Già nella primavera scorsa l’Antitrustaveva comminato una sanzione da 3,7 milioni di euro alla compagnia Caronte & Tourist. Il motivo? La società di navigazione, in posizione di assoluta dominanza nel traghettamento passeggeri con auto al seguito sullo stretto di Messina, aveva sfruttato il suo potere di mercato per applicare prezzi ingiustificatamente alti e gravosi per i consumatori.
Ora per la Caronte arriva un’altra tegola e sempre da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Tutto nasce da una richiesta di concessione demaniale marittima per la realizzazione di un nuovo sistema di approdo per il collegamento Reggio Calabria-Messina. L’Autorità di sistema portuale dello Stretto a luglio scorso aveva, infatti, formulato una richiesta di parere all’Antitrust, sul diniego, già opposto, alla richiesta della compagnia di navigazione. E ieri (5 dicembre) ha pubblicato le motivazioni alla base della decisione.
Stretto di Messina, un nuovo caso Caronte per l’Antitrust
L’Agcm, in pratica, consiglia di fare bandi di gara ad evidenza pubblica per le concessioni e la scelta dell’affidatario, invece di decidere solo sulla base delle richieste del soggetto interessato, in questo caso Caronte. L’Autorità ritiene, infatti, che solo l’utilizzo di adeguate procedure di confronto competitivo, attivate su impulso delle stesse autorità portuali, siano in grado di offrire due garanzie. La prima è la necessaria coerenza del contenuto della concessione con la pianificazione strategica effettuata a livello nazionale o di singole Autorità portuali. La seconda, l’affidamento della stessa concessione al soggetto che sia maggiormente in grado di utilizzarla nel rispetto dell’interesse pubblico.
Si legge chiaramente nel parere dell’Antitrust: «Al fine di ridurre al minimo la discrezionalità delle autorità portuali, massimizzando invece il grado di trasparenza e di equità della decisione, il processo di selezione dei concessionari non dovrebbe prendere le mosse esclusivamente dall’istanza del soggetto interessato, come avvenuto invece nella presente circostanza, ma con un bando e in una procedura ad evidenza pubblica. In tale prospettiva sarebbe opportuno evitare di rilasciare la concessione a soggetti verticalmente integrati nella fase di erogazione dei servizi di trasporto passeggeri o merci, in modo da consentire una fruibilità il più possibile ampia delle infrastrutture realizzate da parte di tutti i soggetti interessati».
Più trasparenza, meno monopoli
L’Agcm consiglia anche di inserire clausole nei bandi di gara per garantire che nella gestione del nuovo molo di attracco di Reggio Calabria tutti i servizi per le attività di traghettamento vengano erogati dal concessionario. Sia in autoproduzione, sia in favore di altri operatori che dovessero richiederle (la cosiddetta “clausola multivettore”). Trasparenza massima, equità e pluralità per coinvolgere più ditte ed evitare monopoli, quindi. Più in generale, infatti, la compagnia Caronte, sempre secondo l’Antitrust, gode già di un’assoluta leadership sullo Stretto. Trasporta il 75-80% circa di passeggeri, il 90-95% di automobili e il 60-65% di mezzi pesanti.
Mezzi in coda per imbarcarsi a Messina
Infine, il parere sulla richiesta delle nuova concessione prescinde, ovviamente, dall’eventuale sussistenza di ulteriori e diversi motivi ostativi al rilascio della concessione stessa, che dovessero derivare da ordini di considerazioni di natura non concorrenziale, quali ad esempio l’incompatibilità delle istanze presentate con i vincoli ambientali e urbanistici esistenti o altro.
«L’Autorità – conclude la delibera dell’Agcm – auspica che le osservazioni sopra svolte possano essere tenute in adeguata considerazione da parte dell’Amministrazione richiedente».
Solo nelle prossime settimane si potrà comprendere come proseguirà la vicenda.
Sono passati più di trent’anni da quando, il 27 marzo 1992, è stata approvata la legge che ha vietato l’utilizzo e la produzione di manufatti contenenti amianto. Nel frattempo, però, chi ha lavorato per decenni a stretto contatto con l’eternit spesso ha sviluppato malattie di tipo tumorale. E la bonifica e lo smaltimento del pericoloso materiale in Calabria sono ancora in grave ritardo.
Una sentenza importante per un’intera categoria
A volte, come nel caso che stiamo per raccontare, si è rimosso l’amianto senza le dovute protezioni. Ogni sentenza racconta sempre una storia, questa va oltre il singolo caso perché riguarda una intera categoria di lavoratori.
Per 28 anni di fila, infatti, un uomo aveva lavorato in Ferrovie della Calabria, tutti i giorni, dal lunedì al venerdì e dalle 7 della mattina fino alle 5 del pomeriggio. Poi nel 2008 si era dovuto dimettere perché il mesotelioma pleurico che lo affliggeva non gli consentiva più di fare sforzi. La neoplasia, purtroppo, circa 7 anni dopo non gli concedeva più altro tempo. E l’ex operaio delle Ferrovie della Calabria veniva a mancare, dopo molti ricoveri e cure, nonché un delicato intervento chirurgico presso il Mariano Santo di Cosenza.
Amianto e tumori: la denuncia dei familiari dopo la morte
L’uomo aveva già ricevuto in vita dall’Inail l’indennizzo per malattia professionale dovuta all’esposizione all’amianto. Gli eredi, la moglie e i 3 figli, un paio d’anni dopo la sua morte hanno poi deciso insieme agli avvocati Runco e Coschignano di fare causa a Ferrovie della Calabria per il risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali. Ritenevano, infatti, che la causa del tumore fosse la lunga e continuata esposizione all’amianto sul luogo di lavoro.
Il giudice: Ferrovie della Calabria deve pagare
Silvana Domenica Ferrentino, giudice del Tribunale di Cosenza, il 2 dicembre scorso ha depositato le motivazioni della sentenza. E, accogliendo il loro ricorso, ha quantificato in 170mila euro i soldi che Ferrovie della Calabria dovrà pagare a tutti e 4 gli eredi per il danno biologico, più 163mila euro ciascuno per danno da perdita parentale. In totale sono circa 820mila euro, più interessi e spese legali. Il nesso causale emerso in aula tra la presenza di amianto sul luogo di lavoro e il tumore ai polmoni ha sancito la responsabilità (al 55%) di Ferrovie della Calabria nel decesso dell’ex operaio cosentino
L’ingresso del tribunale di Cosenza
Nelle varie udienze del procedimento civile sono stati acquisiti numerosi documenti e sentiti alcuni testimoni. Ma, soprattutto, è stata disposta una perizia medica che è servita a stabilire il nesso diretto tra la presenza d’amianto sul luogo di lavoro dell’ex operaio e il tumore ai polmoni che lo ha poi ucciso.
