Con la delibera che, in via sperimentale, raddoppia il costo della sosta sul lungomare Matteotti dal prossimo 1 maggio al 31 ottobre, il vaso di Pandora della mobilità a Reggio Calabria è stato definitivamente scoperchiato. Un provvedimento che punterebbe a disincentivare l’uso del mezzo privato, riducendo i costi ambientali, sociali e infrastrutturali del traffico veicolare e della sosta, agevolando la fruizione di aree a prevalente uso pedonale e ciclabile e migliorando la fluidità della circolazione.
Un estratto della delibera di fine marzo con cui la Giunta ha disposto l’aumento delle tariffe per la sosta
La misura non avrebbe scatenato le polemiche che sono piovute se il raddoppio delle tariffe fosse uno degli aspetti di una strategia più ampia per la mobilità sostenibile che ad oggi non esiste. O meglio, esiste solo sulla carta. Perché alla maggiorazione di certi costi non corrispondono alternative che consentano ai cittadini di spostarsi in un’ottica davvero sostenibile. Non esiste un Piano della Mobilità Sostenibile (PUMS). Non un sistema attivo di monitoraggio di traffico e circolazione. A pagare lo scotto è la visione di sistema evocata nella bozza di Masterplan 2050.
Un piano fermo al 2017
Nel capitolo “Mobilità Pubblica e Attiva” si sottolineano le molte criticità relative alla mobilità a Reggio e si individuano in governance e visione di sistema i pilastri di una strategia complessiva per promuovere l’uso del mezzo pubblico, l’abbattimento del livello di CO2 e la cosiddetta “mobilità dolce” a tutela della salute dei cittadini e dell’ambiente. In questo momento però mancano l’una e l’altra.
Perché manca il PUMS, che è lo strumento di pianificazione e programmazione di questa visione di sistema. Il Comune ha approvato un suo preliminare realizzato dalla società IT s.r.l. nel 2017 e necessario per la valutazione di impatto ambientale propedeutica alla realizzazione del piano definitivo di cui non c’è traccia. Il sito web specificamente dedicato al PUMS non è raggiungibile. E quel preliminare, ormai datato, si basa su dati ISTAT del 2011 e non tiene conto di elementi nuovi come il potenziamento dell’aerostazione. In più ci sarebbe il contenzioso tra Comune e IT per il mancato pagamento di quel preliminare.
Il verbale di approvazione del preliminare risale a ottobre del 2017
Il Piano Regionale dei Trasporti ha stabilito che i quattro nodi della rete strategica di trasporto regionale di Reggio Calabria siano rispettivamente per il centro città i punti “Porto-Stazione Lido” e “Stazione centrale-Aeroporto” e per la periferia Pellaro a Sud e Gallico a Nord. Nonostante i Comuni potessero porre osservazioni e suggerimenti per implementare il documento, Reggio non si è pronunciata. Sono così rimasti fuori punti fondamentali come quelli relativi all’accesso lato monte della città: le bretelle del Calopinace e la zona Ospedale.
Mobilità a Reggio: la Centrale di Controllo senza dati
In quanto poi a mobilità, mancano i dati. Reggio ha a disposizione la Centrale per il Controllo della mobilità, cioè la struttura informatica per la raccolta in real time, la catalogazione e l’elaborazione dei dati sulla sosta e su traffico in entrata e in uscita dalla città. Ma non ha né elaborato una mappa completa dei punti di rilevamento, né si è mai dotata dei sensori per l’acquisizione dei dati di infomobilità. Apparecchiature che sarebbero dovute essere acquistate dal Comune con i fondi PON Metro in scadenza lo scorso 31 dicembre. L’operazione non è andata in porto per paura di sforare la data di chiusura del programma e non vedersi consegnati i sensori.
L’Università della Calabria sta collaborando con il Comune di Cosenza per la redazione del PUMS
Senza dati, i modelli di trasporto, domanda e offerta, alla base di una strategia “visione di sistema”, non possono essere generati. D’altronde il Comune non ha tecnici cui assegnare questo compito. Manca un mobility manager. E manca un altro pezzo fondamentale: il coinvolgimento degli stakeholders. Nonostante la presenza del Laboratorio Analisi Sistemi di Trasporto, tra i più importanti centri di ricerca del settore a livello europeo, il Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione, delle Infrastrutture e dell’Energia Sostenibile dell’ateneo dello Stretto non sarebbe stato consultato. Diversamente da Cosenza dove UNICAL sta collaborando alla redazione del PUMS con il professor Guido, associato ICAR/05 del Dipartimento di Ingegneria Civile e mobility manager.
Intermodalità e finanziamenti
C’è poi la questione dell’intermodalità. Dopo le polemiche sul paventato definanziamento dei relativi progetti, lo scorso ottobre Battaglia, già assessore ai comunale ai Trasporti, aveva garantito che i fondi non sarebbero andati persi. Era stata la stessa Staine, con la stessa delega alla Regione ad annunciare un piano da 20 milioni di euro a valere sul PAC 2014/2020 per parcheggi, stazioni di interscambio e corsie riservate con sistema di semafori intelligenti per i bus. Come certifica la bozza di Masterplan, il Comune starebbe lavorando per aumentare le fermate della linea ferroviaria in città e posizionarne una ogni 500 metri. Ipotesi lunare in termini operatività, costi e sostenibilità del servizio.
Bisognerebbe poi risolvere il nodo del collegamento tra l’aeroporto della città, la fermata ferroviaria dedicata e il pontile di attracco degli aliscafi che presenta una serie di criticità dovute all’attuale conformazione dell’aerostazione lontana da entrambi i punti di “approdo”.
Reggio, inoltre, non ha mai approvato il Piano Urbano per la Sicurezza Stradale.
L’impressione è che si lavori in (dis)ordine sparso, a compartimenti stagni, senza che una mano sappia ciò che fa l’altra. Senza quella visione di insieme fatta di coordinamento, coinvolgimento di esperti e stakeholder, elaborazione di modelli. Come invece dovrebbe essere.
Raccontare Polsi non è stato facile: un luogo, uno spazio, talmente complesso da richiedere una lunga gestazione. Da settembre ad oggi. Ho utilizzato un format diverso dal solito. Nessuna videotestimonianza o elemento giornalistico, se non una cronaca di viaggio fatta di sensazioni e incontri. Questo mi ha permesso di parlare di Polsi fuori da luoghi comuni, semplificazioni, narrazioni iper o ipotrofiche. Avevo con me due compagni di viaggio: il generale Battaglia, protagonista della scorsa puntata e il collega Eugenio Grosso, fotogiornalista e autore di diverse foto del pezzo. Il loro sguardo e l’esperienza condivisa sono parte sostanziale di questo racconto.
«Polsi è il centro del mondo»
Il centro del mondo. Scivolando lentamente in fondo al crinale irto della vallata del Santuario della Madonna della Montagna, la tripletta verbale era arrivata precisa come una revolverata. «Polsi è il centro del mondo», aveva dichiarato il generale Battaglia mentre si annunciava al presidio dei carabinieri di guardia al cancello di ingresso. Ci accompagnavano, insieme alle prime carovane di pellegrini, due elicotteri della polizia che ci avrebbero sorvolato incessantemente per i successivi due giorni.
Era il mezzogiorno di venerdì 1 settembre e si aprivano le celebrazioni della Madonna della Montagna, sacra per mezza Calabria e anche per quel pezzo di Sicilia che si affaccia sullo Stretto. Una festa che accoglie ogni anno tra i 6 e i 7 mila visitatori.
Avevo maturato in fretta la decisione di partecipare: posto nel cuore dell’Aspromonte, Polsi era una tappa irrinunciabile del mio viaggio. Un grumo di sacro e profano, sangue, simboli, fede, terra e radici che, una volta l’anno, faceva convergere tutta la popolazione verso il centro di quel mondo con un misto di devozione, sacrificio e attesa.
Avevo cercato di aggregarmi senza esito a un paio di carovane, fin quando Demi d’Arrigo, guida parco e leader dell’offerta sportiva di montagna, mi aveva suggerito di sentire Battaglia. L’idea di accompagnarmi a un generale dei carabinieri già alla guida del Comando Provinciale di Reggio Calabria per una tappa così controversa mi convinceva. Un paio di chiamate e la nostra ospitalità al Rettorato del Santuario era stata accordata.
L’arrivo
Il tragitto si era rivelato un meta-viaggo: salendo da Scilla in quota, ci eravamo confrontati sullo stato dei territori, le attività svolte dall’Arma, i reati ambientali, i processi di legalità e le dinamiche di spopolamento. Da Gambarie avevamo deviato verso Montalto e l’auto si era tuffata nel ventre della Montagna, superando affacci mozzafiato sulla costa jonica.
Dopo il gomito dell’ultima curva era apparsa la vallata scoscesa. Dritto di fronte a noi si scorgeva l’unica altra via di accesso al Santuario per chi arrivava da San Luca. Il peso della montagna, con i suoi secoli di marce e contaminazioni che si abbattevano su di me a ondate potenti, mi aveva sovrastato. Da quell’utero montano era come rivenuta alla luce una memoria sociale e antropologica. Mi si era piantata sul petto: vedevo schiere di devoti e generazioni di monaci, eremiti, pellegrini, viaggiatori, contadini, signori, pastori in marcia. «Pazzesco!», mi era sfuggito.
