Quella del Centro antiviolenza Angela Morabito è una storia di donne che aiutano le donne.
Questa storia è partita da Reggio e ora ha esteso il suo raggio d’azione anche in provincia. A Polistena prima e ad Ardore poi, per una “guerra” in cui si recita sempre lo stesso copione: le donne nel ruolo di vittima e gli uomini in quello di carnefici.
Violenze di genere: vittima una donna su tre
Le violenze di genere sono un dramma quotidiano che investe un terzo della popolazione femminile italiana. Una donna su tre, dicono le statistiche, ha subito almeno una volta un atto violento da un maschio: sberle, botte, abusi sessuali, ma anche delegittimazioni sociali e professionali, umiliazioni e privazioni economiche.
Il Centro Morabito, costituito da donne calabresi preparate e risolute, prova a fermare questo campionario degli orrori. Lo fa con l’impegno sul campo e , adesso, con un fondo di oltre 200mila euro. La somma proviene da un gruppo di artiste ed è il frutto del maxi concerto al Campovolo di Reggio Emilia.
Francesca Mallamaci (a sinistra) e le sue colleghe del Centro antiviolenza
Centri antiviolenza: tutto iniziò da Angela
Il Centro antiviolenza (e la relativa casa rifugio in grado di ospitare fino a sei persone) nasce nel 2013, in collaborazione con “Piccola opera Papa Giovanni”. È intitolato alla memoria di Angela Morabito, la donna che solo durante le terapie contro la sua leucemia trovò il coraggio di accusare il padre orco che tante volte la aveva insidiata da ragazzina.
Da allora, centinaia di donne si sono appoggiate ai loro servizi e sono riuscite a rompere il muro di silenzio, paura e vergogna che le imprigionava. Un muro spesso invalicabile, perché costruito all’interno di relazioni familiari tossiche.
Un numero verde per chiedere aiuto sempre
Psicoterapeute, avvocate, assistenti sociali e mediatrici culturali: queste professioniste aiutano le donne che si rivolgono allo sportello di ascolto o al numero verde 800 170 940 operativo a tutte le ore, sette giorni su sette. Loro sono, per le vittime, il punto di partenza di un percorso estremamente delicato e complesso.
«Il nostro percorso – racconta a ICalabresila responsabile del centro e della casa rifugio, Francesca Mallamaci – mira a elaborare le violenze subite e a ridefinire un nuovo progetto di vita per le donne che trovano il coraggio di contattarci. Noi offriamo, totalmente gratis, servizi che vanno dall’assistenza legale all’accoglienza residenziale e forniamo consulenze psicologiche e specialistiche in ambito sociale e di orientamento lavorativo».
È un lavoro estremamente complicato. Anche perché, a fronte di una quotidianità sempre più drammatica, il Centro antiviolenza Angela Morabito è, nel Reggino, l’unica realtà specializzata sulla violenza di genere.
L’ufficio del Centro antiviolenza di Reggio
Centri antiviolenza Calabria: a Crotone zero totale
Il “vuoto” è preoccupante, ma in Calabria c’è di peggio. Nel Crotonese, ad esempio, non esiste nessuno sportello sulle violenze di genere. E mancano posti letto per le donne che vogliono allontanarsi dai loro contesti.
Dallo scorso marzo, i servizi dell’associazione sono disponibili anche sul versante jonico della provincia di Reggio.
Grazie ad una collaborazione con il Comune di Ardore e con l’Auser, tre professioniste del posto – la psicologa Loredana Oppedisano, l’assistente sociale Daniela Andrianò e l’avvocata Vincenza Corasanti – hanno aperto uno sportello d’ascolto dell’associazione in una stanzetta del municipio messa a disposizione dal Comune. Lo sportello è aperto il martedì e il giovedì ma è possibile rivolgersi a tutte le ore al numero verde 800 177 507. Quest’esperienza dura da pochi mesi ma i riscontri sono già evidenti.
Solo una donna ha chiesto aiuto a Polistena
L’associazione finora ha preso in carico quattro donne vittime di violenza di genere.
Il contesto è la provincia profonda, dove il “sommerso” pesa più che altrove. Perciò farsi avanti diventa ancora più complicato. E i risultati sono altalenanti.
Ad Ardore i servizi dello sportello d’ascolto cominciano a fare breccia. A Polistena, dove l’associazione è presente dal luglio 2021, le cose vanno altrettanto bene: solo una donna ha chiesto aiuto.
«Raggiungere le realtà periferiche è molto importante», sottolinea ancora Francesca Mallamace, «perché spesso a una donna può risultare difficile anche giustificare la propria assenza da casa per qualche ora. La nostra presenza sul territorio può rappresentare un notevole passo in avanti».
Lo staff dello sportello d’ascolto di Ardore
La generosità dell’arte
In aiuto all’associazione e ai suoi tentativi di radicamento nella Locride, a breve arriveranno gli oltre 200mila euro di cui si parlava prima. Li hanno donati sette cantanti italiane: Fiorella Mannoia, Gianna Nannini, Laura Pausini, Giorgia, Elisa, Emma e Alessandra Amoroso. Le artiste hanno raccolto lo scorso 11 giugno con lo spettacolo Una, nessuna, centomila, i fondi per sostenere sette diverse realtà su tutto il territorio nazionale.
Tra queste, lo sportello di Ardore, che con quei soldi conta, tra l’altro, di organizzare una casa rifugio per accogliere le donne che ne faranno richiesta, su un territorio che ne è rimasto finora sprovvisto.
Sulla bontà della scelta non ha dubbi Celeste Costantino, presidente dell’Osservatorio sulla parità di genere del ministero della Cultura, e “delegata” dalle artiste all’individuazione dei centri.
«La selezione dei centri da finanziare ha richiesto un lavoro lungo e approfondito», spiega Costantino. «L’associazione Angela Morabito rispondeva a tutti i requisiti. Noi vogliamo intervenire nei contesti più difficili, proprio come Ardore. E per essere ancora più incisivi abbiamo scelto di aiutare singole realtà con contributi importanti e diretti».
Quando i giudici della corte d’assise di Locri fanno il loro ingresso in aula per la lettura della sentenza, lo stanzone al primo piano di piazza Fortugno è affollato dei parenti di Vincenzo Cordì, morto ammazzato nel novembre di 3 anni fa. Seduti ordinatamente sugli scaloni per il pubblico, indossano, tutti, una maglietta con il faccione sorridente del ragazzo. Tanti tra loro, la madre di Cordì e gli altri parenti che hanno presenziato all’udienza, piangono mentre la presidente Monteleone legge le condanne: fine pena mai per Susanna Brescia e per il suo amante Giuseppe Menniti, 23 anni per il figlio di lei Francesco Sfara. Sono loro 3, hanno deciso i giudici, ad avere organizzato e messo in piedi l’omicidio.