Nessuna protezione né visite specialistiche
Queste, ad esempio, le parole di uno dei testimoni in aula che la sentenza riporta: «Noi operai lavoravamo solo con la tuta da lavoro ma non abbiamo mai usato mascherine e guanti… Preciso che non avevamo dispositivi di protezione e non eravamo informati sui rischi». Non risulterebbero poi visite mediche specialistiche effettuate dall’azienda sui propri lavoratori al fine di verificarne lo stato di salute. Eppure l’operaio morto riceveva spesso l’incarico di tagliare lastre di amianto, come la stessa sentenza dimostra.
Quindi: presenza di amianto, solo visite generiche, nessun dispositivo di sicurezza. Infine, le dichiarazioni del medico incaricato dal Tribunale: «Ove il soggetto fosse stato effettivamente esposto all’amianto, può certamente riconoscersi un nesso di causa tra l’insorgenza del mesotelioma e le mansioni svolte dal lavoratore».
Amianto e tumori: una decisione storica
Gli elementi per condannare Ferrovie della Calabria, dunque, c’erano tutti, stando alla sentenza di primo grado. A differenza del processo penale che deve provare la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, in quello civile vige la regola detta del “più probabile che non”: ossia che sul medesimo fatto vi siano un’ipotesi positiva ed una complementare ipotesi negativa, sicché, tra queste due ipotesi alternative, il giudice deve scegliere quella che, in base alle prove disponibili, ha un grado di conferma logica superiore all’altra.
In questo caso Ferrovie della Calabria (e i suoi comportamenti legati alla presenza di amianto in alcuni luoghi lavorativi) è stata riconosciuta colpevole al 55%, altrimenti la somma liquidata in condanna sarebbe stata più alta. Il giudice, infine, decurtando quello che l’Inail aveva già versato al defunto, ha stabilito le altre somme che hanno formato il risarcimento totale per tutti i danni subiti e da liquidare in favore degli eredi.
Queste le decisioni nel primo grado di giudizio, che comunque sono esecutive, in uno dei primi processi a Cosenza arrivati a sentenza per risarcimento danni da amianto e legati a Ferrovie della Calabria.
In Calabria non si chiedono tutti i soldi che spetterebbero dallo Stato, quando c’è di mezzo la ‘ndrangheta. L’ennesimo effetto collaterale per chi vive quotidianamente “vicino” a boss e picciotti. Ogni anno, infatti, sono poche le richieste di accesso al Fondo di rotazione del Viminale da parte di vittime dei reati di tipo mafioso in Calabria, rispetto alle regioni dove è più presente la criminalità organizzata. Èlo stesso commissario nazionale Marcello Cardona (ora sostituito da Felice Colombrino), che ha coordinato l’ente fino al 31 dicembre scorso, a sottolineare l’anomalia calabrese nel report annuale.
Il Fondo ministeriale
La struttura commissariale esamina e delibera l’accesso al relativo fondo. Poi riferisce, tutti gli anni, sull’attività svolta sia al presidente del Consiglio dei ministri sia al titolare del dicastero all’Interno. E anche in altre relazioni precedenti era presente questa evidente discrasia. Il Fondo ministeriale, nato nel 1999 per le vittime di mafia, estorsione e usura, dal 2011 ha riunito anche altri fondi. Sono divenute 4 le aree di competenza: mafie, reati intenzionali violenti, orfani di crimini domestici e violenza di genere. I comitati sono separati, ma la struttura commissariale che delibera è una. Ed è di nomina governativa.
Le domande di accesso al Fondo suddivise per regioni e relative al 2021
Le richieste del 2021, regione per regione
Dal 1° gennaio al 30 novembre 2021 il Fondo ha ricevuto 575 istanze di accesso, presentate dalle vittime dei reati di tipo mafioso. È un incremento del 40% rispetto all’anno precedente (410). In particolare, le istanze sono distribuite così su base territoriale: 351 arrivano dalla Sicilia (il 61%) con un incremento del 47% rispetto all’anno precedente; 135 dalla Campania (il 23%), con un incremento nel raffronto con il 2020 del 16%; 26 dalla Calabria (il 4,5%) esattamente il doppio di quelle dell’anno precedente (13 istanze); 31 dal Lazio (il 5%) 6 in più rispetto al precedente anno; 16 dalla Puglia (poco più del 2,5%) il doppio di quelle presentate nel 2020. Per le altre Regioni sono state presentate istanze: 6 dalla Basilicata, 3 dal Veneto. 2 dalla Liguria, 2 dalla Toscana e 2 dal Piemonte e 1 dal Trentino Alto Adige.
Le delibere di pagamento del 2021
Nel 2021 si sono tenute 19 sedute del Comitato nelle quali sono state trattate 697 posizioni. Sono state adottate 404 delibere di cui: 188 di rigetto di accesso al Fondo di rotazione, 207 di accoglimento dell’accesso al Fondo, per un importo complessivo di 8.804.980,38 di euro, 8 di rettifica, archiviazione o inammissibilità, e 1 di indirizzo per le attività del Comitato. Il Comitato ha disposto anche 221 ulteriori approfondimenti istruttori. Le restanti 72 richieste non sono state ancora deliberate. La media, quindi, dei risarcimenti alle vittime delle mafie da parte del Fondo nel 2021 è stata di circa 42mila euro per singola richiesta deliberata.
Gli importi delle delibere di pagamento del Fondo dal 2016 al 2021
L’anomalia calabrese delle vittime di mafia
Immediatamente dopo i numeri, nella relazione commissariale riferita al 2021, come per altri anni precedenti, lo stesso commissario sottolinea il dato calabrese. Il report, subito dopo le tabelle numeriche, contiene una spiegazione.
«Il numero delle richieste di accesso al Fondo pervenute dalla regione Calabria, sebbene in significativo aumento negli ultimi due anni, resta comunque molto modesto rispetto alla pervasiva presenza delle organizzazioni mafiose in quel territorio e alle stesse evidenze processuali penali». Nella relazione commissariale si ipotizza che «tale fenomeno sia dovuto al minor grado di consapevolezza ed informazione sulle opportunità offerte dalla legge rispetto a quello dei residenti nelle regioni Sicilia e Campania e all’azione di contrasto al fenomeno mafioso che ha portato a risultati imponenti in epoche più recenti rispetto alle due citate regioni».
Nello stesso documento si legge ancora: «L’azione di contrasto al fenomeno mafioso che, negli ultimi decenni, si è esteso alle regioni del centro e del nord Italia, solo da epoca relativamente recente ha fornito evidenze giudiziarie. Negli anni a venire è, pertanto, legittimo attendersi, in queste regioni, la conferma di un trend in costante aumento delle richieste di risarcimento del danno e, conseguentemente, di accesso al Fondo».