Auto nella vallata (foto Silvio Nocera)
Gli accampati all’anfiteatro (foto Eugenio Grosso)
Pellegrini assiepati (foto Silvio Nocera)
Un pellegrino sfinito nel giorno della festa (foto Silvio Nocera)
Sacchi a pelo all’anfiteatro (foto Eugenio Grosso)
Ai bordi della strada e nei rari spiazzi sotto di noi, iniziavano a comparire i primi accampamenti: auto accatastaste, ripari ricavati tra accorpamenti di macchine, furgoni intasati da gente dormiente o intenta in qualche preparativo. Avevamo da poco superato bancarelle che traboccavano di effigi sacre, souvenir a sfondo religioso e svariate cianfrusaglie di vaga cifra etnica. Risuonavano già a ritmo incalzante tarantelle e tamburelli, preludio di quanto sarebbe accaduto durante la veglia.
La festa di inizio settembre rappresentava una delle quattro tappe delle celebrazioni sacre dedicate alla Madonna della Montagna. Ogni 22 agosto dell’anno cominciava la novena. Partiva allora la carovana che da San Luca attraversava le vallate verso il Santuario, per arrivarvi all’inizio di settembre in occasione della processione, cui seguiva, dopo due settimane, la festa della Santa Croce. Ogni 25 anni, poi, in occasione dell’incoronazione, ai portatori di Bagnara, si sostituivano quelli di San Luca. Una geografia che racconta bene la netta divisione di ruoli e aree, riflessi nei dettagli del racconto della fondazione del Santuario: il bue, la croce e la pesca. Sotto il simbolo mariano, l’Aspromonte è sempre stata una Regione unica, estesa dalla costa a Montalto.
Una nuova reputazione per Polsi
Nel 2023 la festa si svolgeva in un anno carico di polemiche: l’area mercatale del Santuario era stata inibita. Non tanto – e non solo – per ragioni di ordine pubblico, ma come nuovo segno di legalità. Gli ambulanti che vi sostavano spesso non avevano licenze. Era uno dei molti segnali che il Rettorato e le istituzioni lanciavano per costruire una nuova reputazione per Polsi.
La caserma dei Carabinieri a Polsi (foto Silvio Nocera)
Appena entrati al Santuario, un nutrito gruppo di militari, Rettore compreso, era arrivato a salutarci. La loro presenza era ben visibile. C’erano almeno una settantina di agenti a presidiare un complesso non più grande di un isolato. La sede del Rettorato del Santuario che dominava il complesso sacro – la Chiesa, gli alloggi, il Museo degli ex voto – affiancava la caserma dei Carabinieri, un vecchio edificio fatto ristrutturare da Battaglia che, durante la sua reggenza, aveva inteso dare un segno tangibile della presenza dello Stato in un luogo emblema di criminalità. E siccome le guerre si combattono anche con i simboli, la fiamma dell’Arma campeggiava senza timore.
La Madonna tra fedeli e carabinieri a Posi
In realtà, dopo le polemiche sul summit di ndrangheta promosso da Oppedisano nel 2009 e la condanna in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa di Don Pino Strangio, storico Rettore del Santuario fino al 2016, molte cose erano cambiate. L’allora Ministro dell’Interno, Marco Minniti si era recato a Polsi quello stesso anno e il Vaticano a modo suo si era mosso. Nel maggio 2023 poi lo stesso Papa aveva benedetto la corona della Madonna. Azione che faceva seguito alla scomunica per i mafiosi.
Un millennio dopo
Appena oltre il Santuario e sulla piazza del sagrato della Chiesa, sui ballatoi degli alloggi che tradizionalmente ospitavano i pellegrini di Bagnara, erano stipati capannelli di persone intente a pregare, a prepararsi alle celebrazioni o imbastire colazioni.
Avevamo pranzato al refettorio col Rettore, i parroci, il sindaco di San Luca, vigili urbani, carabinieri, poliziotti e volontari. Era seduto accanto a me un uomo dall’aria apparentemente stralunata. Eugenio Grosso l’avevo conosciuto così, scoprendo che era un fotogiornalista catanese, trapiantato a Milano. Aveva scelto Polsi come tappa del suo fotoreportage sui culti mariani in Italia. Da Milano, era approdato a San Luca e da lì si era unito a una carovana in direzione Polsi.
Avevamo percorso il Santuario in lungo e largo: ci confrontavamo in mezzo a una storia iniziata nell’XI secolo con i monaci basiliani di rito greco, passata tra luci e ombre al nuovo splendore promosso da Idelfonso del Tufo, vescovo di Gerace, e giunta fino a noi, fermi a parlare sotto il suo campanile bizantino.
A ridosso della soglia della Chiesa, dove da ore si pregava in dialetto, si cominciava a suonare e si formavano le prime ruote di danzatori. Da alcune variazioni nel movimento dei piedi si poteva intuire la loro provenienza: i rosarnesi saltellavano, i sanluchesi strisciavano i piedi.
Dentro e fuori, sacro e profano
Quella soglia separava il dentro e il fuori, sacro e profano. Varcandola, ci si immergeva in acque mistiche e primordiali. Ero entrato in chiesa e mi ero tuffato in quel dentro al suono di giaculatorie dialettali quasi incomprensibili, fino ad un passo dalla trance. In quel contesto vincoli e differenze si frantumavano, per dare vita a un corpo unitario. Un respiro collettivo che si gonfiava in nome di quel culto mariano millenario ispirato al mito della Sibilla Cumana. Una devozione che aveva sorpassato indenne l’avvicendarsi dei diversi riti cristiani: monachesimo mistico, ortodossia bizantina e rito latino.
Smartphone in Chiesa (foto Silvio Nocera)
La Madonna in piazza (foto Eugenio Grosso)
L’incoronazione della Madonna immortalata dai cellulari (foto Silvio Nocera)
Ancora smartphone per la Madonna (foto Eugenio Grosso)
Preghiera e tecnologia (foto Eugenio Grosso)
Quel pomeriggio, sotto l’occhio degli elicotteri della polizia, la liturgia era proseguita con la prima uscita della Vergine, che era scivolata lungo la navata centrale, navigando su un mare umano. Sotto un baldacchino di damasco, era stata condotta fino all’anfiteatro dietro la chiesa per i primi riti davanti a tutte le autorità. Aveva circumnavigato tutto il santuario ed era rientrata per essere vestita. La sua corona era stata condotta su un cuscino di velluto rosso. Il picchetto che la trasportava si era fatto largo nella navata centrale tra la folla che si apriva in due ali. L’avevano raccolta sull’altare il Rettore e un sacerdote. Armeggiando sopra e sotto la scala che arrivava all’edicola, tra preghiere e applausi, l’avevano posta in capo all’effige al grido di “Viva Maria!”.
Si era allora innalzato un bosco di smartphone che riprendevano, scattavano, illuminavano un rito di passaggio ciclico, rinnovato da secoli. Una selva di ceri votivi che occhieggiavano verso l’altare, in una testimonianza di fede da smaterializzare, condividere e moltiplicare in Rete.
Non sono credente, ma…
All’imbrunire il Santuario era colmo. I due ristoranti andavamo a pieno ritmo, tra alcool e carne alla brace. Il generale aspettava un gruppetto di alpinisti che vi avrebbero trascorso la notte. A breve mi attendeva la dimensione del fuori. Durante la cena al refettorio, alla presenza del vescovo Morrone, mi ero intrattenuto coi ragazzi del reparto Cacciatori delle Alpi in servizio. Carabinieri e poliziotti si alternavano: c’era chi smontava e chi si preparava per il turno di notte.
Qualcuno aveva ricordato che, intanto, in quella notte di veglia, per i sentieri di Aspromonte c’erano pellegrini in viaggio, devozione nelle gambe e sacrificio sulle spalle. Di quei momenti Eugenio mi aveva mostrato le foto fatte durante il viaggio da San Luca: donne e uomini che si laceravano i piedi scalzi su pietre acuminate, portandosi le loro croci e le promesse alla Madonna per una grazia. Si dirigevano al Santuario con viveri e bambini, sequestrati dalla stanchezza e dalla fede.
Carovana in processione (foto Eugenio Grosso)
I pellegrini guadano un torrente (foto Eugenio Grosso)
La passione dei fedeli (foto Eugenio Grosso)
Sui sentieri di Aspromonte verso Polsi (foto Eugenio Grosso)
Con Battaglia ci eravamo intrufolati nel cortile di uno dei due ristoranti per raggiungere Peppe Trovato, catanese naturalizzato reggino e affermatosi come primo esploratore di forre e cascate aspromontane. Con lui un gruppetto di alpinisti alla testa di Pino Antonini, speleologo, già direttore della Scuola forre e canyon del Corpo nazionale del Soccorso alpino e tra i sopravvissuti al terremoto in Nepal del 2015.
