Autore: Silvio Nocera

  • GENTE IN ASPROMONTE | Il maiale sulla tavola reale dei Windsor

    GENTE IN ASPROMONTE | Il maiale sulla tavola reale dei Windsor

    Questa tappa di Gente in Aspromonte riguarda medie valli, allevamenti, suini, cooperative, testardaggine e riscatto dalla marginalità. Ne sono venuto a conoscenza da un intreccio di contatti passato per la Toscana e rimbalzato a Reggio Calabria. Capito di cosa si trattasse, ho creduto che la storia che segue dovesse essere raccontata. Perché è l’emblema di come l’impegno sociale, la cultura imprenditoriale, il riscatto dalla marginalità e le convergenze possano creare occasioni di sviluppo. Anzi, di sviluppo da una rinascita. Da un ritorno.

    nero-aspromonte-maiale-tavola-reali-inghilterra
    La cooperativa Maiale nero d’Aspromonte al gran completo

    Lungo la Statale 106

    L’appuntamento con i suoi protagonisti è ad Ardore Marina, a due passi da Locri, una novantina di km da Reggio da attraversare sulla SS 106. Dalla città, imboccando la litoranea, ci si tuffa in un percorso sospeso tra mare e monti verso sud. Oltrepassa promontori, scavalca scogliere, si incunea snodandosi tra i bianchi calanchi fino a gettarsi tra le gallerie della nuova superstrada. In primavera si aprono vallate aggredite e inondate dalla ginestra, dove, a volte, la macchia mediterranea è stata usurpata dall’impianto di eucalipti. Superata Palizzi, la nuova pedemontana sfuma sulla vecchia litoranea tra pinete, canneti e abusivismo edilizio. Il viaggio sulla SS 106 verso la Locride ha sempre il suo effetto: il filmato di un eterno conflitto, quella strana commistione dove l’arcaico si mischia al tempo immobile di una provincia che ruota intorno a un bar, a una cattedrale, a qualche esercizio commerciale; una provincia sfregiata dal cemento, dall’isolamento e da una sorta di determinismo ineluttabile a cui pare si nasca già inchinati.

    Maiali alllevati in semilibertà

    Il maiale nero allevato in semilibertà

    Arrivo ad Ardore alle 10 di un mattino che odora di pioggia. Mi aspettano in piazza Piero Schirripa e Attilio Cordì, fondatori della Coop Maiale Nero d’Aspromonte. Piero e Attilio hanno due passati molto diversi alle spalle, per formazione, retroterra familiare, percorsi di vita. Entrambi hanno lasciato qualcosa e trovato qualcos’altro in un’odierna comunione di intenti che li ha resi compagni per sorte, impegno e passioni. Parcheggio e me li trovo davanti. Il primo vestito da caccia, lo sguardo acuto dietro gli occhiali, e il secondo con la sua cartellina in mano e gli scarponi da montagna ai piedi. Un caffè al volo e ci spostiamo a Baracalli, verso l’allevamento di Fortunato Sollazzo, uno dei 18 che sono parte della loro cooperativa.

    nero-aspromonte-maiale-tavola-reali-inghilterra
    Fortunato Sollazzo fa parte della cooperativa Maiale nero d’Aspromonte

    Contrada Baracalli è una frazione del Comune di Benestare. Siamo a 400 metri sul livello del mare, nella media valle del comprensorio. Dall’alto, dove ci fermiamo a scattare qualche fotografia, l’allevamento si confonde tra la vegetazione. Attilio mi affianca e punta il dito davanti a me ad indicare qualcosa: «Lo vedi quel verro che corre?». Aguzzo la vista e, in corrispondenza al suo dito, noto una macchia scura che si aggira sulle pendici dei monti. «I nostri allevamenti seguono questi standard: la sostenibilità, il benessere animale, la semilibertà. Andiamo che ti presento Fortunato».

    Benedetta da Dio

    Quasi cinquantino, Fortunato è un tecnico installatore e un allevatore restato per passione: «Benvenuto!» Parte il secondo caffè. «Viviamo in una terra benedetta e conflittuale. Siamo figli degli arabi. Baracalli è un toponimo arabo: Baraq Allah, benedetta da Dio. Per anni, finché non ci siamo insediati, questi terreni sono rimasti abbandonati. Ma qui sono nato e qui voglio restare, seminando per raccogliere i frutti del mio lavoro. La mia azienda sorge nel 2017 come allevamento della razza appulo-calabrese. Quando è nata la cooperativa ho deciso di aderirvi e di cambiare tipologia di suino. Oggi mi occupo di maiale nero d’Aspromonte».
    Fortunato, come poi Piero e Attilio, mi spiegano che si tratta di una razza unica che ha rischiato l’estinzione e che differisce dal suino nero. Questi maiali portano con loro caratteristiche organiche e nutrizionali uniche e si distinguono dagli altri per la presenza di una coppia di bargigli sotto la mandibola, ancora oggetto di studio. Probabilmente la loro funzione è di regolare la sudorazione e la temperatura corporea di animali robusti che vanno dai 100 ai 120 kg e le cui carni, particolarmente apprezzate per la produzione di prosciutti e culatelli, hanno una qualità straordinaria.

    Una lotta contro l’abbandono

    «Alleviamo il fresco, non facciamo trasformazione. La cooperativa ci aiuta a vendere sia su base locale che su base nazionale. In pochi anni abbiamo raggiunto risultati eccezionali. La tipologia di allevamento che ho realizzato progetta il futuro guardando al passato: i maiali in antichità – e la storia dell’Aspromonte ce lo insegna – era allevato al pascolo, non stallato. L’allevamento massivo provoca cariche batteriche altissime. I nostri maiali vivono in semilibertà, hanno a disposizione lo spazio vitale che occorre affinché crescano sani, robusti e seguendo un ritmo naturale. Sono partito da zero, senza supporti o sovvenzioni. Oggi ho 13 dipendenti e mi batto perché le istituzioni capiscano l’importanza del mio lavoro e di quello degli altri allevatori. Finché la montagna e la media valle non sono state abbandonate, parlo degli anni ‘60 e ‘70, la campagne venivano pulite, i torrenti controllati. Oggi è tutto all’abbandono».

    L’allevamento di Fortunato sorge su un terreno argilloso, ricco di potassio, accanto al letto di una fiumara che non ha più argini. «Voglio lottare perché il minimo indispensabile sia realizzato, perché avvenga un ripristino dell’area rurale. E non sono il solo. Ho con me gli altri allevatori».

    L’unione fa la forza? Fuori dalla Calabria

    In tutti i viaggi che ho fatto, la Cooperativa del Maiale Nero d’Aspromonte è la prima – e forse unica – coop di medie dimensioni che ho incontrato. Per uno che ha vissuto diversi anni tra Umbria ed Emilia Romagna è respirare una boccata di aria. Quello che mi sono sempre chiesto è perché il modello cooperativo in una terra priva di grandi realtà imprenditoriali e vocata ad agricoltura, allevamento e turismo non riesca, con tutti i suoi limiti, ad attecchire. Fortunato ne fa un problema culturale: «Noi calabresi siamo individualisti e conosciamo fin troppo bene i meandri dell’invidia. Due sentimenti ottusi e controproducenti che ci dispongono gli uni contro gli altri. Manca completamente la cultura dell’impresa e del lavoro, non il lavoro. Con la terra si può vivere. Anche in Calabria. Io ho difficoltà a trovare operai: quando sentono maiali e fatica si intimoriscono. Ma il nostro non è un allevamento intensivo, non esci puzzando di stalla, letame ed urina. Puoi vederlo da te. Decenni di assistenzialismo hanno prodotto il disastro culturale che abbiamo sotto gli occhi, che poi si trasforma in disastro economico e sociale. Non scordiamoci la storia dei finti braccianti agricoli. Oggi paghiamo le conseguenze, trovandoci una serie di terreni abbandonati».

    Un seconda possibilità per gli ex detenuti

    È quello che ci ha tenuto subito a precisare Piero. Perché la cooperativa viene da lontano ed è uno dei tanti progetti avviati grazie all’aiuto dell’allora arcivescovo di Locri, Giancarlo Bregantini, in prima linea per sottrarre terreno al malaffare e promuovere una nuova fioritura della Locride: un’iniziativa partita dalla ricerca di esemplari di maiale nero in Aspromonte e poi concentrata sul miglioramento della specie. La cooperativa, infatti, è nata anche con l’obiettivo di dare una nuova possibilità di vita ad ex detenuti: «Ci sono due modi per aiutare i più deboli: o fai assistenzialismo, con i gli inevitabili danni che seguono oppure dai loro una canna da pesca insegni a pescare. Noi abbiamo deciso di dare le canne da pesca agli ex detenuti. Con loro abbiamo realizzato 40 ettari di serre e un’organizzazione con venti aziende di allevamento. Aiutare significa dare una vera chance di vita, dotando di gambe per poter camminare autonomamente. Con sacrifici, spesso attingendo alle nostre tasche, abbiamo messo su attività sociali e produttive al tempo stesso, aziende che operano sul mercato. La nostra ricetta è stata prendere soggetti deboli e farli diventare forti».

    Un cammino pieno di ostacoli

    E non è stato facile, perché «abbiamo subito tre interdittive antimafia, dato che lavoravamo con gli ex detenuti della Cooperativa Valle del Buonamico. Una cosa folle. Non avevamo nulla di che temere e infatti l’abbiamo spuntata sia al Tar che al Consiglio di Stato, ma abbiamo pagato un doppio prezzo molto caro, primo perché si tratta di procedimenti giudiziari costosissimi, secondo perché in prima battuta il progetto è naufragato».
    Piero, che da direttore sanitario dell’ospedale di Vibo Valentia, ha subito intimidazioni e attentati senza mai piegarsi – come anche riportato nei verbali delle testimonianze dell’inchiesta Rinascita-Scott -, si riferisce al progetto originario avviato con un finanziamento congiunto di Regione Calabria e MIUR di 670.000 euro. Una ricerca tesa a studiare le caratteristiche del suino nero d’Aspromonte per tipizzarlo e verificare, attraverso lo studio del suo DNA, se costituisse razza a sé.

    «In particolare dato che il maiale ha i suoi tempi, e non segue di certo quelli giudiziari, l’intera impalcatura della ricerca è venuta meno. La Regione ha proposto di recuperare la cosa in maniera cartacea, ma noi non abbiamo accettato. Però dopo dieci anni di percorso carsico, anche senza finanziamenti, con la nostra passione, abbiamo mantenuto in vita questa idea e poi siamo esplosi».

    I maiali con più omega 3 dei pesci

    Oggi la Coop Maiale Nero d’Aspromonte è una realtà che punta in alto. Mi racconta Attilio che «grazie alla preziosa collaborazione con il professor Pino Maiorana dell’ateneo di Campobasso il nostro percorso di ricerca prosegue. Prendiamo campioni di carne, li analizziamo, li categorizziamo e realizziamo la carta di identità del maiale che viene consegnata all’acquirente. Abbiamo scoperto che i nostri maiali possiedono caratteristiche uniche: un quantitativo di omega 3 superiore ai pesci con un rapporto con gli omega 6 pari a nessun altro; livelli importanti di topoferolo e di acidi grassi saturi e insaturi. E la presenza di buone proporzioni di acido leico e linoleico che richiedono sì una stagionatura più lunga delle carni, ma, in termini di qualità, l’attesa vale la pena».

    Il maiale aspromontano sulla tavola dei Windsor

    Attilio è un ritornato. Porta un cognome pesante e ritorna a nuova vita da un passato spietato che ha ripudiato affrancandosene completamente. Una rinascita, meglio che un ritorno, grazie a questo cammino fatto di impegno e di lavoro a contatto con la natura e gli animali. Attilio, per chi lo vuole e lo sa guardare, è un simbolo di riscatto. Oggi è coordinatore e direttore tecnico della cooperativa.
    Mi racconta anche che le loro carni, vendute e lavorate nelle aziende toscane e romagnole di assoluta eccellenza vengono servite sulle tavole delle Real Case di mezza Europa, Windsor e Grimaldi per primi. «Collaboriamo con nomi noti della gastronomia italiana come le sorelle Gerini in Toscana e Massimo Spigaroli, re del culatello di Zibello. Hanno colto immediatamente la qualità del nostro prodotto. E sono stati quelli che ci hanno realmente supportato. Oggi la cooperativa è un laboratorio in continua evoluzione. Come ti ha detto Fortunato, si tratta di una realtà che mette al primo posto il valore della sostenibilità e del benessere animale: un modello seguito da diciotto aziende, quattro delle quali si trovano qui ad Ardore».

    Il logo della cooperativa

    Non solo nero d’Aspromonte

    Ma dietro i maiali c’è di più: una strategia di lungo respiro che mira alla creazione di una filiera. Un obiettivo realizzabile non solo attraverso l’offerta di un prodotto di eccellenza, ma soprattutto promuovendo un cambio culturale: «Abbiamo avviato un progetto importante tra Locri e Crotone partito dalla collaborazione tra GAL Terre Locridee e Kroton per la creazione di un sistema regionale del suino nero. E abbiamo iniziato un percorso di qualità con le macellerie cui forniamo sia i certificati di tracciabilità, sia una sorta di bollino da esporre in vetrina per avvisare che in quell’esercizio si vendono i nostri prodotti. Che saranno forse un po’ più cari, ma con cui puoi stare sicuro di nutrire al meglio i tuoi figli. Parliamoci chiaro: in quattro mesi non puoi fare un maiale di 160 kg!».

    Peste suina: gli allevatori chiedono un incontro con la Regione

    Gli ostacoli che si presentano su questo cammino sono tre e tutti di differenti ordini: il primo è il nodo legato allo sviluppo di quella cultura del lavoro e della condivisione di cui parlava Fortunato Sollazzo; il secondo relativo alla necessità di una forte regia pubblica che sostenga e coordini lo sviluppo della filiera; il terzo connesso alla contingenza dell’epidemia di peste suina africana per la quale lo scorso 19 maggio la Regione ha emesso un’ordinanza che istituisce una zona infetta in ventisette comuni del comprensorio aspromontano, soggetta a diverse restrizioni e variabile a seconda dell’estendersi della malattia. Proprio in queste ore gli allevatori della zona, che è ancora salubre ma dove vige il divieto di macellare, sono in riunione per chiedere un tavolo tecnico alla Regione.

    La cittadella regionale di Germaneto

    «La Regione sia più vicina»

    Piero Schirripa non ha mezzi termini: «Sembra che le nostre istituzioni, e in particolare la Regione, siano restie. Nonostante il prezzo dei cereali sia aumentato a causa della guerra, la Calabria, a differenza di altre Regioni con i loro allevatori, non ci ha dato una mano. Abbiamo illustrato la situazione ai nostri clienti toscani e romagnoli che hanno deciso di aumentare il prezzo di acquisto del 15%. Il prodotto finale costa di più ma l’aumento del prezzo è quasi irrisorio per la loro fascia di compratori. A noi invece questa percentuale consente di proseguire la nostra attività. Tutto questo perché i nostri maiali sono insostituibili. Vorremmo che la Regione facesse di più».
    La Regione però in qualche modo ha cercato di fare il proprio lavoro. Lo scorso dicembre 2021 ha siglato un accordo di programma quadro insieme all’Agenzia per la Coesione Territoriale e diversi Ministeri per lo sviluppo dell’Area Interna – Versante Ionico Serre, in cui, nell’ambito del progetto di Biodistretto del Parco delle Serre e dei territori limitrofi, prevede «attività integrate di animazione e di accompagnamento verso il Distretto del Cibo, tra biodiversità ed agricoltura biologica».