La sorella e la madre di Vincenzo Cordì all’esterno del Tribunale di Locri dopo la lettura della sentenza
Omicidio Cordì: cadavere ritrovato dai cacciatori
Cameriere in tanti ristoranti della riviera, Vincenzo Cordì era un ragazzo normale. Animo gentile e padre di una coppia di gemelli, Cordì è finito stritolato da un rapporto tossico: ammazzato – hanno stabilito in primo grado i giudici del tribunale di Locri – dalla compagna con l’aiuto del suo amante e di uno dei figli di primo letto della donna. Una storia tremenda, costruita su odio, gelosia e rancore, che è finita col costare la vita a quel ragazzone sempre allegro, stordito con una botta in testa e lasciato bruciare all’interno della sua auto quando era ancora in vita. A ritrovare il cadavere carbonizzato di Cordì, nel novembre del 2019, era stato un gruppo di cacciatori in battuta nei dintorni della “Scialata”, una delle zone più gettonate della zona per le scampagnate fuori porta, due giorni dopo la denuncia di scomparsa presentata dalla compagna Susanna Brescia.
Vincenzo Cordì e Susanna Brescia
Una questione privata
Archiviata quasi immediatamente dai carabinieri la pista del crimine organizzato – la vittima non era collegata agli ambienti della ‘ndrangheta – le indagini si erano spostate quasi immediatamente sul versante della sua vita privata. E quasi immediatamente era venuto fuori il rapporto burrascoso che si era ormai creato tra Cordì e la sua compagna. Un rapporto così controverso che avrebbe portato la Brescia, nel 2016, a drogare con della benzodiazepina il suo partner provocandone un incidente in auto che solo per un caso non ebbe conseguenze mortali.
I cellulari inchiodano i colpevoli
A inchiodare i presunti colpevoli di questo omicidio crudele, le tante tracce informatiche lasciate alle loro spalle. A cominciare dai loro cellulari, che si agganciano alle celle telefoniche nel luogo dell’omicidio, all’ora dell’omicidio e che, nonostante i tentativi di ripulitura, mostrano contatti frenetici nei minuti precedenti e successivi alla morte di Cordì.
E poi le telecamere a circuito chiuso che i carabinieri hanno spulciato una ad una, ricostruendo il percorso di vittima e carnefici, dal cancello di casa fino alle campagne che si inerpicano sulla Limina, passando per il distributore di benzina di Marina dove Menniti si sarebbe fermato per riempire la tanica di benzina necessaria al rogo. E poi gli screenshot del cellulare che gli indagati non avevano cancellato dai loro telefonini e che hanno aiutato gli inquirenti a ricostruire il giro di bugie e sotterfugi che gli indagati avevano messo in atto nel tentativo di indirizzare le indagini verso l’ipotesi del suicidio. Fino al dna della Brescia trovato sull’accendino antivento usato per bruciare il corpo del suo compagno.
Da una cabinovia che poteva essere e che non sarà mai, ad una cestovia che attende solo l’erogazione dei fondi per trasportare i turisti su e giù per monte Coppari. D’estate come d’inverno, quando gli stessi turisti potranno usufruire del servizio per raggiungere comodamente la nuova pista da sci, con neve artificiale, che il piccolo comune di Capistrano – poco meno di mille abitanti tra l’altopiano delle Serre e l’Angitola – si è vista finanziare dai fondi previsti dal Cis Calabria con 2 milioni di euro.
Il ministro per il Sud, Mara Carfagna
Il progetto – che ha superato il primo ostacolo dell’iter procedurale previsto, con l’inclusione nella graduatoria regionale tra i 110 considerati a «priorità alta» – prevede la costruzione di una cestovia a due posti che consentirà di risalire fino alla cima del monte, a quota 1000 metri, lungo un percorso panoramico e senza fermate intermedie con un disdivello di circa 500 metri dalla stazione di partenza. Un progetto così ambizioso che va anche oltre l’idea della cabinovia venuta in mente (ma esclusa dalla graduatoria Cis) ai sindaci di Roccaforte e Palizzi nel reggino, e che punta a fare del piccolo centro del vibonese, una nuova meta per gli amanti degli sci in Calabria.
Marco Martino, sindaco di Capistrano, mentre si fotografa allo specchio
Accanto al progetto per l’impianto di risalita permanente infatti, il sindaco Marco Martino – con l’avallo dell’unanimità della sua giunta e del Consiglio comunale – intende mettere in piedi una vera e propria pista da sci con una lunghezza del tracciato prevista in un chilometro. E pazienza se di neve, da quelle parti, se ne vede pochissima. Compresi nel prezzo infatti sono previsti anche 8 cannoni sparaneve nuovi fiammanti che garantirebbero la creazione ex novo della pista e il suo “rimpolpamento” continuo. A dare una mano per la sua conservazione ci dovrebbero pensare, surriscaldamento globale permettendo, le rigide temperature delle colline calabresi.
«Non c’è niente di strano nell’idea di un impianto di risalita sul nostro territorio, né di una pista da sci – dice a ICalabresi il primo cittadino di Capistrano, Martino –. Gli interventi da realizzare sarebbero a basso impatto visto che già esiste una sorta di percorso naturale sul costone della montagna su cui intendiamo intervenire. Gli alberi da abbattere sarebbero pochissimi e comunque provvederemo a impiantarne contestualmente degli altri. E poi esistono altri impianti di risalita in Regione, solo il territorio di Vibo ne è sprovvisto. Non vedo particolari vincoli ambientali, siamo fuori dal territorio del Parco delle Serre. Manca solo il nulla osta paesaggistico, ma non c’erano i tempi per richiederlo e presenteremo le carte nei prossimi giorni. Questo progetto rappresenta una splendida opportunità per sviluppare il territorio montano del nostro comune e per porre un freno allo spopolamento».
L’idea di fondo è quella di sfruttare radicalmente le ricchezze della montagna con la creazione di una serie di percorsi turistici che, con la costruzione della cestovia, sarebbero facilmente accessibili e consentirebbero la creazione di numerosi posti di lavoro. «L’unica nostra speranza di sviluppo è puntare sulla montagna. Il nostro territorio è situato in un posto strategico, a 10 minuti dall’autostrada, e con l’intero patrimonio viario che porta in cima, appena rimesso in sesto. Con la realizzazione dell’infrastruttura potremmo portare i turisti in pochissimo tempo fino alla sommità di monte Coppari».
La nebbia avvolge uno dei sentieri che porta al monte Coppari (foto pagina Fb “Sei di Capistrano se”)
Che per considerarla vera e propria montagna, un po’ bisogna crederci. Almeno se la si prende in considerazione dal punto di vista della capacità di ospitare un impianto sciistico: rare le nevicate, rarissime quelle che consentirebbero di tenere in piedi un tracciato. I cannoni servono a questo. «Sono macchine di ultima generazione – spiega ancora Martino – che prevedono un consumo bassissimo di energia e un limitato sfruttamento di acqua. Anche se quello dell’acqua per noi non rappresenta certo un problema. Il nostro territorio si trova “seduto” su un tesoro di sorgenti, creare la pista da sci è un modo per sfruttare al meglio anche questo nostro asset naturale. E poi abbiamo fatti i conti: a pieno regime lo sfruttamento della cestovia frutterebbe al comune – che su questo progetto non sborserà nemmeno un soldo delle sue casse – circa 1,8 milioni di euro all’anno».