Dopo qualche chiacchiera, ci eravamo spostati fuori ad osservare l’andamento dei festeggiamenti. Il gestore faceva avanti e indietro con le mani piene di birre e bicchieri. In un dialetto ostico, aveva spiegato Polsi a modo suo. Una vita dura, la morte sfiorata. Non era un gran credente, ma era certo che la Madonna della Montagna lo avesse protetto col suo manto.
Maschi e femmine, buoni e cattivi
Come quello era rientrato, avevo chiesto a Battaglia in che percentuale avremmo potuto dividere i “buoni” e i “cattivi” della serata. «Non lo so, ma ti dico che lo Stato si è battuto per sottrarre ai “cattivi” dei territori ritenuti perduti da molti». «Hai notato che siamo tutti maschi?», avevo ribattuto. Gruppetti di uomini di ogni età bevevano e cianciavano lungo tutta la via, sciamando da un lato all’altro fino in piazza dove impazzavano le ruote di ballo. Le pochissime ragazze presenti erano circondate da uomini intenti nel loro rituale di corteggiamento. Le altre donne erano tutte in chiesa.
Al mondo di dentro e di fuori si aggiungeva il codice di genere, con la suddivisione di ruoli tra maschi e femmine. Ognuno al posto proprio, assegnato per sesso e per nascita.
Donne sui ballatoi (foto Silvio Nocera)
Polsi, dove tutti si ritrovano
Eugenio si muoveva veloce con la sua macchina fotografica. Io continuavo a incrociare conoscenti. Gente che, in alcuni casi, non vedevo da anni: Polsi era davvero il luogo dove tutti si ritrovavano.
«Non è un caso che Polsi sia diventato emblema di ‘ndrangheta. Qui ci si incontrava tutti insieme quando muoversi era complicato. La festa diventava allora collante e occasione per riunirsi e discutere di affari di comunità, più o meno leciti; attribuire ruoli e influenze; lottizzare territori. L’intervento dello Stato ha invertito il trend, ma l’eco di certi fatti e la potenza della ritualità religiosa hanno lasciato incrostazioni dure a morire. Oggi però siamo nelle condizioni affinché questa percezione cambi», aveva argomentato il generale.
Medaglie votive (foto Eugenio Grosso)
Ero andato a letto con tutto questo nelle orecchie, mentre fuori infuriava un baccanale pompato da un tasso alcolico sempre più elevato. Ero rimasto sospeso in un onirico liquido: le immagini dei boschi e delle valli si era mescolata a echi di preghiere, impressioni di volti, sguardi carpiti, tra divise, sacralità e paganesimo.
Al mattino, dopo svariati caffè, mi ero gettato in strada con la macchina fotografica assieme a Eugenio per la processione, cui sarebbe seguita la messa solenne tenuta dal vescovo di Reggio. La folla era per lo meno triplicata e al Santuario erano arrivate altre carovane da tutta la provincia e dal Messinese. Molti portavano al collo un fazzoletto votivo straripante di medagliette, con l’immagine della Vergine. Dal giorno precedente i tamburelli non avevano mai smesso di macinare terzine. Sui popolatissimi ballatoi degli alloggi, erano stati stesi drappi in omaggio al passaggio della Madonna.
Madonna vs Sibilla
Avevo guadagnato un posto strategico in cima alla piazza accanto a uno dei passaggi obbligati della processione. L’effige allora era uscita e aveva iniziato a compiere il giro della piazza fino a piantarsi col volto fisso verso il versante opposto della Montagna.
La leggenda raccontava che in quegli anfratti fosse imprigionata la Sibilla, punita da Dio per aver tentato di sostituirsi alla Vergine come madre di Cristo. Suo fratello, che aveva osato schiaffeggiare Gesù per difenderla, era stato gettato anch’egli in quell’antro e relegato alla pena eterna del buio dietro sbarre di ferro che avrebbe colpito con la mano per l’eternità. L’eco di quella pena riempiva la valle nelle giornate dal clima più duro. Se la geografia veniva prima della storia, la morfologia del territorio addirittura la precedeva.
Fedeli di San Giorgio Morgeto (foto Eugenio Grosso)
Gli alloggi gremiti dei pellegrini di Bagnara (foto Eugenio Grosso)
Il loro cuore a Maria (foto Eugenio Grosso)
La vara osannata (foto Eugenio Grosso)
Processione solenne del sabato (foto Eugenio Grosso)
L’Effige Sacra, autentico femminino sacro della Montagna, veniva ostesa a tutela dell’Aspromonte e del suo popolo dalle insidie dei luoghi e degli elementi naturali che ne avevano regolato vita e morte per secoli. La vara aveva poi circumnavigato il santuario e mi era sbucata davanti. Dall’alto, tra urli di giubilo, venivano lanciati coriandoli di omaggio. Una volta tornata in piazza, la Madonna era stata girata entrando in chiesa di spalle, con lo sguardo sempre rivolto all’antro della Sibilla.
L’omelia femminista
Cominciava la messa solenne. Dagli alloggi il nostro sguardo dominava lo spazio dell’anfiteatro che ospitava l’altare. Le gradinate erano affollate di fedeli e sacchi a pelo. All’ascolto dell’omelia mi ero ringalluzzito: il vescovo Morrone aveva puntato dritto sulla centralità della figura mariana, nel suo agire di donna e madre al servizio del Bene. Aveva parlato di «donna che ha saputo rompere gli schemi, in un’epoca in cui dominava il maschio». Da lì, il salto per antonomasia al ruolo rivoluzionario delle donne nella Bibbia era stato veloce. Parlava alla platea, ma si rivolgeva alla coscienza delle donne di Polsi e quella dei loro figli, lanciando un messaggio di giustizia e pacificazione. Li aveva spronati a «prendere in mano il proprio futuro, e non delegare ad altri quello che compete ad ognuno di noi, perché soltanto così possiamo sperare di risollevare la nostra terra, e sconfiggere la cattiva politica».
La Madonna di spalle all’anfiteatro (foto Silvio Nocera)
Un’omelia, rivoluzionaria anch’essa, capace di incrociare i grandi temi che la Chiesa stava affrontando: le pari opportunità, una nuova dignità per il ruolo delle donne, il contrasto al crimine organizzato. Parole che avevano fatto eco al messaggio inviato dal cardinale Zuppi, presidente della CEI: «Il Santuario della Madonna di Polsi è stato profanato nel recente passato (…) per interessi privati che dobbiamo chiamare con il loro nome: mafiosi. (…) Da Polsi nasca, invece, una consapevolezza nuova di cui ha bisogno tutto il nostro paese perché le mafie hanno tanta penetrazione al Nord e tante ramificazioni internazionali». Un movimento, quello della Chiesa, partito anni addietro, dopo l’apertura delle indagini su Don Pino Strangio: il vertice del Rettorato del Santuario era stato rinnovato ed erano state avviate una serie di azioni con cui il Vaticano intersecava quelle dell’Arma dei Carabinieri.
Una strada per Polsi
Al termine della cerimonia mi ero fermato a parlarne con don Tonino Saraco, Rettore dal 2017. «Oggi di Polsi si parla in modo diverso e noi stiamo facendo di tutto per riabilitare la sua reputazione. Che un passato fosco ci sia stato non è in dubbio. Ma abbiamo il compito di lavorare per cambiare, forti dell’azione delle forze dell’ordine e della magistratura. Il mio compito è non permettere che determinate cose riavvengano. Non solo qui c’è sempre una persona di mia fiducia, ma abbiamo cominciato con l’installare un sistema di videosorveglianza e trasmettere gli elenchi dei nostri ospiti alla Questura. Questo riguardo alla deterrenza. Stiamo poi lavorando su due progetti, uno in essere e un altro venturo: occupiamo nell’azienda agricola del Santuario ex detenuti cui presto affiancheremo un birrificio artigianale».
Don Tonino Saraco (foto Eugenio Grosso)
«I grandi temi da affrontare – aveva aggiunto don Saraco – non sono mai cambiati: il lavoro e le infrastrutture. Creare lavoro vuol dire togliere terreno alla malavita. Costruire strade permette a questo luogo di essere accessibile, vissuto, meglio controllato e governato. Ho dovuto rifiutare parecchie visite dalla Sicilia perché arrivare qui in pullman è impossibile. Un anno e mezzo fa Occhiuto ha annunciato 65 milioni di euro per la realizzazione di una nuova strada che colleghi quello che è il santuario mariano più frequentato del Meridione, con visite che toccano picchi di 50 mila presenze l’anno tra giugno e ottobre. Non mi ritrovo nelle argomentazioni che di chi vede in questa strada una minaccia all’autenticità e allo spirito del luogo. Questo progresso può trasformare Polsi in un importantissimo attrattore per il turismo religioso».
Il ritorno
La folla cominciava a defluire: i trekker ripartivano per la colazione lungo qualche sentiero, molti tornavano a tende e roulotte per il pranzo. Il generale ed io, dopo un giro al Museo degli ex voto, ci eravamo attovagliati coi carabinieri per un menu a base di capra. I rotori degli elicotteri di sorveglianza si erano smorzati e l’aria si era scaricata di quella tensione in cui eravamo rimasti immersi.