    Menzione specifica è fatta per il maiale nero d’Aspromonte che rappresenta una delle razze (se sia razza è tutto da vedere) che sta «esprimendo anche importanti effetti economici». La Regione ha intuito il potenziale di questa filiera. L’accordo mette in relazione rafforzamento del capitale sociale, miglioramento delle condizioni economiche del territorio, tutela delle matrici ambientali non rinnovabili e conservazione del paesaggio, in un «modello produttivo e relazionale sostenibile dal punto di vista ambientale, economico e sociale», volano per quel turismo naturalistico, lento ed esperienziale di cui mi aveva parlato Nicola Pelle.

    Economia della montagna

    É quello che ha auspicato monsignor Bregantini durante il nostro breve contatto telefonico: «Noi abbiamo creato i punti, ora è compito della politica tracciare la linea e mettere in campo una strategia». Vedremo se si passerà dai documenti programmatici ai fatti. Perché il ruolo del settore pubblico in questo meccanismo è essenziale, sia per fare sistema, sia per costruire un’economia della montagna.

    L’arcivescovo Giancarlo Bregantini

    «Realizzarla è possibile. Noi stiamo facendo il nostro, ma serve più impegno. Guarda che cosa succede alle ghiande. Qui ne perdiamo tonnellate e non abbiamo a chi rivolgerci sul territorio. Se vogliamo acquistarne, dobbiamo spostarci al confine con il catanzarese. Io le comprerei a 35-40 euro a quintale per i miaiali. Perché non supportare la nascita di una cooperativa di ragazzi che si occupi della loro raccolta e vendita? Con i sistemi innovativi oggi a disposizione, basterebbero poche ore di lavoro per aggiungere un punto che rafforzerebbe la nostra filiera creando nuovi spazi di occupazione», mi racconta Fortunato.

    Verde e blu

    Restituire alla montagna la presenza dell’uomo non è un dettaglio: «Senza l’uomo la montagna crolla. Noi abbiamo inventato lo slogan “Se la montagna è verde il mare è blu”. Il pastore e il contadino devono tornare a essere i suoi custodi. Norman Douglas racconta vividamente come l’Aspromonte fosse battuto da mandrie di capre e di maiali che non erano semplicemente libere, ma condotte al pascolo come faceva il porcaro Eumeo. L’uomo irreggimenta le acque, ripara i muri a secco. Queste cose non vengono capite dalle istituzioni che arriveranno quando sarà troppo tardi. Abbiamo un’emergenza in corso legata alla presenza di insetti e parassiti come la processionaria che divorano le foglie dei lecci. Ce ne accorgeremo quando non avremo più alberi?».

    Non è l’unico problema: «Stesso dicasi – continua Piero – per al presenza poco regolamentata di lupi e cinghiali. Sono un anello del nostro ecosistema, ma non possono essere abitanti esclusivi. Il lupo aggredisce capre e pecore e senza una regolamentazione gli allevatori vendono il bestiame e chiudono le attività. Gli amministratori pubblici sono chiamati ad occuparsene perché vengono pagati per questo con i nostri soldi. Se non lo fanno, devono pagare. Serve una nuova mentalità: il futuro della forestale non è più legato alla presenza di agenti o guardaboschi che ci sono e non ci sono: bisogna fare spazio ad agronomi, tecnici dotati di moderne tecnologie, architetti ambientali. Porremmo un freno anche alla costante emorragia demografica», chiude Piero.

    Maiali della tenuta Macrì

    Un sistema complesso

    La relazione tra montagna verde e mare blu spiega in quattro parole la fragilità e la complessità del sistema-Aspromonte, del rapporto osmotico e dell’equilibrio tra l’altura e la costa. Di quell’interdipendenza che li rende una cosa sola e che dimostra quanto frammentazione e ordine sparso ostacolino visioni e strategie di sviluppo congiunto.
    Al ritorno imbocco la Limina, la cosiddetta strada dei due mari che taglia in due l’Aspromonte lambendo la Piana di Gioia Tauro. In radio passano Via del Campo. Ripenso a Piero e Attilio e alle loro storie. Ché è proprio vero che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori.

  • GENTE IN ASPROMONTE | Trekking, terme e sentieri poco battuti

    GENTE IN ASPROMONTE | Trekking, terme e sentieri poco battuti

    Il racconto del fenomeno escursionistico in Aspromonte è una storia che intreccia diversi operatori e altrettante generazioni. Ciò che le unisce non è solo la passione per i sentieri. È il senso della riscoperta, del riconoscimento e della ricerca di uno sviluppo altro che esula dalla logica del consumo di massa. Questo viaggio che comincia ad Antonimina, passa da Bocale e finisce a Reggio Calabria.

    antonimina-aspromonte-san-nicola-trekking-turismo-lento
    Uno scorcio del centro storico di Antonimina

    Racconta di tre generazioni di escursionisti che, inconsapevolmente, stanno fornendo un contributo cruciale alla valorizzazione e alla crescita dei territori dell’Aspromonte.
    Si tratta di Nicola, di Diego e di LucaRitornati o restati che, dal 1995 ad oggi, si sono messi in cammino prima soli e poi seguiti da un pubblico sempre più attratto dai cammini e dal trekking.
    Era già stato Luca Lombardi ad ammonirmi dal non pensare che l’Aspromonte conservasse questa verginità. Dalle storie di questi tre protagonisti è sortito un quadro che ha una storia trentennale. E che, col tempo e il mutare di certi stili, ha creato un comparto in cui operano molteplici realtà. Il viaggio di questa puntata non risiede tanto nello spazio, quanto nel tempo.

    (San) Nicola di Antonimina

    Appena sopra Locri, aggrappata alla montagna è appollaiata Antonimina. Un toponimo greco, un luogo “ricco di fiori” di 1.200 abitanti, con il suo culto per San Nicola di Bari e la sua varia di legno massello, un ritmo di vita quieto sopravvissuto ai terremoti del 1783 e del 1908. Antonimina è terra di pastorizia, uliveti, acque termali e caciocavallo, fratello del più famoso di Ciminà.
    Arrivo lì con Luca Lombardi ai primi di marzo in una giornata umida e annuvolata. Me la trovo di fronte come un grazioso presepe dominato a sinistra dal maestoso Monte San Pietro.
    Nicola Pelle, fondatore di Boschetto Fiorito e guida ambientale, ci aspetta in piazza. Il suo sorriso lo precede: «Benvenuti! Andiamo a prendere un caffè, prima di tutto».

    Non so bene se Nicola sia un restato o un ritornato, ma mi dice che questa è la sua nuova vita. «Ho una laurea in ingegneria informatica all’Unical, i miei programmi erano di partire per il Nord. In effetti ho vissuto fuori, convinto di dovere seguire uno schema che è il topos dei ragazzi calabresi. Poi ho scelto di tornare ad Antonimina. Collaboro ancora con il settore fotovoltaico di Siderno, ma punto a vivere solo di montagna. Adesso sono felice perché sono pagato per fare quello che mi piace».

    Nicola Pelle e Luca Lombardi

    Luca ride mentre camminiamo tra i viottoli che si imbudellano fin quasi nel ventre dell’Aspromonte. Li seguo arrancando. «Antonimina è un paese che, come molti altri, ha subito la piaga dello spopolamento. L’accoglienza diffusa, il nostro primo motore realizzato sfruttando la possibilità di creare ospitalità nelle nostre seconde case, ha riportato nuova vita. Chi viene qui è alla ricerca del selvaggio, dell’incontaminato, quasi dell’esotico. La sciura milanese che abbiamo ospitato qualche tempo era rimasta sbalordita dal fatto che la sconosciuta vicina di casa le avesse bussato alla porta con una tazza di caffè caldo da offrirle. Non riusciva a capacitarsi di un gesto simile. La ricchezza di Antonimina e delle esperienze che regaliamo è anche questa».

    Aspromonte trekking: Boschetto Fiorito

    Nicola, assieme a un gruppo di amici, appassionati di escursionismo, è tra gli animatori dell’associazione Boschetto Fiorito che promuove pacchetti dedicati a quello che definisce il turismo lento: «Accompagnando gruppi di italiani e stranieri che battevano i sentieri aspromontani, avevamo necessità di dare ospitalità. La ritrosìa dei miei compaesani guidati dal presupposto de “la casa è mia e non la do a nessuno”, ha piano piano ceduto il passo all’entusiasmo e agli affari. Siamo partiti così. A questo si sono affiancate le attività escursionistiche, il noleggio di attrezzature e materiale outdoor – ciaspole, tende e mountain bike elettriche per il cicloturismo – e l’accompagnamento in percorsi dedicati al turismo naturalistico, complice la vicinanza con il Monte San Pietro. Con un bando siamo riusciti a prendere in gestione una vecchia casermetta della forestale costruita ai primi del ‘900 e successivamente ristrutturata dal Comune in zona Zomaro. Un punto nevralgico per chi percorre il Sentiero Italia o la ciclovia, data la carenza di ricettività. Da lì non ci siamo più fermati, continuando ad arricchire la nostra offerta con le escursioni domenicali».

     

    Dalla montagna al museo di Reggio

    Arrivati a una terrazza che domina la vallata di fronte a cui svettano i Tre Pizzi del Monte San Pietro, Nicola di Antonimina si affaccia e il suo sguardo si perde. D’improvviso si volta e mi chiede: «Guarda quelle rocce. Non ti viene voglia di arrivare fin lì? Io ci salgo almeno una volta alla settimana e ogni volta mi chiedo come mai i locali siano così poco interessati al loro territorio. Per me è paradossale che lavoriamo più con gli stranieri che con gli autoctoni, pigri e meno curiosi. Ma parte del nostro lavoro è anche quello di incuriosire, di ravvivare la memoria, come i nostri genitori hanno fatto con noi. Stuzzicare i palati stranieri con l’esca dell’esotico è più semplice, vuoi perché il loro diventa più facilmente un viaggio dello spirito, vuoi perché il fascino del selvaggio e dell’incontaminato per popoli nordici come gli scandinavi, abituati a una montagna più curata e antropizzata, scaturisce naturalmente. La pandemia ha invertito il trend. Abbiamo avuto meno stranieri e più italiani. Il nostro modello di escursionismo non si limita alla montagna per la montagna, ma arriva alle visite al Museo Archeologico della Magna Grecia di Reggio Calabria dove sono custoditi molti reperti rinvenuti in questi territori, a Locri o Ianchina. Facciamo fare un viaggio a tutto tondo per compenetrare appieno i luoghi battuti. Un turismo che non è solo lento, ma bifronte: prevede una parte paesaggistica e una culturale capace di connettere biunivocamente entrambe le esperienze».

    Il mare a due passi dalla montagna: meraviglie del trekking d’Aspromonte

    Il fortino greco di Bregatorto

    Nicola è tra coloro che nel 2015 hanno partecipato come volontari ai sondaggi di scavo che hanno scoperto l’esistenza del Fortino di Bregatorto, tra le più vaste fortificazioni greche mai rinvenute nell’area della Magna Grecia. Si tratta di una struttura militare nell’area del Puntone di Bregatorto posizionata sul percorso che collegava l’antica Locri alle sue colonie tirreniche.
    Lo studio (qui la versione in inglese) pubblicato dal professor Paolo Visonà sulla rivista Fastionline dell’Associazione di Archeologia Classica, spiega che la fortificazione fu costruita per sorvegliare il passaggio che conduceva alle subcolonie locresi sull’altro versante. Simili strutture furono realizzate dai Greci di Rhegion e Kaulonia a Serro di Tavola (Sant’Eufemia), San Salvatore (Bova Superiore) e Monte Gallo (Placanica).

    Lo studio ha fatto ipotizzare che i Locresi si servissero di un sistema di difesa del territorio basato su una serie di punti di controllo, situati alla periferia della Chora e protetti da massicci circondati di mura. Le indagini topografiche condotte tra il 2013 e il 2015 da un team della Foundation for Calabrian Archaeology e dell’Università di Kentucky miravano a verificare questo modello e ad identificare altri siti simili.
    Me lo racconta mentre saliamo al rifugio: «Sono stati rinvenuti resti di fortificazioni, vasellame, e scarsamente metallo, data l’estrema umidità della zona. Alla fine è stato tutto reinterrato. Era impossibile partire con una vera e propria campagna di scavi senza fondi».

    A spasso tra i sentieri innevati in Aspromonte

    Il Turismo Lento come orizzonte di crescita

    La carenza di fondi, la cattiva suddivisione delle competenze, la mancanza di una chiara strategia di sviluppo e valorizzazione del territorio e dei suoi patrimoni contribuisce a rallentare un processo di rinascita che è in atto sottotraccia da anni e che contrasta con la disattenzione delle istituzioni.
    Basti pensare alla questione dei caselli e dei rifugi che resta una ferita aperta. Esiste una molteplicità di strutture spesso abbandonate o in rovina e suddivise per competenza tra Comuni, Comunità Montane, Calabria Verde e, collateralmente, Ente Parco. La mappatura più completa è stata curata da Alfonso Picone Chiodo, autore veterano della montagna, e realizzata dal CAI.

    Un patrimonio per il quale mancano spesso i fondi e le responsabilità di gestione vengono rimbalzate da un ente all’altro anche a causa di procedure burocratiche farraginose in cui è complesso districarsi.

    «In Aspromonte ci sono tante realtà che forniscono servizi di qualità. Parlo di piccole imprese e di associazioni che hanno costruito un modello dal basso tarato sulle caratteristiche di un territorio che non insegue il consumo del turismo, ma che ha comunque necessità di crescere economicamente. Se è vero che la Calabria ha una vocazione turistica, non è possibile né corretto calare dall’alto format preconfezionati che non le si addicono. Il modello aspromontano è quello del turismo lento, fatto di qualità prima che di quantità, di incontaminato, di selvaggio, di borghi, di natura, di memoria. Dobbiamo mantenere, non snaturare. La connessione tra tutti noi operatori dimostra nei fatti che, anche se un sistema di cooperative non esiste formalmente, la collaborazione spontanea e il mutuo soccorso non mancano. Puntiamo a un turismo di nicchia, ma sappiamo bene che per raggiungere certi obiettivi servono almeno tre elementi: il coordinamento con le istituzioni, la conservazione della memoria e la trasmissione dei nostri patrimoni. Credo che l’operazione più riuscita sia oggi la Ciclovia dei Parchi della Calabria – 545 km di percorsi ciclabili ben realizzati dal Dipartimento Tutela dell’ambiente della Regione Calabria e il settore regionale Parchi -. A parte questa iniziativa le istituzioni appaiono distanti anni luce dalla realtà che viviamo. Senza dialogo e sinergia, per me che sono anche una guida, è impensabile raggiungere obiettivi comuni e condivisi. Così come è impossibile avviare un modello cooperativo strutturato. Mi chiedo perché».