Le ipotesi della struttura commissariale
Il commissario, dunque, formula alcune ipotesi, che sono identiche anche in alcuni anni precedenti, per cercare di spiegare perché le richieste campane e siciliane di risarcimento siano rispettivamente fino a 7 volte e 18 volte superiori a quelle calabresi (un trend fondamentalmente stabile negli ultimi anni), e cioè che possa esserci in Calabria o poca conoscenza della legge che ha istituito il Fondo di risarcimento per le vittime di mafia o che “il grosso” dei processi non sia ancora arrivato a sentenzadefinitivao ancora che i giudici non abbiano concesso provvisionali per le parti civili nei primi due gradi di giudizio.
Ma le legittime e autorevoli ipotesi commissariali potrebbero non essere sufficienti per comprendere tutti i perché di questa anomalia. Atteso che sono somme alte che farebbero comunque comodo a chi ha subito violenza dai clan di ‘ndrangheta.
Condanne e richieste di risarcimento
I numeri deicondannati detenuti al 31 dicembre scorso, e i numeri dei condannati detenuti totali per regione di nascita, del ministero della Giustizia, ci offrono un primo ulteriore spunto di riflessione verso un quadro più completo della situazione. E ci dicono qualcosa pure in merito al perché le richieste di risarcimento in Calabria siano così esigue rispetto alla reale situazione, legata ai reati commessi dalla ‘ndrangheta in loco e ai relativi processi. E, quindi, alle vittime.
L’andamento di questi numeri non è in linea con l’esiguità delle richieste di risarcimento in Calabria da parte di vittime della mafia. I dati ministeriali, infatti, parlano di condannati e detenuti in Sicilia e Campania 3 o 4 volte superiori a quelli calabresi. Anche e soprattutto per un maggior numero di cittadini.
Si tratta di un rapporto che si mantiene più o meno costante negli anni anche nelle diverse fasce di condanna. Sembra seguire più che altro criteri demografici, ma molto lontani dalle percentuali di richieste di risarcimento di vittime delle mafie che arrivano quasi a 20 volte, nelle altre due regioni a maggior rischio, rispetto a quelle presentate in Calabria. Il numero di sentenze, condannati e detenuti nei vari processi, quindi, non spiega da sola l’anomalia, se non appunto in piccola parte.
Uomini della Direzione investigativa antimafia in azione
Incesurati, estranei e apertamente contro i clan
Guardando, invece, i requisiti per accedere al Fondo ministeriale, l’iter e i motivi ostativi, si possono trovare dati molto più interessanti e significativi per provare a comprendere meglio e appieno quella che ormai appare chiaramente come un’anomalia calabrese, da anni ormai.
Innanzitutto per accedere al Fondo bisogna essere incensurati, e poi si deve essere totalmente estranei ad ambienti criminali e delinquenziali e su informativa delle forze dell’ordine, come per le interdittive antimafia, e quindi sulla base di comportamenti che prescindono da sentenze, processi, assoluzioni e condanne. Ma soprattutto il terzo requisito appare, forse, come quello più vicino alla realtà per spiegare l’anomalia calabrese. Bisogna costituirsi parte civile nel processo penale e ricevere quindi una sentenza a proprio favore, anche non definitiva ma con relativa provvisionale rispetto ai danni subiti, per accedere al Fondo.
Per accedere al Fondo è necessario costituirsi parte civile
Questo significa schierarsi “apertamente” contro i clan e se per gli enti, le grosse società e le associazioni può sembrare più o meno semplice, per le persone fisiche e per i cittadini in Calabria potrebbe essere un ostacolo o comunque un deterrente di non poco conto. Se si pensa alla particolare struttura di tipo familistico della ‘ndrangheta, ai circa 120 Comuni sciolti per mafia solo dal 1999 al 2019, si può ipotizzare che al di là di comportamenti omertosi, la stanchezza, la preoccupazione e la paura possano incidere più di altri fattori nell’anomalia calabrese delle poche richieste di accesso al Fondo governativo per le vittime della mafia.
Dal 1974 allo scorso anno le persone scomparse in Calabria sono più di 5mila: 3500 di origini straniere, tra maggiorenni e minorenni. Si tratta di dati presenti nel Report del commissario straordinario del Governo pubblicato a fine 2020. In quello che fotografa invece il primo semestre del 2021 sono 238 gli individui di cui non si ha più traccia. E oggi, 12 dicembre, si celebra proprio la Giornata nazionale dedicata alle persone scomparse.
In Calabria nei primi 6 mesi del 2021
Un allontanamento volontario da casa, oppure da un istituto o da una comunità, disturbi psicologici, sottrazione da parte del coniuge o di un familiare, essere vittime di un reato: quando una persona scompare, in genere sono questi i motivi prevalenti. Delle 238 persone scomparse in Calabria nei primi sei mesi del 2021, 177 sono stranieri e 61 italiani. I minori stranieri scomparsi sono 150 (solo 13 ritrovati), mentre quelli italiani sono 20 (sedici mancano all’appello).
In maggioranza sono stranieri
In Calabria dal 1974 al 2020 sono state presentate ben 9270 denunce di persone scomparse, 4251 sono state ritrovate e 5019 di cui non si sa più nulla. I dati si riferiscono a cittadini di ogni età sia italiani sia stranieri. Ma gli stranieri, soprattutto migranti, ancora da ritrovare dal 1974 allo scorso anno, sono più della metà: 3457 per l’esattezza. Afghani e magrebini guidano la triste classifica delle persone scomparse al Sud. I dati calabresi del 2021, calcolando lo stesso semestre, sono maggiori rispetto all’anno scorso ma inferiori rispetto al 2019. Il 2020 con la pandemia e la ridotta capacità di spostamento ha fatto registrare un drastico calo dei numeri.
Approvato il Piano provinciale a Reggio e Catanzaro
Dopo la divulgazione dei dati da parte del Governo, Maria Teresa Cucinotta e Massimo Mariani – rispettivamente prefetti di Catanzaro e Reggio Calabria – hanno presieduto un tavolo tecnico durante il quale è stato discusso e approvato il nuovo Piano provinciale di intervento coordinato per la ricerca delle persone scomparse. Aggiornato con le recenti indicazioni del commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, ha come base “il rinnovamento e l’incremento della prontezza operativa e della capacità di risposta di chi opera sul territorio, richiamando le strategie di intervento e le risorse umane e strumentali a disposizione”.