Dopo i saluti e un ultimo caffè col Rettore, avevamo recuperato Eugenio ed eravamo ripartiti tra cronache dei due giorni, ricordi di vecchie indagini e considerazioni sulla riconquista degli spazi sottratti alla ‘ndrangheta. Riemersi verso la costa, lo scenario del tramonto sullo Stretto placido di settembre ci aveva ammutoliti. Davanti al cielo rosso che degradava verso l’indaco, Stromboli sbuffava all’orizzonte.
Quando ormai tutto sembrava compiuto, sopra Melia, avevamo incrociato un principio di incendio. Battaglia aveva inchiodato: scesi dall’auto, avevamo iniziato a gettare terra sulle fiamme, E siccome non sarebbe bastata, eravamo partiti verso la prima fontana. Avevamo fatto bene perché, passata circa un’ora dalla prima chiamata dei soccorsi, i pompieri non si erano ancora presentati.
Che fine ha fatto Reggio Calabria? Potrebbe essere il titolo di una pellicola, a metà tra il poliziesco ed il noir. Perché nonostante l’avvento RyanAir, Reggio è sparita: appalti al palo, progetti arrivati all’ultimo miglio e mai completati, cantieri finiti nell’abbandono. E l’assenza di un dibattito pubblico serrato e pragmatico su dove sia e dove voglia andare.
Dopo l’annuncio dello sbarco della compagnia aerea irlandese, in riva allo Stretto poco si è saputo. Nessuno ha visto il piano industriale successivo ai tre anni in cui la Regione coprirà il costo delle nuove tratte attivate. E il silenzio di imprenditori, associazioni di categoria, amministratori, e operatori vari, non lascia tranquilli. Una rondine sola non fa primavera.
Reggio Calabria e i dati ISTAT
Più che la ricettività, il vero tema da porre è l’attrattività. Su questo i dati sono impietosi: nella rilevazione ISTAT del 2023 sui profili delle Città Metropolitane in Italia, Reggio Calabria occupa gli ultimi posti di tutte le voci indicizzate. La sua popolazione è diminuita di 7,3 punti percentuali. Assieme a Palermo e Napoli, risulta l’area con la minore partecipazione attiva al mercato del lavoro. A livello nazionale, presenta la più bassa densità di unità locali relative ad offerta turistica, attività finanziarie e professionali. Senza contare che entro il 2033 è prevista un’ulteriore emorragia demografica. Un’Area metropolitana in piena crisi di lavoro e di risorse umane. Incapace di fare sistema. Un non senso rispetto a quello che a Reggio già c’è e che, se coordinato, potrebbe fare la sua fortuna: un aeroporto, diversi punti approdo marino, due università, un museo di rilevanza internazionale e uno del mare in fase di realizzazione, un parco nazionale, decine di km di costa, un patrimonio storico e archeologico non comune, produzioni floristiche ed agricole uniche per caratteristiche e qualità.
Il rapporto con il mare
Negli ultimi decenni, Reggio Calabria ha cominciato un cammino verso il modello di Città del Mediterraneo, rivalutando il suo rapporto col mare. Prima con la progettazione del lungomare dall’allora presidente di FS, Vico Ligato. Successivamente con la sua realizzazione sotto la guida di Italo Falcomatà. In ultimo, con la pianificazione del Waterfront da Giuseppe Scopelliti. Proprio il Waterfront – prima cassato da Giuseppe Falcomatà, poi ripreso, rimodulato e spezzettato rispetto all’idea originaria – deve ancora vedere la sua fine, tra cantieri sospesi o semi-abbandonati e misurazioni errate.
Ne fa parte anche il Museo del Mediterraneo, già inserito nel PNRR, pensato per «ampliare e potenziare l’offerta turistico-culturale» e dare «impulso al rilancio economico e sociale della città».
Giuseppe Falcomatà
Il progetto scomparso
Resta invece al palo il progetto del porto turistico, Mediterranean Life. da realizzare a Porto Bolaro, zona sud della città, che il Comune ha approvato pressoché all’unanimità con delibera di Consiglio lo scorso 13 novembre 2021. Una grande infrastruttura da diporto con servizi integrati capace di generare attrattività per il territorio e creare 2.500 posti di lavoro. Un’opera a ridosso di una delle fermate della nuova metropolitana di superficie (finanziata con 25 milioni di eurodall’allora ministro dei Trasporti Bianchi) che RFI, una volta terminato l’aggiornamento del listino dei prezzi, è pronta a cantierare. E a due passi da un aeroporto che, per mantenere questa rinnovata vitalità, dovrà dimostrarsi attrattivo, caratterizzando l’offerta Reggio Calabria.
Come dovrebbe diventare Porto Bolaro con la realizzazione del progetto Mediterranean Life
La delibera che approvava il progetto, a seguito del preliminare parere favorevole del dirigente di settore, gli assegnava un interesse strategico fino a ipotizzare di inserirlo nel PNRR. Dava quindi mandato al sindaco (poi sospeso) di convocare una conferenza inter-istituzionale per preparare il relativo accordo di programma ed eventuali deroghe al Piano regolatore, come da verbale della conferenza dei servizi tenutasi il 2 aprile 2019. Dell’inserimento nel PNRR non si è più parlato e dell’accordo di programma non si ha notizia. Dell’idea non si parla nemmeno nella bozza di Masterplan della città: al Punto B.4 del documento che illustra il Parco del Mare, Porto Bolaro, inserito ne “Le spiagge del vento”, è menzionato solo come zona con pontile di attracco. Un po’ poco per un documento programmatico che dovrebbe dettare le linee di indirizzo della futura città.
L’area costiera interessata dal progetto, così come appare oggi
Botta e risposta
Il progetto non è nemmeno previsto nel nuovo Piano Strutturale Comunale, che non prevederebbe ulteriori cubature in città e su cui pure la Regione pare abbia sollevato diverse osservazioni.
Inoltre il recente Piano spiaggia prevede per Porto Bolaro solo l’autorizzazione per punti di approdo e bagni chimici, eludendo la possibilità di erogare servizi per le imbarcazioni in sosta. Non di certo un incoraggiamento.
Nel botta e risposta tra il raggruppamento di imprese e l’amministrazione Comunale, Paolo Brunetti, facente funzione durante l’interregno di Falcomatà, ha dichiarato che il progetto esecutivo richiesto dal Comune non sia mai arrivato. Peccato che non si trattasse di una gara pubblica, ma della presentazione di un progetto “di particolare complessità e di insediamenti produttivi di beni e servizi” presentato con “motivata richiesta dell’interessato” con relativo studio di fattibilità, come previsto dal comma 3 dell’articolo 14 delle legge 241/1990.
Pino Falduto, l’imprenditore reggino promotore del progetto
Lo scorso 8 febbraio, a oltre due anni dalla delibera, tramite Pec, il raggruppamento di imprese coinvolte, con a capo una reggina, ha scritto al Comune. Ribadendo di poter fornire gratuitamente «assistenza tecnica per il completamento dell’iter amministrativo», ha chiesto «un incontro di chiarificazione tecnico amministrativa» per «dare finalmente impulso» al progetto. Che, dice il sindaco, oltre ad incassare il parere favorevole di Sovrintendenza, Enac, Città Metropolitana,deve essere coerente con PSC, piano spiaggia, Ferrovie. Gli stessi attori presenti nella conferenza dei servizi preliminare e gli stessi documenti programmatici in cui un’ipotesi del genere non si menziona.
Reggio Calabria in silenzio
Per aumentare il proprio appeal turistico Reggio Calabria non può fermarsi all’offerta di città green che guarda alla cultura come idea di sviluppo. Deve promuovere una grande infrastruttura che punti sull’intermodalità (Forza Italia ha appena presentato un emendamento all’ultimo decreto del PNRR proprio sul rafforzamento dell’intermodalità e sull’annullamento dell’addizionale comunale sui diritti di imbarco sugli aerei). Un’opera che incoraggi il partenariato pubblico-privato inserito nel Masterplan e che sfrutti la geografia dell’area: al centro del Mediterraneo e della grande autostrada del mare che collega Oceano Atlantico e Oceano Indiano.
Uno yacht di fronte a Porto Bolaro
Serve un’infrastruttura che attragga investimenti e capitali, generi economie di scala e spalanchi una nuova porta di accesso al suo territorio e ai suoi patrimoni: Museo del Mediterraneo, Museo della Magna Grecia, Parco Nazionale dell’Aspromonte, bergamotto, archeologia e storia millenaria. Potrebbe essere Mediterranean Life?
Per questo, però, servono volontà, visione, continuità, strategia, vitalità, partnership e convergenza. Invece divisa, isolata, inaccessibile, lasciata all’oblio di un dibattito che non c’è, Reggio Calabria sembra non aver imparato la lezione. Mentre continua a perdere residenti, forza lavoro, capitale umano e opportunità.
Come è ormai noto, le vicende legate alla complicata e controversa gestione dell’Ente Parco Aspromonte diffuse da questo giornale sono volte al peggio. Questo peggio non riguarda solo l’operato dell’ormai ex presidente Leo Autelitano, rimosso per le gravi criticità gestionali richiamate dal relativo decreto del ministro Pichetto-Fratin.