    Diego Festa

    Misafumera, Aspromonte trekking

    Nicola e il suo gruppo sono partiti dalla sensibilizzazione e dalla formazione, specie dei più giovani: giornate ecologiche, attività coi bambini, escursioni di promozione del territorio. «La parte economica è venuta dopo e non è ancora soddisfacente, mentre quella sociale continua ad esserci. Sono i nostri due polmoni, camminano di pari passo e l’uno è vettore dell’altro». La storia che mi racconta è il prosieguo di quella di Diego Festa, antesignano e memoria dell’escursionismo aspromontano, attivista e fondatore della srl Misafumera. Diego è un restato.
    «Nato alla marina di Bocale, ho iniziato a frequentare l’Aspromonte nel 1995 con il CAI e dal primo giorno sono rimasto folgorato dal tesoro che ho trovato. A quel tempo chi presidiava il territorio erano le organizzazioni GEA, Gente in Aspromonte, e CAI. Nel 1997 ho frequentato il corso per Guida Ambientale Escursionistica legata a Sentiero Italia. Eravamo agli albori e io sono entrato in punta di piedi: la montagna non era frequentata e noi venivamo guardati come alieni. Tutto è cominciato con l’incontro di Antonio Barca e Aldo Rizzo. Abbiamo costituito un’associazione e siamo partiti. I pochi che allora andavano a camminare erano impreparati sotto ogni punto di vista. Man mano, attraverso il CAI, iniziarono ad arrivare i primi gruppi di escursionisti dal Nord Italia. Così è cominciato tutto».

    L’esplosione dell’escursionismo in Aspromonte

    Oggi Misafumera è un ente economico che si occupa di escursionismo in tutto il Sud Italia, dalla Costiera Amalfitana a Lampedusa, ma conserva l’anima sociale da cui è partito. Negli anni si è battuto per la tutela del territorio e la difesa del suo ambiente, partecipando a campagne antibracconaggio, al rilievo, catasto e manutenzione dei sentieri in Aspromonte. Ha realizzato diversi progetti di educazione ambientale con le scuole del territorio reggino e partecipato a varie iniziative per la sua tutela.

    «Negli anni l’escursionismo in Aspromonte si è trasformato: si è abbassata l’età media, è fiorito il senso per la montagna. Nell’ultimo decennio c’è stato uno stravolgimento: dal 2016 una vera e propria esplosione della domanda raccolta dai tanti gruppi come Boschetto Fiorito che abbiamo incoraggiato ad operare. Non c’è dubbio che Internet abbia spinto molto questo processo. Ciò ha favorito uno sviluppo culturale che è oggi tutto in mano alla nuova generazione. Seppur più lentamente che in altri territori, il cambiamento è in atto».

    I colori dell’Aspromonte

    Le istituzioni assenti

    Diego è tra quelli che biasima le istituzioni. Ed è convinto che chi fa da sé faccia per tre: «Parlare di interesse degli enti locali o di amministrazioni per la montagna è una follia. O meglio, l’interesse c’è ma è collegato alle nomine. Un esempio per tutti, ormai datato, il ridimensionamento del Parco approvato dal Ministero e dall’Ente Parco: 10.000 ettari in meno, con un’area a tutela integrale che oggi lambisce il confine esterno del Parco e i territori dei Comuni che creano corridoi fin dentro il suo cuore. Spesso mi chiedo come stia proseguendo il progetto per la reintroduzione del Nibbio reale del 2021, a che punto sia la programmazione per altre progettualità, che strategia abbiano i Comuni e la Città metropolitana. Non riesco a darmi una risposta. Percepisco piuttosto un deficit di comunicazione e di confronto, una difficoltà a coinvolgere gli operatori nella co-progettazione. A quanto posso vedere l’unica cosa ben fatta e riuscita è la Ciclovia. Talmente ben fatta che è citata in diverse guide di settore. Non succede così spesso per la Calabria».

    PerlAspromonte: tutelare e riscoprire i patrimoni

    Misafumera è qualcosa che ritorna anche nella storia di Luca Laganà, cestista professionista reggino con un passato a Reggio Emilia e un presente a Reggio.
    È un ritornato, fondatore dell’associazione PerlAspromonte che, i prossimi 13 e 14 maggio, organizza a Gambarie il Festival Mana GI. É tra gli ultimi arrivati nel settore dell’escursionismo. «Mi trovavo a Monte Misafumera, avamposto Nord della montagna, quando ho incrociato quelli che oggi sono diventati i miei soci. Si è cominciato a parlare di cosa potessimo fare per il nostro territorio durante la stagione degli incendi. Siamo partiti con una raccolta fondi in crowdfunding con cui abbiamo acquistato attrezzi, guanti, scarponi antincendio da fornire a chi era impegnato nelle spegnimento. E abbiamo promosso la campagna di sensibilizzazione “Artisti Uniti per la Calabria”, producendo insieme a Christian Zuin, dj veneto trasferitosi a Monasterace il brano Per Rinascere . Oltre all’escursionismo, lavoriamo per formare e sensibilizzare la cittadinanza assieme alle Guide del Parco, Plastic Free e tante altre realtà. Il trekking non è solo un’attività diportistica, ma uno strumento per divulgare la memoria e la ricchezza culturale del nostro territorio. Il prossimo week-end sarà l’occasione per condividere esperienze e rafforzare una rete che c’è, ma è ancora troppo chiusa e deve crescere. Bisogna investire di più in cultura e tutela del patrimonio. Non a caso, uscirà presto il mio primo libro Cara Reggio, ti presento…, dedicato ai reggini che vogliono riscoprire il loro territorio. Non può esserci futuro senza consapevolezza del passato».

    Le risorse del tutto nel niente

    Questo paradigma del vuoto e del pieno – che da una parte ha tolto e dall’altra ha custodito -, del tutto nel niente, della ricchezza nell’abbandono, delle radici, della memoria è il filo rosso che collega le storie e le esperienze di Nicola, Diego e Luca. Tra attività sociali e ricerca di un modello di crescita economica disegnato sulle caratteristiche proprie dei loro territori, il turismo lento si fa strada. Diventa una cultura diffusa con cui riscoprire da dove veniamo, chi siamo e dove stiamo andando.
    Servono ancora molti tasselli per comporre il puzzle. Bisogna dissipare certe ombre per portare più luce, formando alla bellezza, al rispetto e alla tutela. Prima di tutto però serve chiarezza: attendiamo di capire come si siano concluse le indagini sugli incendi del 2021 e come sia stato affrontato il problema dello smaltimento abusivo di amianto con discariche abusive individuate nel 2014, nel 2019 e ancora nel 2021.

    Un problema che rischia di distruggere l’immaginario di incontaminato per cui l’Aspromonte viene visitato e desiderato. E l’escursionismo, con le sue generazioni che si passano il testimone battendo migliaia di ettari di territorio palmo a palmo, tra ricchezze naturalistiche e patrimoni culturali troppo spesso dimenticati e sottovalutati da istituzioni ed enti locali, può tracciare un sentiero da percorrere.
    Nelle scorse ore, e proprio mentre scrivevo, è stata messa in atto la più importante operazione internazionale contro la ‘ndrangheta mai realizzata. Oltre 200 arresti con esponenti di spicco finiti in galera in tutta Europa e i titoli delle pagine dei giornali di mezzo mondo dedicati alla criminalità dell’Aspromonte che, dalla Locride, allungava le sue braccia in mezzo mondo. É ormai noto come la strategia dei boss sia quella di tenere un basso profilo a casa: i territori di appartenenza devono versare nel sottosviluppo per restare schiavi del dominio criminale. Sostenere e narrare la vivacità della nuova economia che ho raccontato può invece segnare un punto a favore di crescita e legalità.

  • La prof che porta la Calabria immateriale a Betlemme

    La prof che porta la Calabria immateriale a Betlemme

    «Non è stato semplice. Operazione importante, impegnativa e coraggiosa, sotto diversi punti di vista». Patrizia Nardi, storica, già docente universitaria della Facoltà di Scienze Politiche di Messina, già assessore alla cultura del Comune di Reggio Calabria e focal point per l’Unesco della Rete delle Grandi Macchine a spalla italiane è appena rientrata dalla Palestina dove, a Betlemme, lo scorso 4 aprile 2023 ha inaugurato la mostra internazionale Machines for Peace. Un’iniziativa importante realizzata in sinergia con l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale del Ministero della Cultura, con il patrocinio della Farnesina, della Commissione Nazionale Italiana UNESCO e il Consolato Generale d’Italia a Gerusalemme. Dalla sua voce traspaiono soddisfazione, stanchezza e quella consapevolezza per una missione di pace che è il suo senso dell’operare nella Storia.

    Perché organizzare una mostra del genere?

    «Il 2023 segna per noi una data importante: è il decennale del riconoscimento UNESCO che coincide con il ventennale della Convenzione UNESCO 2003 per la Salvaguardia del Patrimonio Immateriale, ossia di quelle espressioni culturali, dei processi e dei saperi trasmessi e ricreati da comunità e gruppi in risposta al loro ambiente, all’interazione con la natura e alla loro storia. Era necessario dare un segnale importante, concreto, di testimonianza praticata. Per questo ho proposto alla grande comunità della rete – 36 associazioni e 4 amministrazioni comunali, Viterbo, Nola, Palmi e Sassari – di aggiungere alle attività ordinarie un focus specifico sul tema della pace che è una delle missioni, forse la più importante per cui è nata UNESCO dopo la seconda guerra mondiale: indurre comunità, gruppi, individui e nazioni a parlarsi e dialogare partendo dal patrimonio culturale come luogo per ricomporre i conflitti».

    La guerra in questi mesi è su tutti i media…

    «A maggior ragione oggi, con il conflitto ucraino in Europa e un rischio sempre maggiore di escalation, il tema della pace bussa, se mai ce ne fosse bisogno, con maggiore urgenza. Per questo abbiamo coinvolto tanti soggetti, pubblici e privati: l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale del Ministero della Cultura, i Comuni, le Diocesi e Arcidiocesi delle Città della Rete, la Federazione Nazionale dei Club per l’UNESCO, Rotary International, FRACH – Fellowship of Rotarians who Appreciate Culturale Heritage, Meraviglia Italiana».

    Raccontaci questo percorso

    «A settembre scorso, in occasione del trasporto della Macchina di Santa Rosa – che celebra la traslazione del corpo della patrona di Viterbo avvenuta il 4 settembre 1258 per volere di Alessandro IV – abbiamo organizzato nella Città dei Papi un grande concerto coinvolgendo musicisti e cantanti dei Teatri dell’Opera di Leopoli, Odessa e Kiev: un evento partecipatissimo, oltre mille persone presenti. Quei musicisti straordinari, sofferenti e dignitosi al tempo stesso, suonavano il loro dramma davanti a noi, come abbiamo visto fare al coro dell’opera di Odessa riunitosi all’aperto per intonare l’inno nazionale ucraino.

    Un modo esplicito per parlare alla comunità internazionale attraverso la musica, linguaggio universale per antonomasia. In quel momento ho pensato che la Rete delle Grandi Macchine potesse e dovesse continuare a dare un contributo concreto schierandosi contro tutti i conflitti: Macchine di pace contro macchine da guerra».

    Che risposta c’è stata?

    «La Rete ha molto sostenuto il progetto, fin dall’inizio: una mostra da portare nei luoghi di guerra, a partire dalla Terra Santa, per lanciare un messaggio di pace, forte e chiaro. Un Patrimonio Unesco ha il dovere di farlo e la partnership istituzionale è fondamentale. Le trattative erano state lunghe e complicate: avevamo avviato lo scorso ottobre l’interlocuzione con il Comune di Bethlehem per ricevere l’adesione solo il 20 febbraio successivo. Abbiamo organizzato tutto in poco più di un mese, pancia a terra potrei dire, costruendo una rete di cooperazione anche professionale molto significativa: abbiamo operato contemporaneamente con il team di ICPI, la OpenLab Company e il partner palestinese Iprint».

    Altri aiuti?

    «Abbiamo avuto il sostegno tecnico dei Comuni di Sassari e Viterbo e delle comunità della Rete, che sono venute in Terra Santa insieme a me. Senza di loro il progetto non avrebbe avuto la stessa valenza, progettare è un conto, condividere con gli stakeholder un altro ed ė un atto dovuto. E, chiaramente, fondamentale ė stato il lavoro di squadra ministeriale, la sinergia costante con il Gabinetto del ministro degli Esteri Tajani e la collaborazione con la nostra straordinaria rete diplomatica: Commissione Unesco, Rappresentanza Unesco a Parigi, Ambasciata di Tel Aviv, Consolato Generale d’Italia a Gerusalemme. Quando arrivai in riunione, la prima volta qualche giorno dopo l’ok da Bethlehem, rimasi stupita. Mi sarei aspettata più una riunione tecnica che una mobilitazione generale e questo mi ha molto incoraggiata, devo dire».

    betlemme-varia-mostra-due-passi-chiesa-nativita
    Patrizia Nardi insegna all’Università di Messina, è stata anche assessore alla Cultura del Comune di Reggio Calabria

    Potremmo dire che il governo ha avuto l’opportunità di cogliere un’occasione importante: il Mediterraneo in generale (e il Mediterraneo allargato, più specificamente) tornano ad essere centrali per la politica estera italiana.

    «L’Italia lavora da diversi anni a sostenere l’obiettivo della costituzione di uno Stato palestinese nella logica dei “due popoli, due stati”, sostenendo i negoziati di pace tra le parti: un ritorno a linee di politica estera che possano contribuire a costruire la pace in territori in cui la tensione ė continua e tangibile non può che essere considerato un fatto importante. Il conflitto ucraino ha saldamente posizionato il Paese in assetto atlantista, come mai accaduto prima dello scorso anno; e la guerra, con le sue priorità per la diversificazione di approvvigionamento energetico, combinata con le pressioni migratorie, impone la necessità di tornare alla vocazione naturale italiana: snodo centrale e madre del Mediterraneo, una responsabilità dalla quale, nel bene e nel male, non possiamo esimerci. Tajani ne è consapevole e la sua missione nello scorso marzo in Israele e Palestina è un segnale che va interpretato in un certo modo».

    Mi stai dicendo che la cultura è il guanto di velluto della diplomazia?

    «Avvicinare, far dialogare, fare cooperare comunità e soggetti istituzionali è il primo obiettivo dell’agenzia dell’ONU. La diplomazia culturale è strettamente connessa alla diplomazia politica e deve avvalersi di molti strumenti e altrettante strategie, specie in contesti complessi come quello palestinese, dove un conflitto che va avanti da oltre settant’anni anni ha creato comunità che vivono quotidianamente la divisione come parte integrante e quasi connaturata alla loro vita, con un mondo che sembra essersi girato dall’altra parte. Ma la missione della nostra delegazione non è passata inosservata».

    In che senso?

    «Le date scelte non sono state casuali. Abbiamo individuato il periodo della Pasqua, anzi delle “Pasque” che hanno radice comune, per il nostro messaggio di pace. La Pasqua cristiana, quella ebraica e l’ortodossa quest’anno, per l’insolito allineamento di calendario, hanno assunto un significato ecumenico di notevole importanza e un ulteriore invito al dialogo tra le religioni e le comunità. Purtroppo determinate ricorrenze vengono “utilizzate” anche nel male. Fino al martedì 4 aprile la situazione appariva tranquilla. Poi è precipitata. Il 5 era previsto un nostro incontro con gli studenti dell’Università di Bethlehem alla fine saltato per ragioni di sicurezza. Il 6 è iniziata l’escalation: la pioggia di missili, l’auto lanciata contro un gruppo di turisti proprio vicino all’ambasciata italiana di Tel Aviv, a trenta metri da dove si trovava l’ultimo gruppo della nostra delegazione, con le conseguenze che tutti conosciamo».

