi sdegnati, mezze ammissioni, clamorosi omicidi: sulla parabola terminale della stagione dei sequestri di persona – che coincide temporalmente con l’invio degli uomini a presidiare l’Aspromonte – molte furono le voci (e le inchieste della magistratura) su pagamenti sotto banco che i servizi segreti dispensarono per ottenere la liberazione di (almeno) una parte degli ostaggi in mano all’anonima.
Fondi parzialmente ammessi dall’allora titolare del Viminale Vincenzo Scotti e dall’allora capo della polizia Vincenzo Parisi che in un’audizione della commissione parlamentare antimafia del 1993, esclusero il pagamento di alcun riscatto ammettendo però il pagamento di alcuni confidenti, utili al ritrovamento degli ostaggi. Pagamenti nell’ordine di qualche centinaio di milioni dell’epoca e onorati, dissero i due rappresentanti delle istituzioni, solo in seguito all’arresto dei componenti delle bande interessate, e che lasciarono a mezz’aria la sensazione amara di una sorta di divisione gerarchica tra gli stessi sequestrati.
Volete visitare la Locride ma non ne potete più della macchia mediterranea? Siete stufi delle litanie sul consumo del territorio e sul rispetto dell’ambiente? Stanchi della cattedrale medievale incastonata in un paese gioiello o della banalissima passeggiata tra le pietre degli antichi greci? Della Calabria da cartolina di scena in questi giorni alla Bit di Milano?
Dimenticatevi il solito weekend fatto di escursioni al borgo e passeggiate bucoliche. Questo itinerario mette al centro uno degli elementi di spicco più autentici del territorio: il cemento armato. Materiale poliedrico attraverso cui si è voluto omaggiare alcuni tra i massimi artisti della scena planetaria con opere capaci di spingersi oltre il consueto. Opere cadute nel dimenticatoio e che noi intendiamo riportare ai fasti di un tempo.
L’architettura avanguardistica del depuratore di Caulonia
Caulonia e l’Anarchitecture
Il nostro mini tour alla riscoperta del patrimonio perduto inizia a Caulonia, con una visita al capolavoro di building-cuts ripreso da un progetto originale di Gordon Matta-Clark.
L’esponente di punta del movimento Anarchitecture fu chiamato a intervenire nell’ambito del programma “progettiamo con arte” varato dall’allora giunta comunale. Fu lui a volere riproporre il suo splitting – il famoso taglio che raddoppia gli spazi rendendoli speculari – sull’indispensabile depuratore.
Degli amministratori dell’epoca invece l’oculata scelta relativa al quadratino di spiaggia – proprio accanto alla foce della fiumara più distruttiva del reggino – dove edificare qualche migliaia di metri cubi di cemento, in questo pregevole esempio di arte prestata all’ingegneria civile.
Un’opera da tutelare
L’artista, morto purtroppo prima dell’inaugurazione, ha voluto contaminare la sua opera con un omaggio alla cultura bizantina presente sul territorio. Da qui la presenza, sulle pareti esterne che guardano al mare, di una volta stellata col il caratteristico blu di lapislazzuli.
Il blu delle stelle sul muro del depuratore si fonde con quello del cielo diurno in un poetico omaggio a Magritte
Della Giunta di allora, e di quelle che seguirono, l’intento di non fare mai entrare in esercizio l’opera di ingegneria per evitare che vibrazioni e umidità potessero danneggiarla. Obiettivo raggiunto. Il tour cauloniese prevede anche una visita guidata alla piazzetta dei finti bronzi, con riproduzioni nane degli antichi guerrieri (in cemento) su piedistalli oblunghi (sempre in cemento). E prosegue con la “colonna solitaria”, omaggio contemporaneo al vero deus ex machina del territorio: il palazzinaro.