Il caso dell’ex prete di Catanzaro scomparso nel 2019
Massimo Torregrossa ha 51 anni quando sparisce. Da allora lo cercano inquirenti, parenti e amici, grazie anche all’associazione Penelope. Ma di lui non si sa più nulla. Molto conosciuto a Catanzaro dove era sacerdote. Conosce una donna, decide di lasciare l’abito talare e sposarsi. La moglie all’epoca frequentava la facoltà di Medicina ed aveva 17 anni in meno dell’ex prete. La storia d’amore tra i due prosegue per circa 10 anni ma poi arriva la crisi e la decisione di separarsi. Poco dopo questa scelta l’ex prete sparisce nel nulla. Era il 13 agosto 2019. I primi ad accorgersi della sua scomparsa sono i colleghi della fondazione dove lavorava. Dopo due anni i familiari e gli amici non credono all’allontanamento volontario, né all’ipotesi di suicidio e stanno cercando di tenere aperta l’inchiesta giudiziaria opponendosi alla richiesta di archiviazione degli inquirenti. Le sue ricerche comunque proseguono a prescindere dagli esiti giudiziari.
Migranti sbarcati a Roccella in attesa sulla banchina del porto
Scomparsi o hanno solo lasciato l’Italia?
Gli stranieri che si allontanano dai centri di accoglienza presentano maggiori difficoltà sotto il profilo della ricerca e del possibile ritrovamento, per il fatto che molti considerano l’Italia come Paese di transito e raggiungono poi altre nazioni, soprattutto del Centro e Nord Europa. Per quanto riguarda i minori, sia italiani sia stranieri, il dossier sottolinea che sono in corso studi e iniziative particolari da intraprendere per arginare un problema così difficile da affrontare. Dal primo gennaio 2007 al 30 giugno 2021 il quadro generale sul fenomeno conta un totale di 197.114 denunce di scomparsa, 145.782 ritrovamenti e 51.332 scomparsi ancora da ritrovare.
L’usura ha raggiunto tassi di interesse al 257% nel Vibonese secondo il report di Caritas. Sono dati presenti nell’ultimo dossier su povertà ed esclusione sociale. E la percentuale di persone in condizioni economiche difficili che si rivolgono a parrocchie e diocesi registra un 49,6 % in più nel 2020.
A Cosenza e nella Locride tassi al 200%
Nella morsa degli strozzini non finiscono solo imprenditori che rischiano di chiudere bottega. «Lo spaccato offerto dalle inchieste giudiziarie almeno degli ultimi quindici anni è incredibile» – si legge nel report della Caritas. In provincia di Cosenza e nella Locride i tassi di usura hanno toccato il 200%.
Numeri che fanno paura ma sono, paradossalmente, piccoli rispetto ad altri dati: 1500% annui raggiunto a Roma in alcune specifiche occasioni, i 400% a Firenze, i 150% a Milano, i 180% annui nel nord est padovano e fra il 120% ed il 150% nel Modenese. Negozianti, artigiani, piccoli imprenditori, divenuti improvvisamente incapaci di onorare i debiti che avevano contratto in tempi migliori, sarebbero sempre più tentati di cercare una illusoria e rapida via di fuga, cedendo alla proposta di chi è pronto a offrire soldi facili senza chiedere troppe garanzie in cambio, salvo poi far pagare a caro prezzo il denaro prestato o a impossessarsi dell’attività di chi non può pagare.
La povertà nel rapporto Caritas
L’incidenza delle famiglie in povertà assoluta si conferma più alta nel Mezzogiorno (salita al 9,4%, dall’8,6% del 2019). Anche se la crescita più ampia si colloca nelle regioni del Nord, dove la povertà familiare cresce dal 5,8% al 7,6%. Tale dinamica fa sì che se nel 2019 le famiglie povere del nostro Paese fossero distribuite quasi in egual misura al Nord (43,4%) e nel Mezzogiorno (42,2%). Nel 2020 si giunge rispettivamente al 47% e al 38,6%, con una differenza in valore assoluto di 167mila nuclei.
Il Nord si conferma come la macro-area con il peggioramento più marcato, con un’incidenza di povertà assoluta che passa dal 6,8% al 9,3% (è il Nord-Ovest l’area maggiormente penalizzata, cosa che in qualche modo non stupisce). Sono così oltre 2 milioni 554mila i poveri assoluti residenti nelle regioni del Nord e 2 milioni 259 mila quelli del Mezzogiorno.
Usura, l’odissea di Mario
A 40 anni, sposato e con due figlie piccole, Mario (ma non è il suo vero nome) ha lavorato come magazziniere in provincia di Cosenza.
Uno stipendio per mantenere la famiglia in modo dignitoso. Poi la crisi, la pandemia, le prime difficoltà anche del datore di lavoro che poi però alla fine si dimostrerà fondamentale per la sua rinascita insieme ai suoi parenti e soprattutto a Caritas e la Fondazione Don Carlo de Cardona.
Licenziato, cerca la fortuna con il gioco
Tutto inizia quando il suo contratto passa da full time a part time poco prima dell’insorgere dell’emergenza Covid 19. Non racconta niente alla moglie. Le cose precipitano rapidamente. Licenziato ma con la promessa che sarà riassunto appena possibile. E così sarà poi alla fine, ma passerà un anno. Dodici mesi in cui piano piano sprofonda nel suo incubo personale. All’inizio chiede piccoli prestiti alla banca e ad amici e parenti. Ma i soldi non bastano. Cerca di tirare su qualcosa con il gioco on line, ma ovviamente perde. Debiti su debiti.
C’è sempre qualcuno che ti porta da loro
Come succede spesso in queste storie, c’è sempre qualcuno che può metterti in contatto con chi può farti un prestito. Senza nessuna garanzia, se non quella di restituire i soldi mensilmente poco per volta. L’uomo cede e ottiene circa 10mila euro. Dopo pochi mesi si ritrova senza soldi e senza la possibilità di pagare le rate agli usurai. E “i cravattari” iniziano a perseguitarlo prima con telefonate, poi con appostamenti, sia sotto casa che sotto scuola dei figli. Le minacce si fanno sempre più pressanti.
Riassunto dal datore di lavoro
A quel punto la famiglia si accorge che c’è qualcosa che non va e lui, per fortuna, crolla e racconta tutto. Tramite l’intervento familiare ottiene dei soldi in maniere legale. Con i quali estingue i suoi debiti con “gli strozzini”. Non se la sente di sporgere denuncia, (motivo per il quale i dati ufficiali sull’usura reale sono sempre al ribasso). Successivamente, grazie a Caritas e alla Fondazione della Diocesi cosentina, riesce a risolvere anche la questione del debito con l’istituto di credito. Una storia che finisce con la sua riassunzione. Ma è solo un’eccezione fra i più che non si risollevano dal baratro.