Il municipio di Capistrano illuminato con i colori della bandiera italiana
Montagna violata
E se il progetto di sviluppo montano messo in cantiere dall’amministrazione di Capistrano comincia a muovere i suoi primi passi anche le associazioni ambientaliste, Wwf in testa, cominciano ad attivarsi per capire fino in fondo che tipo di intervento si intende realizzare e quale impatto ambientale possa avere su un territorio già sull’orlo di una crisi di nervi, con l’ipotesi, tutt’altro che remota, della costruzione di un parco eolico tra i comuni di Monterosso e Capistrano, sullo stesso monte Compari.
Il progetto, finanziato con i fondi del Pnnr, prevede l’innalzamento di alcune pale meccaniche dell’altezza di circa 160 metri e il contestuale abbattimento di circa 250 alberi di faggi. Progetto a cui le associazioni del posto si sono messe di traverso tanto da mettere in piedi, nel dicembre scorso, la manifestazione “abbraccia un faggio”, nella speranza di evitare l’ennesimo intervento invasivo sulle nostre montagne.
Sparita nel nulla. Senza un soldo in tasca, senza un cambio di abito, senza un bacio ai due figli. Nessuno ha più notizie di Barbara Corvi, allora trentacinquenne, dalla fine di ottobre del 2009.
Una sparizione improvvisa, da Amelia nel Ternano, poche ore dopo “l’ufficialità” in famiglia di una sua relazione extraconiugale. Da questa vicenda, è emerso il sospetto dell’ennesimo caso di lupara bianca.
E si teme che il lungo tempo trascorso possa avere reso vano l’intervento degli inquirenti che, a distanza di 12 anni dalla “sparizione” della giovane donna, avevano identificato il presunto colpevole nel marito, Roberto Lo Giudice.
Roberto Lo Giudice, marito di Barbara e suo presunto assassino
Barbara Corvi: un caso di lupara bianca?
Prima arrestato e poi scarcerato dal tribunale del riesame di Perugia, l’uomo attende di conoscere la data fissata per l’udienza preliminare, in cui il Gup deciderà se andare a processo o archiviare per la seconda volta. Cinquant’anni, nato a Reggio, un cognome “pesantissimo” sulle spalle (anche se fuori dagli affari criminali della famiglia), Roberto Lo Giudice è la persona su cui la Procura di Terni punta l’attenzione quando nell’aprile del 2019 riapre le indagini.
Per i magistrati, lui avrebbe ucciso, con l’aiuto del fratello Maurizio, Barbara nel pomeriggio del 27 ottobre 2009 e farne scomparire il corpo. La tragica, ultima pagina di un romanzo familiare di botte e umiliazioni.
Infedeltà e lupare: un vizio di famiglia?
La “colpa” di Barbara: avere intrecciato una relazione extraconiugale. Una storia tremenda che, nelle ipotesi dei magistrati umbri, sembra identica, nella sua mostruosità, a quella di Angela Costantino, la cognata di Barbara. Angela aveva sposato Pietro, il fratello di Roberto, ed era stata fatta sparire dalla sua casa di Reggio nel 1994, quando aveva appena 25 anni.
Anche per lei, stabilirà la magistratura nel 2013, l’unica colpa fu avere intrecciato una relazione extraconiugale durante un periodo di carcerazione del marito boss. Furono gli uomini del clan a prelevarla da casa e a farla sparire per sempre.
Una marcia di Libera per la memoria di Barbara Corvi
Nino il Nano e le altre gole profonde
Figlio dello storico capobastone Giuseppe – ammazzato da un commando armato nel giugno del ’90 ad Acilia in provincia di Roma, nell’ambito della seconda guerra di ‘ndrangheta – Lo Giudice è stato tirato in ballo da Nino, un altro suo fratello. Nino, ex mammasantissima della famiglia, è da anni collaboratore di giustizia.
Interrogato dai magistrati della Dda di Reggio, il pentito racconta di un incontro in Calabria, a circa un anno dalla scomparsa della donna, in cui il fratello Roberto gli avrebbe confermato, «con un cenno del capo», che a togliere di mezzo Barbara Corvi sarebbero stati lui e Maurizio.
Alle dichiarazioni di Nino “il Nano”, presto, seguono le parole di altri due pentiti.
Il primo, Consolato Villani, è un pezzo grosso del clan e racconta di come è venuto a sapere che «Barbara ha fatto la fine dell’altra».
Il secondo, Federico Greve, risponde alla ’ndrina alleata dei Rosmini e racconta agli inquirenti di come Lo Giudice lo avesse minacciato di «murare il figlio tossicodipendente come aveva fatto con la propria moglie». E poi le intercettazioni del figlio di Barbara, che in un’ambientale del 2020 descrive alla compagna la frustrazione e il timore che la madre possa essere «finita nell’acido, senza tracce».
Conti correnti e pc: le prove dell’accusa
E ancora i soldi, fatti rimbalzare da un conto a un altro ma rimasti sempre nella disponibilità dell’uomo, e le intrusioni sul pc privato della Corvi, fino alle finte cartoline spedite da Firenze per depistare le prime indagini.
Nino Lo Giudice, detto “il Nano”, il principale accusatore di Roberto
Questi elementi convincono la Procura ordinaria a richiedere l’arresto di quell’uomo violento che, sostengono i pm, si sarebbe “liberato” della moglie. Tutto questo prima di iniziare, pochi giorni dopo la denuncia di scomparsa, una nuova relazione con un’altra donna che da Reggio si trasferirà in Umbria, con un figlio al seguito, nella casa di proprietà di Barbara Corvi.
Una vicenda complessa, figlia del mondo al contrario delle coppole storte, e cucita sulla pelle di una giovane che non sopportava più la vita insieme al marito.
I dubbi dei giudici e la scarcerazione
A questa storia non hanno creduto fino in fondo i giudici del Riesame che, accogliendo le richieste dei legali di Lo Giudice, ne hanno disposto la scarcerazione in attesa della chiusura delle indagini.
Troppo tardive le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Ancora: troppo vago l’accenno del capo che confermerebbe la colpevolezza dell’indagato. Nessuna certezza assoluta, inoltre, che Barbara Corvi non si sia allontanata volontariamente. Troppo fragili, infine, le ricostruzioni sui tentativi di depistaggio operati dall’indagato per confondere le acque.
Così le conclusioni del Tribunale della libertà hanno in parte ridimensionato il carico accusatorio nei confronti di Roberto Lo Giudice ma non hanno “smontato” gli avvocati di Libera che affiancano i genitori della donna scomparsa nella loro ricerca di verità. Così come non hanno scoraggiato i tanti cittadini e le associazioni che da anni continuano a chiedere: «Dov’è Barbara»?
Una battaglia di verità per Barbara Corvi
Tenere alta l’attenzione, preservare la memoria, continuare a chiedere giustizia: l’Osservatorio sulle infiltrazioni mafiose e l’illegalità dell’Umbria ha preso molto sul serio l’impegno al fianco dei familiari di Barbara Corvi.