Il commissariamento di un ente pubblico è una sconfitta su tutta la linea. Lo è per gli amministratori coinvolti, per la politica che vi ruota intorno, per le funzionalità dell’ente stesso ridotte al solo disbrigo degli affari correnti. Lo è anche e soprattutto per i portatori di interesse la cui azione è informata da (e cammina con) gli indirizzi politici e gestionali – l’ipotetico “buon governo” – di una pubblica amministrazione. Mi riferisco, ad esempio, agli operatori turistici e a tutti coloro che lavorano con e per la montagna.
Ente Parco Aspromonte: tutti decaduti tranne uno
A maggior ragione anche questo commissariamento, come i molteplici che si sono susseguiti in Calabria e non solo, paralizza l’azione del Parco. Annulla tutte le sue attività di pianificazione. Congela la progettazione e la programmazione di cui aveva parlato Pino Putortì, direttore amministrativo dell’ente, unico a restare in sella dopo il triste epilogo. Assieme ad Autelitano è, infatti, decaduto anche il Consiglio Direttivo.
Questo significa che il famoso e recentemente approvato Piano Integrato di Attività e Organizzazione 2023-2025 con il nucleo della nuova programmazione diventa carta straccia. E con esso tutte le nuove linee programmatiche sulle maggiori difficoltà da sbrogliare. In primis il riordino della zonizzazione, fondamentale per superare le criticità legate alla governance dei territori, ossia dei 37 (!) Comuni ricadenti nell’area del Parco.
Tutti dettagli che, considerata la forma di diarchia pura tra presidenza e direzione amministrativa, giocano a favore di una necessaria revisione della legge 394 in una direzione che garantisca il buon andamento dell’ente e ne scongiuri la paralisi.
Leo Autelitano, il presidente dell’Ente Parco dell’Aspromonte
Ente Parco Aspromonte: silenzi e milioni di euro
Più in generale, fa impressione non aver letto una riga di dichiarazioni da quei Comuni che, insieme alla Città metropolitana di Reggio e alla Regione Calabria, formano la Comunità del Parco: quella che designa, tra personalità di chiara esperienza nel settore, quattro tra i componenti del Consiglio Direttivo oggi sciolto.
Ora, sorvolando sul “dettaglio” che quelli che la norma indica come esperti, siano sempre stati pure e mere espressioni politiche, si arriva comunque a un bivio. O questo tacere è una forma di silenzio-assenso verso i provvedimenti ministeriali (e allora si è portati a pensare che il muto assenso di oggi sia la complicità muta, cieca e sorda di ieri) o è un tacere interessato. Un’occasione utile per riassettare equilibri, ribilanciare pendenze e stringere nuovi accordi. Sul piatto balla un avanzo di bilancio di 5 milioni e 200mila euro, assieme ad altri 6 (cifra arrotondata per difetto): il valore delle quattro schede programmatiche presentate mesi fa alla dirigenza del Settore parchi ed aree naturali della Regione. Decadranno anche quelle? O verrà trovato il cavillo per attingere a quelle risorse?
Oneri e onori
Di certo, per un Ente Parco Aspromonte depauperato in modo quasi irreversibile delle risorse umane per mandarlo avanti, la strada è tutta in ripida salita. I moltissimi che vedono nel Parco la casa di tutti gli amanti della natura, gli operatori e le associazioni che si occupano di turismo montano, escursionismo, ricerca, tutela di flora, fauna, territorio e ambiente hanno ora l’onore e l’onere di vigilare più di prima, e di battersi come troppo timidamente fatto prima. Perché il Parco non sono quei loro che ne hanno fatto cosa loro. Il parco siamo noi ed è un pezzo cruciale del futuro dei nostri territori e della loro strategia di crescita e sviluppo.
Il mare a due passi dalla montagna: meraviglie del trekking d’Aspromonte
Verso le elezioni
Lo scorso maggio 2022, secondo l’ultima classifica redatta da Openpolis sulle aree metropolitane più verdi d’Italia, Reggio Calabria si piazzava al terzo posto su 14. Un dato che trova riscontro nella presenza del Parco Aspromonte e, di riflesso, dell’Ente. Il prossimo candidato sindaco di Reggio, assieme agli altri dell’area metropolitana – più tutta la cosiddetta società civile, imprenditoria compresa – dovrebbero ben tenere a mente questi punti: non solo perché sono il cardine delle future politiche nazionali ed europee, ma perché rappresentano la vera e peculiare prospettiva di sviluppo di una città e un’area metropolitana “di montagna” affacciate sul mare. È arrivato il momento delle convergenze, abbandonando i conflitti.
In questo mio vagare per la Montagna, mi sono chiesto più volte se ci fosse un modo corretto di raccontarla e, se sì, quale fosse. Dopo un anno di peregrinare, portato a volte dalla casualità, altre dal passaparola, altre ancora da contatti che avevo o che sono arrivati, mi sono accorto che il modo più giusto era quello dettato assieme da intuito, curiosità e flusso. E con flusso intendo la capacità di farsi trasportare verso un apparentemente noto in grado di farsi ignoto. Ripulendosi, in un certo senso, gli occhi e la bocca, per tutto quanto, pur guardandolo, non era stato visto. Pur udendolo, non era stato ascoltato. Pur contemplandolo, non era stato colto. Perché, crogiolandosi nella familiarità di schemi cognitivi confortevoli, che consentono di inferire sommariamente risparmiando energie, spesso ci si accomoda. Ma tale comodità ha un prezzo alto: lo stereotipo.
Chi invece si è battuto contro questa tendenza che spesso porta ad oscillare tra sciovinismo e manicheismo non è né un ritornato, né un restato. Ma un arrivato. Che poi, a modo suo, è diventato un ritornante e con il quale ho condiviso diversi momenti, più o meno lunghi, di confronto e riflessione: il generale Giuseppe Battaglia.
Storia e geografia
Oggi consulente presso la Commissione Europea, emiliano di origine, è un uomo di legge e di passioni. «Sono stato assegnato al Comando provinciale dei Carabinieri di Reggio Calabria per un caso fortuito. La mia destinazione doveva essere Milano. Ho obbedito ai comandi e mi sono ritrovato in una terra inaspettata e sorprendente, dove ho avuto la fortuna di incontrare l’Aspromonte e i suoi sentieri. L’ho battuto palmo a palmo, vivendolo e respirandolo, ora per lavoro ora per diporto. Il primo alimentava il secondo e viceversa. Appena posso, vi torno sempre. Per quanto abbia girato, non ho mai scovato altrove ciò che ho trovato in Aspromonte: una terra primordiale, selvaggia, ancorata a un’antropologia, a tradizioni e a culture complesse che troppo facilmente sono state etichettate».
Grande appassionato di alpinismo, esploratore e viaggiatore, per il generale tutto ruota attorno un concetto semplice: «La geografia viene prima della storia, la plasma e l’ha sempre indirizzata. È così che l’Aspromonte deve essere osservato e analizzato». Col generale ho camminato, ho viaggiato e ho anche affrontato l’esperienza di Polsi che tratterò nella prossima puntata.
Antonio Barca con la moglie Marie Therese Italiano
Siamo al rifugio Il Biancospino, gestito da altri due pezzi da novanta, Antonio Barca e la moglie Marie Therese Italiano: uno dei luoghi incantati della Montagna, nascosto tra i Piani di Carmelia nel territorio di Delianuova. Lo ha costruito a mano lo stesso Antonio, pezzo dopo pezzo. In occasione della presentazione del libro Guida all’Aspromonte misterioso – Sentieri e storie della montagna arcaica si è radunata una piccola folla di appassionati. Battaglia ne è l’autore insieme ad Alfonso Picone Chiodo, scrittore, fotografo, ricercatore, trekker, alpinista, agronomo. Restato di questa puntata, primo tra i primi camminatori degli anni Ottanta e tra i primi a intravedere le opportunità di questo territorio.
La copertina del libro scritto da Battaglia e Picone Chiodo
La Calabria brutta e cattiva
«Tornare qui a fare questa presentazione è una fortissima emozione. Si tratta del luogo in cui sono stato accolto come un pellegrino. Perché – inizia Battaglia – pellegrino lo sono stato davvero. La mia storia è cambiata nel 2017, l’anno della riunificazione del Corpo Forestale dello Stato coi Carabinieri. Durante la ricerca di alcune piantagioni alcuni operai forestali si persero in località Ferraina, piena zona A del Parco. Un caso molto imbarazzante per il Comando Generale a un mese dall’accorpamento. Anche perché si trattava del comune di Africo, stereotipo della Calabria brutta e cattiva. Durante un viaggio col Comandante Generale che stava assegnando le destinazioni dei provinciali (comandanti, ndr.), quegli si ricordò che sono un alpinista: da Milano mi dirottòa Reggio Calabria, dove c’era tutto un territorio da esplorare e servivagente esperta. A distanza di anni mi colpisce ancora che, dalle prime ricerche che effettuai per documentarmi su un territorio a me ignoto, emerse una narrazione nera. Negativa. Nemmeno il sito dell’Ente Parco conteneva informazioni aggiornate».