La Calabria è una terra di poco lavoro e spesso irregolare. Sono in diminuzione invece gli infortuni e le malattie professionali ma purtroppo sono in aumento le morti bianche. Questo il quadro che emerge dal lavoro ispettivo dell’Inail in un dossier annuale con dati aggiornati fino ad aprile scorso. Le ispezioni hanno interessato la nostra regione su un campione di 184 imprese. E ben 183 sono risultate irregolari. Le verifiche hanno avuto luogo nelle 5 province e sulla base dei seguenti criteri: l’emersione del lavoro nero o non regolare per contribuzione, previdenza e assicurazione e compensi, evasione fiscale, e infortuni sul lavoro e malattie professionali.
Calabria sopra la media nazionale
Nel 2020 il 99,46%, sono risultate irregolari. Il dato è 12,8 punti percentuali sopra il valore nazionale (86,57%). Dalle ispezioni effettuate sono stati accertati 2,8 milioni di premi omessi, il 28,30% in meno rispetto al 2018 ma il 43,00% in più rispetto al 2019. A livello nazionale si è registrato un calo del 27,96% rispetto al 2018 e un aumento del 6,28% rispetto al 2019. Nel 2020 in Calabria sono state rilevate 7.260 denunce di infortunio corrispondenti all’1,27% del totale nazionale, in calo rispetto sia al 2018 (-28,40%), sia al 2019 (-26,87%). A livello nazionale le denunce di infortunio sono diminuite rispetto al biennio precedente di oltre l’11%.
I numeri delle denunce
In Calabria nel 2020 sono state protocollate 1.545 denunce di malattia professionale, in diminuzione del 41,17% rispetto al 2018 e del 40,53% rispetto al 2019. A livello nazionale il dato è in calo del 24,40% rispetto al 2018 e del 26,55% rispetto al 2019. Le denunce di infortunio con esito mortale in Calabria sono state 42, in diminuzione rispetto al 2018 (-9 casi) ma in aumento rispetto al 2019 (+7 casi). Le malattie professionali riconosciute con esito mortale in Calabria nel 2020 sono state 13, 2 in più rispetto al 2018 (11) e 9 in meno rispetto all’anno precedente (22).
Per quanto riguarda le denunce per infortunio sul posto di lavoro, la provincia di Cosenza fa registrare i numeri più alti a livello regionale purtroppo anche per quelli con esito mortale. Nessun dato invece per le presunte evasioni fiscali o per l’emersione di lavoro nero o irregolare per le quali sono in corso attività di indagine da parte della magistratura.
Il Covid contratto nei luoghi di lavoro in Calabria
Rispetto alla ultima data di rilevazione Inail del 31 agosto 2021 le denunce di infortunio sul lavoro da Covid-19 sono aumentate di 36 casi (+2,7%, superiore all’incremento nazionale pari allo 0,9%), di cui 16 avvenuti nel mese di settembre, 17 ad agosto, i restanti casi sono riconducibili ai mesi precedenti. L’aumento ha riguardato tutte le province, in particolare in termini assoluti emergono Cosenza e Reggio Calabria, in termini relativi Vibo Valentia e Cosenza.
La distribuzione dei contagi per genere evidenzia che la quota maschile supera quella femminile, in controtendenza rispetto al dato medio nazionale. L’analisi nella regione evidenzia che il 63,5% dei contagi sono riconducibili all’anno 2020, il restante 36,5% ai primi nove mesi del 2021, l’incidenza regionale nell’anno in corso è superiore a quanto osservato a livello nazionale (18,5% delle denunce complessive). Il picco dei contagi professionali si rileva nel mese di novembre (29,4% di denunce).
Dati più confortanti nel 2021
Il 2021 è caratterizzato, sia a livello regionale che nazionale, da un’attenuazione del fenomeno, con la Calabria che registra sempre, nel corso dei nove mesi, percentuali più elevate rispetto alle medie nazionali con, in particolare, due risalite in corrispondenza di aprile (7,8% delle denunce complessive) ed agosto (aumento più contenuto pari al 2,4%). Gli eventi mortali non sono invece aumentati rispetto alla precedente rilevazione. Ovviamente la maggior parte delle denunce per Covid contratto sul posto di lavoro risulta nel settore sanitario: 53,6%. Seguono: commercio, 12,4%; trasporti e magazzinaggio, 11,4%; attività professionali, scientifiche e tecniche, 5,3%; costruzioni, 3,4%; amministrazione pubblica, 3,3%; Altre attività di servizi, 3,0%; altro, 7,6%.
In collaborazione con le forze dell’ordine
I controlli dell’Inail sono stati effettuati spesso in collaborazione con le forze dell’ordine. Per quanto riguarda le ipotizzate evasioni fiscali o il lavoro a nero sono state successivamente inviate dettagliate rendicontazioni alle autorità giudiziarie. Da quel momento in poi, con attività indagini in corso, l’Inail “perde” il contatto con i vari fascicoli, per ovvi motivi legati al segreto istruttorio. Inoltre, le azioni penali non riguardano più l’ente.
Diverso è il discorso per le eventuali azioni civili di risarcimento dove l’Inail rappresenta sempre parte integrante del contenzioso perché deputato a stabilire i gradi di gravità, degli infortuni o delle malattie contratte sui luoghi di lavoro, con punteggi e tabelle ben precise e stabilite a livello nazionale.
Il contenzioso penale e quello civile viaggiano su differenti binari e un’assoluzione penale non mette al riparo datori di lavoro ed enti da eventuali risarcimenti del danno o nel caso di morte del lavoratore, sia nel caso di morte sul posto di lavoro sia nel caso di successivo decesso per malattie professionali, di danni agli eredi.
Nell’anno in cui l’Italia è riuscita a vincere di tutto e di più nello sport, la Calabria, nonostante segnali positivi e barlumi di speranza futuri, segna il passo. E nel dossier de Il Sole 24 Ore sulla sportività delle 107 province italiane, le 5 calabresi sono tutte nell’ultima parte della classifica. La provincia di Cosenza risulta addirittura quartultima, al 104esimo posto generale; Catanzaro 95esima; Crotone 93esima; Vibo Valentia 90esima; Reggio Calabria 85esima.
Gli indicatori del report
L’indice totale del report, giunto alla 15esima edizione, è calcolato su 36 indicatori suddivisi in quattro categorie: strutture sportive, sport di squadra, sport individuali e sport e società. Tiene conto dei risultati degli atleti nell’ultimo anno solare (nel calcio, basket, volley, rugby, ciclismo, atletica, nuoto, tennis, sport invernali, acquatici, indoor, outdoor, motori ecc.) fino alle Olimpiadi e alle Paralimpiadi di Tokyo. Ma anche dei servizi, dei tesserati e delle strutture sportive presenti nella varie province italiane.
