Autore: Vincenzo Brunelli

  • Caso Marlane: un’altra sentenza ristabilisce la verità

    Caso Marlane: un’altra sentenza ristabilisce la verità

    La vicenda Marlane continua a far notizia. Dopo le assoluzioni importanti del primo processo penale, e in attesa degli esiti definitivi del secondo ancora in corso, la giustizia civile dà le prime risposte alle vittime e ai loro familiari.
    I giudici della Corte d’Appello di Catanzaro stanno ribaltando le sentenze di primo grado relative ad alcuni ricorsi dei congiunti di persone nel frattempo decedute per i tumori contratti mentre lavoravano nello stabilimento di Praia a Mare.

    Marlane: verità per un’altra vittima

    La più recente di queste decisioni (ma negli ultimi 12 mesi si contano sulle dita di una mano le sentenze sul caso Marlane) riguarda il marito di una delle 120 persone che si sono ammalate di cancro per essere venute a contatto con materiali tossici di varia natura (ad esempio cromo esavalente e arsenico).
    L’uomo nel 2009 aveva presentato una richiesta di indennizzo all’Inail come previsto dalla normativa nel caso di infortunio sul lavoro o malattia professionale.
    Per i giudici del Tribunale di Paola questa richiesta era prescritta perché proposta oltre il termine. Infatti, i magistrati avevano ritenuto che il termine di tre anni si dovesse calcolare dal 1999, quando i medici avevano diagnosticato alla donna un carcinoma mammario. Già allora, secondo i giudici di primo grado, la lavoratrice era in grado di sapere che la sua malattia derivasse dal lavoro svolto presso Marlane.

    Il Tribunale di Paola

    La norma

    È il caso di approfondire un po’, a partire dalla normativa. L’articolo 112 del dpr 1124 del 1965 (il testo unico che regola gli indennizzi) stabilisce che l’azione per ottenere il riconoscimento della malattia professionale si prescrive in tre anni dal giorno della manifestazione della malattia stessa. Tuttavia, le successive pronunce della Cassazione hanno chiarito altrimenti e in modo inequivocabile il momento in cui deve scattare il countdown di tale prescrizione.

    Marlane: il processo a Paola

    La dinamica di questa vicenda è piuttosto singolare. Il marito della lavoratrice, infatti, aveva fatto ricorso al Tribunale di Paola contro l’Inail, che aveva negato l’indennizzo all’operaia, nel frattempo deceduta.
    Come già detto, i magistrati di primo grado non erano entrati nel merito, ma si erano limitati a rigettare il ricorso perché tardivo e presentato oltre i termini di prescrizione (che secondo loro scadevano nel 2001).
    Al riguardo, è illuminante un passaggio della sentenza: «Era stato lo stesso ricorrente ad assimilare la condizione lavorativa della defunta moglie a quella di un suo collega, il quale aveva contratto, anche lui come altri 120 lavoratori del medesimo stabilimento industriale, una patologia neoplastica che, in sede giudiziale, a seguito della denuncia da questi presentata nel 1999, era stata riconosciuta di origine professionale. Sicché, secondo il tribunale, quando gli era stata diagnosticata la malattia tumorale, il ricorrente non poteva non essere consapevole quanto meno della potenziale genesi lavorativa della malattia. È pertanto inverosimile che abbia appreso solo nel 2008 della vicenda giudiziale del suddetto collega per poi presentare la domanda all’Inail il 5 novembre del 2009».

    La Corte d’Appello di Catanzaro

    L’appello

    Il vedovo appella la sentenza di Paola del 2012. Allo scopo, sostiene che sua moglie (poi defunta) era venuta a conoscenza solo nel 2008 del fatto che l’Inail aveva riconosciuto al suo collega la dipendenza del carcinoma dalle sostanze tossiche presenti dello stabilimento. Prima, invece, non aveva informazioni che lo rendessero capace di identificare l’origine professionale della sua malattia.
    I giudici di Catanzaro gli hanno dato ragione. Cosa che d’altronde hanno già fatto gli scorsi mesi per altri casi simili. sempre legati alla Marlane.

    Marlane: la sentenza di Catanzaro

    Ecco il passaggio chiave della sentenza con cui la Corte d’Appello ha dato ragione al vedovo: «La decisione impugnata va riformata perché il collegio non condivide il giudizio espresso dal tribunale in ordine alla sufficienza, ai fini dell’esordio della prescrizione, della teorica conoscibilità che l’odierno appellante poteva avere dell’origine professionale della malattia diagnosticata alla signora nel 1999».
    Questa sentenza si basa su una pronuncia della Cassazione del 2018. La Suprema Corte, a sua volta, aveva applicato un’indicazione della Corte Costituzionale, secondo la quale la prescrizione può ritenersi verificata quando la consapevolezza della malattia, la sua origine professionale e il suo grado invalidante, «siano desumibili da eventi obiettivi esterni alla persona dell’assicurato, che debbono costituire oggetto di specifico accertamento da parte del giudice di merito».marlane-corte-appello.ordina-risarcite-vittime

    Il risultato

    L’aspetto materiale e privato di questa vittoria, non è trascurabile. Infatti, il coniuge (e vincitore in giudizio) otterrà il 50% della retribuzione effettiva annua della defunta moglie, più gli arretrati, gli interessi e la rivalutazione a partire dal 2009.
    Più un assegno funerario di 10mila euro circa.
    Certo, non basta a restituire una persona amata. Tuttavia, la sentenza ha un altro merito, forse superiore: è un contributo in più alla verità. Quella processuale, si capisce.

    Punto e a capo

    I giudici d’Appello hanno fatto chiarezza per l’ennesima volta sugli esiti tragici e di lungo periodo della vicenda Marlane.
    Tutto questo mentre il secondo processo penale entra nel vivo.
    Quest’ultima sentenza è un ulteriore tassello di verità storica che entra nelle carte processuali. Resta lecita una domanda: quando potrà calare davvero il sipario sull’affaire Marlane?