Il generale Giuseppe Battaglia
Drammatica bellezza
«Il mio primo giorno di incarico, il 5 ottobre, lo trascorsi a Polsi – prosegue Battaglia – dove c’era la chiusura dell’anno liturgico. Chi conosce i luoghi sa quanto lunghe e impervie siano le uniche due strade che arrivano al santuario. Fu un’epifania. Non facevo altro che fermarmi per potere scattare delle foto. Il mio primo contatto diretto con l’Aspromonte si consumò all’insegna di una drammatica bellezza. Iniziai poi un’attività di esplorazione sistematica di tutte le stazioni, dalle alture al mare, constatando che ogni vallata aveva una storia peculiare, diversa dall’altra. Avevo bisogno di battere quelle vaste aree palmo a palmo per potere operare. Mi resi conto di due cose: constatai quanto complesso e articolato fosse il territorio di Reggio ed ebbi la conferma che ogni cosa – nel bene e nel male – aveva una sua radice geografica. Se una certa famiglia aveva tenuto cinque sequestrati nel suo territorio, non era un caso: quel nucleo gestiva una determinata porzione di territorio ben noto che gli consentiva di latitare e di tenere sotto diretto controllo i rapiti».
La Guida ai sentieri dell’Aspromonte
È una giornata di metà autunno. Il tempo non si decide a volgere al meglio o al peggio e resta sospeso. Frescheggia nonostante sia l’ora di pranzo. Nell’ampio giardino del rifugio Teresa e Antonio hanno allestito un salottino con sedute rustiche e comode. Alla chetichella, alla presentazione arrivano invitati e avventori. Si presenta, in omaggio al generale, anche un manipolo di carabinieri.
Carabinieri al rifugio Il Biancospino per la presentazione del libro
«L’idea e la nascita di Guida all’Aspromonte Misterioso – Sentieri e Storie di una montagna arcaica – derivano dall’incontro mio e di Alfonso. Come Arma dei Carabinieri avevamo già avviato delle pubblicazioni storiche che racchiudevano quanto acquisito nei nostri archivi a livello provinciale e centrale sulle vicende che avevano coinvolto questi luoghi negli ultimi 60 anni. Con Alfonso abbiamo poi ragionato sulla possibilità di prendere questo materiale, isolare determinati episodi contenuti in quegli archivi e nei verbali e associarli a itinerari escursionistici. L’obiettivo era quello di liberare questa montagna da uno stereotipo negativo collegato a fatti storici criminali, senza tuttavia negarli. Ossia associare la parte escursionistica positiva, rappresentata da un pioniere come Alfonso, a una memoria, in modo che l’Aspromonte di oggi possa essere percorso, sia con la consapevolezza di ciò che è avvenuto, sia con la sicurezza e la libertà di un nuovo corso. Senza negare quanto accaduto né il sacrificio dei tanti carabinieri e civili vittime della criminalità, ma celebrando questa nuova vita nella bellezza», mi spiega Battaglia.
Il tavolo dei relatori alla presentazione del volume. Da sinistra: Alfonso Picone Chiodo, Francesco Bevilacqua, Michele Albanese, Giuseppe Battaglia e don Pino De Masi
Un modo di chiudere i conti con la storia e di operare una rifondazione che – continuano in coro gli autori – «fa soprattutto parte di una più ampia operazione di liberazione: agevolare e promuovere la frequentazione di questi luoghi, restituendoli alle persone per bene e sottraendoli ai simboli e al malaffare delle organizzazioni criminali».
Comprendere l’Aspromonte attraverso i sentieri
In effetti il volume è una guida per i camminatori e al tempo stesso deposito di memorie che segnano la storia della montagna dall’Ottocento fino ai nostri giorni: 17 itinerari e 124 fotografie suddivisi in cinque parti in cui gli autori compongono affascinanti percorsi escursionistici lungo i sentieri dell’Aspromonte, più o meno lunghi e complessi, sulla falsariga delle storie e degli uomini che li hanno attraversati o contraddistinti. Dal brigantaggio, sulle orme di Giuseppe Musolino, ai primi fenomeni di ‘ndrangheta ambientati tra Pentedattilo,Montalto e Casalnuovo, fino alla lotta dello Stato contro la criminalità e ai luoghi dellastagione dei sequestri. Tra boschi, asperità, pendici di origine alpina e vie di fuga. Un percorso per fare un viaggio tra storia, legalità e nuove opportunità relative al circuito di trekking, sport di quota, torrentismo, canoying e ospitalità.
Il brigante Musolino
«Era per noi essenziale legare l’ambiente ai fatti che vi sono avvenuti. Storie di successi e sconfitte per lo Stato, come nel caso di Musolino. Difficoltà. Quelle che oggi l’escursionista incontra sono le stesse che hanno affrontato i carabinieri nel cercare il fuggitivo e ancora le medesime che utilizzava il fuggitivo per nascondersi. E solo in questo gioco di specchi e immedesimazioni, solo recandosi, camminandoci sopra, si può comprendere cosa sia avvenuto in questo teatro remoto e brulicante, in termini di sentimenti, modo di operare, errori, fortune, successi di chi ci ha vissuto. Dove il Luogo ha determinato la dinamica di certi episodi. Questa è la chiave per comprendere l’Aspromonte nella sua integrità», spiegano Battaglia e Picone.
La Montagna liberata
«Abbiamo voluto coinvolgere anche Libera, cui andranno devoluti gli introiti dei diritti di autore e a cui abbiamo affidato la prefazione del volume, nella persona di Don Luigi Ciotti. Da antesignano escursionista sono testimone di come quell’atto del camminare in luoghi ritenuti pericolosi e malfamati a ridosso della stagione dei sequestri abbia contribuito a liberare questa montagna e a trasformarla in vera risorsa, anche a partire dall’istituzione del Parco Nazionale. Un progetto allora impensabile in cui in pochi credevamo ma che ci ha dato ragione, se oggi i sentieri dell’Aspromonte sono battuti da migliaia di escursionisti», continua Alfonso che è anche autore del notoblog L’Altro Aspromonte, una miniera di informazioni e ricerche sulla Montagna e fondatore della Coop Nuove frontiere, prima realtà eco-turistica nel meridione.
Alfonso Picone Chiodo, tra i principali esperti dei sentieri in Aspromonte
Anche lui ha trascorso un pezzo della sua vita a battersi contro gli stereotipi. È stato tra coloro che hanno creduto di poter riscattare un territorio coniugando legalità ed escursionismo. Insieme a Sisinio Zito – socialista con importanti ruoli di governo che creò le premesse legislative per la nascita dell’area protetta – e Guido Laganà, ex assessore regionale al Turismo, ha promosso la creazione del Parco Nazionale a partire dalla realizzazione di un pezzo del Sentiero Italia in Aspromonte, avviando, tra le altre cose, contatti con tour operator stranieri.
La trappola della legalità
La liberazione dei luoghi, la loro restituzione a quella parte di comunità sana, l’impegno a rigenerarli attraverso l’avvio di processi di rinascita, riscoperta o sviluppo è lo strumento per evitare quella che il generale Battaglia definisce «trappola della legalità»: un certo oltranzismo nell’applicazione pedissequa di regole e norme in assenza delle necessarie e commisurate risorse a garanzia della sostenibilità di una tale operazione. Solo per scaricarsi da certe responsabilità. Cadere preda di questa trappola castra il principio stesso di legalità, ponendo divieti senza potersi occupare di – o avere le condizioni per – effettuare i dovuti controlli. Inducendo così nelle popolazioni coinvolte la chiara consapevolezza che si tratti solo di divieti formali che possono essere violati allegramente, quando così non è. Comunità e luoghi da tutelare allora rischiano di diventare vittime vulnerabili, perché privati di opportunità di sviluppo e tutela realmente ed oggettivamente sostenibili.
L’antropologo Vito Teti
Sono quegli stessi luoghi – per dirla con le parole di Vito Teti – che non sono solo «articolazione spaziale, ma anche dimensione della mente, organizzazione simbolica di tempo, memoria e oblio, luogo antropologico in senso lato in quanto abitato, umanizzato e riconosciuto, periodicamente rifondato dalle persone che se ne sentono parte e che, nell’essere parte di una storia che ha a che fare con noi stessi, ci interroga ancora tutti: restanti ritornanti e partiti».
Luoghi che, in quanto tali, sono il nucleo di vita, memoria, riconoscimento, speranza, visione, sperimentazione. Nonostante la propaganda che li ha umiliati, la dignità che è stata sottratta e lo stereotipo che li ha fagocitati.
Senigallia. 15 settembre 2022. Mi trovo in città per dare il via a un’iniziativa a cui lavoro da mesi. Il cielo, carico di pioggia, è minaccioso. Mentre va in scena il primo evento, in sala fa breccia un messo comunale trafelato che inizia ad urlare di sgomberare: sta arrivando la piena del fiume. Di lì a poche ore il Misa strariperà rovinosamente. La mattina successiva, dopo una notte di inferno, ricevo una chiamata da un amico reggino che vive in zona e che decide di raggiungermi.