Successi importanti, ma non basta
Il segnale del trend negativo era arrivato proprio dalle recenti Olimpiadi. L’Italia aveva chiuso i giochi con 40 medaglie, nuovo record storico, ma nessuna di esse proveniente dalla Calabria (insieme a Valle d’Aosta, Basilicata, Abruzzo). Diverso il discorso, invece, per le Paralimpiadi con gli argenti per Anna Barbaro nel triathlon edEnza Petrillinel tiro con l’arco e l’ottima prestazione di Raffaella Battaglia nel sitting volley.
Enza Petrilli, impegnata nella gara al termine della quale ha conquistato la medaglia d’argento alle Paralimpiadi di Tokyo
Questi successi – oltre alle performance del cosentino Domenico Berardi, che ha contribuito a riportare il campionato europeo di calcio in Italia dopo oltre 50 anni – non sono bastati però a migliorare gli indici di sportività delle province calabresi nel dossier annuale de Il Sole 24 Ore. Né è servito il trionfo di Daniele Lavia, sempre agli Europei (di volley nel suo caso).
Senza strutture, niente futuri campioni
Le carenze strutturali purtroppo continuano a fare la differenza. Proprio Berardi finì giovanissimo al Sassuolo perché il Cosenza, pronto a inserirlo nella Primavera, non aveva una foresteria dove ospitarlo. Insomma gli atavici problemi calabresi non agevolano gli atleti già professionisti, men che meno i giovani che sono costretti poi ad emigrare anzitempo. Ed è più che evidente che la Calabria sforni sempre meno campioni perché se non ci sono gli incentivi giusti e adeguati finanziamenti diventa sempre più difficile stanare nuovi talenti per trasformarli in professionisti.
Domenico Berardi, calabrese di Bocchigliero (CS), festeggia la vittoria degli Europei a Wembley
Il ruolo della Regione
Nella scorsa primavera dalla Regione era arrivato il nuovo avviso “Sport in Calabria due”, pubblicato in pre-informazione sul portale “Calabria Europa”, per sostenere il settore sportivo e, in particolare, le associazioni e società sportive dilettantistiche che operano sul territorio regionale e che hanno subito gli effetti dell’emergenza Covid-19. Il budget a disposizione era di un milione e 441mila euro, con contributi a fondo perduto per le associazioni sportive dilettantistiche (asd) e le società sportive dilettantistiche (ssd) iscritte al registro nazionale Coni.
Gennaro Gattuso solleva la Coppa del Mondo dopo la finale contro la Francia del 2006
Uno dei compiti, tra i tanti, della nuova giunta regionale calabrese – che al momento non prevede deleghe su questa materia – sarà anche quello di ridare nuova linfa vitale allo sport locale in ogni suo aspetto, agonistico e amatoriale. Il flop delle province calabresi nel dossier de Il Sole 24 Ore non rende onore a quanti – da FrancescoPanetta a GennaroGattuso, da Stefano Fiore a SimonePerrotta, passando per Giovanni Tocci e Giovanni Parisi – hanno portato la loro terra ai massimi livelli sportivi internazionali.
Sport ed economia
Senza strutture adeguate e moderne e senza investimenti nei vari settori giovanili sarà impossibile scoprire atleti promettenti, magari anche la prossima medaglia d’oro alle Olimpiadi. Sognare non costa nulla, ma costa lo sport invece. E potrebbe risultare fondamentale anche per la fragile economia calabrese investire nel settore. Lo sanno bene a Vicopelago ad esempio, un piccolo Comune della provincia di Lucca primo in classifica nel tennis in Italia, dove dal settore giovanile di categoria hanno tirato fuori campioni e campionesse che lo scorso anno hanno vinto lo scudetto a squadre, con enormi ritorni anche di tipo economico.
Abusi sessuali su minori e pedofilia, in aumento i dati relativi allo scorso anno per effetto dei vari lockdown dovuti alla pandemia, ma la Calabria risulta tra le regioni più virtuose da questo punto di vista. L’abuso sessuale è un fenomeno complesso e costantemente in evoluzione, il cui monitoraggio, spesso frammentario, non restituisce un quadro chiaro della situazione. Questo si deve soprattutto a due fattori: il web e la difficoltà di denuncia.
Il dossier di Telefono Azzurro e Palazzo Chigi
Il dossier di Telefono Azzurro, in collaborazione con il Dipartimento per le Politiche per la famiglia della Presidenza del Consiglio dei ministri, fotografa la situazione basandosi sui dati delle denunce e dei diversi monitoraggi effettuati lo scorso anno. Non tutte le segnalazioni e denunce passano attraverso Telefono Azzurro, che poi a sua volta segnala il caso alle autorità giudiziarie, ma anche direttamente da altri canali e forze dell’ordine. In ogni caso la differenziazione tra il web (online) e la vita reale (offline) è ormai parte integrante di qualunque dossier sul tema degli abusi sessuali sui minori, a testimonianza – l’ennesima – che i cambiamenti della tecnologia hanno modificato inesorabilmente anche i dati giudiziari e le analisi su certi fenomeni, oltre che la vita in generale.
Palazzo Chigi
Non a caso la polizia postale da alcuni anni ha creato una sezione nazionale ad hoc, il Centro nazionale contrasto pedopornografia online, che grazie a un monitoraggio continuo focalizza l’attenzione sulla scoperta di siti e dinamiche che possano rappresentare fonte di pericolo nella navigazione dei più giovani. Una battaglia per cercare di prevenire, oltre che di contrastare, abusi sessuali sul web nei confronti dei minori, che si combatte a 360 gradi e su più fronti. Per quanto concerne i presunti responsabili dei casi di abuso sessuale online gestiti nel 2020, i dati mostrano come nel 58% dei casi ci sia di mezzo un estraneo mentre nel caso di abusi offline i responsabili sono nel 52,9% genitori o parenti.
I dati sugli abusi, regione per regione
Lo studio di Telefono Azzurro cataloga per regione di provenienza i casi di abuso sessuale offline gestiti sul territorio nazionale. Utilizzando questo criterio (l’informazione è disponibile per l’87,7% dei casi totali) emerge come nel 2020 le richieste d’aiuto arrivino in primo luogo dalla Lombardia (20%), dal Lazio (16%), dal Piemonte (10%), dall’Emilia Romagna (9%), dalla Campania (8%), dalla Liguria (8%) e dalla Sicilia (8%). Seguono il Veneto (5%) e la Toscana (3%). Le aree geografiche rimanenti, si legge nel documento, costituiscono una minoranza che va dal 2% (Abruzzo, Calabria, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna e Trentino-Alto Adige) all’1% (Puglia e Umbria) del totale.