  • Mafia Spa: se il Pil italiano lo gonfia la criminalità

    Mafia Spa: se il Pil italiano lo gonfia la criminalità

    «Le provincie italiane con un più alto indice di presenza mafiosa sono concentrate in Calabria, in particolare Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia». Una frase lapidaria nella sua durezza che diventa ancora più significativa se si pensa che non è della Dia o del Viminale. E nemmeno del ministero di Giustizia o della Dna. A pronunciarla, infatti, è stata la Banca d’Italia nel dossier del dicembre del 2021 La criminalità organizzata in Italia: un’analisi economica.
    Nei giorni scorsi il documento è tornato alla ribalta grazie alla Cgia di Mestre, che ha inteso stigmatizzare alcuni aspetti legati al Pil e al fatturato di quella che viene definita “Mafia spa”. Già, perché, stando ai dati e numeri di Bankitalia, il fatturato annuo delle mafie italiane, stimato al ribasso in 40 miliardi di euro all’anno, entra nei numeri dello Stato, concorrendo addirittura ad aumentare il prodotto interno lordo.

    Mafia Spa, un giro d’affari inferiore solo ad Eni ed Enel

    Si legge infatti nel documento della Cgia di Mestre: «In massima parte questo business, e relativo fatturato, è gestito dalle organizzazioni mafiose e conta un volume d’affari pari a oltre il 2 per cento del nostro Pil. Stiamo parlando dell’economia criminale riconducibile alla “Mafia spa” che, a titolo puramente statistico, presenta in Italia un giro d’affari inferiore solo al fatturato di Gse (gestore dei servizi energetici), di Eni e di Enel». Numeri di per sé degni di nota, ma «che sono certamente sottostimati, in quanto non siamo in grado di dimensionare anche i proventi ascrivibili all’infiltrazione di queste organizzazioni malavitose nell’economia legale».

    Il Paese soffre ma dice di arricchirsi

    La Cgia di Mestre non usa troppi giri di parole per condannare questo tipo di contabilità: «È quanto meno imbarazzante che dal 2014 l’Unione Europea, con apposito provvedimento legislativo, consenta a tutti i paesi membri di conteggiare nel Pil alcune attività economiche illegali come la prostituzione, il traffico di stupefacenti e il contrabbando di sigarette». Basti pensare che «grazie a questa opportunità, nel 2020 (ultimo dato disponibile) abbiamo gonfiato la nostra ricchezza nazionale di 17,4 miliardi di euro (quasi un punto di Pil)». Uno stratagemma utile per far quadrare i conti, forse, ma anche «una decisione eticamente inaccettabile».

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    Un sequestro di sigarette di contrabbando

    La distribuzione delle mafie sul territorio nazionale

    Misurare l’intensità del fenomeno mafioso è complesso perché le azioni e le attività delle mafie sono nascoste per definizione. Sfuggono spesso alle attività investigative, figurarsi alle rilevazioni statistiche. Inoltre, hanno confini labili che rendono difficile individuare le singole fattispecie criminali. Ecco perché per questo genere di analisi si punta su «un approccio multidimensionale, che consente di estrarre informazioni da indicatori diversi e di catturare le diverse modalità con cui le mafie agiscono su un territorio». L’indice della presenza mafiosa si calcola, quindi, considerando quattro diversi domini, ciascuno, a sua volta, composto da quattro diversi indicatori elementari.

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    Gli indicatori utilizzati da Banca d’Italia per la sua analisi

    Il dossier passa, poi, ad analizzare la distribuzione della mafie nel Paese secondo criteri geografici. Ed è qui che emerge il peso della criminalità organizzata nella punta meridionale dello Stivale. «Le provincie con un più alto indice di presenza mafiosa sono concentrate in Calabria (in particolare Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia)». Sono comunque in “buona” compagnia. L’elenco dei territori più a rischio comprende, infatti, anche la Campania (Caserta e Napoli in particolare), la Puglia (principalmente il Foggiano) e Sicilia (specie la parte occidentale dell’isola). Ritenere che il fenomeno riguardi soltanto il Mezzogiorno sarebbe, però, fuorviante. Nel Centro Nord, ad esempio, spiccano per indice di “mafiosità” dell’economia locale Roma, Genova e Imperia. I territori dove la presenza della criminalità organizzata si sente meno sarebbero, invece, le province del Triveneto, la Valle d’Aosta e l’Umbria.

    Mafia Spa: più criminalità, meno crescita

    La presenza della criminalità organizzata in un territorio ne condiziona in misura profonda il contesto socioeconomico e ne deprime il potenziale di crescita. Scrive, infatti, Bankitalia «che le province che sono state oggetto di una più significativa penetrazione mafiosa hanno registrato, negli ultimi cinquanta anni, un tasso di crescita del valore aggiunto significativamente più basso». Inoltre, andando oltre la sfera economica, la presenza di attività illegali inquina il capitale sociale e ambientale.

    Ci sono studi – Peri (2004), ad esempio – che mostrano come la presenza delle 20 organizzazioni criminali (approssimata con il numero di omicidi) sia associata a un minore sviluppo economico. Altri – Pinotti (2015) – sostengono che «l’insediamento di organizzazioni mafiose in Puglia e Basilicata nei primi anni Settanta avrebbe generato nelle due regioni, nell’arco di un trentennio, una perdita di Pil pro capite del 16 per cento circa».

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    Un altro grafico dal report di Bankitalia

    I risultati, insomma, mostrano un’associazione negativa tra l’indice di penetrazione delle mafie a livello provinciale e la crescita economica negli ultimi decenni. In particolare, le province con un maggiore livello di penetrazione mafiosa (quindi Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia) hanno registrato un tasso di crescita dell’occupazione più basso di 9 punti percentuali rispetto a quello delle province con indice di presenza mafiosa inferiore. Anche la crescita della produttività risulta inferiore nei territori in questione. In termini di valore aggiunto, lo stesso esercizio produce una crescita inferiore di 15 punti percentuali, quasi un quinto della crescita media osservata nel periodo.

    Mafia Spa e pubblica amministrazione

    Oltre a ridurre la quantità e qualità dei fattori produttivi, la presenza mafiosa incide negativamente sulla loro allocazione e quindi sulla produttività totale dei fattori. In primo luogo essa genera distorsioni nella spesa e nell’azione pubblica. «I legami corruttivi tra associazioni criminali e pubblica amministrazione condizionano la spesa pubblica che viene ri-orientata verso finalità particolaristiche, a discapito dell’interesse generale. In secondo luogo, la presenza mafiosa crea distorsioni anche nel mercato privato. L’infiltrazione mafiosa nell’economia legale, infatti, impone uno svantaggio competitivo per le imprese sane. L’impresa infiltrata da un lato può beneficiare di maggiore liquidità e risorse finanziarie (i proventi delle attività criminali), dall’altro può condizionare la concorrenza usando il suo potere coercitivo e corruttivo, sia nei confronti delle altre imprese sia nei confronti della pubblica amministrazione».