Acquasparta
Alviano
Arrone
Assisi
Collazzone
Deruta
Ferentllo
Giove
Gubbio
Montecastrilli
Montefranco
Monteleone d’Orvieto
Narni
Norcia
Penna in Tiberina
Perugia
Terni
Torgiano
Marce e manifestazioni e poi la gigantografia della giovane mamma esposta sui municipi dei tanti paesi che si sono uniti alla battaglia. Anche Libera ha voluto inserire il nome della ragazza tra le vittime innocenti di mafia anche se il suo corpo non è stato mai ritrovato. È la prima donna che figura nell’elenco dell’Umbria.
E ora, in occasione del prossimo compleanno di Barbara, una nuova spinta nella ricerca di quella verità raccontata dai pentiti e ipotizzata dai pm ma sempre negata da Lo Giudice. Secondo lui la moglie si sarebbe data volontariamente alla fuga, tagliando completamente i ponti col passato, figli e genitori compresi.
E allora ecco le testimonianze, i ricordi, i pensieri che verranno raccolti in lettere, una per ogni 27 dei prossimi mesi, da rendere pubbliche a cadenza regolare.
La scriveranno associazioni e pezzi delle istituzioni, personaggi famosi e semplici attivisti, tutti accumunati nella ricerca di verità e giustizia per l’ennesima vittima, in un elenco interminabile, di violenze maturate tra le mura di casa.
Da un 13 giugno ad un altro. Dal traguardo della massima serie, allo spettro della scomparsa dal mondo del pallone. Ha del fascino (crudele) la casualità che fa coincidere la data del massimo risultato sportivo raggiunto dalla compagine amaranto, con il giorno che, in un modo o in un altro, potrebbe segnare la prossima ventura del calcio professionistico a Reggio Calabria.
Ma da quel 13 giugno del ’99, quando un destro sbilenco di Tonino Martino mandò in orbita una città intera, al 13 giugno del ’22, con il presidente Gallo ai domiciliari e la società amaranto sul filo della sopravvivenza, di cose ne sono cambiate molte. E, tutte, in peggio.
Il fallimento della storica Reggina Calcio nel 2015, la ripartenza dalla serie D con la famiglia Praticò al comando e il ripescaggio tra i prof, lo spettro del nuovo fallimento e l’arrivo tutto lustrini di Gallo con il sontuoso ritorno in serie B, fino alla guardia di finanza tra i campetti del Sant’Agata, con la Reggina trasformata in una banale “scatola cinese” attraverso cui il “presidente col catamarano” giocava con soldi, proprietà e sentimenti di una tifoseria intera.
Luca Gallo, presidente della Reggina
Sull’ottovolante
Da Foti a (forse) Saladini, passando per Praticò e Gallo: la storia recente della Reggina è come un gigantesco ottovolante a cui sono rimasti aggrappati tifosi, calciatori e semplici lavoratori. Un ottovolante che potrebbe smettere di correre se dovesse saltare la travagliatissima trattativa tra l’imprenditore lametino Felice Saladini e Fabio De Lillo, un passato in Campidoglio e alla Pisana e braccio operativo di Luca Gallo per nomina diretta dell’amministratore giudiziario Katiuscia Perna, terzo inevitabile invitato ad una tavola dove negli ultimi giorni (oltre al Gip del tribunale di Roma a cui spetterà comunque l’ultima parola), si sono aggiunti i molti che lamentano i «poi ndi virimu» con cui la società amaranto avrebbe saldato buona parte dei propri fornitori negli ultimi tre anni.
Una giostra che non si è fatta mancare proprio niente, neanche il presunto interessamento di una serie di imprenditori cinesi a cui, in tempi non sospetti, Antonio Morabito – reggino di nascita, per anni pezzo da novanta della Farnesina ed ex ambasciatore d’Italia nel principato di Monaco – avrebbe suggerito proprio la società amaranto per la loro personale “lista della spesa” sul mercato italiano delle offerte. Una storia di cui si è persa traccia e che è costata all’ex feluca una delle accuse che lo vedono sotto processo a Roma in questi giorni.
Walter Mazzarri e Lillo Foti, protagonisti delle pagine più belle della storia amaranto in A
E poi «il soggetto giuridico straniero» di cui ha parlato l’avvocato Giosuè Naso, legale di Gallo, che avrebbe dovuto rilevare la Reggina in seguito al sequestro preventivo che le società del patron amaranto avevano subito nel gennaio dello scorso anno, ed evaporato dietro i «non vendo» sogghignati dall’imprenditore romano in una conferenza stampa dai toni surreali, che a vederla adesso ricorda la «performance» della testata ne La grande bellezza.
Ultima chance
Il “toto mercato” indica in oggi, massimo domani, il termine ultimo per capire che sorte attende la Reggina. I tempi sono strettissimi, le procedure burocratiche che coinvolgono anche il Tribunale di Roma sono intricate, e il termine ultimo per l’iscrizione nel campionato cadetto incombe. Senza dimenticare che anche l’accordo per i debiti da spalmare con il fisco – poco più di una decina milioni – è ancora da mettere nero su bianco. Ma seppure risicati, i tempi ci sarebbero.
Archiviati i tardivi appelli dei sindaci facenti funzione, e riposte le bandiere della disperata e bellissima manifestazione dei tifosi per le vie del centro al grido «Salviamo la Reggina», la città ora è come sospesa tra scariche di ottimismo dirompente e baratri di «non c’è nenti». Anche le invettive a Luca Gallo si sono attenuate con il passare dei giorni: tutto in secondo piano, in attesa di passare la nottata. E se, almeno ufficialmente, nulla trapela della trattativa in corso, i segnali di un possibile esito positivo continuano a rimbalzare sui mezzi d’informazione cittadina. Reggina Tv esclusa, visto che per ordine del direttore, sono stati sospesi tutti i servizi curati dalla corposa redazione giornalistica che per anni ha gestito la comunicazione ufficiale del club, con metodi vicini a quelli della Pravda.
Alla ricerca del salvatore per la Reggina calcio
Nonostante le astruse ricerche di riservatezza avanzate da parte della società dello Stretto, il nome di Felice Saladini è spuntato presto come possibile nuovo acquirente della Reggina. Giovane, preparato, calabrese “di ritorno”, ambizioso: il trentottenne lametino è alla guida del gruppo “Meglio Questo” di cui è fondatore e Ceo. Un piccolo impero nella gestione dei clienti con una buona crescita di fatturato negli anni che ha consentito all’imprenditore “emigrato” da Milano, di scalare i vertici del mondo economico calabrese. E se il mondo degli affari sembra sorridere all’imprenditore che potrebbe salvare la Reggina, la vera fissazione di Saladini sembra essere proprio lo sport. All’inizio fu il basket, con l’impegno preso alla guida della Planet Catanzaro traghettata fino alla B2.
L’imprenditore lametino, Felice Saladino
Poi venne il calcio. Le cronache raccontano dell’interesse – siamo nell’agosto del 2020 – che Saladini avrebbe avanzato nei confronti dell’Arezzo, nobile decaduta di un calcio ormai sparito. Di quella trattativa restano però solo i rumors dei giornali. Discorso diverso invece il caso del Fc Lamezia, compagine creata proprio su input di Saladini che ha fuso le varie società cittadine e che nell’ultimo campionato di serie D si è piazzata al quarto posto. Ma il percorso è stato tutt’altro che semplice visto che gli ultras delle squadre interessate si sono messi di traverso all’intera operazione ingrassando i social di insulti e invettive e arrivando ad aggredire fisicamente il presidente della nuova società: proprio la sera della presentazione della squadra infatti, un gruppuscolo di esagitati raggiunse Saladini in un ristorante del centro e oltre alle parole quella volta, volò anche qualche schiaffone.