    Avete percepito il pericolo?

    «Si, anche per l’aumento dei controlli ordinari, particolarmente accurati anche in aeroporto. Una “normalità” che si è presentata a noi in maniera molto cruda, difficile da capire per chi non vive la quotidianità dell’emergenza».

    betlemme-varia-mostra-due-passi-chiesa-nativita
    Un alberello di Ulivo fra i totem della mostra “Machines for peace”

    Una mostra virtuale, un “affresco digitale”. Non avete trasferito nulla, ma avete trasferito tutto…

    «Proprio così. Grazie alla tecnologia abbiamo scomposto, trasportato e ricomposto le feste di Nola, Sassari, Palmi e Viterbo, la coralità delle stesse, il significato che quella coralità assume in un processo di costruzione di ponti e di dialoghi di pace. Il film di Francesco De Melis – che abbiamo girato durante il lockdown per testimoniare il rischio della sparizione dei patrimoni immateriali in contesti di crisi riportando nelle città vuote, sui palazzi, sulle chiese, la musicalità e le immagini delle feste – fa scorrere le sue sequenze su un enorme spazio di proiezione di 16 metri».

    Che effetto crea nello spettatore?

    «Si entra nelle feste, nel Bethlehem Peace Center, a due passi dalla Natività e ci si trova in un’altra dimensione, accompagnati da 13 figuranti nei loro magnifici costumi “di scena” festiva, che dialogano con la maestosa testa-scultura che Giuseppe Fata ha dedicato al tema della mostra, nel contesto del progetto Simulacrum. Una circolarità di sensazioni, idee, progetti, competenze, solidarietà che hanno prodotto un miracolo».

    Sei soddisfatta?

    La pace si coltiva e si pratica nel lavoro quotidiano, non credo bastino più le teorizzazioni, i cortei e le bandiere. Aiutano, ma non bastano. Essere operatori di pace è una grande responsabilità e le “mie” comunità della Rete lo hanno capito bene. Se devo parlare di soddisfazione, beh, questo può essere sufficiente. Non possiamo voltarci dall’altra parte, né far finta che niente succeda: questo vale per tutti i conflitti e soprattutto per le comunità che ne restano vittime fisiche, sociali, economiche. Quel muro, immanente e imminente, che divide la Cisgiordania parla anche a chi si rifiuta ancora di ascoltarlo».

    Le prossime tappe dopo Betlemme?

    «La mostra resterà a Betlemme fino a maggio. Poi alcune tappe europee, tra cui Praga e Parigi e dove sarà necessario portare il nostro messaggio di pace, fino al 2024. In più, oltre ad alcune città italiane, ci sono situazioni in progress che stiamo monitorando, di cui daremo notizia al momento opportuno».

    Cosa ti porti indietro da questa esperienza?

    «La consapevolezza di avere dato il mio contributo e di aver incoraggiato la Rete a dare il suo, in un momento particolarmente difficile; l’aver lavorato con tantissime persone, le mie comunità, il mediatore Giorgio Andrian, il mio straordinario co-curatore Taisir Masrieh Hasbun e il team palestinese di IPrint, con OpenLab, la vicinanza di tutti. Di aver dato un contributo con i mezzi che mi sono propri e congeniali. Non dimenticherò le preghiere all’alba del muezzin dal minareto, l’avere la percezione che quella Terra continui ad essere il centro del mondo. E non dimenticherò un piccolo bambino, che accompagnava il suo papà autista di un nostro transfer: un piccolo bambino vivacissimo, un bimbo in trincea, le cui prospettive sono ben lontane da quelle di un mondo forse anche fin troppo dorato e fasullo, come a volte sembrerebbe essere il “nostro”».

  • GENTE IN ASPROMONTE | Qualcuno volò tra i boschi dei primitivi

    GENTE IN ASPROMONTE | Qualcuno volò tra i boschi dei primitivi

    L’estate 2021 ha segnato per me uno spartiacque. Da Reggio la linea del fuoco si intravedeva appena, ma l’Aspromonte bruciava. Erano giorni torridi e lo scirocco soffiava forte: stavano andando in fumo 8.000 ettari di Parco e le faggete vetuste, parte del patrimonio UNESCO, erano in pericolo. Il versante più colpito era quello jonico, ma l’incendio era vastissimo e le colonne di fumo si levavano fino alla città.

    incendi-aspromonte-2021
    Quel che resta degli alberi bruciati in Aspromonte nell’estate 2021

    Sentivo l’urgenza di restituire alla Montagna la dignità e il rispetto che meritava. Un paio di tentativi fallirono. Poi, quel bisogno fu seppellito da incombenze e quotidianità, coperto da uno strato greve di cenere, nonostante, al di sotto, la brace di quell’urgenza restasse viva.
    Lo scorso gennaio, per un caso fortuito, ho avuto il contatto di Luca Lombardi, una delle guide ufficiali del Parco. Dopo la nostra prima chiacchierata, quella brace si è riaccesa. Luca mi ha dato le chiavi per iniziare il cammino in Aspromonte.

    Il sistema invisibile

    «Della montagna e del parco bisogna scrivere di più, raccontando quello che accade. Quando ci si approccia all’Aspromonte, sembra che sia tutto da costruire, invece l’escursionismo guidato esiste da 30 anni. E, anche se molte cose possono essere poco visibili, c’è una rete di addetti ai lavori che opera, accoglie, valorizza la montagna. Io sono una figura ibrida: guida e operatore del turismo montano. Gestisco l’ospitalità di diverse strutture dell’accoglienza diffusa. Sono il collante tra le guide, la ricettività e le agenzie. Uno dei maggiori tour operator della provincia di Reggio si trova a Bova. Se ne parla poco, ma qui abbiamo società, strutture ricettive, aziende agricole, organizzazioni che ruotano attorno al mondo dell’Aspromonte e che riescono a fare sistema. Collaboriamo, ci scambiamo i clienti, parliamo. In linea di massima sono soddisfatto, ma si deve fare di più».

    Luca-Lombardi-guida-apromonte
    Luca Lombardi

    Luca e le guide sono tra chi ha alimentato una feroce polemica all’indomani degli incendi. Hanno sconfessato le prime dichiarazioni del presidente Autelitano mostrando, attraverso i dati Copernicus, come il fuoco avesse avuto origine e traiettorie differenti da quanto da lui ipotizzato. Sono attivisti che hanno scelto la montagna, parte di una generazione di trentenni che ha scelto di restare o ritornare. La generazione che, pur con le sue emorragie, ha sviluppato un senso per una sfida impossibile: investire in Calabria.

    Gianluca Delfino, il ritornato survivalista

    Tra di loro c’è Gianluca Delfino, animatore dell’associazione Kalon Brion Hug a Tree Movement, anni trascorsi nelle cucine francesi col cuore ai cavalli e al suo borgo di origine, Galatoni. Il nostro viaggio fisico e spirituale parte da lì per inerpicarsi fino allo Zomaro. Incontro a febbraio questo marcantonio biondo vestito da montagna, a prima vista più nordeuropeo che calabrese. Un caffè veloce a Cittanova e poi ci spostiamo col suo fuoristrada verso i ruderi del vecchio borgo medievale dove vive col padre e gestisce il suo maneggio, immerso nella natura tra cavalli, ulivi e animali. Dalla cittadina la strada, tra curve e uliveti, dirada nell’aperta campagna mentre saliamo lentamente verso la pedemontana.

    «Galatoni, nata intorno al 1250, è uno degli ultimi borghi appartenenti al feudo del casato di Terranova che comprendeva tutta l’area tra il Marro-Petrace e il Vacale toccando da un lato Rosarno e dall’altro la cresta della montagna. Si è formato quando i Taureani stanziavano e commerciavano nell’area. Terremoti e invasioni saracene li costrinsero a spostarsi verso una zona più interna dove poi sorse Terranova, con le sue terre e il suo castello, oggi terreni coltivati a uliveti secolari che hanno sostituito il gelso».
    L’auto si ferma. Siamo ormai in aperta campagna. Davanti a noi un casale in ristrutturazione sfida i ruderi che gli stanno di fronte, tra cui emerge quel che resta della chiesa di Maria S.ssima de Nives. In fondo, recinti e cavalli.

    Dalla Francia allo Zomaro

    Gianluca è uno dei ritornati: «Al rientro dal Piemonte, dove i miei genitori lavoravano in fabbrica, qui non c’era più nulla. Eravamo quelli che si sono portati il cavallo dalla Calabria. Un milione e ottocento mila lire al mese di pensione per accudirlo. Originariamente questa era una stazione di monta della Regione dove era presente il Nearco di Doria. Papà, da grande appassionato, voleva ricreare la razza calabrese. Lui e mamma erano istruttori di equitazione: appena arrivati, davano lezioni di ippica. Ho iniziato a lavorare nella ristorazione. Mi sono trasferito in Francia del Nord: mi pagavano bene. Ma mentre componevo i piatti, avevo impregnato l’odore di questi ulivi, lo scampanìo delle vacche, il gorgoglìo dei ruscelli dell’Aspromonte. Ho deciso di tornare».

    Poi sono partiti i progetti: «Avevo in mano un percorso in Scienze Naturali, una passione per i fermentati vegetali e un progetto sul fitorimedio e sulla coltivazione di Artemisia Annua col metodo di Teruo Higa. Volevo utilizzare i fermentati e riprodurre alcuni comparti microbici attraverso quella tecnica. La prima tappa in Italia fu dal professor Roberto Marino dell’Università di Padova: gli illustrai il mio progetto e decidemmo di partire per la Calabria dove abbiamo fatto sperimentazioni in pieno campo studiando i Probiotic Autogen Microrganism che, diluiti, potevano essere usati nelle stalle. Assieme a quelli anche il relativo terriccio. Questo accadeva cinque anni fa. L’iniziativa si spense per la penuria di fondi. Poi è arrivata la pandemia».

    La nascita di Kalon Brion Hug a Tree Movement

    Kalon Brion era già nata ed era ai suoi albori. Questa associazione dalla dicitura metà greca e metà bruzia conteneva già nel nome il suo manifesto: far sorgere il bello e il buono. Un bello che per Gianluca, Rocco e gli altri si trova in montagna, tra i boschi e le sorgive. Sono eco-operatori, appassionati di survivalismo, flora e fauna: si prendono cura del territorio, presidiano i sentieri, organizzano immersioni in natura.

    «La nostra associazione è nata da una comunione di interessi e intenti: monitorare il territorio, proteggere e valorizzare la montagna, vivere a stretto contatto con la natura, educare al turismo montano consapevole e al rispetto della biodiversità. Assieme a me ci sono persone come Rocco Calogero, poliglotta, un passato nella foresta boliviana, e la mia compagna, videomaker. Tutti con la stessa passione e competenze diverse. Veniamo da una lunga esperienza di animal tracking e monitoraggio dell’avifauna. Rocco ed io siamo gli unici in Calabria ad avere quest’abilitazione. In zona Taureana, siamo stati invitati a collaborare al piano di studio ambientale propedeutico a un progetto di riqualifica dell’area archeologica. Allora insieme al professor Tripepi di Scienze Naturali dell’Unical abbiamo monitorato il Chameleo chaemelon presente tra gli eucalipti della Tonnara di Palmi. Poi ci siamo accorti che c’era un deficit legato alla mappatura di flora e fauna a nord di Gambarie ed avevamo la sensazione che questa porzione di territorio fosse stata completamente abbandonata dalle istituzioni e dal Parco».

    Se boschi e logica scompaiono

    Scalando in auto la strada che serpeggia sui fianchi della montagna, Gianluca mi racconta di come, durante la stagione degli incendi, avessero mollato tutto l’ordinario per organizzare staffette di volontari a supporto delle operazioni di spegnimento: «Più i boschi bruciavano, più le nostre attività rischiavano di essere vanificate. La nostra missione è lavorare nel presente per il futuro. Puntiamo sulle scuole per uscire dalla logica che la prospettiva dell’Aspromonte sia di un parco giochi per il weekend. La montagna è vita e opportunità tutto l’anno. Nel bosco si entra sempre come ospiti: noi passiamo, lui resta. Ci chiediamo ancora perché il modello Aspromonte contro gli incendi sperimentato da Bombino non abbia trovato seguito. Una best practice fatta naufragare, salvo poi essere adottata da diversi altri parchi, come quello del Pollino, con evidenti risultati. Ma qui ci scontriamo con le logiche del non-senso».

    Kalon-Brion-Incendi
    Volontari di Kalon Brion impegnati a spegnere il fuoco durante gli incendi dell’estate 2021

    Mentre saliamo allo Zomaro, Gianluca è trasfigurato in Attis, giovane dio della vegetazione nella mitologia greca: «Abbiamo tutti la stessa origine e ognuno, nel suo profondo, conserva un richiamo primordiale che prima o poi lo porta a cercare il contatto con la natura. Noi lo aiutiamo a riaprire certi cassetti chiusi da tempo. Diamo le chiavi perché si ristabilisca il contatto profondo con ciò da cui veniamo. Il nostro campo base si trova allo Zomaro, nell’area dell’ex Ostello della Gioventù».

    L’area dell’ex Ostello allo Zomaro

    Zomaro è il punto più stretto del Parco e una delle sue porte naturali, allungato lungo il dossone della Melìa. Da qui si dominano il versante tirrenico e jonico. Tra le zone più umide dell’Aspromonte, lo Zomaro (Οζώμενος – acquitrinoso) straborda di una fitta vegetazione di faggi, abeti, pini e larici centenari e ospita sorgive di acque oligominerali. È li che ci trasferiamo dopo la tappa a Galatoni.
    L’ex Ostello allo Zomaro è un’area concessa dal comune di Cittanova con un bando per la ripulitura.

    Ex-Ostello-zomaro
    L’area dell’ex ostello di fronte al campo base di Kalon Brion

    «Cercavamo un quartier generale, un campo base dove svolgere le nostre attività all’aperto. Accogliamo e supportiamo ciclisti e turisti che fanno questa tappa lungo il loro cammino. Realizziamo attività di educazione al survivalismo e al natural living per grandi e piccoli, collaboriamo con le scuole proponendo laboratori didattici. Kalon Brion si è sempre distinta per il suo spirito di servizio verso il territorio e la montagna. Tanto abbiamo premuto e insistito perché quest’area dismessa potesse tornare patrimonio della comunità, fino a quando il Comune ha deciso di affidarcela: da tempo chiedevamo perché questa porzione di territorio dovesse restare abbandonata».

    Sotto al berretto di lana verde petrolio, dietro agli occhiali che riverberano la luce di mezzogiorno, sotto al peso di una montagna che sembra caricarsi sulle spalle, i suoi occhi celesti si accendono. Una sigaretta dopo l’altra, Gianluca scende dall’auto, allarga le braccia e mi invita ad entrare: «Quando abbiamo ottenuto le chiavi di questo cancello – racconta mostrandomi una recinzione rudimentale che cinge l’area – abbiamo festeggiato. Le prospettive erano grandi e poteva aprirsi una nuova stagione».