    Le conclusioni della banca centrale italiana

    Banca d’Italia non ha dubbi: gli effetti delle mafie sull’economia sono «una delle principali determinanti della bassa crescita e dell’insoddisfacente dinamica della produttività nel nostro paese». Basti pensare che proprio Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia hanno registrato negli ultimi 50 anni una crescita dell’occupazione e del valore aggiunto più bassa. Un effetto, questo, connesso alle distorsioni nel funzionamento del mercato: «La corruzione e/o l’uso del potere coercitivo sono in grado di condizionare i politici locali e distorcere l’allocazione delle risorse pubbliche; d’altro canto, l’infiltrazione nel tessuto produttivo distorce la competizione nel settore privato, con le imprese mafiose in grado di conquistare quote di mercato significative sfruttando una maggiore disponibilità di risorse economiche, la maggiore propensione a eludere le regole e, non ultimo, il potere coercitivo».

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    La facciata di Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia

    Come uscirne? Non esistono ricette semplici. Banca d’Italia una sua idea, però, la ha: «La misurazione e comprensione del fenomeno mafioso, l’analisi delle determinanti e degli effetti della presenza della criminalità organizzata e un’efficace azione di contrasto richiedono infatti dati granulari e la possibilità di incrociare e integrare, attraverso opportune chiavi identificative, più fonti informative. Ne gioverebbero sia la comunità scientifica, con la possibilità di spostare più avanti la frontiera della conoscenza, sia le autorità investigative che potrebbero sfruttare tali risultati per rendere più efficace la loro attività di contrasto».

  • Disoccupazione: in Calabria cresce ovunque tranne a Vibo

    Disoccupazione: in Calabria cresce ovunque tranne a Vibo

    In Calabria rispetto al 2022 si prevedono 4mila disoccupati in più, di cui circa la metà – complice una popolazione maggiore – in provincia di Cosenza. A calcolarlo è uno studio della Cgia di Mestre, sulla base di una elaborazione dei dati Istat e delle previsioni Prometeia. Secondo l’analisi, in tutta Italia saranno circa 63mila in più le persone senza lavoro rispetto all’anno precedente. E poco importa che negli ultimi mesi lo stesso Istat abbia reso noto che lo scorso mese di ottobre l’occupazione ha toccato il record storico. Il dato in questione, infatti, è alterato in positivo dai rientri in massa di parecchi cassaintegrati il cui futuro resta tutto meno che roseo. Quanto ai nuovi contratti, tantissimi sono a tempo determinato.

    Disoccupazione: chi sale e chi scende

    Nel 2023 il tasso di disoccupazione è destinato a salire all’8,4%. Il dato torna ad allinearsi con quello del 2011, anno che ha anticipato la crisi del debito: il numero complessivo dei disoccupati, infatti, nel 2023 sfiorerà la quota di due milioni e 120mila persone. In termini assoluti, le situazioni più critiche si verificheranno nel Centro-Sud, ossia in quei territori dove il livello di fragilità occupazionale era già molto preoccupante. Le province più in sofferenza saranno quelle di Napoli, Roma, Caserta, Latina, Frosinone, Bari, Messina, Catania e Siracusa. Ma l’aumento della disoccupazione non sarà omogeneo: in una trentina di province italiane su 107, anzi, il numero di disoccupati dovrebbe, seppur di poco in molti casi, ridursi.disoccupazione-calabria-italia

    Disoccupazione: i dati della Calabria per il 2023

    E così, accanto alle criticità di gran parte del territorio calabrese, si scopre che la provincia di Vibo rientra invece tra quelle virtuose. Ma entriamo nei dettagli: in regione, secondo lo studio i disoccupati passeranno da 88.226 e 92.247. Aumenterà, dunque, di 4.021 unità il numero di persone che perderanno il lavoro, il 4,6% in più rispetto al 2022.
    La maglia nera della disoccupazione in Calabria se l’aggiudica Cosenza. La Cgia prevede che lì saranno 1883 (+5,3%) i disoccupati in più, undicesima provincia in Italia per aumento di persone che si ritroveranno senza un impiego nell’anno in corso. Sembrerebbe andar meglio a Catanzaro, Reggio Calabria e Crotone, dove i nuovi disoccupati saranno, nell’ordine, 1.019, 445 e 712. In realtà, rispetto alla popolazione di quei territori, in due casi la percentuale di disoccupati crescerà più che nel cosentino: a Catanzaro del 5,9% e a Crotone addirittura del 7,8%. A Reggio, invece, l’aumento si limita a un +2,2%. Le proiezioni della Cgia sembrerebbero, al contrario, fare di Vibo e provincia una micro isola felice, con 38 persone in più a lavorare rispetto a dodici mesi prima. Disoccupazione, quindi, in calo dello 0,6%, in controtendenza rispetto al resto della Calabria.disoccupazione-regioni-2023

    I settori più in difficoltà

    Non è facile stabilire in questo momento i settori che nel 2023 registreranno le maggiori riduzioni di lavoratori. Con ogni probabilità, su scala nazionale a soffrire di più saranno i comparti manifatturieri, specie quelli energivori e più legati alla domanda interna. Al contrario, dovrebbero subire meno contraccolpi occupazionali le imprese più attive nei mercati globali. Tra di esse, quelle che operano nella metalmeccanica, nei macchinari, nell’alimentare-bevande e nell’alta moda. La sensazione tra addetti ai lavori ed esperti è che altre difficoltà interesseranno i trasporti e la filiera automobilistica. Senza dimenticare l’edilizia, che rischia di trascinare tantissimi nel caos figlio delle modifiche legislative al superbonus.

    Le conclusioni dello studio sulla disoccupazione

    Fatta eccezione per i dipendenti pubblici, la crisi colpirà a 360 gradi. A farne le spese, in particolare, il popolo delle partite IVA, lavoratori che non beneficiano nemmeno di strumenti di tutela quali la CIG o la Naspi in caso di stop delle loro attività. Il tutto in un contesto come quello calabrese, dove anche chi uno stipendio lo ha deve fare i salti mortali per arrivare a fine mese.
    Tra negozi che chiudono ovunque, «il rischio di mettere a repentaglio la coesione sociale del Paese è molto forte», si legge nel report. Centri storici e periferie continuano a svuotarsi, la qualità della vita in questi quartieri peggiora. Ma non c’è solo il commercio a piangere, secondo la Cgia: «Meno visibili, ma altrettanto preoccupanti, sono le chiusure che hanno interessato anche i liberi professionisti, gli avvocati, i commercialisti e i consulenti che svolgevano la propria attività in uffici/studi ubicati all’interno di un condominio». E la moria di attività non dà scampo nemmeno ai centri commerciali e alla grande distribuzione organizzata (Gdo): «Non sono poche le aree commerciali al chiuso che presentano intere sezioni dell’immobile precluse al pubblico, perché le attività presenti precedentemente hanno abbassato definitivamente le saracinesche».