Sirene morenti ed eroi leggendari, battaglie navali e mostri marini. E torri, e templi e castelli, che si confondono nel tempo lusingando il mito. Sono ricchi di storie i promontori e le rupi che ospitano i 13 fari a presidio dei mari calabresi. Storie che si rincorrono e si sovrappongono a quelle delle dominazioni che si sono date il cambio lungo i secoli. I greci, i romani, i bizantini, gli spagnoli in quei posti strategici a picco sul mare avevano fondato città. Avevano innalzato sacrari e fortificato torri, lungo una trama che attraversa tutti gli 800 chilometri e rotti di coste della regione. E che si lega con il capillare universo di fari e boe segnalatrici che garantiscono la sicurezza della navigazione moderna.
Il faro di Capo Suvero (foto Fiorenzo Fiorenza da Wikipedia)
La leggenda di Ercole e la famiglia del faro
La leggenda di Ercole che si riposa sullo Jonio dopo avere portato a termine le 12 fatiche, si fonde alla memoria del guardiano del faro che tiene in ordine la lanterna del punto più a sud dell’Italia peninsulare. E quella del tempio di Era, che con il suo tetto di marmo bianco indicava i pericoli della costa. Si confonde con quella della famiglia Sestito che da oltre un secolo si tramanda la responsabilità di tenere sempre acceso il faro di Capo Colonna.
Poi Paola, Punta Alice, Capo Suvero e Scilla;Capo Vaticano e Villa e Capo d’Armi: tredici «piccoli luoghi di luce oltre l’invalicabile presenza della notte», gestiti dalla Marina militare. Ma ormai praticamente tutte le funzioni tecniche che una volta competevano ai “guardiani del faro” sono completamente automatizzate. Tredici storie raccontate ne I fari della Calabria, tra natura e archeologia (264 pagine, edizioni La Vie), duplice e dettagliatissimo progetto curato da Ivan Comi.
È un autore e regista catanzarese. Sulla storia dei fari calabresi ha anche realizzato lo splendido documentario La magia dei cristalli con le musiche originali di Mino Freda e Francesca Prestia.
A presidio del mare
Ritagliati in un angolo di un antico castello come a Scilla, o tra le mura antiche di una torre cavallara, come a Paola, i moderni fari calabresi illuminano il percorso dei naviganti dalla seconda metà del diciannovesimo secolo.
Il faro di Paola, la città di San Francesco (foto Ivan Comi)
Quasi tutte di realizzazione post unitaria, le “lanterne” attive sulle coste joniche e tirreniche della Calabria hanno particolarità che le distinguono le une dalle altre. Così consentono ai naviganti, sia durante il giorno, sia durante le ore di buio, di identificare immediatamente il tratto di costa a cui sono legate. E se di giorno sono le caratteristiche e i colori delle torri – bianche, a bande nere, rosse con bande bianche – a rendere i fari riconoscibili, di notte è la diversa frequenza e intensità della luce – che con le moderne attrezzature riesce a farsi strada per decine di chilometri oltre la terra ferma – a rappresentare la “carta d’identità” del presidio.
La luce del fari non deve spegnersi mai
La gestione unitaria di tutti i fari regionali ricade sotto la responsabilità di Taranto, ma sul campo ci sono ancora gli operatori nautici. Quelli che una volta si chiamavano faristi ora si occupano di tenere tutto in perfetta efficienza. Perché, qualunque cosa succeda, la luce del faro non deve spegnersi mai. Sono loro che si occupano di pulire le ottiche e gli specchi che consentono alla luce di farsi strada nella notte. E sono loro che ridipingono la torre con i colori originali quando i danni del tempo e della salsedine lo richiedono.
Dalle fascine date alle fiamme nei fari antichi, ai sistemi di ingranaggi complicati quanto quelli di un enorme orologio a pendolo da ricaricare con la manovella ogni quattro ore, fino ai moderni computer che gestiscono automaticamente l’accensione delle lanterne e l’attivazione dei sistemi di emergenza in caso di avaria. Tecnologie cambiate radicalmente nel corso nel tempo e che condividono un unico obbiettivo: tenere costantemente acceso il cono di luce che garantisce la navigazione sicura. Resta quello il punto di riferimento certo per le imbarcazioni anche in un’era fatta di gps e transponder.
Sulle orme del mito
Nell’immaginario collettivo, i fari sono generalmente associati all’idea di solitudine e isolamento. Una delle particolarità dei fari calabresi è quella però di sorgere in posti già fortemente antropizzati. A Capo Colonna, ad esempio, il faro sorge proprio accanto al tempio di Era Lacinia.E fu proprio la sua costruzione a favorire un nuovo impulso alle scoperte archeologiche di Paolo Orsi, che su quel promontorio ripercorse i fasti di uno dei templi più importanti dell’età antica. Un legame così profondo quello tra la lanterna di Capo Colonna e la sua storia che, a guardia della torre, i costruttori dell’epoca misero una serie di teste leonine che richiamano da vicino i reperti trovati nell’area sacra.
L’unica colonna superstite del tempio di Hera Lacinia a Crotone
A testimonianza di quella battaglia, sono rimasti i relitti delle navi affondate a qualche centinaio di metri dalla costa. Risalendo ancora lo Jonio verso lo Stretto, a capo Spartivento – l’antico capo d’Ercole – il punto posto più a sud dell’Italia peninsulare, la leggenda racconta di quando San Cristofaro apparse a Sant’Elmo, che in una grotta su quel promontorio viveva da eremita, per ordinargli di accendere una lanterna nelle notti di tempesta per aiutare il passaggio delle navi.
Il faro di Punta Pezzo nel comune di Villa San Giovanni (foto Ivan Comi)
A difesa dei naviganti: dallo Stretto a Paola
Operativo dal settembre del 1867 è considerato dalla Marina come uno tra i cinque fari più importanti del Paese. Qualche chilometro ancora, e a presidio dell’ingresso nello Stretto, nel comune di Villa San Giovanni, si trova il faro di Punta Pezzo. Costruito alla metà degli anni ’50, accoglie con la sua luce rossa intermittente i natanti che attraversano il braccio di mare che la separa dalla Sicilia. E poi Scilla, dove la lanterna è stata sistemata dentro il cortile dell’antico castello dei Ruffo. Proprio sul promontorio dove Omero fa vivere il mostro marino dalle multiple teste flagello dei naviganti.
La luce che spunta dal faro di Scilla (foto Ivan Comi)
E, ancora, Capo Suvero, risalendo il Tirreno. QUi la luce del faro illumina la costa che secondo il mito ospitò il corpo senza vita di Ligea, la sirena “melodiosa” punita con la morte per l’inganno di Ulisse, che era riuscito a evitarne i richiami facendosi legare all’albero maestro. E infine Paola, dove la lanterna è custodita all’interno della vecchia torre di guardia. Quella che un tempo serviva ad avvisare la popolazione delle incursioni saracene e che ora guida al sicuro le imbarcazioni che si avvicinano alla costa.