“Colonna solitaria”, opera simbolo della scuola filocementista locridea
Locride, un esempio che ha fatto scuola
Attribuito invece al movimento del neobrutalismo lo splendido edificio che possiamo ammirare sulla spiaggia tra Riace e Stignano. Originariamente dedicato alla residenzialità turistica, questo raro esempio di architettura – che alcuni riconducono alla scuola di As Found – è lungo quanto un campo di calcio e alto cinque piani. Rappresenta ancora, a distanza di quasi 40 anni dalla posa della prima pietra, una meraviglia unica, seppure malamente replicata a macchia di leopardo su tutta la costa. L’ardito utilizzo del cemento armato a vista – il beton brut così come esce dalle casseforme – realizza fino in fondo l’idea del brutto che diventa bello solo perché reale.
Il concetto di interazione tra spazi urbanizzati e natura assume qui nuovi significati
In questo caso, il concetto di “sottrazione” caro al movimento, sposandosi con le accuse di abusivismo e speculazione edilizia mosse ingiustamente ai mecenati dell’epoca, consentì di lasciare intatto lo scheletro nudo dell’opera, proprio come lo avevano pensato gli architetti inglesi. Seppure risultino remotissime le possibilità di abbattimento e di ripristino dei luoghi, dobbiamo segnalare che la vegetazione sempre più disordinata e la prepotenza del mare potrebbero minarne la solidità strutturale.
Palafitte a Gioiosa
Con un breve trasferimento lungo la pittoresca Statale 106, il nostro itinerario nella Locride prosegue e si conclude nella vicina Siderno. Non prima però di avere reso omaggio all’inconfondibile stile palafittesco – in omaggio ai primi esempi di autogrill – della sala da pranzo “sospesa” che accoglie con i suoi pali turchese le frotte di turisti in arrivo sul lungomare di Gioiosa Marina. Qui la burocrazia si è messa di mezzo. Da tempo l’accesso all’opera è precluso ai turisti, che possono però transitare sotto l’arco che guarda lo Jonio e godere dell’ombra.
Il richiamo evidente agli autogrill come architettura di denuncia civile contro l’inadeguatezza della SS 106
Parkour a Siderno
Giunti a Siderno, il nostro tour nella Locride prevede una visita al vecchio molo: 180 metri di acciaio e cemento inutilmente protesi sul mare. Anticamente era utilizzato come molo commerciale, alcuni vecchi pescatori del posto favoleggiano di quando le navi vi attraccavano. Da anni ormai è stato riconvertito in percorso di parkour. Interruzioni, cedimenti e vertiginose arrampicate sull’acqua sempre nuove e sorprendenti, grazie all’azione continua del binomio mare/vento. Una perniciosa ordinanza della capitaneria ne vieta, attualmente, l’accesso al pubblico.
Il sacro fuoco dell’arte
Risalendo la costa, il nostro tour comprende una sosta al famoso “stabilimento balneare flambé”. Si trova nel centro geografico del lungomare delle Palme, a 50 metri dalla piazza e dal corso principale della cittadina. Lo stabilimento, ovviamente in cemento armato, sfida orgoglioso lo scorrere del tempo. E, incurante delle varie ordinanze che lo bollano come abusivo, continua ad attirare turisti e appassionati che vi si intrufolano tra porzioni di tetto bruciacchiate e preziosi esempi di streetart di «coraggiosa denuncia».
La Locride e il brutalismo
Ormai stanchi, ma non paghi di tanta bellezza, i turisti verranno accompagnati per il pernottamento al “Grand Hotel Burraccia”. Attribuito all’architetto milanese esponente del brutalismo italiano, Vittorio Viganò, e dedicato alla memoria dell’omonimo mendicante amico di tutti – unico ad abitarci fino ad ora, esclusi gli ambulanti che vi soggiornano di straforo durante la settembrina festa di Portosalvo – l’hotel chiude il cerchio sul nostro tour della Locride. Cibo e bevande non compresi nel prezzo.
«Dimezzata, monca, a metà». Rimbalzano tra le vinedde del paese vecchio i malumori per lo strano compromesso raggiunto in vista del Caracolo, la secolare processione del sabato di Pasqua. Dopo due anni di blocco causato dalla pandemia, avrebbe dovuto ripopolare l’antica Castelvetere. Invece si è ritrovata mutilata e al centro di una polemica che ha spaccato la piccola comunità cittadina.