  • Stipendi da fame: Calabria ultima anche nelle buste paga

    Stipendi da fame: Calabria ultima anche nelle buste paga

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    Gli stipendi in Calabria sono in media circa la metà del resto del Paese. E c’è di peggio: tutte e cinque le province della nostra regione sono al di sotto della soglia del reddito di cittadinanza (9.360 euro all’anno), a dispetto di una piccola crescita.

    Stipendi in Calabria: i dati del centro Tagliacarne

    Il centro studi delle camere di commercio “Guglielmo Tagliacarne” di Novara ha analizzato gli stipendi da lavoro dipendente in tutte le 107 province italiane.
    La media pro capite negli anni dal 2019 al 2021 è risultata 12.473 euro annui. Questi dati, ovviamente, riguardano solo i lavoratori, nel pubblico o nel privato.
    Non sono, quindi, considerate le partite iva e non si tiene conto del lavoro “nero”.
    Le province calabresi sono tutte abbondantemente sotto la media.

    La sede dell’Ispettorato del lavoro di Cosenza

    La provincia messa meglio è quella di Catanzaro, al 68esimo posto con un reddito medio pro capite annuo di 8.445,54 euro.
    Al 73esimo posto c’è la provincia di Crotone con 7.982,50 euro. Segue Cosenza all’88esimo posto con 6.708,28 euro. Subito dopo, all’89esimo posto, c’è Vibo Valentia con 6.696,23 euro e infine, al 95esimo posto, si piazza Reggio Calabria con 6.591,84 euro.

    Una magra consolazione

    C’è una sola nota positiva: le 5 province calabresi non rientrano tra le 22 che hanno avuto diminuzioni dei redditi. Al contrario, risultano piccoli aumenti,
    Una magra consolazione per una situazione che resta molto critica.
    Ma i numeri raccontano anche altro, oltre alle evidenti difficoltà.
    La classifica nazionale, infatti, ha Milano al primo posto con i suoi 30mila euro medi annui pro capite e chiude con Rieti con 3.317 euro. L’incremento medio è del 2,5% in totale.

    La classifica nazionale

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    Gaetano Fausto Esposito, il direttore generale del centro “Tagliacarne”

    Scrive Gaetano Fausto Esposito, direttore generale del centro “Tagliacarne”: «L’analisi dimostra che la geografia delle retribuzioni è diversificata territorialmente, e sotto vari aspetti non rispetta la tradizionale dicotomia Nord-Sud».
    E aggiunge: «Se confrontiamo la graduatoria del pil pro capite (che misura la produzione della ricchezza) con quella delle retribuzioni, vediamo che nel primo caso praticamente tutte le ultime trenta posizioni sono appannaggio di province meridionali (con la sola eccezione di Rieti), mentre in quella delle retribuzioni pro-capite troviamo ben 10 province del Centro-Nord, il che induce a riflettere sulle politiche dei redditi a livello locale».

    I dati della Calabria: stipendi senza dignità

    Le buste paga dei calabresi non solo sono “leggere” (circa la metà della media nazionale), ma sono al di sotto della dignità. Soprattutto, come già detto, inferiori al tetto massimo del reddito di cittadinanza.
    C’è dell’altro: nel pubblico le buste paga sono più o meno uguali dappertutto, quindi è chiaro che ad abbassare la media sono i privati. E dato che la media pro capite mensile che emerge dalla classifica in Calabria va da 550 a 800 euro circa è più che evidente che esistono migliaia di persone che forse non riescono ad arrivare nemmeno a metà mese. Inoltre significa che, in tanti altri casi, potrebbero esserci quote di stipendio “in nero”.
    La fotografia è chiara e impietosa.
    Inutile aggiungere che tutto questo influisce molto anche sull’emigrazione incessante dalla Calabria verso il centro nord del Paese. Da noi bisognerebbe fornire risposte molto più forti e concrete: la situazione attuale è divenuta insostenibile e da tutti i punti di vista…

  • Droga: testa a testa tra Calabria e Sardegna

    Droga: testa a testa tra Calabria e Sardegna

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    Cocaina: è l’ennesimo record di una certa Calabria. Se positivo o meno, dipende dai punti di vista. Le Forze dell’ordine hanno sequestrato, da noi, oltre una tonnellata di polvere bianca ogni 100mila abitanti di età tra i 15 e i 74 anni. In pratica, il 68% del mercato totale italiano. Questi, almeno sono i dati della Dcsa (Direzione centrale servizi antidroga).

    Calabria vs Sardegna: una sfida tossica

    Calabria e Sardegna si tallonano per il primato assoluto nelle varie classifiche nazionali sugli stupefacenti.
    Infatti, la Sardegna è risultata prima per tonnellate di droga sequestrate in un anno e la Calabria seconda. Ma per la cocaina, evidentemente, il porto di Gioia Tauro fa la differenza, quindi le parti si invertono.
    I dati dettagliatissimi emergono dall’ultima relazione al Parlamento (2022) sulle tossicodipendenze, che fotografa un fenomeno in continuo movimento.

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    Il porto di Gioia Tauro

    Cocaina e Calabria: il dossier del Governo

    Il dossier, a cura della Presidenza del Consiglio dei ministri, prende spunto principalmente dal report annuale della Dcsa e ne integra i risultati con altri documenti che coinvolgono i principali Ministeri (interno, giustizia e salute), tutti gli enti locali, l’Istat, l’istituto superiore di sanità, il Cnr e altre organizzazioni.
    È quindi il dossier italiano più completo in materia di droghe.
    La Direzione centrale per i servizi antidroga è l’ufficio nazionale del Viminale attraverso il quale il capo della polizia assicura, in base alle direttive del ministro dell’Interno, il coordinamento dei servizi di polizia per la prevenzione e repressione del traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope.
    È un organo interforze, costituito in maniera paritetica dalla Polizia, dall’Arma dei carabinieri e dalla Guardia di finanza.