    Autogestione e natura

    Il breve sentiero che porta al campo base dello Zomaro fiancheggia a sinistra l’ex Ostello della Gioventù, unico punto in zona dove si sarebbe potuto alloggiare. «A vederlo dall’esterno sembra solido, ma è stato confiscato perché sede abusiva di opache riunioni e reso inagibile per via dei lucernari lasciati aperti. Ha all’interno 60 stanze, alcune con i mobili ancora nuovi, un forno a legna, un ristorante, ed è una delle pochissime strutture in Aspromonte non vandalizzate».

    A destra si apre lo spazio in concessione: 26.500 metri quadrati autogestiti, senza alcun finanziamento, che oggi sono il luogo dove si svolgono didattica, campi estivi, laboratori. Accanto, un piccolo prefabbricato attrezzato con un cucinotto. All’interno ci sono i lavori realizzati durante le attività: archetti per accendere un fuoco in condizioni di emergenza, cordame per reti, e tutto quanto necessario per soddisfare i bisogni primari in natura; ci sono anche reperti faunistici con cui viene spiegato, ad esempio, come e con quali materiali un volatile costruisce il suo nido. In un angolo le ricetrasmittenti e le fototrappole utilizzate per l’animal tracking, essenziale per mappare evoluzioni e criticità del territorio in base a cui orientare strategie di intervento. Comprese quelle contro il bracconaggio.

    Dalle Highlands allo Zomaro e dintorni

    Gianluca mi spiega anche che l’ecosistema della montagna non si limita ai pendii, ma scende a valle arrivando fino a mare: «Bisogna capire che ci troviamo in un punto unico al mondo. Gli scozzesi arrivano a studiare l’Ulivarella di Palmi perché si trovano minoliti presenti anche nelle loro Highlands. I ricercatori vengono qui a ricostruire la cronostoria dei movimenti della tettonica a placche e dell’orogenesi. Questo è il dato di realtà». È l’Aspromonte che con i suoi tentacoli di roccia arriva fino al Mediterraneo.
    Un’area unica in sue sensi: abbraccia un comprensorio molto più grande del Parco scendendo a valle e custodisce unicità da tutelare e valorizzare. «Bisogna progettare partendo dall’esistente, spesso trascurato», mi incalza Gianluca. Ed in effetti le opere di ripristino della rete di accesso al bosco e degli antichi sentieri annunciate a giugno 2020 da Regione e Comune di Cittanova, 180 milioni di euro sul PSR 2014/2020, non sono state ancora realizzate.

    I problemi con il Parco

    «L’atteggiamento delle istituzioni e del Parco deve cambiare. Bisogna capire che dobbiamo remare insieme nella stessa direzione. Se è vero che sotto la superficie le associazioni di animazione e promozione territoriale stanno creando sinergie, lo stesso non può dirsi per le autorità di gestione. Noi siamo quelli che fanno il tracciamento dei lupi e dei caprioli, siamo gli avio-osservatori, un lavoro non dovuto e non retribuito che mettiamo a disposizione. Anche da qui passa il futuro del Parco. Bisogna abbattere i muri comunicativi. Volevamo creare delle zone di controllo e monitoraggio della porzione nord dell’area montana di concerto con altre forze: dal Parco ci è stato risposto che le richieste non erano giunte, quando noi eravamo già in possesso dei certificati di avvenuta ricezione delle pec inviate».

    È un po quello che mi diceva anche Luca Lombardi: «Le guide rappresentano l’economia e le aziende all’interno del Parco, ma non siamo stati ascoltati. Abbiamo chiesto che certi processi portati avanti dalla precedente gestione fossero ripresi, che certe iniziative fossero promosse, che si puntasse l’attenzione su attività internazionali, come il Geoparco UNESCO o la Carta del Turismo sostenibile. Ci hanno respinti. Il Parco si è auto-isolato. Adesso, l’arrivo del nuovo direttore amministrativo Putortì fa ben sperare: appena insediato, ha incontrato le associazioni».

    Lo Zomaro mette le ali

    Il parco però sembra muoversi con nuove strategie. L’approvazione del progetto del Campo Volo a Zomaro proposto da CAP Calabria è un segnale. Si tratta di un’iniziativa dedicata all’aviotrasporto e alla flytherapy promossa da Giancarlo Fotia.
    Istruttore di volo, per la prima volta, accetta di farsi intervistare.

    zomaro-aspromonte

    «Porto avanti questa idea da 10 anni. Non è stato facile. All’inizio ho ricevuto un coro di no. Il Parco non si tocca. Qualcuno mi ha anche detto “la montagna è mia”. Ma io ero convinto di sì. Sono andato a prendere tutte le mappe, ho effettuato ricerche catastali, realizzato studi per dimostrare che l’impatto acustico degli aerei da diporto fosse irrisorio, diversamente da quello di fuoristrada e moto che scorrazzano senza grande controllo».

    E così ha individuato il luogo ideale per mettere in pratica la sua idea. «La lingua di terra di 800 metri che ho individuato è un prato allo Zomaro che delimita il confine col Parco. È nel parco, ma nella particella 16: una zona DS per l’alta antropizzazione destinata dal piano comunale di Cittanova ad area pubblica per attrezzature collettive. É pianeggiante e priva di vegetazione. Dai sopralluoghi si è scoperto che non è nemmeno necessario sbancare. In poche parole si tratta di delimitare la pista con cinesini in plastica frangibile e maniche a vento, e porre estintori mobili. Si accederà e si uscirà dal punto più vicino del confine del parco. Non ci saranno opere murarie».

    Fly-Therapy-1
    Fly Therapy in Veneto

    L’unione fa la forza

    «I campi di volo – continua Giancarlo – esistono già all’interno di altri parchi. Voglio lavorare insieme al Parco affinché il campo volo dello Zomaro sia un’occasione di sviluppo e di tutela per tutta l’area che versa in uno stato di abbandono e di scarso controllo. Altrove, grazie a queste forme di collaborazione, sono stati scoperti casi di abusivismo vari, dalla discariche alla caccia di frodo. La montagna è di tutti e a beneficio di tutti deve tornare. Ho intenzione di realizzare una scuola di volo e la fly therapy per bambini e ragazzi diversamente abili che possano vivere un’esperienza che può aiutarli».

    Le obiezioni al suo progetto non sono mancate. «Mi hanno accusato – racconta – di aver fatto tutto sotto traccia, ma carta canta: tutto è stato svolto con procedure di evidenza pubblica. Mi hanno obiettato che è una follia far volare aerei quando viene proibito l’utilizzo di droni nell’area. Ma i droni rappresentano un pericolo maggiore: hanno preso fuoco in volo, sono stati attaccati da rapaci, sono poco regolamentati perché utilizzano una tecnologia nuova. Voglio fare tutto coinvolgendo altre associazioni come Kalon Brion perché la tutela e lo sviluppo passano dalla sinergia. Bisogna lavorare tutti assieme».

    campo-volo-zomaro-aspromonte
    L’area che ospiterà il campo volo vista dall’alto

    Particolare e universale

    Lo scorso 29 dicembre il Comune di Cittanova ha pubblicato la Delibera di Consiglio N. 45 con cui approvava lo schema di convenzione tra municipio ed associazione per la gestione del campo volo dello Zomaro. Il progetto è già approvato.
    Questa storia ha visto contrapporsi diversi attori della montagna: ambientalisti, attivisti, sacerdoti della natura, imprenditori e operatori che hanno lamentato un eccessivo impatto, appellandosi alla necessità di dare priorità a interventi di riqualifica più urgente. Allora mi chiedo: può una tale iniziativa essere la spinta per realizzare migliori servizi a fronte del fatto che il piano straordinario di riqualificazione della percorribilità interna al Parco, 10 milioni di euro, è in fase di realizzazione? Lo sviluppo si stimola andando dal particolare all’universale o viceversa?

    Prima di rientrare, ci muoviamo tra i larici centenari per arrivare a una sorgiva. La segnaletica con i dati delle acque è corrosa dalla ruggine. Sarà vecchia di almeno 30 anni. É vero: la Regione Aspromontana ha bisogno di servizi, di controllo, di sinergie, di presenza. Della sua comunità che la viva, sottraendola all’abbandono e al de-sviluppo.
    Il sole cala, la nebbia si solleva, attaccandosi addosso col suo abbraccio bagnato. É tempo di andare. Porto con me nel crepuscolo verso la città del terriccio sotto gli scarponi, una borraccia di acqua di fonte e lo sguardo appassionato di Gianluca.

  • GENTE IN ASPROMONTE| Il polpo di pietra

    GENTE IN ASPROMONTE| Il polpo di pietra

    L’Aspromonte è un polpo. Guardandolo dall’alto l’impressione è quella di osservare una testa di animale da cui si diramano, a raggiera, tentacoli di roccia che si fanno strada tra le valli e le gole fino a raggiungere i due mari, lo Jonio e il Tirreno. La sensazione è sorprendente: è come vedere un animale preistorico sputato fuori dalle acque che tenta di ritornarvi. E niente più di questo gioco di rimandi tra la montagna e il mare coglie l’essenza di un territorio complesso che nasce, cresce e si sviluppa, a vari livelli, come testa di ponte sospeso tra Europa ed Africa, Oriente e Occidente.

    Queste Alpi calabresi – ultimo anello del blocco granitico-cristallino della Calabria – sono vecchie di trecento milioni di anni. Si estendono per 80.000 ettari, molti ricompresi all’interno del Parco Nazionale, e attraversano 37 comuni della Città Metropolitana di Reggio Calabria. Racchiudono ventuno Siti di Interesse Comunitario, due Zone di Protezione Speciale e ottantanove geositi censiti, suddivisi in 5 aree geografiche omogenee.
    Si tratta di una ricchezza inestimabile e sfaccettata che comprende una stupefacente biodiversità e un sincretismo culturale unico in tutto il Mediterraneo.

    Pastorizia e sequestri

    Raccontare l’Aspromonte e anche solo approcciarvisi è complesso e può sembrare un’impresa titanica. Un pezzo di territorio misterioso, spesso assurto agli onori delle cronache per malaffare all’ombra di una vita pastorale che, per secoli, si è sviluppata senza grandi cambiamenti. Se non quando, tra gli anni Settanta e Novanta, è divenuto tristemente noto come il covo impenetrabile dell’anonima sequestri calabrese che, con i suoi feroci e sanguinari rapimenti, ha accumulato il capitale da reinvestire in svariate attività illecite, prima tra tutte il traffico internazionale di stupefacenti.

    ph-Pietro-Di-Febo_Pietra-Cappa-vista-dallalto
    Pietra Cappa vista dall’alto (foto Pietro Di Febo)

    Ed è allora che Pietra Cappa, monolito tra i più grandi d’Europa, geosito oggi osservato e studiato a livello internazionale come un gigante geologico dalla caratteristiche uniche, per secoli simbolo di Persefone, divinità polimorfa, venerata come candida fanciulla, come donna satura di passione, come potenza degli inferi, come luce, simbolo di vita primaverile, come tenebra, emblema di morte e sonno invernale, la mamma dei pastori e di quella cultura agro-pastorale ormai in via di estinzione, è diventato emblema di ferocia.

    La montagna dei due mari

    Oggi questa terra eletta di emigrazione, con le sue enclavi linguistiche intrise di vergogna, un versante tirrenico a tratti tropicale e lussureggiante, e uno jonico brullo, arido e più impervio, rivive. Alla stagione dei sequestri, lo Stato ha risposto anche con l’istituzione dell’area protetta nel 1989 cui è seguita quella dell’ente gestionale nel 1994.
    La montagna ha cominciato a riemergere dalle acque di quell’oscura e fitta macchia mediterranea che per anni aveva custodito i suoi mirabili segreti, fatti di terre senza tempo, riti stagionali, culti religiosi, accatastamenti culturali in cui Bisanzio si mischiava a Roma, Atene e Gerusalemme, portando fino a noi tracce di un passato remoto ancora presente.
    La sua scarsa antropizzazione, la precarietà di vie di comunicazione rimaste identiche per secoli e l’isolamento sono gli elementi che hanno tramesso in modo vivido e, nel bene e nel male, in un certo qual modo ancora attuale la conservazione di strutture sociali, schemi culturali e pattern valoriali atavici.

    L’Aspromonte che si unisce

    Tre fenomeni diversi susseguitisi in un breve lasso di tempo hanno interrotto questo processo:

    • Il boom degli anni Sessanta con l’abbandono dei centri montani che ha favorito il de-sviluppo della montagna e della sua economia;
    • Le ondate di emigrazione che, dagli anni Settanta, hanno desertificato le piccole comunità;
    • L’avvento del paradigma digitale che, dagli anni Novanta, sta globalizzando i trend della cultura di massa.

    Al tempo stesso il pattern digitale, con la sua nuova rivoluzione industriale, si è rivelato formidabile per connettere, facilitare processi, moltiplicare, diffondere, avvicinare, divulgare. Persone, territori, operatori, ricercatori, turisti, escursionisti, imprenditori si sono trovati avvicinati, semplificati nel creare reti di interesse comune, facilitati nello scambio di informazioni, nelle procedure, nelle interazioni. La tecnologia ha dato una mano accorciando la dimensione dello spazio-tempo. E questo ha favorito il fiorire comunità di scopo, dall’animazione territoriale, al turismo, alle filiere produttive che, pur con i loro passi avanti, restano ancora ad uno stadio poco più che embrionale.

    L’Aspromonte e i suoi tentacoli

    La vera natura dell’Aspromonte è riemersa: non una mera montagna, ma una rete complessa e capillare di entità, paesi, borghi e comunità che ha vissuto con, per, addosso e in prossimità del monte. A maggior ragione l’Aspromonte è un polpo: perché i suoi tentacoli di pietra che attraversano luoghi e popoli sono i nervi di ciò che Gregory Bateson (gli chiedo subito scusa) ha definito ecosistema.

    L’Aspromonte oggi è più polpo che piovra: la ribalta per il riconoscimento di Global Geopark della rete Unesco, un rinnovato interesse escursionistico, promosso dalla passione e dal febbrile lavoro delle guide ufficiali, composte da operatori del turismo montano e da professionisti della ricettività diffusa, l’attenzione verso la cultura del chilometro zero, la semplificazione dei processi di comunicazione, la mutate priorità di vita e lavoro derivate dalla pandemia, l’interesse per le isole linguistiche, rendono oggi la Regione Aspromontana meta di rinnovato interesse e terreno fertile in cui germinano la piccola imprenditoria e l’associazionismo.

    Passato, presente e futuro

    Viaggiare in Aspromonte significa andare alla scoperta di un passato che resta presente e si prepara ad essere futuro. Vuol dire scoprire le radici di chi è andato, di chi è rimasto. E, soprattutto, di chi è ritornato, categoria che viene poco osservata ma che rappresenta il grande corso che scorre sottotraccia. Dei ritornati si parla poco, ma ci sono. E sono quelli che, forse più di tutti, svolgono un lavoro di cucitura tra quel passato e questo presente.
    Si tratta di giovani tra i 25 e i 35, come Gianluca, Nicola, Andrea, Rocco, con un passato di diversi anni in giro per l’Italia o all’estero, artigiani di vini, di cucine, agricoltura e cavalli che hanno deciso di rientrare. Con la loro esperienza e il loro bagaglio, contro lo stereotipo del «vatindi, non c’è nenti», sono ritornati per investire, senza negare gli ostacoli cui andavano incontro.