Una delle due gambe su cui si regge la tradizione antica della processione a “zig zag” lungo la piazza principale di Caulonia si è infatti chiamata fuori. E si è rifiutata di fare sfilare le statue di propria competenza che completerebbero il corteo, mandando all’aria secoli di tradizione immutabile.
Le statue del Caracolo davanti alla chiesa dell’Immacolata, oggi a pochi metri da una frana
Il gran rifiuto
E così, dove anche le bombe degli Alleati fallirono, riuscì il dissesto idrogeologico. Dopo secoli di confortevoli ripetizioni andate in scena nonostante guerre, terremoti, invasioni e carestie infatti, quest’anno, il rito ereditato dalla dominazione spagnola – unico del genere a svolgersi in Italia – andrà “in scena” in forma ridotta. La causa è la clamorosa autoesclusione di una delle due confraternite che da secoli mandano avanti la tradizione del corteo funebre che prelude alla domenica di Pasqua.
La decisione si lega al disfacimento della porzione di rupe su cui poggia la chiesa dell’Immacolata – sede dell’arciconfraternita omonima e “casa” delle quattro statue che salteranno la processione – e ha finito col dividere il paese. Da un lato chi sostiene la protesta, dall’altro chi, anche se a denti stretti, fa finta di niente e si prepara a mandare avanti lo spettacolo nonostante tutto.
Caracolo: l’ok del vescovo e il diktat del Comune
Jusu e Susu, Carmine e Rosario. La secolare divisione del paese si manifesta nell’appartenenza alle due arciconfraternite. E si rinnova ogni anno, durante i riti della settimana Santa, con piccoli dispetti e malcelate smanie da grandeur. Avrebbe dovuto riprendersi la scena dopo il via libera arrivato dal vescovo alla fine di marzo, invece si è spiaggiata contro un’ordinanza comunale.
A causa del deterioramento che mina la solidità di una parte del borgo antico, l’atto impedisce da circa due anni l’accesso alla chiesa dove sono custodite quattro delle otto statue. Ed è su questa ordinanza che si è arroccata l’arciconfraternita “barricadera”: «Se i fedeli non possono raggiungere la chiesa per le funzioni – filtra dalle stanze dell’associazione che fa capo alla chiesa dell’Immacolata – allora non possono nemmeno andare a prendere le statue. È irricevibile la proposta arrivata del Comune di mettere una passarella temporanea per fare passare il corteo del Caracolo. Poi la festa passa e la chiesa torna chiusa al culto».
foto Giovanni Cannizzaro
foto Giovanni Cannizzaro
Il rito dimezzato
Gli “incanti” delle statue del Rosario (una vera e propria asta con tanto di banditore in cui le famiglie si contendevano all’ultimo soldo le statue da portare in processione, ma proibiti dal vescovo alla fine dei ’90), i battibecchi sui ritardi, le leggendarie scazzottate a forza di paramenti sacri: il Caracolo, tipico esempio della cultura sacra che si mischia con quella profana, paradigma del paese in cui va in scena e vanto massimo della millenaria cultura cauloniese, quest’anno andrà in scena in forma ridotta. E con un tracciato che, per forza di cose, escluderà una parte del paese: quella cioè maggiormente minacciata dal disfacimento della porzione di rupe che guarda a sud.
Messaggi a metà tra ironia e sarcasmo diretti a una delle confraternite
Putin e il Caracolo
E se tutti concordano sulla gravità della situazione, la decisione di abdicare al Caracolo da parte di una delle due anime del paese (l’arciconfranternita del Rosario e quella dell’Immacolata contano, insieme, quasi 800 iscritti, la quasi totalità degli abitanti del borgo) ha lasciato profonde ferite. Tanto che sui muri del paesino sono anche spuntati manifesti che puntano il dito contro i vertici dell’associazione in “rivolta” e contro la decisione di abdicare dalla processione. Uno strano vortice che si smarca dal vincolo sacro/profano e mischia il “Cristo alla Colonna” con Vladimir Putin.