    Droghe: tutti i numeri

    Il 34,1% delle quantità di droghe sequestrate è nelle isole, prevalentemente in Sardegna (kg 23.676, pari al 28% del totale).
    Il 26,8% e il 25,6%, invece, circola, rispettivamente al Sud e al Nord del Paese, in particolare in Calabria e Lombardia. Infine, il 13,4% gira nelle regioni centrali, soprattutto in Lazio.
    I quantitativi di stupefacenti sequestrati, corrispondono, in rapporto alla popolazione residente, a oltre 190 kg ogni 100.000 residenti di 15-74 anni, con valori che in Calabria superano i 1.000 kg per 100.000 residenti di pari età e in Sardegna raggiungono quasi i 2.000 kg.
    In Calabria sono 15,7 le tonnellate di droghe sequestrate nell’ultimo anno monitorato, (2021), in Sardegna 23. Segue la Lombardia con 12 e il Lazio con 7.

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    La sede della Dsca

    Cocaina: Calabria superstar

    Se si analizzano solo i dati della cocaina il discorso cambia e la Calabria è prima assoluta.
    Il 68% della polvere bianca sequestrata (circa 13,6 tonnellate) è stata intercettata in Calabria. Ma tutto lascia pensare che le Forze dell’ordine hanno trovato solo una parte della coca che circola, in Calabria come altrove.
    I sequestri di cocaina, effettuati presso le frontiere marittime, si riferiscono agli interventi nelle aree portuali del versante occidentale.
    Dal porto di Gioia Tauro, che incide per il 97,5% (13.364,94 kg), proviene la maggior quantità di cocaina. Seguono quelli di Vado Ligure (Savona) (138,29 kg) e di Livorno (kg 118,53).

    Isole e Sud al top

    Al Sud e nelle Isole sono state intercettate grandi quantità di cocaina. Al Nord, invece, le Forze dell’ordine hanno trovato quantità più contenute, legate prevalentemente al mercato dello spaccio.
    In rapporto alla popolazione, in Italia sono stati sequestrati kg 45,3 di cocaina ogni 100.000 residenti di 15-74 anni, valore che in Calabria raggiunge quasi kg 1.000 ogni 100.000 residenti di pari età. Il dato calabrese è più che evidente, quindi, su 15 tonnellate di droga sequestrate, 13 sono di cocaina.

    Un sequestro di droga

    La cocaina dalla Calabria all’Europa

    Il consumo di coca in Europa cresce costantemente, come ha affermato di recente l’Osservatorio europeo sulla droga.
    Va da sé: quando si parla di cocaina si parla di ‘ndrangheta. Ovviamente e non esistono altri canali di approvvigionamento, a differenza delle altre droghe, se non quelli che passano attraverso la criminalità organizzata, soprattutto calabrese, che ha la capacità di trattare direttamente con i cartelli sudamericani rispetto alle altre organizzazioni. Repressione e prevenzione non bastano mai.

  • Donazione di organi, Calabria ultima regione d’Italia per l’ISS

    Donazione di organi, Calabria ultima regione d’Italia per l’ISS

    I trapianti di organi sono in aumento del 10%, nell’ultimo anno monitorato dal ministero della Salute (2021) e i dati sono in leggera crescita anche nelle previsioni per il 2022, ma per queste tipologie di interventi chirurgici servono donatori. E per le donazioni di organi la Calabria, purtroppo, è l’ultima regione italiana per numero di persone che aderiscono a questa prassi.

    Donazione organi: Rovito, Rose e Tiriolo i comuni più generosi in Calabria

    La classifica vede al primo posto la Toscana, per quanto riguarda le regioni. Per i Comuni quelli più virtuosi sono Trento e Geraci Siculo (in provincia di Palermo) che condividono la prima posizione. Ad ogni modo, e a prescindere dalle motivazioni, invece, è il comune di Rovito, in provincia di Cosenza, quello più generoso della Calabria per quanto riguarda la donazione di organi. Al secondo posto c’è un altro comune cosentino, quello di Rose, mentre al terzo posto c’è Tiriolo in provincia di Catanzaro.

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    Rovito (CS)

    Il dato arriva dall’ultima edizione dell’Indice del Dono, il rapporto realizzato dal Centro nazionale trapianti dell’Istituto superiore di sanità. Il documento mette in fila i numeri delle dichiarazioni di volontà alla donazione di organi e tessuti registrate nel 2021 all’atto dell’emissione della carta d’identità nelle anagrafi dei 6.845 Comuni italiani in cui il servizio è attivo. Il prossimo indice completo sarà diffuso in occasione della 26ma Giornata nazionale della donazione degli organi che dovrebbe svolgersi il 24 aprile.

    I numeri del dossier del Centro nazionale trapianti

    Il dossier è espresso in centesimi, elaborato tenendo conto di alcuni indicatori come la percentuale dei consensi, quella delle astensioni e il numero dei documenti emessi. Rovito ha raggiunto un indice di 75,69/100, grazie a un tasso di consensi dell’91,6% e a un’astensione ferma al 44%. Tra le province, Vibo Valentia è la migliore delle calabresi, 84° su 107 a livello nazionale, seguono Catanzaro (88°), Cosenza (91°), Reggio Calabria (103°) e Crotone (105°).

    Complessivamente la Calabria è risultata 21° e ultima tra le regioni italiane, con un indice del dono di 51,19/100 (consensi alla donazione: 60,1%), sotto la media nazionale che nel 2021 si è attestata a quota 59,23/100 (consensi 68,9%).
    I risultati sono in crescita rispetto allo scorso anno. Forse una campagna di sensibilizzazione e di pubblicità sull’argomento, però, potrebbe essere utile in Calabria per aumentare il numero di donatori.

     

  • Calatruria, la strada dei fuochi e i veleni della ‘ndrangheta in Toscana

    Calatruria, la strada dei fuochi e i veleni della ‘ndrangheta in Toscana

    Dodici persone dovranno comparire davanti al giudice per le indagini preliminari di Firenze il prossimo 4 aprile.  L’accusa, a vario livello e titolo, è di aver interrato rifiuti tossici provenienti dalle concerie del Pisano in alcune strade provinciali della Toscana. In particolare, nella Sp 429 che è di fatto stata ribattezzata “la strada dei fuochi” nel processo Calatruria.
    Dei dodici sono nove quelli nati in Calabria: Domenico Vitale; Bruno Vitale; Nicola Chiefari; Ambrogio Chiefari; Antonio Chiefari; Nicola Verdiglione; Pasquale Barillaro; Rocco Bombardiere; Francesco Lerose. Gli altri tre sono Graziano Cantini (nato a Vicchio), Luca Capoccia (nato a Bagno a Ripoli) e Massimo Melucci (nato a Caserta).