Un carro trainato da tre coppie di cavalli neri. Un carro vuoto, addobbato di fiori e tirato a lutto, che avrebbe percorso il tragitto dalla casa del defunto fino al piazzale del cimitero di Marina di Gioiosa dove però non sarebbe entrato. Un carro che avrebbe dovuto trasportare il corpo di Nicola Rocco Aquino nel suo ultimo viaggio se, qualche ora prima della cerimonia funebre, non fosse arrivato l’altolà della questura di Reggio Calabria che disponeva le esequie in forma strettamente privata e da svolgersi all’alba come a tanti presunti esponenti del crimine organizzato prima di lui.
Annullato il funerale pubblico previsto per il pomeriggio – e il relativo corteo – però, qualche minuto prima delle sette del mattino, il carro, senza la bara al suo interno, avrebbe comunque percorso il tragitto originariamente previsto lungo il corso principale della cittadina jonica. Una sorta di “aggiramento” simbolico – il funerale di Aquino si è svolto comunque in forma strettamente privata – delle norme divenute ormai consuete in occasione dei funerali dei grandi vecchi della ‘ndrangheta, ed esibito in faccia a GioiosaMarina. Proprio come un enorme dito medio, con tanto di pennacchi sui cavalli e corone rosse di contorno.
«Gallo non ha nessuna intenzione di mettersi di traverso alla cessione della Reggina, già l’anno scorso c’erano state avanzate trattative per vendere la società». La notizia che tutta la Reggio sportiva aspettava arriva direttamente da Giosuè Bruno Naso, storico avvocato romano e legale del patron amaranto, finito giovedì scorso agli arresti domiciliari nella sua casa romana con l’accusa di autoriciclaggio ed evasione dell’Iva.
L’interrogatorio
Davanti al Gip Annalisa Marzano, l’imprenditore alla guida della società amaranto dal gennaio 2019, ha rilasciato una serie di dichiarazioni spontanee in cui ha provato a giustificare il suo operato rispetto alle pesanti accuse formalizzate dalla Procura di piazzale Clodio. Dichiarazioni in cui Gallo avrebbe ricordato i passaggi dell’acquisizione della società, sottolineando di aver compiuto tutti i passi alla luce del sole e rimarcando come quel rapporto insolito tra lui e il calcio fosse cambiato con il tempo e di quanto Reggio e la Reggina lo avessero coinvolto con il passare dei mesi.
«Luca Gallo non vuole risolvere solo i suoi problemi – dice ancora a I Calabresi Giosuè Naso, difensore, tra gli altri, anche del “Cecato”, quel Massimo Carminati protagonista di tante pagine oscure dell’eversione “nera” dagli anni di piombo ai giorni nostri – ma anche quelli della Reggina. Non ha nessuna intenzione di affossare la squadra».
Luca Gallo e la trattativa per la Reggina
Il futuro della Reggina avrebbe potuto essere diverso rispetto a quello burrascoso (e dai tempi contingentatissimi) che si è andato disegnando in seguito all’arresto del presidente amaranto, accusato di avere trasformato la Reggina in una scatola cinese attraverso cui veicolare consistenti somme di denaro frutto del mancato pagamento delle spettanze Iva di tre società (la M&G Multiservizi, la M&G Service e la M&G Company) del suo impero commerciale. In seguito al sequestro preventivo che il tribunale di Roma dispose nei confronti di parte del patrimonio di Gallo (circa sette milioni di euro messi sotto sequestro nel gennaio del 2021) l’imprenditore avrebbe infatti messo in campo una serie di trattative per cedere le quote della società.
Luca Gallo nella sede di una delle sue società nel mirino della Procura
Alla base della decisione di passare la mano – ipotesi sempre smentita, almeno ufficialmente, dalla società amaranto – ci sarebbe stata la possibilità, per Gallo, di “sbloccare” i soldi messi sotto sequestro dai magistrati romani. «Gallo si era appassionato a Reggio e alla Reggina, gli piaceva fare il presidente di una squadra di calcio – dice ancora l’avvocato – ma dopo il sequestro preventivo si erano create le basi per cedere la società ad un soggetto giuridico straniero. Ma poi non se ne fece nulla».
Non un privato quindi, ma un fondo straniero che avrebbe formalizzato il proprio interesse per rilevare il 100% della società amaranto che, situazione debitoria a parte, rappresentava e continua a rappresentare un discreto investimento. La serie B è un capitale importante da cui partire. La storia, il blasone e l’amore incondizionato della tifoseria sono la ciliegina sulla torta, ma serve agire in fretta.
I tifosi della Reggina al San Vito-Marulla di Cosenza
Dai locali del centro a quelli della periferia, dai tram di piazza Risorgimento al traffico infernale della Prenestina, con il sogno nel cassetto di riprendersi i “gioielli di famiglia” che i magistrati del tribunale di Roma gli avevano portato via qualche anno fa. Quello degli Alvaro per la Capitale è un amore antico: è qui che all’inizio del millennio le coppole storte di Sinopoli e Cosoleto sono sbarcate per reinvestire il denaro del narcotraffico ed è a Roma che hanno continuato ad operare indisturbate e fameliche nonostante la pioggia di condanne subite, infiltrandosi nell’economia barcollante della Capitale con montagne di denaro contante.
Vincenzo Alvaro
Ed è sempre a Roma che, per la prima volta nella storia delle “colonizzazioni” ‘ndranghetistiche, Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro avrebbero varato e gestito la prima locale romana di mafia in qualche modo indipendente dalla casa madre.
La ‘ndrangheta a Roma: c’è posto per tutti
Fu la direzione nazionale antimafia a mettere nero su bianco lo status particolare della città eterna rispetto all’infiltrazione delle cosche del crimine organizzato, non solo di origine calabrese: «A Roma c’è posto per tutti». La Dna si riferiva alla capacità economica sconfinata delle mafie e al fatto che un mercato come quello della Capitale fosse in grado di soddisfare la “domanda” di investimento reclamata dai clan che avrebbero potuto guadagnare senza necessariamente pestarsi i calli a vicenda.
Una carovana per fare la guerra
Uno “status” confermato anche da diversi collaboratori di giustizia che in più occasioni avevano raccontato di come «Roma e Milano non erano state oggetto di colonizzazione, esistevano dei piccoli insediamenti ma fuori dalle grandi città. Serviva per attirare meno attenzione». Uno status che era rimasto granitico nel tempo e che ora, sostengono i magistrati della distrettuale antimafia di piazzale Clodio, sarebbe stato modificato grazie all’intervento diretto della potente famiglia Alvaro che da Cosoleto e Sinopoli avrebbe consentito a Carzo (e alla sua interfaccia economica e finanziaria Vincenzo Alvaro) di inaugurare una nuova cellula autonoma all’interno del raccordo. Anche perché i numeri, c’erano. «Siamo cento di noi – racconterà intercettato dalla Dia nella sua abitazione romana il boss ad un sodale – e siamo una carovana per fare la guerra».