Nonostante la città sia una distesa di fango e detriti, Giandiego arriva e, dopo un caffè stravolto e straniante, mi regala una copia di A Marsiglia con Jean Claude Izzo, invitandomi a contattare il suo autore Vincenzo Gallico, interessato all’iniziativa marchigiana ormai abortita per cause di forza maggiore.
Il mio dialogo con Vincenzo Gallico, per gli amici e i lettori Vins, inizia così. Scambiamo qualche messaggio, gli passo alcuni dei miei scritti da cui parte un confronto virtuale che entro qualche mese approderà alla vita reale.
Scilla, 24 giugno 2023. Ci incontriamo per la prima volta dal vivo in occasione della presentazione de Il Dio dello Stretto. Reggino, trasferitosi a Roma, ammiratore di Paul Preciado, un passato come ricercatore in Germania, Vincenzo “Vins” Gallico è ormai un autore di lungo corso e già finalista al Premio Strega. Concordiamo un’intervista che si concretizzerà solo diversi mesi dopo.
Come sta andando?
«Il libro sta andando bene. Sono contento. Rispetto all’andamento della narrativa italiana non ho di che lamentarmi. Siamo già in fase di ristampa. E, a considerare il numero di inviti che sto ricevendo in giro per l’Italia e l’accoglienza che mi viene riservata, devo considerami fortunato. È successo quanto mi aspettavo».
La copertina de Il Dio dello Stretto, ultimo romanzo di Vincenzo “Vins” Gallico
In che senso?
«Ritornare al romanzo per me non era così scontato. Quando te ne allontani, alcuni posti vengono rioccupati, altre voci vengono dimenticate. Invece vedo che c’è stato parecchio affetto e calore intorno a questo libro».
Mi hai detto «ritorno al romanzo». Perché?
«Dopo Portami Rispetto del 2010 e la commediaFinal Cut, avevo scritto La Barriera, un romanzo a quattro mani uscito nel 2017. Poi era stata la volta di due volumi, due saggi, A Marsiglia con Jean Claude Izzo e La Storia delle librerie italiane. Di fatto non scrivevo un romanzo da solo dal 2015. Sette anni. E non ne scrivevo uno noir da circa tredici. Quindi mi sembra di poter parlare di ritorno».
Il tuo romanzo non è una semplice storia di fantasia. C’è dietro uno studio sul contesto italiano politico e giudiziario, sulla guerra di mafia che negli anni Ottanta ha insanguinato Reggio Calabria e sui nuovi equilibri raggiunti negli anni Novanta. C’è dentro tutto lo Spirito del Luogo: dai tramonti mozzafiato del lungomare alla decadenza umana e urbana…
«E non sarebbe potuto essere altrimenti. Sono cresciuto al Gebbione (quartiere dell’area Sud di Reggio Calabria, n.d.r.) e mi porto dietro tutto quello che le mie origini comportano. Reggio è un luogo complesso e stratificato dove una bellezza struggente si accompagna a una ferocia senza scrupoli. Camminano insieme in un ossimoro. Non riesco a non parlare di queste mie origini, legate a un territorio che già parte da una evidente condizione di svantaggio in cui anche il contesto della borghesia cittadina non è certo paragonabile a quello del Centro-Nord. In più, porto un cognome che può ingannare: nonostante non abbia parentele di un certo tipo, mi rendo conto che a volte questo cognome abbia una ricezione scomoda. Raccontare certe storie e certi territori è il mio modo di affrontare il trauma di nascita, che è mio e di tutti i calabresi per bene».
Case popolari nel quartiere Gebbione di Reggio Calabria
«Un qualcosa che è assieme prigione, spinta evolutiva, bisogno di affrancamento. È chiaro che certi luoghi, specie se natali, ti segnano: sono la tua sventura, ma anche il tuo trampolino. Essere cresciuto a Reggio mi dà maggiore sicurezza nella mia vita odierna e nella gestione di situazioni critiche. Un punto di forza, non di vanto».
Nel tuo noir racconti una storia di passioni, malaffare, maschilismo in cui l’eroe – il giovane magistrato Mimmo Castelli – si trova a indossare le scarpe dell’antieroe e antagonista, il malavitoso Logoteta…
«Mimmo Castelli è il protagonista della vicenda. E lo è in due direzioni e dimensioni: sia per quanto riguarda il motore esterno della storia – l’eventuale risoluzione dell’indagine – sia per quel che concerne il motore interno – i dubbi etici, i rapporti con la moglie, gli amici, il gruppo, la religione. Di fatto si tratta di una storia che si sviluppa su questi due pilastri. Meglio: due tiranti. Due elastici. Entrambi ispirati agli stilemi del romanzo di detection. Sul versante esterno: riuscirà il nostro eroe a risolvere il caso? E, nel caso, riuscirà a sconfiggere l’antagonista? Su quello interno: riuscirà a sciogliere i suoi crucci interiori?».
Tra le recensioni che ho letto c’è chi ha sottolineato la tua capacità di non perdere il ritmo. Che è un aspetto essenziale per il gradimento dei lettori.
«L’aspetto ritmico è complicatissimo nella scrittura. I miei editor mi hanno più volte contestato che corro troppo, che c’è troppa storia. Per cui ho molto lavorato su questo aspetto: ho provato a evitare troppi colpi di scena e a entrare un po’ più nei personaggi. Anche perché trovare un’intimità con chi ti legge è un’operazione complessa. Non so quanto mi sia riuscita, ma ho provato a farlo: per cui ho corso un po’, mi sono fermato un attimo, ho ripreso fiato e sono ripartito nella corsa».
Vincenzo “Vins” Gallico durante una presentazione del suo ultimo libro
Un ritmo che accompagna dubbi, inquietudini e turbamenti di Castelli con un capovolgimento che rasenta il coup de théâtre: da giudice integerrimo a uomo troppo umano.
«A me la roba delle stanze chiuse interessa parecchio. Mi riferisco all’aspetto non manicheo per il quale “quello è una-bravissima-persona”. Vero! Ma anche la-bravissima-persona combatte i suoi demoni. Che spesso sono tappati, o repressi, ma possono venir fuori da un momento all’altro. Mimmo Castelli è un personaggio che è convinto di essere buono ma deve arrendersi di fronte alla verità che la bontà tout court non esiste. Nemmeno nei santi. Il retro-pensiero fa parte di qualsiasi essere umano».
Che è un po’ il tema principe trattato con cruda lucidità da Rocco Carbone in “L’Assedio”: la dimostrazione plastica di come la pretesa assolutistica dell’etica abdichi di fronte alla relatività di certe circostanze legate all’emergenza o alla sopravvivenza. Un tema che tu enunci chiaramente nelle citazioni che introducono il tuo romanzo.
«Con Rocco ho un legame speciale, che tu conosci, e che inevitabilmente, in maniera conscia o inconscia, mi riporta a lui e alla sua poetica. A margine de Il Dio dello Stretto cito Aristotele: per lui la giustizia – in qualità di virtù prima – rappresenta il Giusto Mezzo per antonomasia. Può essere padroneggiata solo al compimento di un processo di ricerca incessante che oscilla tra sentimenti, esperienze, incontri e riflessioni. Una Giustizia che può anche smarrirsi tra le pieghe di verità giuridiche che non sempre coincidono con le realtà dei fatti. Senza dimenticare – come ti ho detto – che i nostri natali calabresi e il processo di crescita vissuto a certe latitudini ha influenzato molto la nostra visione dell’etica».
Rocco Carbone
Ossia?
«Trattare il tema del bene e del male a volte può voler dire fissare il limite tra l’eroismo e la scelta di vivere. Nel nuovo romanzo che sto preparando, il sequel de Il Dio dello Stretto, viene ucciso il fratello di Patrizia, amica di Miriam (moglie di Mimmo Castelli, n.d.r.). La stessa Miriam viene da una famiglia complicata. Mimmo allora inizia a interrogarsi su quale sia la normalità: quella della sua famiglia che lo ha cresciuto nella bambagia o quella dei contesti di degrado da cui è circondato?».
Che Calabria racconta Vins Gallico?
«Cerco di tenermi lontano sia dallo sciovinismo, quindi dallo stereotipo di una Calabria favolistica dalle magnifiche tradizioni, sia dalla classica narrazione di ‘ndrangheta. In realtà non sono un “esperto” di Calabria, ma mi pongo come narratore dello Stretto. Sono più vicino a Carbone che a Corrado Alvaro: Gente in Aspromonte mi è più lontano rispetto a L’Apparizione. Più semplicemente ho cercato di raccontare i fermenti di un territorio all’alba di quella che si presentava come una stagione di speranza. Il Dio dello Stretto è anche un romanzo legato alla speranza.
Corrado Alvaro
In che senso?
«Con la fine della seconda guerra di ‘ndrangheta, si era aperta una stagione in cui un po’ ci si credeva che qualcosa potesse cambiare».
Questa speranza è finita?
«Diciamo che in questi ultimi 20 anni ha preso un bel po’ di pugni in faccia».
Chi è il Dio dello Stretto che vorrebbe Vins Gallico?