    Politici e ‘ndrine nel mirino della Dda

    La Dda di Firenze ha chiuso le indagini, sempre a novembre scorso, e chiesto il rinvio a giudizio anche per altre 26 persone nel processo originario denominato Keu, dal nome del materiale di risulta delle concerie. I due procedimenti fanno parte di una maxi inchiesta unica, iniziata nel 2019 e terminata nel 2021 con arresti e denunce per politici, imprenditori, amministratori e referenti dei clan calabresi di ‘ndrangheta, in particolare Gallace e Grande Aracri.

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    Uno striscione di protesta dopo la scoperta dello smaltimento illecito dei rifiuti delle concerie

    Calatruria: i conciatori e i calabresi

    Alcune ditte di movimento terra, in mano ai calabresi, avevano ottenuto – secondo l’accusa –  il mandato da alcune concerie toscane di smaltire i loro rifiuti, tossici e pericolosi, ma per risparmiare invece di seguire il normale iter si era deciso di sotterrarli, dopo averli trasformati in materiale per l’asfalto. Per gli inquirenti a organizzare il pactum sceleris sarebbero stati i conciatori, in accordo con alcuni politici e amministratori toscani, e grazie ad alcune ditte complici dei calabresi.

    Le presunte minacce e l’azienda “amica”

    I dodici del processo Calatruria dovranno difendersi, a vario titolo, dalle accuse di associazione per delinquere, illecita concorrenza ed estorsione aggravate dal metodo mafioso, corruzione, detenzione e spaccio di stupefacenti.
    Il filone d’inchiesta che coordinano il pm Eligio Paolini e il giudice Luca Tescaroli (il magistrato che sta indagando sulle stragi di mafia del ’93 e sui mandanti esterni) riguarda la presunta estromissione di un imprenditore dai lavori di movimento terra nel cantiere del lotto V della strada provinciale toscana 429. Soggetti vicini alla cosca Gallace e ai “fratelli” Grande Aracri avrebbero minacciato l’uomo per far subentrare un’azienda “amica” dei clan.

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    Luca Tescaroli

    Calatruria, cromo e arsenico

    Successivamente, sempre secondo la Dda, i rifiuti sono finiti nell’asfalto di alcune strade provinciali della Toscana. A quel punto la Dda ha chiesto ad Arpat (l’Agenzia regionale per l’ambiente della Toscana) di mettere in sicurezza i siti coinvolti nell’inchiesta per poi stabilire cosa fosse successo all’ambiente. Ma non si tratta di una situazione definitiva perché potrebbero manifestarsi mutamenti nel medio e lungo periodo. Mutamenti che potrebbero essere determinati anche da carenze di manutenzione del manto stradale o da altri elementi.

    Per questo il dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa sta conducendo uno studio proprio su incarico di Arpat e Regione Toscana. Il problema sono le sostanze che vengono fuori dal Keu, in particolare cromo esavalente e arsenico, che sono tra i principali materiali di scarto di chi lavora il cuoio. Dopo la messa in sicurezza nei giorni scorsi sono partite anche le bonifiche delle strade toscane coinvolte.

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    Un’immagine dell’inchiesta toscana

    La strada dei fuochi

    Nei giorni scorsi sono partite le bonifiche delle strade mentre la messa in sicurezza di emergenza era stata effettuata già lo scorso anno nei tratti dove la Dda ha ritenuto potesse essere presente materiale di risulta contenente Keu. E si parla di centinaia di tonnellate. Il tratto di strada “incriminato” è lungo circa 300 metri, ma bisogna capire bene dove sia finito il Keu: sotto l’asfalto, inglobato nel cemento armato o anche in altri punti?
    La Regione Toscana è già all’opera ma sarà lo studio scientifico dell’Università di Pisa i cui risultati dovrebbero arrivare a inizio estate prossima a fare luce sul tipo di inquinanti eventualmente presenti.

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  • Corruzione: per il Viminale solo il Molise peggio della Calabria

    Corruzione: per il Viminale solo il Molise peggio della Calabria

    Reati corruttivi, la Calabria seconda regione in Italia per denunce e reati commessi secondo il report del Viminale relativo al 2022. Parlando del fenomeno sarebbe, ovviamente, riduttivo analizzare solo lo specifico delitto definito dal legislatore come “corruzione”. Come spiegano gli esperti del Viminale, meglio fare riferimento ad una pluralità di reati che vengono considerati come espressione di atti corruttivi o, comunque, rientranti nel concetto della corruzione.

    Non solo corruzione: le 4 categorie nel report

    Il dossier del ministero dell’Interno, a cura del Servizio analisi criminale, ha preso in considerazione dodici fattispecie di reato che ruotano intorno a 4 aree principali: corruzione, abuso d’ufficio, peculato e concussione.  Il Servizio analisi criminale elabora studi e ricerche sulle tecniche di analisi, sviluppa progetti integrati interforze. Utilizza inoltre gli archivi elettronici di polizia e li pone in correlazione con altre banche dati. Monitora, infine, i tentativi di infiltrazione mafiosa nelle procedure di appalto di lavori attinenti la realizzazione di grandi opere, grandi eventi, attività di ricostruzione e riqualificazione del territorio.

    Corruzione et similia: la Calabria ai vertici nazionali

    L’analisi prende in considerazione un periodo di tempo ampio, che va dal 2004 al 2021. La media nazionale di reati corruttivi commessi ogni 100mila abitanti è pari a 10,03. La Calabria ne registra più del doppio – 23,32 – e nella classifica generale si piazza così al secondo posto. Peggio fa solo il Molise, mentre dal gradino più basso del podio in giù troviamo Basilicata, Lazio e Campania.

    Anche nelle sottoclassifiche la Calabria tiene purtroppo alto il suo nomignolo, risultando sempre ai primi posti (in negativo). Nel capitolo concussione (articoli 317, 319 quater del codice penale) la Calabria è terza, dietro a Basilicata e Campania. In quello che si riferisce alla corruzione (articoli 318, 319, 319 ter, 320, 321, 322, 346 bis, del codice penale) la Calabria risulta terza, dietro a Molise e Umbria. Per quanto riguarda il peculato (articoli 314, 316 del codice penale) la regione Calabria è quinta, dietro a Molise, Toscana, Sicilia e Lazio. E infine per l’abuso di ufficio (articolo 323 del codice penale) la Calabria è seconda, dietro alla Basilicata. I dati si riferiscono, come detto, a reati e denunce per ogni 100mila abitanti monitorati.