    Quelli che ci credono

    Sono quelli che ci credono. E sono i protagonisti di questo movimento che c’è ma non si vede. Affiancano i restati, come Tiziana, Luca, Pasquale, Piero, Attilio, stringono alleanze: fanno come le tegole del tetto, si danno l’acqua l’un l’altro.
    Sono i protagonisti del mio racconto, sono gli enzimi di questa infrastruttura umana, culturale, del cuore, della fiducia su cui ha puntato il professor Giuseppe Bombino, già a capo dell’Ente Parco durante gli anni del suo mandato.

    bombino-giuseppe
    Giuseppe Bombino, ex presidente del Parco

    Sono il buono che c’è e che bisogna sostenere. Attraverso i loro occhi, le parole, le attività, l’impegno, ho costruito le puntate che si susseguiranno con diversi scopi:

    • fare una fotografia di quello che oggi sta accadendo e che in molti non conoscono;
    • riflettere sulle criticità del territorio, del rapporto con gli enti pubblici e di certe operazioni culturali;
    • riaprire il dibattito sull’annosa questione dello sviluppo delle aree interne tornata in auge con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

    L’Italia interna è quella fatta di quasi 4.000 comuni, il 58,8% della superficie nazionale, popolata da circa 13,4 milioni di persone. L’Aspromonte ne è pienamente parte. E quando ho deciso di iniziare questo viaggio l’ho fatto con questo spirito di scoperta e ricerca: alla volta di territori, popoli, uomini e donne partiti, restati o ritornati.

  • Festival del diritto: tiktoker e Montesquieu a colpi di codice

    Festival del diritto: tiktoker e Montesquieu a colpi di codice

    «Non è un Festival sulla legalità astratta, ma un evento letterario e culturale calato nel mondo in cui viviamo: quest’anno ci occupiamo di democrazia». Inizia così la conversazione con Antonio Salvati, magistrato napoletano e palmese adottato, alle 8.30 del venerdì mattina seguente alla conferenza stampa di presentazione del X Festival Nazionale di Diritto e Letteratura della Città di Palmi (20-22 aprile 2023).

    CLICCA QUI PER SCARICARE IL PROGRAMMA DEL FESTIVAL

    Siamo al tribunale di Reggio: ho redistribuito i miei impegni per riuscire a vederlo. «Sono contento che siamo riusciti a incontrarci. Mi ha colpito, nella nostra chiacchierata telefonica, che lei abbia insistito per vederci. Oggi si fa prima con lo scambio di comunicati stampa?».

    festival-diritto-letteratura-palmi-tiktoker-sfidano-montesquieu
    Il tiktoker Usso96
    Sarà anche vero – ribatto -, ma è la conseguenza del depauperamento della professione. Se per tirar su uno stipendio decente bisogna scrivere duecento pezzi al mese, capirà che la forchetta tempo/approfondimento si assottiglia fino quasi a sparire. Peccato perché il giornalismo è una delle gambe della democrazia.

    «Pensi, quest’anno, per il nostro decennale, all’aula Scopelliti del Tribunale di Palmi processeremo i social network! Intendiamoci: si tratta di un processo atecnico, fittizio, di uno spunto di riflessione, per approfondire il legame tra forma di governo, contesto socio-economico e innovazione tecnologica. Il pubblico Ministero sarà Dario Vergassola, la difesa verrà rappresentata dal tiktoker Usso96 e il giudice sarò io. Partiamo dal presupposto che la globalizzazione abbia innescato due processi: il rafforzamento del potere esecutivo e il crollo dei corpi intermedi mentre noi siamo stati parcellzzati. Tutto deve essere veloce e ad immediata portata di mano».

    Mi torna: ogni cambio di paradigma porta crolli e nuove regole di organizzazione. Sono i temi che tratto a scuola con i miei studenti: il digitale, le piazze virtuali, i tribunali del popolo versione social network, l’epoca del click, i processi mediatici sommari, l’individualizzazione, la partecipazione.

    «Quando nel 2015 chiesi al professor D’Alessandro dell’Alta Scuola di Giustizia Penale di Milano se credesse che portare un festival sugli studi di Diritto e Letteratura fuori dalle aule universitarie e verso il mondo della scuola fosse un punto di debolezza, mi risposte che no, che anzi rappresentava la forza dell’iniziativa. Eravamo alla seconda edizione e l’idea che con i ragazzi si dovesse lavorare attraverso le dimensioni di semplicità e curiosità è stata vincente. Avvicinare la scuola al mondo del diritto è più facile attraverso la letteratura».

    In che senso?

    «Cerchiamo di mostrare come il diritto non sia semplicemente appannaggio delle aule di un tribunale, ma riguardi la convivenza di tutti noi. La letteratura e la finzione sono i nostri attrezzi del mestiere. Lavorando con attori, scrittori, tiktoker, come quest’anno, svestiamo le toga e cerchiamo di avvicinarci alla generazione Z. Non mi ritrovo nell’assunto di Montesquieu che i magistrati siano la bocca della legge».

    festival-diritto-letteratura-palmi-tiktoker-sfidano-montesquieu
    Piero Calamandrei
    Però la magistratura è percepita come una delle caste di questo Paese. La voce del popolo pensa che siate intoccabili, per restare nel solco di un dibattito allargato sulla democrazia.

    «Sicuramente c’è qualcuno che vorrebbe far proprio questo modello. Io la penso diversamente. Prenda l’esempio del periculum in mora, il possibile danno in cui potrebbe incorrere il diritto soggettivo: la valutazione su questo periculum non si può fare se non si resta essere umano, con la propria esperienza di vita: cosa che nessuna intelligenza artificiale o algoritmo potrà mai fare. Per Calamandrei, prima di giudicare, un magistrato avrebbe dovuto sperimentare quindici giorni di carcere. In altre parole, per fare bene il suo lavoro, un giudice ha necessità di un gap esperienziale che gli permetta di operare coerentemente con il contesto, consapevole di essere persona tra persone. L’idea di smettere di essere persona per diventare un asettico braccio della legge non mi rappresenta».

    festival-diritto-letteratura-palmi-tiktoker-sfidano-montesquieu
    Lo scrittore portoghese Josè Saramago
    Ecco, non c’è democrazia senza rappresentanza e non c’è rappresentanza senza partecipazione. Un po’ ovunque, per lo meno in Europa, i dati sull’affluenza raccontano di una disaffezione. Chi elegge è una minoranza della maggioranza. E più in generale la partecipazione alla vita pubblica si affievolisce…

    «Jose Saramago in Saggio sulla lucidità racconta di un Paese in cui ad un tratto votano scheda bianca, con le conseguenze che ne derivano. É un esempio di cosa è e come si muove il Festival: contattiamo le scuole, chiediamo di aderire. Diamo il tema, Consigliamo di leggere il testo di riferimento che scegliamo per parlarne assieme. Tutto si tiene. Allargando il discorso questo modello, che è un po una metodologia, mira a fare uscire il diritto fuori dai suoi tecnicismi per divulgarlo, calandolo nella realtà di tutti noi. Il Festival è stato in alcune circostanze evento di formazione nazionale della Scuola Superiore della Magistratura, proprio perché il modo in cui affronta le tematiche che tratta contribuisce all’abbattimento dei bias cognitivi, ossia di quelle forme di pre-giudizio da cui un magistrato può essere influenzato, ma che occorre scongiurare per evitare prima stereotipi e poi errori. In seguito quello che era nato come strumento di formazione per giuristi si è trasformato ed è stato allargato alla scuola».

    Nella prima parte de I tweet di Cicerone, l’autore affronta un tema cruciale per il nostro mondo, i cambiamenti causati dal passaggio dall’oralità alla scrittura. E mostra come, in ogni grande passaggio, le categorie degli apocalittici e degli integrati siano sempre esistite. Cosa possiamo fare noi, la generazione-cerniera, per dare ordine nel passaggio dall’analogico al digitale?

    «Innanzitutto dire ai ragazzi che va tutto bene, andando noi, che abbiamo le spalle più robuste, verso di loro. Spiegando che certi tempi vanno affrontati. Bisogna uscire da questa tendenza accademica, che è molto italiana, e spingere sulla divulgazione. Ce lo ha insegnato Piero Angela: c’è modo e modo di affrontare le cose e modo e modo di narrarle. L’efficacia comunicativa è scandita dal come: per affrontare con il pubblico riflessioni apparentemente pesanti su temi come il cambio di paradigma, la democrazia 4.0, la partecipazione, i valori, gli stereotipi bisogna trovare la chiave giusta».

    Piero Angela, volto noto della tv italiana per tanti anni
    É contento dei risultati raggiunti?

    «Molto contento. Ritengo il Festival di diritto e letteratura di Palmi un formidabile strumento di umanizzazione e divulgazione e le posso assicurare che siamo sicuri di una cosa: il Festival lo faremo sempre, con qualsiasi budget, sia con zero fondi, sia con risorse più importanti. Se lo avessimo presentato come un’iniziativa sulla legalità in Calabria, sicuramente avremmo avuto maggiore risonanza, ma non è quello che volevamo».

    A proposito di stereotipi… la Calabria?

    «Le dico una cosa: girando l’Italia vedo negli occhi la delusione di qualcuno quando dico che che in Calabria faccio una vita normale. Spesso si è convinti che per fare questo lavoro in Calabria si debba girare con l’elmetto. Paragonando lo stereotipo calabrese con quello napoletano, ho la sensazione che il secondo assuma venature di leggerezza, mentre per il primo sembra manchi un piano B. Eppure sono convinto che la Calabria ce la farà. Ma deve smettere di raccontarsi attraverso gli stereotipi che le hanno cucito addosso. Perché questa terra, con il suo radicamento a certi valori, può essere laboratorio di modernità al di fuori dell’omologazione».

    É fiducioso?

    «Si. Il giorno migliore della nostra vita è domani. La aspetto al Festival».

  • Sesso malato: l’allarme c’è, ma non si dice

    Sesso malato: l’allarme c’è, ma non si dice

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

     

    Nel 2017, il 56° Congresso nazionale dell’Associazione Dermatologi Ospedalieri lanciava l’allarme sull’aumento delle infezioni sessualmente trasmesse (MST): HIV, sifilide, gonorrea, condilomi, patologie funginee, ecc. Dal 2000 in Italia la sifilide è aumentata del 400%. Il notiziario dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) sull’aggiornamento delle nuove diagnosi da HIV e AIDS al 31 dicembre 2021 segnala una costante diminuzione delle infezioni dal 2012.

    Tuttavia, pur se su base nazionale, alcuni dati fanno riflettere: dal 2015 aumentano le persone cui viene diagnosticata tardivamente l’infezione HIV e nel 2021 più di 1/3 delle persone affette scopre di esserlo per la presenza di sintomi o patologie correlate, a fronte di un aumento della proporzione di malati di AIDS che lo apprende nei pochi mesi prima del suo sviluppo. In questo contesto la Calabria è virtuosa: è tra le ultime in Italia per contagi e infezioni, ma una di quelle che esporta di più in termini assistenziali (il 25% dei casi).

    iss-sede
    La sede dell’ISS

    Parlare oggi di MST, dopo due anni di pandemia in cui screening ed attenzioni sanitarie sono state tutte rivolte al Covid, è più complicato. Lo confermano sia l’ISS, sia i medici ascoltati. Si può affermare che, almeno per quanto riguarda HIV, dopo il ventennio ‘80 e ‘90 e la lotta all’epidemia di AIDS, i contagi si sono abbattuti tanto da far destinare i fondi della comunicazione sociale ad altre problematiche come l’obesità. Eppure, sia a livello nazionale che locale, le ricerche raccontano di un’attenzione calata: di MST si parla pochissimo. Non esistono campagne di prevenzione, non si fa comunicazione. Ciò ha fatto in modo che le diagnosi siano nella maggior parte dei casi tardive e sottoporsi ai test tutto meno che un’abitudine.

    HIV e sifilide: il caso della città dello stretto

    Reggio Calabria è un caso esemplare. Al reparto di Malattie infettive del Grande Ospedale Metropolitano dicono che nel biennio tra il 2018 e il 2019 hanno registrato un’impennata di infezioni di HIV e sifilide specie nei giovani dai 25 anni in su. Pur trattandosi spesso di pazienti omo-bisessuali, l’incidenza degli etero è aumentata. Una recente pubblicazione di Microbiologia dello stesso presidio, che indaga l’andamento delle infezioni da sifilide nel periodo pre-pandemico e pandemico da COVID-19, certifica un andamento costante delle infezioni, già aumentate nel biennio precedente. La ricerca mostra anche che, nella stragrande maggioranza dei casi, il test è stato fatto in strutture private e il trattamento terapeutico effettuato con un passaggio a livello ambulatoriale, ospedaliero. Chi mastica l’argomento, conosce le relazioni che sussistono tra sifilide e HIV: la prima, soprannominata anche “autostrada per HIV”, tende ad aprire una breccia nel sistema immunitario e a rendere più facile il contagio.

    gom-reggio-calabria
    Il GOM di Reggio Calabria

    A dare uno spaccato della situazione è il dottor Alfredo Kunkar: «A fronte di una maggiore libertà di costumi sessuali, l’affermarsi di una maggiore promiscuità vissuta con troppa leggerezza rappresenta la prima causa di questa situazione. Unendo a ciò l’assenza di una cultura della prevenzione, il quadro è chiaro. Se è vero che la sifilide fino a qualche anno fa sembrava superata, il suo ritorno, anche in fasce della popolazione non costituite da categorie fragili (tossicodipendenti, prostitute, ecc.), ma dai cosiddetti “insospettabili”, abbinata ad una maggiore incidenza dell’HIV, dovrebbe aprire una riflessione sul tema, soprattutto tra i più giovani. Il fatto che ci sia poco dibattito e poca prevenzione, che a scuola non si parli di educazione sessuale, ha creato una percezione erronea di ciò che implica averci a che fare e su come affrontare terapie contro le infezioni sessuali».

    Consultori solo a Catanzaro e Cosenza

    Il medico chiarisce ulteriormente la situazione: «Tra i ragazzi si è radicata la convinzione, ad esempio, che di AIDS non muoia più e che le infezioni HIV siano curabili. La medicina ha fatto passi da gigante dalla grande emergenza degli anni ‘80, ma ricordiamoci che la severità di una patologia dipende dalla condizioni dei singoli e dal fatto che la diagnosi venga effettuata ad uno stadio già avanzato dell’infezione, ovvero che l’HIV sia degenerato in AIDS. Altro elemento importante: quando entrano in terapia, molti non hanno ben chiaro che si tratta di un trattamento a vita. Sono convinti che sia transitorio, ma così non è. Quando scoprono la verità hanno contraccolpi psicologici rilevanti che, in caso di richieste dei pazienti, affrontiamo appoggiandoci al reparto di psichiatria dell’ospedale. La paura più grande dei pazienti è legata allo stigma, specie in ambito professionale».

    sanita-calabrese-otto-commissari-per-restare-anno-zero-i-calabresi
    L’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria

    Per la provincia di Reggio, inoltre, a differenza che per Catanzaro e Cosenza, non esistono consultori territoriali che si occupino di MST. Secondo Santo Caridi, direttore sanitario dell’ASP di Reggio, il problema riguarda due aspetti: la scarsità di fondi e la mancanza di programmazione.