Cercasi Madonna
La decisione di trattenere ai box le quattro statue protagoniste del Caracolo – dall’arabo karahara, girare – verrà bypassata con un corteo “monco”. Il problema dell’assenza dei “protagonisti” (in questo caso la statua della Madonna) si ripropone, però, anche per la giornata di domenica. Ossia quando, da calendario, dovrebbe andare in scena la rappresentazione della Svelata che chiude i riti della settimana santa.
In questo caso la statua della Madonna – che nella tradizione popolare riceve la notizia della rinascita di Cristo da San Giovanni, spogliandosi del velo nero del lutto – non sarà quella consueta. L’arciconfraternita ribelle non la concederà, per cui toccherà prenderla in prestito da un’altra chiesa. «Tanto le Madonne a Caulonia non mancano – dice il Priore della confraternita del Rosario, che si presenterà all’appuntamento orfano degli amici rivali della chiesa dirimpettaia – e pazienza se i paramenti sono diversi. La processione è importante e si deve fare a tutti i costi. Anche senza tutte le statue».
Statua della Madonna portata in processione durante il Caracolo (foto Giovanni Cannizzaro)
Puntini sulle mappe. Minuscole aree geografiche lontane tra loro, abitate da popoli diversi, con caratteristiche climatiche e sociali differenti, ma unite nello strano destino di una longevità fuori dall’ordinario. L’arcipelago di Okinawa in Giappone e le valli del Gennargentu in Sardegna, e ancora le spiagge del Costa Rica e la parte più meridionale della California. E in mezzo Bivongi, il piccolo centro appoggiato alle Serre reggine, che in questa particolare classifica viene fuori con il titolo di paese della longevità.
Bivongi, il paese dei centenari ai piedi delle Serre reggine
Il festival dei centenari a Bivongi
Passato alle cronache per un filotto di oltre 30 concittadini che hanno oltrepassato il solco del secolo di vita negli ultimi 15 anni, Bivongi vanta, in percentuale rispetto al numero di abitanti totale, la maggiore incidenza di ultracentenari sulla popolazione. Un record figlio di tanti fattori e che il minuscolo comune – 1300 abitanti, la maggior parte dei quali, ovviamente, anziani – si tiene stretto, e che ha anche imparato a sfruttare, con serata a tema, riunioni di ascolto e un vero e proprio festival, che nello scorso settembre ha registrato la sua prima edizione.
L’esercito dei 90enni
E se lo scorrere del tempo e i due anni di pandemia, hanno inevitabilmente ristretto il numero dei più longevi, si contano ancora a decine quelli che hanno da tempo passato la soglia dei 90 e si preparano alle tre cifre. Una particolarità oggetto di numerosi studi scientifici e che ha portato il centro dello Stilaro anche sulle pagine del National Geografic. Una particolarità che porta con sé anche il lato oscuro dei tanti casi di demenza senile che si sono registrati negli anni. Un risvolto amaro e che è diventato a sua volta materia di studi sulla neurogenetica: studi che incrociano i dati del pesino della Locride a quelli di La Plata nella provincia di Buenos Aires, dove risiede buona parte della popolazione bivongese emigrata nell’ultimo secolo.
Ritmi lenti e vita tranquilla: l’ambiente ideale per superare i cento anni
In vino “longevitas”
Tanti i fattori che determinano il particolare attaccamento alla vita degli abitanti di questo paesino affacciato alla fiumara. A partire ovviamente da quelli genetici: studi statistici su alcune famiglie storiche del paese, hanno dimostrato la particolare longevità di alcuni “ceppi” parentali, già dal diciassettesimo secolo. E poi il clima e l’alimentazione: è facile sentirsi raccontare da uno dei vecchietti del posto che il vero segreto della longevità sta nel vino, che da questa parti è cosa estremamente seria e da quando ha strappato il marchio Doc è riuscito a ritagliarsi anche una buona fetta di mercato.