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    Numero di delitti commessi e segnalazioni riferite a persone denunciate e/o arrestate nella regione Calabria in violazione delle norme contro la Pubblica Amministrazione previste dal Codice Penale

    Qualcosa di positivo c’è

    Ci si può consolare, forse, con le conclusioni del report. Secondo lo studio del Viminale – salvo il peculato e l’abuso d’ufficio, sostanzialmente stabili da quasi vent’anni –  siamo di fronte a «una generale tendenza alla diminuzione della specifica delittuosità». Certo, «tali risultanze non possono essere considerate definitive», anche perché non si può sottovalutare la «indubbia rilevanza della parte sommersa del fenomeno». Ma resta comunque un «andamento tendenzialmente decrescente nel tempo per i vari indicatori».
    La strada verso tassi di legalità maggiori, in Calabria più che altrove, appare ancora lunga e complessa, insomma, ma qualche segnale positivo c’è.

  • Disabilità e inclusione: una rivoluzione tutta calabrese

    Disabilità e inclusione: una rivoluzione tutta calabrese

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    Quante difficoltà devono affrontare i disabili e i loro familiari? E in Italia quanti diritti effettivi godono?
    Forse proprio la Calabria ha iniziato una piccola rivoluzione che, a partire da alcune situazioni critiche, potrebbe dare il via a una nuova epoca. Certo, la situazione non è rosea, a partire dai progetti individuali. Da noi, infatti esistono ritardi nell’applicazione della legge 328 del 2000. Le previsioni di questa normativa ora sono incluse nei fondi del Pnrr.

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    La sede regionale del Tar

    Tar e disabilità

    La magistratura ha dovuto dare la classica “strigliata” al sistema.
    Infatti, il Tar di Catanzaro ha dato una risposta a due famiglie annullando le note dei Comuni di Vibo Valentia e di Lamezia Terme.
    Un record, in questa materia delicata, grazie al quale i nostri giudici amministrativi tallonano le decisioni pionieristiche di Aosta e Catania.
    Nello specifico, parliamo dei genitori di due minori che nel 2019 avevano chiesto ai propri Comuni di adottare i progetti individuali per disabili. Questi progetti devono essere inoltrati dal Comune, in sinergia con l’Azienda sanitaria territoriale, per attingere ai fondi regionali.

    Vibo e Lamezia: due realtà nel mirino

    Vibo e Lamezia e le rispettive Asp avevano provato a sottrarsi. Ma il Tar di Catanzaro ha deciso altrimenti e ha ordinato a Comuni e Asp di concludere entro 90 giorni il procedimento.
    Queste due sentenze, tra le prime in Italia, sono finite in molti siti web specializzati in Sanità o di legali esperti in materia. I giudici hanno stabilito che i diritti dei disabili sono esigibili, quindi devono avere risposta immediata, pena la condanna.
    La Calabria sarà pure indietro nella tutela dei disabili, ma forse la magistratura è avanti. E ha qualche potere particolare: ad esempio, quello di nominare commissari ad acta. Insomma, non si scherza più.

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    Barriera architettonica a Vibo

    Io autentico: una onlus in lotta per i disabili

    La onlus “Io autentico” di Vibo, in prima linea nella tutela degli autistici, ha fatto il punto sui progetti per disabili. «Abbiamo avviato da tempo un intenso lavoro di sollecitazione e di affiancamento con diversi enti locali e sanitari, oltre che con la Regione. Abbiamo partecipato attivamente alla stesura del piano sociale regionale 2020-2022 della Calabria, Ciò non è tuttavia bastato fino a che il Tar quest’anno non è intervenuto contro Vibo e poi quello di Lamezia».

    Disabili: Vibo fila ma l’Asp arranca

    Da allora, il Comune di Vibo Valentia, vanta un primato: «È stato il primo in Calabria ad avviare la predisposizione e la realizzazione dei progetti di vita in modo sistematico col coinvolgimento dell’Asp. Finora, nel Vibonese sono attivi sessantatré progetti per disabili».
    E c’è di più: «l’Ambito territoriale sanitario di Vibo Valentia (16 Comuni) è quello più attivo. E non va male l’Ats di Spilinga, che comprende altri 17 Comuni. L’Asp di Vibo registra forti ritardi, difficoltà e inadempienze nei confronti del Comune, nonostante un protocollo operativo firmato proprio con l’ente comunale, nella gestione della progettazione, per carenza di professionisti».

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    L’Asp di Vibo Valentia

    Bene Cosenza, male Reggio, peggio Crotone

    Nel resto della Calabria, si segnala la provincia di Cosenza, dove sono in corso progetti nei Comuni di Rende, San Giovanni in Fiore, Praia a Mare e Scalea.
    A Catanzaro, invece, c’è da star certi che la recente sentenza del Tar contro Lamezia velocizzerà i procedimenti.
    La situazione resta difficile a Reggio, dove “Io autentico” era intervenuta in audizione lo scorso luglio presso la Commissione pari opportunità del capoluogo per avviare una collaborazione per le numerose istanze pendenti che tuttora, però, restano tali.
    Perciò «nei confronti del Comune di Reggio Calabria è pendente un ricorso al Tar contro il silenzio-inadempimento. La provincia di Crotone, purtroppo, non è pervenuta».

    Cosa prevede la legge del 2000

    La legge n. 328 del 2000 (legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali) prevede che, ai fini della piena integrazione scolastica, lavorativa, sociale e familiare, si predisponga un progetto individuale per ogni soggetto con disabilità psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva. Attraverso i progetti si creano percorsi personalizzati per massimizzare i benefici.
    Al riguardo, si legge sul sito web dell’Anffas (Associazione nazionale famiglie di persone con disabilità intellettiva e/o relazionale): «Nello specifico, il Comune deve predisporre, d’intesa con la Asl, un progetto individuale, indicando i vari interventi sanitari, socio-sanitari e socio-assistenziali di necessita per la persona con disabilità, nonché le modalità di una loro interazione».