    Papilloma, una buona notizia c’è

    Secondo la dottoressa Francesca Liotta, direttrice sanitaria di Polistena, i dati disponibili sono solo una faccia della questione: «Temo si tratti di dati parziali. Credo che il sommerso sia molto più cospicuo. Nel nostro ospedale non abbiamo registrato casi negli ultimi due anni, ma sappiamo per certo che la popolazione non è abituata a fare screening regolari. Le analisi per infezioni sessuali che effettuiamo sono prevalentemente fatte post ricovero per altre patologie e vengono richieste dai reparti intensivi. Capita che ci siano pazienti che arrivano lamentando alcune sintomatologie e che però si rifiutino di approfondire le indagini, anche in caso di sospetto HIV.

    papilloma-virus-vaccino
    Un vaccino contro il papilloma virus

    L’arrivo del coronavirus, poi, ha avuto il suo peso. Aggiunge Liotta: « Non scordiamoci che il Covid ha cambiato l’ordine delle priorità. L’emergenza pandemica ha fatto sì che l’attenzione verso altre criticità diminuisse anche nella percezione della popolazione. Le faccio un esempio: nel mio presidio ci siamo resi conto che c’è una grossa incidenza da infezioni funginee. Siamo invece a buon punto con la campagna di vaccinazione contro il Papilloma Virus, l’HPV». Rispetto al Papilloma anche nel presidio di Locri e a Reggio la copertura vaccinale è alta. È una buona notizia, perché l’HPV può aprire la strada ad ulteriori infezioni sessuali.

    Cultura e prevenzione

    Tutti concordano nel sottolineare un’assoluta mancanza di informazione e di cultura della prevenzione. «Compresa una mancanza di compliance – dice Cosimo Infusini, patologo e responsabile del settore Microbiologia clinica dell’ospedale di Polistena – con i medici di famiglia». Servirebbero due elementi fondamentali: budget da investire e sinergie da sviluppare. Per il primo aspetto, sia a livello ministeriale che di presidi locali, le coperture mancano. Quanto al secondo, investire a scuola, fin da quando la popolazione diventa sessualmente attiva, abbatterebbe la soglia di rischio, creando più consapevolezza e un impatto economico e sociale meno violento. Liotta batte molto su questo punto: «Oltre alle famiglie e alle scuole deve migliorare l’impegno di tutto il tessuto associativo dei territori. Una maggiore sensibilità e attenzione aiuterebbero molto. È un tema che riguarda in generale la saluta pubblica».

    hiv-aids-sifilide-calabria-farmaci
    Farmaci utilizzati nelle terapie antiretrovirali

    Il problema di una scarsa cultura sanitaria, riguarda anche la PrEP, la terapia pre-esposizione a base di farmaci antiretrovirali che scherma dall’HIV in caso di rapporti occasionali non protetti. Se in alcune Regioni (Toscana ed Emilia Romagna) la PrEP è a carico dei sistemi sanitari regionali senza costi per gli utenti, la Calabria non la prevede. È sì disponibile nelle farmacie, ma sotto prescrizione medica e a pagamento. Anche di questo si parla troppo poco, perché è vero che la PrEP difende da infezioni HIV ma non dal resto. Elemento non sempre chiaro: Uutilizzare la PrEP non protegge da tutto, elemento spesso ignorato. E il suo uso continuativo può portare a disfunzioni renali. I farmaci utilizzati sono gli stessi dati in terapia ai sieropositivi, ma con un dosaggio più blando. Questo significa che, se hai rapporti non protetti, puoi evitare l’HIV, ma sei esposto a tutto il resto», chiarisce Kunkar.

    PrEP e post-esposizione: rafforzare il counseling infettivologico

    Secondo l’infettivologo Carmelo Mangano, esperto in HIV, «dovrebbe essere ampliata la possibilità di offrire la profilassi pre-esposizione o quella post-esposizione dopo un rapporto a rischio, accompagnandole con un counseling infettivologico per l’utilizzo dei chemioterapici antiretrovirali. Servirebbe non solo un facile accesso al servizio di diagnosi ma anche un facile accesso territoriale di cura, al netto dell’offerta ospedaliera che andrebbe riservata agli acuti critici, offrendo un servizio di qualità e di utilità pubblica».

    «Sul nostro territorio prosegue Mangano – ci sono gli attori qualificati ed esperti in Prevenzione, si tratta di comprendere in termini di politica sanitaria il problema relativo alla necessità di profilassi delle MST creando anche un ambulatorio di riferimento, oltre al laboratorio diagnostico dell’ASP Polo Nord di Reggio. Assieme a campagne di sensibilizzazione sull’uso dei contraccettivi per ogni tipo di rapporto si potrebbero ridimensionare le spese e offrire un servizio migliore per gli utenti che, sempre più frequentemente, chiedono prestazioni sanitaria specifiche per le MST».

    La testimonianza: vivere con l’HIV tra stigma e pregiudizi

    «Sono sieropositivo da gennaio 2016, o per lo meno è quando l’ho scoperto. Sono andato a fare gli esami perché, avendo notato strani sintomi fisici, come mal di gola, rush cutanei, ingrossamento dei linfonodi, ho cercato informazioni su forum dedicati e da lì ho iniziato a prendere consapevolezza. A mia memoria non avevo avuto comportamenti sessuali a rischio, ma può essere che fossi già infetto. Nel 2007, 11 anni prima, infatti mi era stata diagnosticata la sifilide. Non avevo mai pensato prima di fare il test. Non sono andato in ospedale, ma in una struttura privata territoriale. Successivamente ho rifatto le analisi in ospedale e ho iniziato la terapia. Sono stato fortunato perché non sono mai sceso sotto gli 800 CD4/ml, che sono le sentinelle della solidità del sistema immunitario. Un sieronegativo ne ha una soglia base di 1000.

    Sono entrato in terapia a meta febbraio 2016. L’impatto è stato terribile. Prima di prendere la prima pillola ho pianto a lungo: ero consapevole che la mia vita sarebbe cambiata. Il primo anno è stato duro perché ero spaventato, ma ho iniziato a studiare e informarmi su Hivforum.info, la piattaforma più aggiornata dal punto di vista della ricerca e delle testimonianze. Mi è servito tempo per metabolizzare. L’ospedale di Reggio non mette a disposizione un’equipe di supporto psicologico per chi fa questo accesso. È vero che Malattie Infettive collabora con Psichiatria ove necessario, ma ne faccio una questione di metodo: non è il paziente a dover chiedere il supporto, ma la struttura a dover fornire fin da subito il supporto psicologico. Dal confronto con pazienti che si curano altrove so che in altri contesti, come Milano, Firenze, Roma, le cose funzionano diversamente.

    aids-hiv-sifilide-calabria-test

    Ho passato momenti di paura, ma per vincerla bisogna informarsi. Studiare e capire aiuta anche la propria postura psicologica. L’HIV non è una malattia, ma un’infezione cronica che può trasformarsi in patologia se non viene trattata. Sono arrivato a pensare che è meglio l’HIV che un cancro al pancreas. Ad oggi la terapia ti consente una vita normale, anche di avere figli senza mettere in pericolo la loro salute o quella della madre. Certo, vivo in terapia vita natural durante, ma ho la stessa aspettativa di vita dei sieronegativi. Ho conosciuto persone la cui diagnosi era arrivata mentre avevano un livello di CD4 di 4/ml, il che significa sistema immunitario distrutto. Con un mese di trattamento sono tornate a livelli quasi normali.

    Ad oggi nessuno sa di me, tranne la mia famiglia, perché lo stigma è ancora alto: l’ignoranza instilla pregiudizio. Manca parlare di MST, di contraccezione, di prevenzione. La mia famiglia ha reagito bene, anche se il colpo è stato duro. Io mi controllo costantemente e loro sono sempre informati sulle mie condizioni. Ho deciso di non dirlo alla mia ragazza. La mia carica viremica è pari a zero e non ho obblighi giuridici. Potrebbe insorgere un obbligo morale, ma è un tema che andrà affrontato quando e se decideremo di costruire un percorso di vita comune.

    Di certo c’è che in tutti questi anni mi sono state fatte solo una TAC e una risonanza magnetica: il problema della sanità di seria A e di serie B esiste. Le persone sieropositive come me che vivono in contesti più ricchi hanno altri tipi di servizi, a partire dal fatto che hanno praticamente il loro infettivologo personale. Una cosa che qui a Reggio non ho mai visto, forse anche per una organizzazione del reparto che potrebbe essere migliore.
    Bisogna fare educazione sessuale, parlare, diffondere cultura. Ricordiamoci una cosa: i sieropositivi monitorati non mettono in pericolo nessuno. Non c’è motivo di avere paura. È ora di sradicare questo stigma».

  • Melia e le grotte di Trèmusa: se un disastro si trasforma in opportunità

    Melia e le grotte di Trèmusa: se un disastro si trasforma in opportunità

    Quella di Melia è una storia di rigenerazione. Una rigenerazione che parte dal basso, da piccoli passi compiuti sui territori da cittadini che, da una parte, si battono contro l’abbandono e l’isolamento e, dall’altro, fanno squadra per valorizzare le proprie comunità ed i tesori che custodiscono. In altri termini trasformano un disastro in opportunità. Vediamo come.
    Melia, provincia di Reggio Calabria, è una borgata di Scilla abbarbicata sulle pendici dell’Aspromonte, appena fuori dall’area di competenza del Parco. Non si tratta di un dettaglio perché le grotte di Trèmusa, ad oggi ancora inaccessibili per la frana di cui parleremo, hanno fornito un contributo essenziale per i riconoscimenti guadagnati dal Parco Aspromonte in ambito Unesco.

    L’antefatto: Melia isolata

    A giugno 2021 si verifica una frana sulla strada interpoderale nel territorio della frazione scillese. Ne segue, il successivo dicembre, una seconda che lascia praticamente il territorio isolato. Si tratta dello smottamento della Strada Provinciale 15, Scilla-Melia. Qualche anno prima la Città Metropolitana aveva stanziato 300 mila euro per interventi di messa in sicurezza in un cantiere partito e abbandonato da tempo.

    La frana sulla Sp 15 Scilla-Melia
    La frana sulla Sp 15 Scilla-Melia

    La frana del giugno 2021 ha consentito di organizzare una ricognizione archeologica nell’area immediatamente adiacente alle grotte di Trèmusa. La ricognizione è stata promossa dall’associazione Famiglia Ventura, supportata dall’associazione La Voce dei Giovani e dalla parrocchia di Melia, finanziata dai Lions e diretta dall’archeologo Riccardo Consoli. Due i gruppi di lavoro: il primo coordinato dal topografo Antonio Gambino, che si è occupato di effettuare i rilievi e la pulitura paesaggistica nella zona delle gole; il secondo da Consoli, che ha effettuato una prima indagine stratigrafica del suolo.

    Risultati superiori alle aspettative

    Doveva trattarsi di una semplice attività didattica con gli studenti dell’Università di Messina e di Firenze, ma i risultati hanno superato le aspettative.
    Ne è emerso un quadro affascinante: sotto il manto stradale sono state individuate diverse stratificazioni, risalenti a diverse epoche che vanno dal periodo tardo ellenistico a quello borbonico. Riemersi parte del percorso di epoca romana e un ciottolato di età borbonica. Le ricerche hanno permesso di individuare il tracciato della vecchia Popilia proprio presso il valico del Vallone Favazzina su cui affacciano le gole di Trèmusa. Non era scontato che fosse così: non vi era certezza che la strada consolare romana passasse da quell’area.

    La Storia è passata da Melia

    Lo spiega Riccardo Consoli, archeologo dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Assieme a Lino Licari, guida paesaggistica e archeologo ante litteram, e a Gambino, Consoli ha compiuto i rilievi. Secondo il ricercatore quello delle grotte di Tremusa «è l’unico passaggio per attraversare il territorio venendo da Nord. Superati i piani di Corona, giunti e oltrepassati i piani di Solano, sorpassato il Vallone di Bagnara e arrivati a Favazzina, sarebbe stato difficoltoso dirigersi a Sud scendendo verso il mare per poi risalire. Dato che è accertato che il percorso della via Popilia passasse dai piani, l’unica via percorribile doveva passare per il Vallone di Tremusa che collega la via del Nord con l’altopiano di Melia per poi scendere da Campo Calabro fino a giungere a Reggio».

    via-popilia-melia
    L’antica via Popilia

    «All’altezza del vallone di Tremusa – prosegue Consoli – insiste una lingua di terra che consente un attraversamento dolce tra le due sponde della vallata. Dai primi rilievi effettuati sull’area, abbiamo rinvenuto diverse tracce di questa strada, attraverso alcuni elementi visibili: fontane, canalette e una serie di dettagli che fanno riconoscere che si tratta di un percorso tracciato in epoca romana. Ed in effetti fino all’Ottocento, ossia fin quando non si è iniziato ad adottare il cemento armato, quel percorso è rimasto tale. Anche la strada regia passava da lì».

    «Melia, per la sua posizione, era il trait d’union tra la Sicilia e il varco per il Nord. Un crocevia. Questo – conclude l’archeologo – ci fa affermare senza ombra di dubbio, anche sulle tracce del passaggio di Sant’Antonio da Padova che risalì verso Nord dopo il naufragio a Milazzo, che la Storia è passata da Melia. Questi dati non sono solo importanti a livello archeologico, ma possono rappresentare l’avvio di nuovi percorsi turistici e di trekking per rivalutare un’area di indubbia importanza storica».

    santantonio-milazzo
    Devoti di Sant’Antonio da padova in pellegrinaggio a Milazzo

    L’importanza delle grotte di Trèmusa

    Si tratta dei primi rilievi effettuati dopo duecento anni. Nell’ambito della ricognizione, il gruppo di Gambino è riuscito a sviluppare un modello in 3D misurabile delle grotte, combinando la fotografia terrestre a un GPS. Le grotte, che fanno parte del bacino idrografico della fiumara Favazzina – in particolare del suo affluente, il Trèmusa – si sono rivelate molto più ampie e profonde di quello che possono apparire. L’area è molto vasta, scende nel ventre della montagna per diverse centinaia di metri con fenomeni carsici visibili e ben percepibili. All’ingresso c’è una sorta di arco, o semicerchio. Sulla destra, un grande spazio aperto, che affaccia sul Vallone Trèmusa, da dove iniziano i cunicoli che si tuffano nella montagna. A sinistra, invece, c’è una sala altrettanto ampia dove è più evidente la carsicità del luogo.

    grotte-tremusa-melia-conchiglie
    Conchiglie fossilizzate nelle viscere delle grotte di Trèmusa

    Proprio all’ingresso è stato rilevato un accumulo di terra non indifferente su cui effettuare analisi stratigrafiche più approfondite che potrebbero portare a scoprire nuovi elementi. La presenza dell’acqua, che in passato doveva essere molto più abbondante, e la possibilità di trovarvi riparo ha rafforzato l’ipotesi che potesse trattarsi di un luogo di passaggio battuto e utilizzato in passato, grazie anche alla presenza di numerosi terrazzamenti intorno. Si dovrà stabilire con studi più approfonditi se abbia avuto altre destinazioni d’uso, quale eventuale luogo di culto.