Murales al Quadraro
Le mani sulle periferie
Nel primo periodo di investimenti, gli uomini degli Alvaro si erano seduti al banchetto degli appalti mettendo i piedi direttamente sul tavolo, e rilevando in pochissimo tempo alcuni pezzi pregiati della storia della ristorazione capitolina – dall’Harris Bar al Cafè de Paris – per poi espandersi puntando comunque a rimanere dentro i confini del centro, alle spalle del Vaticano e tra i vicoletti di Trastevere.
Ora, quella strategia così spregiudicata – e che era costata condanne pesanti ai rappresentanti della ‘ndrangheta a Roma – era cambiata. Gli uomini della montagna, che si erano sistemati in una villetta fuori mano, volevano inabissarsi per evitare di mettere inutilmente in allarme gli inquirenti: «dobbiamo starcene quieti quieti» racconta ancora Carzo ad un medico originario di Reggio ma da anni trasferito a Roma e che il boss rifornisce di cocaina per uso personale. E di strategie il boss venuto da Cosoleto ne aveva imparate tante: la sua scuola era stata il carcere e dietro le sbarre il suo “parco insegnanti” era stato il ghota della ‘ndrangheta calabrese: Antonio e Umberto Bellocco, Pasquale Libri, Domenico Gallico, Francesco Barbaro.
Operazione antidroga a Primavalle
La ‘ndrangheta a Roma: Primavalle, Prenestino, Tor Pignattara, Quadraro
Da loro, forse, Carzo mutua l’idea di spostare il mirino degli affari verso zone che danno meno nell’occhio. Il giro di società intestate alle solite teste di legno, vira così verso la prima periferia della città, quella densamente popolate dei quartieri popolari, dove le attività commerciali non si contano e se cambiano di gestione non sempre ci si fa caso. Primavalle, nel quadrante nord e poi il Prenestino, Tor Pignattara e il Quadraro a sud est, in un reticolo fuori controllo di società cartiere e “scontrinifici” che veniva buono per investire i soldi del clan. L’idea però è quella di rientrare anche nel salotto buono e l’occasione potrebbe venire dallo sblocco di tre ristoranti (due attorno alle mura del Vaticano, uno nel cuore di Trastevere) che erano stati sequestrati a Francesco Filippone e che «a giorni tornano liberi». Gli agenti della Dia sono arrivati prima.
A distanza di quasi un anno dagli incendi che hanno saccheggiato l’Aspromonte al ritmo di un paio di focolai al giorno, si va avanti a vista, confidando anche nelle statistiche che segnano sempre un intervallo di una manciata di anni tra un disastro e l’altro. Quattro morti, settemila ettari di area protetta andati in fumo, decine di sentieri cancellati dalle fiamme e intrappolati dalle frane che ne sono figlie, e un paio di paesi che hanno seriamente rischiato di essere devastati dai roghi: l’estate del 2021 verrà ricordata come l’estate della devastazione. Devastazione che ha avuto il suo epicentro nella provincia di Reggio e che ha visto il Parco nazionale d’Aspromonte pagare un prezzo altissimo al tavolo dei piromani che per quasi un mese hanno messo a ferro e fuoco uno dei polmoni verdi della Calabria.
Quel che resta degli alberi bruciati in Aspromonte (foto 2021)
Cronologia di un disastro
Una ventina di giorni, quelli compresi tra il 29 luglio e il 17 agosto: sono queste le date che segnano il passo degli incendi e che registrano almeno un nuovo fronte di fuoco. Fronti che, a leggere i primi dati raccolti attraverso il sistema Copernicus – il programma satellitare di osservazione della Terra coordinato e gestito dall’Unione Europea – sono scoppiati praticamente in contemporanea a distanza di decine di chilometri l’uno dall’altro. I primi episodi, sporadici, si registrano nei primi giorni di luglio a monte di Mammola e San Luca. Ma è con la fine del mese che le cose precipitano.
In rosso le zone interessante dagli incendi nel 2021 in Aspromonte
Il 29 il fuoco attacca l’entroterra di Gerace mangiandosi quasi 10 ettari di foreste. Poi, in un’escalation tremenda dove è difficile non individuare la mano dell’uomo, le fiamme aggrediscono i territori di Condofuri, di nuovo San Luca, Mammola e Oppido. Quindi si allungano fino ai confini estremi di Reggio. Ancora poche ore, e nella notte tra il 4 e il 5 agosto le fiamme prendono piede nell’area di San Lorenzo. Dalle campagne del piccolo paesino dell’Aspromonte grecanico i roghi scendono e risalgono i costoni della montagna portando devastazione e morte in tutta l’area. Minacciano da vicino anche l’abitato di Roccaforte del Greco e quello di Bagaladi.
Non c’è pace fino a settembre
All’alba di ferragosto, quando il fronte ha ormai distrutto quasi ogni cosa gli si parasse davanti spostandosi più a sud verso la diga del Menta, si conteranno più di 6mila ettari di boschi, in area sottoposta a tutela, completamente distrutti. E mentre le fiamme corrodono i boschi secolari di “pino calabro”, i nuovi fuochi continuano ad aggredire le ricchezze del parco.
Il 5 è la volta di Oppido. Poi il sette di nuovo a San Luca in quello che, probabilmente, è il fronte (850 ettari andati in fumo) che ha minacciato da vicino le foreste vetuste di Faggi, a quota 1200 metri di altezza: l’Unesco le aveva dichiarate patrimonio dell’Umanità appena una manciata di mesi prima. E ancora Martone,Cittanova e Grotteria il dieci agosto e di nuovo San Luca – il paese che presenta la maggiore estensione territoriale in tutta la provincia – Canolo e Mammola in un inferno di fuoco che s’interromperà solo nei primi giorni di settembre.
I sentieri distrutti dalle fiamme nel 2021 in Aspromonte
Paradiso perduto
Sono le guide ufficiali del Parco a certificare lo stato di devastazione causato dagli incendi. Loro lo studio che compara i dati Copernicus con le carte che mappano la biodiversità vegetale presente sul territorio. E sono sempre loro a battere la montagna annotando nuove frane sui percorsi noti e a toccare con mano l’entità del disastro.
Sono stati i boschi più pregiati a pagare il prezzo più alto dell’estate degli incendi, soprattutto nella zona compresa tra i centri di Bagaladi, San Lorenzo e Roccaforte del Greco. Qui, il report stilato dalle guide del Parco, certifica come siano oltre 1700 gli ettari di “pino calabro” – uno degli alberi che maggiormente caratterizza la vegetazione autoctona e le cui foreste erano vecchie di secoli – andati completamente perduti. Un patrimonio inestimabile a cui si devono aggiungere le foreste di faggi, castagni e lecci (circa 550 ettari) e quelle venute fuori dal rimboschimento di conifere e ormai evaporate (quasi mille ettari).
Animali e sentieri
E ancora boschi di ginestre, pascoli e decine di fondi coltivati a uliveto. Per non dire degli animali. Tassi, faine, scoiattoli e martore che non hanno trovato scampo come cinghiali, volpi e lepri. Confusi dal fumo e circondati dalle fiamme, sulle loro carcasse hanno banchettato per giorni corvi e cornacchie.