La Lombardia è in testa anche all’elenco delle regioni con più richieste d’aiuto per abusi sessuali subiti via internet. È da lì che proviene poco più di un caso su quattro: il 26% di quelli totali. Seguono l’Emilia Romagna (15,1%), la Campania (13,7%), il Veneto (11%) e il Lazio (8,2%). E poi, ancora, il Piemonte (5,5%), la Toscana (5,5%) e la Puglia (4,1%). Nel resto delle regioni si va dal 2,7% (Friuli-Venezia Giulia, Marche e Sicilia) all’1,4% (Calabria) delle richieste d’aiuto totali. Inoltre, l’1,4% delle richieste proviene dall’estero.
Caccia agli orchi
I dati apparentemente confortanti del report non fanno abbassare la guardia però a magistrati e forze dell’ordine calabresi. Tant’è che negli ultimi mesi non sono mancate le operazioni riguardanti la pedofilia e gli abusi sessuali, sia offline che online.
Lo scorso 4 novembre i carabinieri di Rende hanno arrestato il nonno 62enne di due bimbe che sarebbero state abusate dal 2015. L’uomo è stato poi posto ai domiciliari dall’autorità giudiziaria.
A Siderno nei mesi scorsi un 46enne è stato arrestato perché trovato in possesso di un migliaio di video di minorenni abusati sul suo computer dalla polizia postale, che lo stava seguendo già da alcune settimane.
A maggio scorso la polizia ha arrestato un 73enne di Paola per abusi sessuali ai danni di due sorelle minorenni. In manette anche una coetanea dell’uomo: la nonna delle vittime, che pare fosse al corrente degli abusi. Gli anziani sono finiti ai domiciliari con l’accusa di prostituzione minorile e detenzione di materiale pedopornografico. L’indagine è scattata in seguito al tentato suicidio di una delle minori.
A Catanzaro un’indagine della polizia postale della scorsa primavera ha portato all’arresto di tre individui (uno a Reggio Calabria) e all’iscrizione sul registro degli indagati di 119 persone e di un altro centinaio residenti in tutta Italia. In totale le forze dell’ordine hanno sequestrato 230 dispositivi informatici e hanno individuato circa 28mila immagini e 8mila video dai contenuti pedopornografici.
Cosa fare in caso di abuso in Calabria
Oltre alla prevenzione e alla repressione della pedofilia e degli abusi sui minori, che presuppongono la massima attenzione da parte di tutti per far emergere i singoli casi da denunciare poi alle autorità, il fronte relativo alla cura successiva dei traumi subiti dai minori anche in Calabria ha un grande peso. Segnaliamo solo due associazioni fra le tante presenti sul territorio per fornire una direzione sul da farsi, una laica e una cattolica: la Casa di Nilla a Catanzaro e l’associazione Meter a Lamezia.
Don Fortunato Di Noto
La prima è il centro specialistico della Regione per la cura e la tutela di bambini e adolescenti in situazioni di abuso sessuale e maltrattamento. Grazie al suo approccio multidisciplinare, si legge sul sito, è l’unico centro nel suo genere nell’Italia meridionale. La seconda, opera del siciliano don Fortunato Di Noto e con sedi anche altrove, è un punto di riferimento nella difesa dell’infanzia per tutta la Calabria.
La ‘ndrangheta malgrado le tante operazioni di polizia e le numerose condanne nei diversi procedimenti giudiziari degli ultimi anni, resta il principale referente dei narcos sudamericani per l’importo e il traffico di cocaina sia in Italia sia in Europa. Anche altre organizzazioni italiane e straniere, ovviamente, si dedicano a questo business miliardario. Ma nessuno come i boss calabresi è riuscito a entrare nelle grazie dei narcotrafficanti colombiani e messicani in termini di fiducia e affidabilità. Basta incrociare un po’ di dati e ci si rende conto agevolmente di questo primato criminale. I numeri della recente relazione della Dia, del dipartimento antidroga del Viminale e delle tante inchieste giudiziarie sul traffico di cocaina, però, stanno descrivendo anche un comportamento delle cosche calabresi che fa riflettere inquirenti e investigatori.
Ma i boss calabresi sono “gente pratica” a cui piace più dei “colleghi” siciliani e campani l’invisibilità. E sono maestri nell’adattarsi al nuovo che avanza come pochi altri al mondo. Troppi occhi puntati su Gioia Tauro da parte dello Stato hanno quindi indotto i mammasantissima calabresi a spostare altrove gli arrivi della preziosa merce. Con strategie degne di una multinazionale i boss hanno iniziato a spostare uomini e mezzi in altre regioni italiane anche per il traffico di droga. Già la Lombardia e l’Emilia erano state per prime conquistate dalla ‘ndrangheta, che aveva bisogno di sviluppare affari e investire i propri guadagni.
I maxi sequestri in Toscana e Liguria
Ma da tempo ormai la Liguria e la Toscana rappresentano le due regioni dove veicolare parte del traffico di coca che prima era destinato quasi esclusivamente verso Gioia Tauro. Addirittura alcuni nipoti di noti boss calabresi sono nati e cresciuti in Toscana e Liguria, come testimoniano i vari dossier e molti atti processuali. Livorno e Genova diventano quindi i due porti dove far arrivare i container pieni di cocaina. Ecco perché i maggiori sequestri degli ultimi anni sono stati registrati proprio in questi luoghi.
Meno rischi di sequestro
Spiega bene infatti l’ultima relazione della Dia: «I maggiori sequestri di cocaina registrati nei porti di Genova e di Livorno indicano che le organizzazioni criminali calabresi, dopo aver utilizzato per anni il porto di Gioia Tauro quale varco privilegiato, di recente hanno posto l’attenzione anche ad altri scali del Mediterraneo al fine di diminuire i rischi di sequestro. Nel gennaio del 2019 l’operazione “Neve genovese”, svolta con la cooperazione di Spagna, Colombia e Regno Unito, ha consentito di eseguire a Genova il più ingente sequestro registrato in Italia negli ultimi 25 anni, oltre tre tonnellate».
Gioia Tauro superata da Genova e Livorno
Tra gli arrestati figura anche un pregiudicato sanremese ritenuto membro alla ‘ndrangheta di Ventimiglia, legata ai clan di Sinopoli e Siderno. Nel 2020 un altro carico da 3 tonnellate di cocaina, stavolta a Livorno, era riconducibile alle cosche calabresi del vibonese. E pochi mesi fa a Goia Tauro le Fiamme gialle hanno sequestrato una “sola” tonnellata di cocaina proveniente dal Sudamerica, nascosta tra un carico di banane.
Questo significa che i boss calabresi hanno ormai diversificato i luoghi dove far arrivare o partire la droga. E che in Liguria e Toscana “si sentono abbastanza forti” e radicati per gestire questo tipo di business anche da un punto di vista economico.