E ancora la qualità dell’acqua – nei dintorni del paese esistono diverse sorgenti attive – e le particolarità geologiche del terreno: si è scoperto infatti che il sottosuolo di Bivongi – in passato centro importante nel panorama minerario nazionale – è ricco di molibdenite, un particolare minerale, comune anche nella Sardegna dei centenari, che nasconderebbe qualità salvifiche.
Ipotesi e leggende che si intrecciano a studi più strutturati; e anche se non esiste una ricetta magica che consenta di vivere più a lungo, certo le caratteristiche sociali e il tenore di vita degli abitanti hanno dato una mano. A Bivongi come a Okinawa e come in Sardegna, si registrano piccole comunità che vivono vite interconnesse tra loro e con l’ambiente che le circonda. Vite condite da ritmi lenti e ripetitivi: l’orto da curare, la passeggiata fino alla piazza, l’immancabile partita a tresette. Sono gli uomini a vivere di più in media, anche se la più anziana del paese, l’unica attualmente a sforare le tre cifre, è un’arzilla signora di 102 anni. Il paese, abitato per lo più da anziani, è riuscito a trovare nuovo slancio dalla statistica che mette Bivongi sul tetto dei paesi longevi.
Superati i cento anni non può mancare un giro in 500
Caffè alzheimer
Manifestazioni, cerimonie, feste e convegni con i più avanti negli anni al centro del progetto e il centro anziani che diventa punto di incontro tra generazioni. Come l’oratorio, dove ormai da cinque anni, vanno avanti i caffè alzheimer. Incontri con base mensile – ma che durante le fasi più acute della pandemia sono stati sospesi – dove la comunità di vecchietti del posto si confronta tra loro con il supporto di medici e psicologi per affrontare i tanti problemi che saltano fuori con la vecchiaia.
Un modo per tenere la mente sveglia in un paesino dove la longevità fuori dal comune che registrano le statistiche, si accompagna ad un numero non trascurabile di casi di demenza senile. Anche in questo caso una particolarità tutta bivongese finita nel primo studio a livello mondiale sulla demenza frontotemporale. Uno studio portato avanti dal centro di neurogenetica di Lamezia che ha messo in evidenza come la popolazione bivongese presa in esame presentasse una maggioranza schiacciante di casi di questa patologia, rispetto alle percentuali di “comune” alzheimer registrati nel resto del pianeta.
Potrebbe restare senza colpevoli la morte diAntonino Saladino, il ventinovenne deceduto nel carcere di Arghillà a Reggio nel marzo del 2018 in seguito alle conseguenze di un’infezione interna. Nonostante la proroga alle indagini disposta dal Gip poco più di un anno fa, infatti, i magistrati dello Stretto hanno nuovamente avanzato richiesta di archiviazione. Rischia così di cadere nel dimenticatoio il caso di quel ragazzone di Santa Caterina finito in galera con l’accusa di essere parte di una banda di spacciatori. E morto, dopo un anno di carcere preventivo, in seguito ad una ventina di giorni di sofferenze di cui nessuno – esclusi i compagni di cella – sembra essersi accorto.
Centocinquanta morti ogni anno
Una storia come ne succedono tante nelle carceri italiane – si aggirano attorno ai 150 ogni anno le morti all’interno degli istituti di correzione in tutto il Paese, una cinquantina delle quali sono relative a suicidi – e su cui potrebbe calare definitivamente il sipario, almeno sul versante della ricerca di eventuali responsabilità da parte del sistema sanitario del maxi carcere reggino.
Numeri che non tornano, testimonianze ritenute inaffidabili, registri che non coincidono. Sono tanti i punti rimasti oscuri in questa vicenda nonostante quasi un anno di nuove indagini: oscurità che non hanno però convinto i pm dello Stretto che, nell’udienza di qualche giorno fa, hanno presentato una nuova richiesta di archiviazione. Richiesta a cui l’avvocato Pierpaolo Albanese, legale della famiglia del detenuto morto, si è opposto nella speranza di non fare diventare Antonino Saladino l’ennesimo numero nella terribile statistica dei decessi dietro le sbarre.