Mucche in quel che resta dei pascoli dopo l’incendio di agosto 2021
Nel lungo elenco dei danni ancora in corso di realizzazione sono finite anche le aziende e le associazioni che il parco d’Aspromonte lo vivono e lo fanno vivere ai turisti. Sono decine i chilometri di sentieri e stradine interessate dagli incendi su tutti i versanti della montagna, che fanno parte dei consueti percorsi turistici. Dal sentiero “Italia” nel tratto che collega Reggio a Gambarie e poi più a nord in quello che collega Montalto – la cima più importante d’Aspromonte – con San Luca. E, ancora, i percorsi che scavalcano le vette e collegano Bova nell’area grecanica con Delianuova sul versante tirrenico e tra Samo e il cuore della montagna.
La moria delle Api a causa degli incendi in Aspromonte (foto 2021)
Aspettando Godot
Se la reale portata degli incendi non è ancora del tutto chiara, buona parte del problema viene dai comuni (37 in tutto) che ne compongono il cuore. Spetta a loro il compito di censire dettagliatamente i confini dei roghi che hanno interessato i rispettivi territori. È un lavoro che andrebbe eseguito nelle immediatezze degli eventi. Serve, infatti, per avere una visione chiara delle aeree in cui intervenire e la priorità degli interventi da mettere in campo oltre che a progettare un adeguato piano di difesa. Nessuno (o quasi) dei centri del Parcoha ancora consegnato le planimetrie dei censimenti. Così nei giorni scorsi gli uffici amministrativi dell’Ente sono stati costretti a inviare una comunicazione ufficiale a ogni comune nel tentativo di capire quanto fatto finora.
E sono sempre i comuni a dovere garantire la pulizia dei fondi – soprattutto quelli nelle immediate vicinanze dei centri abitati – in modo da creare delle zone taglia fuoco in grado di proteggerli. Anche in questo caso la situazione attuale registra un preoccupante ritardo, nonostante la scorsa estate le fiamme siano arrivate a toccare le prime case di Grotteria e di San Giovanni di Gerace.
I cittadini si improvvisano pompieri d’Aspromonte
In quell’occasione furono anche gli abitanti dei due piccoli centri a dare una mano alle squadre antincendio: incuranti delle ordinanze sindacali che disponevano l’evacuazione decine di semplici cittadini si diedero da fare con pale, rastrelli e sifoni da giardino per domare le fiamme che avevano attaccato la rupe su cui si affacciano il comune di Grotteria e la chiesa di San Domenico, da cui un drappello di fedeli aveva “evacuato” per precauzione la statua del Santo protettore. L’incendio che lambiva l’abitato ebbe anche la conseguenza di “dirottare” l’unico canadair presente in quei giorni sulla montagna che, come ordine di servizio, deve dare priorità ai centri abitati.
Soldi e bandi pubblici dove sono finiti?
Da una parte i comuni, a loro difesa, mettono sul piatto una pianta organica ridotta all’osso, che dilata i tempi e complica le cose. Dall’altra provano a battere cassa, indicando i costi pesanti dell’affidamento a società esterne per il censimento degli incendi passati.
Eppure di soldi legati ai bandi pubblici ne sono girati. E ne continuano a girare. Soldi, come quelli del bando “Clima 2021” che hanno preso varie strade, previste dai bandi ma solo “adiacenti” a quelle che ci si immaginerebbe dopo il disastro dell’anno scorso. Quello che i fuochi del 2021 hanno mostrato è infatti la drammatica carenza di strutture, mezzi adeguati e uomini preparati ad affrontare eventi così imponenti.
Sono circa una quindicina, ad esempio, i punti di rifornimento di acqua a cui possono accedere i mezzi antincendio impegnati sul territorio. Punti disseminati a macchia di leopardo dentro i confini del parco – tra reti idriche, piccoli laghetti e, sparute, vasche antincendio – ma che sono risultati decisamente insufficienti alla prova dei fatti.
Solo un milione su 4 per le vasche antincendio
Degli oltre 4 milioni di euro garantiti dal ministero della Transizione ecologica e veicolati attraverso il Parco nazionale, però, solo uno dei nove progetti finanziati prevede la costruzione di una vasca antincendio. Succede nel comune di Cosoleto, che ha chiesto e ottenuto 200mila euro per allestirne una a cui possano “abbeverarsi” i mezzi spegni fuoco.
Il resto dei soldi è andato invece, legittimamente, per la ristrutturazione e l’efficientamento energetico dei municipi di Bova, Gallicianò e Cinquefrondi. Mentre a Cittanova serviranno per la ristrutturazione dell’ostello della gioventù e per la costruzione di un vivaio forestale. Questione di priorità, anche alla luce del fatto che quello degli accessi all’acqua durante gli incendi è stato uno dei problemi maggiori riscontrati la scorsa estate per gli interventi da terra.
In ballo ci sono poi i finanziamenti per altre vasche. Attendono il via libera per il progetto definitivo i comuni di San Luca, Oppido, San Giorgio Morgeto e Mammola. Ma i tempi sono quelli della burocrazia calabrese. Toccherà incrociare le dita.
I fantasmi dell’Afor sull’Aspromonte
Sul campo però, oltre ai vigili del fuoco e alle associazioni, a cui come da piano Aib è andata la gestione di 15 delle 16 zone in cui è stato diviso il territorio protetto (una resta invece di competenza dello Stato e viene gestita direttamente dal reparto dei carabinieri per la biodiversità), vanno le squadre di Calabria Verde.
Una settantina quelle disponibili in tutta la provincia. Sono formate per lo più da gruppi di 3-5 persone, ma alcune sono più numerose. Oltre a tenere a bada le fiamme dovrebbero anche garantire la manutenzione delle strade e la ripulitura del sottobosco in Aspromonte.
Passati i tempi dell’elefantiaca pianta organica dell’Afor, però, i numeri degli addetti sul campo sono crollati drasticamente. Tenere a bada i 67mila ettari dell’Aspromonte è semplicemente impossibile. Un problema, quello della scarsità d’organico, che si riflette anche sui tempi di intervento. Capita che i mezzi antincendio, privi degli operai che conoscono la montagna, si perdano tra le mille stradine sterrate del territorio.
Anche un piccolo parco giochi per bambini divorato dalle fiamme in Aspromonte nel 2021
Gara deserta
E se gli uomini mancano, lo stesso discorso si può fare per quanto riguarda i mezzi. Sei le autobotti di Calabria Verde in provincia, due delle quali stanziate fuori dai confini del Parco. Dal 2018 avrebbero dovuto aggiungersene altre fra le 10 messe in cantiere dalla società regionale. Peccato che le gare – subissate da richieste di chiarimenti sul bando da parte dei concorrenti – continuino ad andare deserte da quattro anni.
L’ultima è stata dichiarata «infruttuosa» lo scorso 14 aprile e ha costretto Calabria Verde a virare verso un “procedura negoziata”. Con un tetto massimo di poco più di 200mila euro, dovrà rimpolpare il parco automezzi con cinque nuove autobotti da prendere con il principio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Tempi previsti: 120 giorni dalla stipula del contratto. Speriamo che i piromani aspettino.
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