    Melia e il Parco dell’Aspromonte

    L’attività svolta, senza essere stata concordata preventivamente, si inserisce in modo naturale nel rinnovato impulso che l’Ente Parco Aspromonte dedica alla speleologia con una serie di progetti già in cantiere. Gli esiti della ricognizione collocano Melia sotto una lente di rinnovato interesse, sia dal punto di vista speleologico, sia da quello squisitamente storico-culturale. Motivo per cui è nata l’idea di inserire il borgo nella rosa di luoghi dove portare gli alunni delle scuole che aderiscono ai progetti di formazione del Parco dell’Aspromonte.

    parco-aspromonte
    Uno scorcio del Parco dell’Aspromonte

    Qualche giorno fa la Città Metropolitana ha annunciato lo stanziamento di 600 mila euro per il recupero della SP 15: un provvedimento atteso da tempo e rafforzato anche dall’emergere di una valenza culturale del borgo ancora inaccessibile da Scilla. Valenza costituita dalle scoperte emerse dalla ricognizione archeologica e dalla presenza di quelle gole che hanno contribuito, pur se fuori Parco, al riconoscimento dell’Aspromonte come geoparco Unesco. L’attività ha permesso non solo di scoprire importanti tracce del passato, ma ha richiamato studiosi, esperti, istituzioni, associazioni locali a lavorare per la comunità. La stessa Soprintendenza per i Beni Culturali ha aperto uno specifico dossier.

    L’unione fa la forza

    Le forze si sono unite e in tutta Melia sono partite forme di collaborazione e compartecipazione. L’intera comunità ha aperto le proprie porte, un tam-tam che ha supportato le attività di ricognizione, lasciando gli studiosi liberi di passare tra i poderi per puntellare la loro ricerca. Elemento, anche questo, non scontato. La stessa associazione Voce dei Giovani ha fatto da megafono, ribadendo l’importanza di un progetto che mira a rendere Melia nuovo punto di attrazione turistico-culturale.

    La campagna di ricognizione ha fatto dunque da vero e proprio collante di comunità. A cascata, e grazie al rinnovato interesse, è stato ripubblicato su iniziativa dell’associazione Famiglia Ventura lo storico testo del 1908 Cenni storici dal borgo di Melia. Sembrava perduto ma una copia è stata ritrovata presso la biblioteca di Palmi, consentendo così l’uscita di una nuova edizione. E rinvigorendo quello che spesso manca in Calabria: la cura e la tutela della memoria storica, elemento essenziale per il recupero dell’identità del borgo. In questo solco va inserito anche il recupero di una cartolina raffigurante un melioto fatto prigioniero in Egitto nel 1941 che è stata consegnata agli eredi dell’uomo.

    Partire dai territori, restare sui territori

    L’operazione di Melia pare seguire lo stesso ragionamento fatto a Bova con il progetto Se mi parli, vivo. Lì, tramite l’azione dell’Associazione Jalo to Vua e, grazie alle competenze di alcuni ricercatori originari del luogo, il greco di Calabria è diventato un attrattore che ha richiamato linguisti da tutta Europa.
    Nel caso di Melia, il lavoro dell’associazione Famiglia Ventura è stato importante: dal 2011 l’organizzazione promuove la cultura attraverso la lettura e l’arte su tutto il territorio metropolitano, perseguendo la valorizzazione e il coinvolgimento delle comunità locali.

    bova-grecanico
    Scritte in grecanico su un portone a Bova

    «Melia è una borgata con cui si è creata una relazione speciale. Concentrare l’attenzione degli archeologi in un’area periferica come quella delle Grotte di Trèmusa è un modo sia per promuovere la ricerca in località poco studiate, sia per accendere un riflettore sulle problematiche e sulle opportunità di territori spesso dimenticati dalle istituzioni o dai grandi circuiti economici e turistici. Territori che possono rappresentare ulteriori nodi di sviluppo per il comprensorio di Reggio», ha spiegato Francesco Ventura, ex presidente dell’associazione e promotore dell’iniziativa.

  • Sud chiama Sud: con Filippo Cogliandro il ponte sullo Stretto arriva fino in Gambia

    Sud chiama Sud: con Filippo Cogliandro il ponte sullo Stretto arriva fino in Gambia

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

     

    «Ci tornerò presto. Voglio tornarci. Devo. Ci penso da quando sono rientrato. È una strana sensazione: col corpo sono qui, ma la mia mente è sempre lì». È una soleggiata domenica di dicembre quando incontro lo chef Filippo Cogliandro, Ambasciatore dei Sapori, dei Colori e della Creatività della Calabria nel mondo, un lungo impegno insieme a Don Ciotti, patron del Ristorante L’Accademia, che aderisce all’Alleanza Slow Food dei cuochi, la rete di oltre 700 professionisti della ristorazione che sostengono i piccoli produttori custodi della biodiversità, impiegando i prodotti dei Presìdi. «Sono i prodotti della mia terra a raccontare il mio amore per la Calabria e per le sue tradizioni. Far incontrare eccellenze di diversi presìdi Slow Food serve a innovare la tradizione, costruendo una rete di scambio, di tutela, di opportunità».

     

    filippo-cogliandro-2
    Filippo Cogliandro

    Di lui si conosce la storia della sua lotta contro il pizzo. Ma quello che racconto oggi è il suo impegno per i Sud. Perché il luogo dove Filippo vuole tornare è il Gambia, il più piccolo dei Paesi africani continentali. «Poco dopo il mio rientro sono arrivate le foto dei banchi che abbiamo acquistato per aiutare la scuola islamica del villaggio di Jiffarong nel distretto di Kiang West. È stata una grande emozione. Tubabo (uomo bianco in wolof, nda) – il sottoscritto! – ha fatto un buon lavoro».

    Filippo è l’emblema di ciò che significa fare rete: contattare e mettere in contatto persone, aziende territori e sviluppare nuove opportunità. Il suo viaggio alla scoperta del Gambia, assieme ai suoi cuochi gambiani, sponsorizzato da Olearia San Giorgio, presidio Slow Food del reggino, ne è prova.

    La Notte dello Chef Afro-solidale

    La sua storia inizia diversi anni fa: «Fui contattato dall’associazione Destino Benin, che mi propose di realizzare qualcosa assieme per raccogliere fondi a favore del Benin. Da quell’incontro nacque l’idea della Notte dello Chef Afro-solidale, una sorta di contest cui aderivano i cuochi di Reggio che avevo coinvolto. Organizzavamo un menù degustazione di dieci portate che comprendeva una quota di partecipazione per gli ospiti. Ogni cuoco era chiamato a presentare un proprio piatto. Io acquistavo la materia prima e la mettevo a disposizione di chi l’avrebbe trattata. Tutto l’incasso delle serate veniva devoluto a Destino Benin che lo utilizzava per portare avanti i propri progetti di solidarietà e cooperazione.

     

    Ogni anno veniva eletto lo chef afro-solidale dell’anno, i cui piatti erano stati scelti e/o preferiti agli altri. Poi la pandemia non solo ci ha bloccati, ma ha impedito che il residuo dei fondi donati all’associazione potesse essere speso. Quel residuo sono i soldi che poi sono stati utilizzati durante la mia missione per acquistare quei banchi per i 92 bambini della scuola di Jiffarong, il villaggio di Salihu, perché le scuole arabe non ricevono fondi statali e la loro attività si basa sulla possibilità delle famiglie di finanziarle. Cosa non sempre scontata».

    Il Gambia e il sistema scolastico

    Il Gambia, a maggioranza musulmana, solo nel 2017 ha abbattuto la dittatura che lo opprimeva. Oggi è una Repubblica nuova e fragile che chiaramente ha bisogno di tutto. Il suo sistema scolastico è basato su quello inglese. Esistono asili statali laici, privati e islamici, ma solo i primi sono oggetto di finanziamento pubblico. Nonostante l’articolo 30 della Costituzione preveda un’istruzione libera, obbligatoria e accessibile a tutti, nella pratica il governo non è riuscito a renderla gratuita fino al 2013 per la scuola primaria, al 2014 per la scuola media e al 2015 per la scuola secondaria.

    Accanto al sistema scolastico laico statale ne esiste anche uno islamico con oltre 300 mandrasa dove, oltre alle normali materie scolastiche, vengono insegnati i valori islamici e le sure del Corano a memoria. Le statistiche riportano che, nel 2014, approssimativamente il 15% dei bambini ha completato lì i cicli scolastici obbligatori. Una percentuale importante che dà il polso di come avvenga l’istruzione nei villaggi rurali lontani dalla capitale Banjun.

    Filippo Cogliandro, Abdou Dibbasey e Salihu Barrow

    Il rapporto di Filippo Cogliandro con l’Africa e col Gambia è figlio di una storia precedente. Nel 2013 Abdou Dibbasey e Salihu Barrow sbarcano in Italia. Li attende la trafila di tutti i richiedenti asilo, dato che il Gambia è sotto la dittatura di Jammeh: la richiesta di protezione, l’audizione in Commissione Territoriale, il programma di accoglienza. I ragazzi iniziano il loro percorso di inserimento fin quando, su richiesta della struttura, Filippo attiva dei corsi professionalizzanti di cucina per gli utenti stranieri che di lì a poco sarebbero usciti dai programmi e avrebbero dovuto trovare lavoro. Saper cucinare li avrebbe facilitati.

    «L’obiettivo era dunque quello di trasmettere gli elementi basici della cucina italiana ed europea. Dalla pasta fresca alle salse base. Fu un’esperienza bellissima. Abdou e Salihu si erano dimostrati molto interessati. Poi, quel centro di accoglienza venne chiuso e gli utenti distribuiti in tutta la Regione. Saliou ed Abdou, che erano arrivati in Italia insieme, che avevano condiviso quel viaggio e che, fin dal Gambia, si sostenevano a vicenda, furono separati. Mi scrivevano dicendo che volevano rientrare a Reggio e volevano farlo insieme. Ma non esisteva altra possibilità che chiedere il loro affidamento. E questo feci. Iniziammo le procedure. Nel frattempo, Abdou divenne maggiorenne ed era sul punto di dover lasciare il centro dove risiedeva. La mia proposta fu quella di fargli un contratto di apprendistato. Salihu che, invece, era ancora minorenne, mi fu affidato per quattro mesi fino al compimento dei suoi diciotto anni. Anche lui mi chiese di poter diventare un cuoco e anche a lui proposi un contratto di apprendistato.

    abdou-dibbasey-e-salihu-barrow
    Abdou Dibbasey e Salihu Barrow

    Ancora oggi sono qui con me, sono i miei cuochi e non hanno solo imparato a cucinare, ma anche a gestire un’azienda di ristorazione: analizzare i costi di approvvigionamento, gestire la sala, occuparsi della parte finanziaria. È la dimostrazione di due cose importanti: la prima è che se vuoi, se ti impegni, ce la fai; la seconda è che stringere alleanze permette di raggiungere obiettivi importanti. Abdou e Salihu sono la ragione che mi ha portato in Gambia, sono stati i miei compagni di viaggio e sono i primi mattoni del ponte che sto costruendo».

    Un ponte tra la Reggio e il Gambia: Sud chiama Sud

    Si tratta del ponte tra Reggio e il Gambia. Abdou è il più giovane cuoco extracomunitario dell’Alleanza Slow Food in Italia; insieme lui e Salhiu, Filippo visita il Gambia in qualità di ambasciatore di Slow Food Calabria. L’idea è diffonderne i valori e l’attività ed entrare in relazione con il Convivium Slow Food Gambia. L’incontro con la referente, Ndeye Corr-Sarr, getta le basi per esplorare opportunità di scambio tra i prodotti calabresi e gambiani.

    Un momento del viaggio di Filippo Cogliandro in Gambia

    «Non mi aspettavo un’accoglienza tanto calorosa. Ho incontrato le massime autorità del Paese: il Presidente della Repubblica Barrow, il ministro degli Esteri, quello dell’Istruzione, il Presidente dell’Assemblea parlamentare e quello del partito di maggioranza. Proprio il Presidente Barrow mi ha detto: “Se volete davvero aiutarci, fate in modo che i nostri ragazzi non lascino il Gambia. Se vanno via i giovani, scompare il futuro“. Vorrei tornare lì e aprire un punto di ristorazione che sia attività imprenditoriale e centro di formazione per chi vuole fare cucina. E voglio che Abdou e Salihu, che desiderano fare ritorno, possano mettere a disposizione le competenze che ho trasmesso loro e fare ciò che io ho fatto con loro: formare e addestrare altri ragazzi. Per questo il viaggio è servito anche a prendere i primi contatti con le scuole alberghiere del luogo.

    filippo-cogliandro-adama-barrow
    Filippo Cogliandro e Adama Barrow, Presidente della Repubblica del Gambia

    Lo stesso ministro degli Esteri ha accolto con grande piacere la mia proposta e sta valutando la possibilità di creare un consolato onorario a Reggio che sia punto di riferimento per i gambiani che risiedono in Calabria, Sicilia, Puglia. Un primo passo per aprire nuove opportunità di interscambio commerciale tra Reggio e Gambia, dove esiste un buon artigianato, ma manca la piccola industria e non vi sono processi di produzione moderni».
    Gli emigrati gambiani giocano un ruolo importante. Già con le loro rimesse e il loro sostegno dall’estero inviano aiuti in patria che spesso sono impiegati migliorare la vita dei loro villaggi. A Jiffarong, ad esempio, stanno realizzando la delimitazione dello spazio cimiteriale assediato dagli animali selvatici. Persone come Abdou e Salihu potrebbero portare, oltre al denaro, le competenze.

    Le prospettive future

    «Proseguiremo con la realizzazione del tetto della scuola di Jiffarong, sostituendo il vecchio in lamiera con un nuovo coibentato. Noi compreremo i materiali e le famiglie degli studenti lo realizzeranno. Entro fine anno, prima dell’inizio della stagione delle piogge, doneremo i 2000 euro necessari che stiamo raccogliendo, cosicché i ragazzi possano frequentare la scuola in condizioni più dignitose. Tubabo tornerà per continuare a seminare. Perché questo primo viaggio mi ha cambiato la vita e mi ha insegnato la solidarietà. Una solidarietà che ho visto praticare da chi ha nulla o quasi.

    Considera questo: con i soldi che Abdou mandava a casa, il padre acquistava le batterie di alimentazione per gli impianti solari della sua casa. E, sapendo che i suoi vicini l’elettricità non ce l’avevano, inviava loro un suo cavo con la lampadina di modo che la luce arrivasse anche a loro. La bella storia di emigrazione del figlio era un dono di Dio e questa fortuna doveva essere condivisa. Oggi guardo le loro storie e rivedo, pur nella loro diversità, le storie di emigrazione italiana in Australia, America, Francia, Belgio, Svizzera. Lasciare il proprio paese è sempre dura, anche se oggi Internet ci consente di mantenere un contatto stabile».