Antonio Saladino è morto prima di arrivare in un aula di tribunale
Un anno ad Arghillà senza processo
Saladino in carcere ci era finito in seguito ad un’inchiesta della distrettuale antimafia dello Stretto. Siamo nel 2017 e gli investigatori, nell’ambito dell’inchiesta Eracle, individuano una serie di soggetti che gestiscono parte del traffico di droga nel quadrante nord della città. Tra loro c’è anche Saladino. Ventinove anni, molto conosciuto nel quartiere di Santa Caterina, qualche incidente per possesso di di droga, da anni sbarca il lunario come imbianchino.
Consumatore abituale di marijuana – pochi mesi prima dell’arresto viene sorpreso in seguito ad un controllo delle forze dell’ordine con nove grammi di erba – il suo nome salta fuori in alcune intercettazioni dei capi dell’organizzazione che ne parlano come di un pusher. L’accusa, sempre respinta dall’indagato, passa il vaglio del Gip e Antonino Saladino finisce ad Arghillà. Ne uscirà, poco più di un anno dopo, in una cassa di legno.
Il processo che lo vede imputato intanto è andato avanti e attende ora il vaglio della suprema Corte: i primi due gradi di giudizio hanno stabilito 20 condanne e sei assoluzioni. Saladino però non ha fatto in tempo a farsi giudicare: è morto mentre era sotto custodia dello Stato.
Antonino Saladino sta male
I problemi fisici del ragazzo iniziano nei primi giorni del marzo 2018. Dai registri medici finiti agli atti dell’inchiesta viene fuori che Saladino si presenta in infermeria il 5 e il 6 lamentando sintomi che vengono interpretati come una banale influenza e curati con antipiretici e cortisonici. Poi un buco di 12 giorni. Infine il 18 marzo i registri medici annotano tre nuove visite al detenuto: alle 15,30 alle 19,15 e poco prima della mezzanotte, quando ormai la situazione è degenerata irrimediabilmente. I medici del 118 arrivati in carcere, non possono fare altro che certificare la morte del ragazzo.
Medici e infermieri: due registri che non combaciano
Sono le nuove indagini disposte dal Gip a fare emergere l’esistenza di altri registri tenuti nelle infermerie del carcere. In particolare, dal diario infermieristico – quello dove vengono annotate le terapie somministrate dal personale paramedico nel caso di visite non programmate – salta fuori che Saladino si era recato in infermeria anche nei giorni 11, 16 (due volte) e 17 lamentando gli stessi sintomi e ricevendo come terapia pastiglie di Maalox e di Acetamol. Accessi in infermeria che non corrispondono però ad altrettante visite mediche e che quindi non vengono presi in considerazione nella relazione del perito nominato dal pm.
L’ingresso del carcere di Arghillà a Reggio Calabria
Quest’ultimo, confermando quanto aveva già affermato in passato, ipotizza una infezione dal decorso accelerato e quasi asintomatico che non era ipotizzabile a fronte dei registri presi in considerazione. Considerazioni contrastate però dalla perizia di parte presentata dal legale dei familiari di Saladino che invece ipotizzano un decorso lento e inesorabile dell’infezione, iniziato nei primi giorni del mese e passato inosservato al vaglio dei sanitari.
I compagni di cella di Antonino Saladino
Questa tesi troverebbe conforto anche nelle testimonianze dei compagni di cella dell’imbianchino. Sentiti nell’ambito delle indagini difensive, avevano raccontato di un malessere che durava da tempo e di continue visite all’infermeria. Testimonianze, però, che i pm reggini non hanno ritenuto attendibili. Nella richiesta di archiviazione, i magistrati annotano come le stesse testimonianze, pur convergendo sul fatto che Saladino lamentasse dolori e si presentasse spesso in infermeria, differissero tra loro nella tempistica: alcuni parlavano di visite quotidiane, altri di visite saltuarie, altri ancora di visite settimanali.