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    Un mezzo dell’Anffas

    Un diritto blindato

    Attraverso tale innovativo approccio si guarda al disabile non più come ad un semplice utente di singoli servizi. Ma lo si considera «una persona con le sue esigenze, i suoi interessi e le sue potenzialità da alimentare e promuovere».
    Il progetto individuale, infatti, «è un atto di pianificazione che si articola nel tempo e sulla cui base le Istituzioni, la persona, la famiglia e la stessa comunità territoriale possono/devono cercare di creare le condizioni affinché quegli interventi, quei servizi e quelle azioni positive si possano effettivamente compiere».
    L’importanza e la centralità della redazione del progetto individuale è oggi ampiamente ribadita dal primo e dal secondo programma biennale d’azione sulla disabilità approvati dal Governo, che ne prevedono la piena attuazione, quale diritto soggettivo perfetto e quindi pienamente esigibile.

    Assistenza ai disabili

    Questo diritto è ancorato allo stesso percorso di certificazione ed accertamento delle disabilità ed è identificato quale strumento per l’esercizio del diritto alla vita indipendente ed all’inclusione nella comunità per tutte le persone con disabilità. Come previsto, in particolare, dalla convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità)».

    La buona scuola

    Oggi, la legge 112 del 2016 (disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive di sostegno familiare, nota come legge sul durante e dopo di noi) individua proprio nella redazione del progetto individuale il punto di partenza per l’attivazione dei percorsi previsti dalla stessa.
    La redazione del progetto individuale per le persone con disabilità è ulteriormente ripresa anche dalla riforma della “buona scuola” del 2015.

    Il progetto individuale comprende vari aspetti. Innanzitutto, il profilo di funzionamento. Poi le cure e la riabilitazione a carico del Servizio sanitario nazionale. Inoltre, include il piano educativo individualizzato a cura delle scuole. Il Comune fa la sua parte, direttamente o tramite accreditamento, coi servizi alla persona. La strada è lunga ma proprio dalla Calabria è partita l’ennesima battaglia per il pieno riconoscimento di tutti i diritti già previsti dalla normativa per i disabili e per i loro familiari.

  • Travolto da un pirata, giustizia dopo vent’anni

    Travolto da un pirata, giustizia dopo vent’anni

    Giustizia lumaca, pirata della strada, incidente e lesioni gravissime (e in parte permanenti), sofferenza, sacrifici, coraggio, perseveranza. Poi il lieto fine, seppur in enorme ritardo. Un giovane calabrese ha impiegato oltre vent’anni per avere il risarcimento che gli spettava. Ora, finalmente, la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro che ha chiuso la fase di merito del contenzioso civile: oltre 500mila euro il risarcimento per lui e oltre 80mila quello per sua madre. Tutti per un terribile incidente stradale di cui era rimasto vittima per colpa di un pirata della strada nel lontano 2002.

    Un caso da record perfino per l’Italia

    A volte la giustizia è veramente lenta, specialmente quella civile. Secondo i dati Cepej del Consiglio d’Europa, nel 2019, quella italiana è stata la più lenta di tutti gli altri Paesi membri. L’andamento migliora, ma resta sempre ancora, mediamente, al di fuori della “legge Pinto”, sulla eccessiva lungaggine dei processi in Italia e per cui si può chiedere un risarcimento allo Stato. Quando si parla di processi civili, infatti, i dati riportano una durata media complessiva dell’intero giudizio pari a 2.655 giorni (più o meno sette anni e tre mesi). Non a caso la riforma della Giustizia in Italia è quasi sempre al centro del dibattito politico. Ma il caso di questo ragazzo di San Gregorio d’Ippona, nel Vibonese, batte tutti i record purtroppo.

    Il pirata della strada scappa via

    Il giovane nel 2002 si trovava a bordo del suo scooter, era spensierato come solo a 20 anni si può essere, e stava per rientrare a casa in una calda sera d’agosto. All’improvviso lo colpiva un’autovettura non identificata che stava procedendo, in fase di sorpasso, nello stesso senso di marcia a velocità sostenuta. Come emerge dalla sentenza pubblicata dalla Corte d’Appello di Catanzaro il 30 novembre scorso, il suddetto veicolo nell’impegnare una curva a sinistra ha slittato. travolgendo lo scooter.

    Il violento impatto ha sbalzato dalla sella il giovane. facendolo cadere addirittura in un dirupo sottostante in località Carreri, sulla SS 182. Dopo i primi soccorsi da parte di alcuni automobilisti e di un pastore del luogo, il ragazzo è stato trasportato in auto al Pronto soccorso dell’ospedale di Vibo Valentia. Poi lo hanno trasferito d’urgenza nel reparto di neurologia dell’ospedale Annunziata di Cosenza. Lì i medici gli hanno diagnosticato una «tetraplegia c3 e c4 ed insufficienza respiratoria da trauma midollare».

    Odissea tra ospedale e tribunali

    Per tali lesioni il ragazzo è rimasto in ospedale 560 giorni di fila. Della macchina che lo aveva travolto, però, nessuna traccia. Chi guidava quell’auto è scappato via senza prestargli soccorso ed è tuttora ignoto. E qui all’odissea ospedaliera del ragazzo e sua madre si è aggiunta un’altra infinita battaglia contro la Giustizia, terminata solo nei giorni scorsi dopo oltre 20 anni.

    Il tribunale di Vibo in primo grado rigetta il ricorso contro il Fondo per le vittime della strada, a cui aveva richiesto il risarcimento per i danni subiti non conoscendo il nome di chi lo aveva investito stravolgendogli la vita. Era il 2019, la causa era iniziata nel 2012. Oltre al danno, la beffa. Ma il ragazzo, la madre e l’avvocato Francesco Damiano Muzzopappa non si sono arresi. E hanno proposto appello avverso quella sentenza, ritenendola assurda. Finalmente lo spiraglio di luce, per quanto tardivo, è arrivato nei giorni scorsi. Lapidari i giudici di secondo grado, Ferriero, Raschellà e Scalera. Si legge infatti in sentenza: «Il Tribunale di primo grado muove da premesse erronee e perviene a conclusioni altrettanto erronee».

    Il pirata della strada è sparito? Paga il Fondo

    Altri tre anni di udienze, perizie mediche e tecniche, testimonianze. Infine, le parole tanto attese: «La Corte d’Appello condanna l’assicurazione del Fondo di garanzia per le vittime della strada a pagare al ragazzo la somma totale di 530mila euro a titolo di danno biologico permanente e di 27mila euro a titolo di invalidità temporanea oltre interessi legali; condanna l’assicurazione al pagamento nei confronti della madre del ragazzo a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale della somma di 81mila euro oltre interessi». I giudici di secondo grado hanno anche condannato l’assicurazione al doppio delle spese legali e di giudizio, per circa 50mila euro.
    Meglio tardi che mai, ma è una magra consolazione.