Questa montagna di denaro contante va poi riciclata, investita, fatta fruttare. Se ne occupano attraverso diverse operazioni finanziarie i colletti bianchi che fiancheggiano da sempre i potenti boss calabresi.
Controllo del territorio
Ma senza un controllo anche del territorio, in presenza diremmo di questi tempi, almeno per il traffico di droga, sarebbe impossibile gestire tutti gli aspetti organizzativi e pratici. Ecco spiegato il perché in Liguria, a La Spezia, Genova, Ventimiglia, così come in Toscana, a Firenze, Livorno e Prato, “spuntano” inchieste. Processi giudiziari che sembrano avviati dalla Dda di Reggio Calabria, per i nomi degli indagati. E che invece sono a cura della Dda di Genova e Firenze, come l’inchiesta “Halcon” del 2020 in Liguria, o dell’operazione “White iron” in Toscana, e della recente operazione congiunta tra la Dda fiorentina e quella catanzarese, della primavera scorsa, che ha visto coinvolti boss e picciotti delle cosche calabresi dello Jonio catanzarese, in azione a Livorno. Il traffico di cocaina era destinato alla Capitale e al litorale laziale. Rotte nuove, vecchio business.
L’ultimo episodio arriva da Catanzaro, con la maxi operazione antidroga di pochi giorni fa nel quartiere Aranceto che ha visto coinvolto anche un minore. E va ad aggiungersi a un lungo elenco che fa della Calabria uno dei territori italiani a dare maggior lavoro ai servizi della giustizia minorile. Ad oggi, in base ai dati diffusi nei giorni scorsi dal Ministero della Giustizia, in tutta Italia hanno in carico circa 13mila tra minorenni e giovani adulti (da 18 a 25 anni). E di questi solo una piccola parte si trova in stato di detenzione. Della maggior parte di loro si occupano gli uffici di servizio sociale per i minorenni (Ussm), una modalità che consente, con provvedimenti disposti dal giudice, l’adozione di un progetto educativo costruito ad hoc sulle necessità e la personalità del minore.
Gli imputati minorenni sono per il 70% italiani e per il 30% stranieri. Sia fra gli italiani che fra gli stranieri le percentuali di genere sono molto simili: oltre l’84% sono maschi e meno del 16% sono femmine. Nel caso dei maschi il 30,5% degli imputati ha fra i 14 e i 15 anni mentre il 69% ne ha 16 o 17. Fra le femmine le percentuali variano considerevolmente e osserviamo che le ragazze imputate con un’età fra i 14 e i 15 anni (40%) sono percentualmente più dei ragazzi e quelle imputate con un’età fra i 16 e i 17 anni (60%) sono percentualmente meno dei ragazzi.
Esiti e tipologie di reati commessi
I numeri più elevati riguardano i reati legati al mondo della droga in primis, seguiti da furti, rapine e lesioni personali. Ma sono in aumento anche i reati a sfondo sessuale e quelli legati alla pornografia minorile. In molti casi (22,14%) il pm ha esercitato anticipatamente l’azione penale, chiedendo al giudice, nel corso delle indagini preliminari, di pronunciarsi con una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. Ha invece richiesto il rinvio a giudizio nel 37% dei casi, e nel 6% dei casi è stato chiesto di procedere con un rito alternativo.
I dati calabresi
In Calabria, tra cittadini italiani e stranieri, i minorenni e i giovani adulti presi di cui si occupa l’Ussm al 15 ottobre scorso sono circa mille, 962 per la precisione. A Catanzaro 220 presi in carico per la prima volta nel 2021 e 403 già in precedenza, per un totale di 623. A Reggio Calabria 134 presi in carico per la prima volta nel 2021 e 205 prima di quella data, per un totale di 339. Non ci sono presenze al momento nei centri di prima accoglienza. Se ne registrano, invece, 3 nelle comunità ministeriali, 16 nelle comunità private, 12 nell’Ipm di Catanzaro. Tutti gli altri (la maggior parte) sono seguiti o in strutture di altre regioni o presso le loro abitazioni.
Catanzaro e Reggio ai piedi del podio
I minori segnalati con un’età inferiore ai 14 anni sono il 6,23% sul totale dei minori nel 2017. Percentuale in diminuzione dal 2015, quando invece i minori di 14 anni segnalati erano l’8,33%. I numeri più alti si registrano a Roma, Bologna e Palermo e subito dopo questi grandi centri urbani viene la Calabria con le due città di Catanzaro e Reggio Calabria, che hanno tribunali per i minori e quindi monitorano i dati. Nei casi di reati commessi da minori e giovani adulti la prevenzione ovviamente è molto più importante di tutti gli altri interventi. Anche perché non si deve mai dimenticare che quando si parla di criminalità in Calabria si finisce prima o poi di parlare di ‘ndrangheta.
Recidiva alta
L’esame delle statistiche ufficiali rileva che i reati più diffusi sono quelli contro il patrimonio, quale il furto di autovetture o il furto in casa. Negli ultimi tempi si registra, comunque, un’evoluzione della tipologia di reato: diversi casi di spaccio di sostanze stupefacenti che confermano l’intreccio dei rom e della criminalità organizzata nella gestione del traffico di sostanze stupefacenti sul territorio. La tendenza alla recidiva di questi minori, è molto alta. Elevata è l’imputazione di concorso e la correità tra minori rom e a volte con rom giovani adulti. I casi in cui i minori stranieri sono per lo più soli sono infine quelli in cui risultano più esposti al rischio di coinvolgimento nelle attività criminali gestite dai gruppi delinquenziali locali.
Quartieri a rischio
I territori più interessati dal fenomeno della delinquenza minorile regionale sono vari ed alcuni lo sono più di altri. Una fetta grossa di utenza proviene dalla città di Cosenza e dalle zone vicine, in particolare dall’alto Jonio Cosentino (città di Corigliano Rossano e Cassano Jonio). È importante sottolineare che molti minori entrati nel circuito penale vivono nell’area dei quartieri a rischio, con situazioni di marginalità e scarsa presenza di servizi.
Intrecci mafiosi
L’attenzione maggiore richiesta all’Ussm di Catanzaro proviene dai territori di Lamezia Terme, Crotone e Vibo Valentia e in generale, inquadrando la delinquenza minorile in una visione a largo raggio, dove il fenomeno dell’estorsione legato all’opera della mafia è in considerevole aumento: diversi gli ingressi nei servizi di minori per estorsione, rapina e uso illegale di armi. Sono da segnalare anche vari casi di 416 bis provenienti dalla provincia di Reggio Calabria. Il territorio reggino è quello più segnato dalla presenza di minori appartenenti a contesti di criminalità organizzata di stampo mafioso, che si intrecciano con storie di marginalità e devianza.
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