Ombre sul carcere
Una vicenda dai tratti amari che si trascina da ormai quattro anni e che coincide con un periodo molto controverso della casa circondariale reggina. All’epoca del decesso, direttrice della struttura di Arghillà era Maria Carmela Longo, arrestata nel 2020 e rinviata a giudizio nel gennaio scorso con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. L’ipotesi degli inquirenti è che abbia favorito alcuni detenuti ‘ndranghetisti all’interno del carcere.
Maria Carmela Longo, ex direttrice del penitenziario reggino
La madre di Antonino Saladino
Una vicenda, quella di Antonino Saladino, su cui ora dovrà esprimersi il giudice per le indagini preliminari e sul cui sfondo resta il coraggio della madre del detenuto che, durante un convegno sulla sanità nelle carceri lo aveva ricordato così: «Nino era un ragazzo come tanti. È entrato in carcere perché sospettato di un reato, ma non era un criminale, ancora doveva svolgersi un processo. Quando lo hanno arrestato era in piena salute, è morto il 18 marzo del 2018 in solitudine, con tanta sofferenza e lontano dai suoi cari. Non conosco le leggi, ma penso che se lo Stato arresta una persona perché sospetta che abbia commesso un reato e lo trattiene prima ancora di giudicarlo, allora è responsabile della sua persona e deve fare in modo che riceva tutte le cure, perché anche se ha sbagliato deve avere la possibilità di curarsi»
Droga e “rispetto”, armi e denaro, case sicure e figli scostumati. C’è un filo rosso che lega Elvis Demce – il narcos albanese che si era preso una fetta importante del mercato della coca nella Capitale e che progettava di fare fuori i magistrati Francesco e Giuseppe Cascini – e la ‘ndrangheta.
Un filo che intreccia il solito fiume di cocaina sull’asse Roma Calabria e che si aggroviglia con la ricerca spasmodica e continua di nuove armi, perché il mercato, dopo esserselo preso, tocca mantenerlo. E il canale delle ‘ndrine è sempre ben rifornito: basta avere gli agganci giusti e anche l’improvviso arresto del sidernese che si occupava di rifornire il clan albanese può essere bypassato, spostandosi di pochi chilometri appena: è il gran bazar della ‘ndrangheta, a cui la batteria romana si “abbevera” di continuo e ai cui rappresentanti va mostrato il rispetto dovuto, almeno ufficialmente.
Pensavano di non essere intercettati
Sono le conversazioni decriptate dagli specialisti dell’Interpol a tratteggiare l’ennesimo romanzo criminale che la gang di Demce e i suoi “compari” ‘ndranghetisti recitano sentendosi al sicuro dietro lo schermo della Skyecc, la compagnia canadese che si illudeva di garantire ai propri clienti l’assoluta inviolabilità dei propri, costosissimi, dispositivi. Ed è nelle chat disvelate dei criptofonini sequestrati che gli investigatori del carabinieri di Roma trovano i pezzi di un puzzle complicato ed in parte ancora da decifrare. Un puzzle fatto di nomi in codice e codici identificativi che certificano il ruolo dei calabresi come fornitori dei “grossisti” che operano nelle redditizie piazze di spaccio all’interno del raccordo: “Zio” e “Spartaco”, “Rangara”, “er Chiappa” e “Noodles”: tutti ingranaggi di un meccanismo che, una volta avviato, era in grado di garantire fino a 50 chili di cocaina a spedizione. E che, all’occorrenza, era in grado di recuperare kalashnikov e mitragliette Uzi.
Spesso le organizzazioni criminali utilizzano criptofonini
All inclusive
«Dice che domani stanno a venì du parenti loro a Tiburtina, tu basta che li pigli in stazione e li porti a casa. Fra’ me raccomando, stai appresso a sti ragazzi, fammi fare bella figura». Gli emissari delle ‘ndrine sono in arrivo a Roma: saranno loro a garantire il flusso di coca per le piazze di spaccio capitoline e Demce è preoccupato che tutto vada nel migliore dei modi. Tocca alla sua organizzazione occuparsi delle necessità logistiche per i due narcos in arrivo e tutto deve filare nel migliore dei modi perché «so’ pesanti sti calabresi e mi interessano i padroni loro che ci mandano lavoro, quindi curameli un po’. Mo ti mando i soldi e je pii na machina in affitto per loro, troviamo uno do se pia senza carta de credito».
Il canale tra la gang dell’albanese e i fornitori calabresi – rimasti ancora senza un nome – si sta consolidando. I primi carichi sono andati a buon fine e ora si prospettano affari ancora più succulenti, ma per sedere al tavolo dei pezzi grossi, bisogna dimostrare di essere gangster veri. Anche quando si tratta di saldare i debiti per tempo: sul piatto ci sono 400mila euro per un carico di cocaina di qualità “ndo”, meno pregiata della “Fr1” «ma piace lo stesso» che tocca consegnare direttamente allo “zio”, l’emissario delle cosche di base nella Capitale.
«Quattro piotte a sti calabrotti»
«Mo famo na cosa – dice il boss albanese istruendo un sodale – organizzamo de mannà quattro piotte a sti calabrotti, così se sbrigano a mandare» altri carichi di droga. Un’operazione che deve filare liscia: «I soldi je li portate tu e Braccio, dovete stare lì e loro ve li devono contare davanti e confermare che so 4 piotte pare. Fai scrivere a “zio” al suo capo che è tutto ok e gli fai mandare un foto ai padroni sua, che so brava gente».
Gli affari sono affari
Con i calabresi tocca comportarsi con rispetto e deferenza, e farsi trovare sempre pronti alle loro richieste, almeno quando si tratta di pezzi grossi questo Demce lo sa. Ed è per questo che il boss albanese si mette in moto per organizzare la logistica per l’arrivo di un carico destinato ad altri trafficanti: «Dovete andare a San Cesareo compare – dice al telefono, forte della convinzione di non potere essere intercettato, l’albanese al boss calabrese – con un camion, che un camion non da nell’occhio in una zona industriale». Ma i criminali restano criminali e la regola del “cane non mangia cane” che viene buona per le ricostruzioni romanzate, non trova spazio nella realtà; e così, se si trova il giusto meccanismo, si possono truffare anche i galoppini dei propri soci.
Il mercato della cocaina è una delle attività preferite dei clan nella capitale
Volevano “fare la cresta” ai calabresi
I calabresi hanno bisogno di comprare una casa isolata fuori città e con un pezzo di terra dove nascondere i «pacchi» di droga in arrivo. È il gruppo di Demce che si deve occupare di trovare la giusta soluzione: una soluzione su cui si può anche tirare su una bella sommetta di straforo: «Trova urgente sta cazzo de casa isolata col terreno per sti pecorari – dice il boss al telefono al suo braccio destro – vedi quanto vonno per sta casa e in base a quello che costa te metti d’accordo col proprietario e ce carichi 50 mila sopra, tanto pagano loro, i sordi ce stanno. E ce li spartimo. Se la casa costa 100, tu je dici 150 e via. E ce esce una mezza candela pulita per noi».
Gran bazar delle armi
Ma il canale calabrese non si occupa solo di rifornire cocaina. All’occorrenza, i narcos possono anche trovare armi da guerra e mitragliette corte da usare per fare «le punture» ai rivali, se il fornitore abituale è momentaneamente impossibilitato a farlo.
È lo stesso Demce a raccontarlo durante una conversazione decrittata con il mammasantissima calabrese che si nasconde dietro il codice identificativo “6ffefa”: «Compare, io prima per le armi mi servivo da un mio caro amico di Siderno che le trattava, ma ora è dentro. Voglio comprarmi 20mila euro di armi, potete aiutarmi? Mi serve un Ak47, un Uzi, M12 Scorpion. Poi le corte mi servono Glok 17, Beretta 9×21parabellum e qualche 3-4 bombe a mano ananas. Avevo chiesto a “Rangara” ma non si è interessato». Demce si fida del suo interlocutore e gli confessa che le armi gli servono «per educare qualche figlio scostumato, che se non gli fai qualche puntura poi si sentono le briglie sciolte. E per quelli come noi che siamo uomini di classe e di intelletto comparuccio, è dovere nostro istruire questi figli persi».
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