Una nuova comunità di giovani che prova a cambiare Reggio. Recentemente sono stato al “Da Vinci” (uno dei due licei scientifici di Reggio Calabria, n.d.r.) e ho buttato lì una proposta agli studenti: perché non provate a diventare la prima scuola green in Italia? Lasciate auto e motorini e raggiungete la scuola a piedi. Nonostante si trattasse di una boutade, la mia speranza e il mio augurio riguardano la capacità ricettiva di Reggio: spero che prima o poi la città si svegli, recepisca e faccia proprie le istanze di reale cambiamento».
Il liceo Da Vinci di Reggio Calabria
Cos’altro bolle in pentola?
«Lo scorso 17 dicembre si è concluso il primo Festival dell’Ascoltopromosso da Fandango, di cui sono responsabile. Abbiamo iniziato a lavorare in modo più strutturato su un format che coniuga podcast e nuove forme di inchiesta. La risposta è stata molto positiva e presto ci saranno delle novità».
Nel cuore della Piana di Gioia Tauro, ai piedi del versante più tropicale dell’Aspromonte, c’è un manipolo di quattro coraggiosi che, qualche anno fa, ha deciso di tornare sui passi della propria diaspora e rientrare.
Siamo a Taurianova, terra di agricoltura e antico insediamento dei Taureani, un tempo popolato dai Calcidiesi di Zancle e dai Bruzi della Colonia Tauriana, prima di soccombere a una delle più feroci incursioni saracene. Quella del X secolo d.C.
Per arrivarvi da Gioia bisogna passare tra distese di ulivi e agrumeti, rotonde, centri commerciali e sfacciati esempi della più bieca speculazione edilizia. Ogni volta che mi ci dirigo, mi pare di varcare un confine impalpabile oltre il quale si apre una terra avulsa, soggetta a proprie regole non scritte, che parla un dialetto diverso dal mio.
Da una parte il mare, col suo grande porto, dall’altra la montagna, con i suoi muraglioni verdi.
A volte ritornano
Federica Ferrazzo, Martino e Andrea Latella, Rocco Buonanno sono i proprietari di Osteria Zero e, assieme a Pasquale Polifroni, anche i ritornati di questa puntata.
«Siamo uno degli ormai tanti esempi di ritornati. Facciamo parte di quel gruppo di persone che ha deciso di rientrare con la speranza di potercela fare. Come molti, abbiamo alle spalle un passato di emigrazione. Siamo stati fuori, ci siamo formati, abbiamo costruito il nostro bagaglio culturale, fatto di competenze e sudore. Abbiamo lavorato. Ma non volevamo vivere fuori dalla nostra terra. Il nostro obiettivo era lavorare bene e farlo a casa nostra. Il progetto Osteria Zero (Osteria Zero – Taurianova) è nato così», attacca Martino con un gran sorriso e tanta voglia di raccontare.
Un’anteprima della Guida Espresso Ristoranti d’Italia 2024
Insieme a sua moglie Federica, suo fratello Andrea e l’amico Rocco hanno messo in piedi un progetto di ristorazione che lo scorso novembre a Milano è stato premiato con l’inserimento nella Guida de l’Espresso ai migliori 1000 ristoranti d’Italia 2024. «Un po’ come essere a Sanremo giovani», scherza Martino.
Ma andiamo con ordine. Torniamo al 2016. Federica, Rocco e Martino, anni nella ristorazione come dipendenti, fanno il salto indietro. Andrea, un passato in Francia come sommelier, imbocca la stessa strada. «Fino ad allora avevamo sempre lavorato per altri, pensando di poter arrivare ad ottenere soddisfazioni che in realtà non sono mai arrivate. Noi, però, avevamo un sogno», spiega Martino.
Il progetto Osteria Zero
«Osteria Zero nasce dalla volontà di rientrare in Calabria e proporre la nostra idea di ristorazione. Molti pensano che il nome del ristorante sia ispirato alla filosofia del “km 0”. Invece no. Il punto è che abbiamo deciso di ripartire da capo. Da zero. Con un nuovo percorso, un nuovo modo di guardare a noi stessi e alla Calabria. Un nuovo assetto mentale. Volevamo far capire alle persone che anche qui in Calabria è possibile fare impresa. Ci vuole coraggio e determinazione perché è una terra da cui parti svantaggiato. Ma, se ci credi, pian piano le difficoltà si possono superare e si può lavorare anche bene. Alla fine i calabresi apprezzano quando rientri e cerchi di fare qualcosa per la comunità e i suoi territori», mi dicono.
La luce di mezzogiorno entra obliqua dalle grandi finestre del locale. Di fronte alla telecamera accesa, i ragazzi iniziano a raccontare una storia di passione. I loro sguardi trasudano orgoglio, devozione e fiducia.
«Offriamo una cucina fondata sulla stagionalità dei prodotti della nostra terra. È una cucina semplice dove all’ingrediente buono del piccolo produttore applichiamo le tecniche che abbiamo appreso in giro, nei vari ristoranti dove abbiamo lavorato. Cerchiamo di rappresentare al meglio i produttori e di valorizzare ingredienti e materie prime. Col tempo, abbiamo dimostrato che si può mangiare in un determinato modo senza dover spendere una fortuna», spiega Rocco che, assieme a Martino, è il secondo cuoco dell’osteria.
La rete di piccoli produttori
«Il fulcro della nostra attività si basa sul rapporto diretto con i produttori. Il territorio offre prodotti straordinari, spesso poco conosciuti, che affondano le radici in una cultura contadina millenaria», continua Rocco.
Rocco, Martino e gli altri intrecciano fili, tracciano percorsi, riannodano sentieri che dalla montagna arrivano in pianura. Le loro vie del gusto partono dall’Aspromonte. «Per noi l’Aspromonte è una miniera di risorse: piante selvatiche, erbe aromatiche, grano, legumi, ortaggi cui attingiamo in abbondanza e proponiamo a una clientela disabituata a determinati sapori ed assuefatta a una certa massificazione culinaria. Noi puntiamo sui piccoli produttori: con loro collaboriamo e studiamo nuovi abbinamenti. Prendi il cavolo rosso locale. Dall’esigenza di smaltirne un grande esubero è nata l’idea di un gelato alla senape di accompagno. O il fagiolo di Canolo che andiamo ad acquistare direttamente in montagna. O il grano jermano. Abbinamenti moderni, a volte spericolati che però ci hanno premiato».
Andrea Latella, sommelier di Osteria Zero
In effetti, insieme a Osteria Zero è venuta emergendo una rete di produttori che parte da Zomaro, passa da Cittanova, dove esiste ancora un punto di macinatura a pietra, e arriva a Taurianova. Passando, come vedremo tra poco, anche dalla Locride.
«I fornitori che operano in montagna fanno un grande lavoro. Siamo ancora troppo pochi quelli che sanno di avere a disposizione una grande risorsa come l’Aspromonte che è valorizzata poco, forse al 10%, e che spesso è vissuta solo come spazio ricreativotemporaneo per le gite della Pasquetta o della domenica. La verità è che chi sta lassù, produce e crea impresa è un eroe. Come Antonello Stilo che a Canolo, dal nulla, ha creato una grande realtà in cui si lavorano i grani antichi, il latte, i formaggi, i salumi, tra cui spicca il conosciutissimo prosciutto di San Canolo. E come Antonello tanti altri che ci credono», aggiunge Martino.
Fiducia e divulgazione, per una nuova cultura culinaria
«Diamo loro una fiducia che ci viene pienamente restituita. Chi vede passione e impegno, ripaga in termini di adesione, affiancamento e supporto. Credo che sia il valore aggiunto e la diversità di fare impresa in Calabria, qualcosa che non sempre si può riscontrare quando gestisci un’attività altrove. Ci si aiuta. Questo è il bello. Qui da noi ci si aiuta», continua Rocco.
Le sue parole hanno un’eco antica. Riportano a un meridionalismo dove il mutuo soccorso incarnava la prima strategia di sopravvivenza: “i vicini devono fare come le tegole del tetto, a darsi l’acqua l’un l’altro”.
«Se noi ce la facciamo, vincono anche i piccoli produttori con cui lavoriamo. Questo è il senso del nostro impegno per il territorio». Che non si misura solo in termini di crescita economica, ma anche di divulgazione di un nuova cultura culinaria capace di coniugare tradizione e modernità. «A chi viene in osteria e vede un ingrediente insolito proviamo a raccontare cosa è, da dove viene, che uso se ne può fare, qual è la sua storia e che percorso ha compiuto per arrivare nel piatto. La cultura e la storia del nostro territorio passano anche da qui. E questo e il modo a noi più consono di svelarlo».
Le peripezie di Osteria Zero con la Regione Calabria
Il percorso, però, non è stato semplice. A raccontarmelo è Federica: «Non avevamo un capitale a disposizione da investire per tirare su l’impresa, per cui ci siamo rivolti alla Regione Calabria.Abbiamo presentato il progetto e avuto accesso ai finanziamenti. Abbiamo firmato all’inizio del 2017. A distanza di quattro anni siamo stati costretti a chiudere i nostri rapporti con la Regione per chiedere il mutuo in banca con cui siamo riusciti a partire».
Domando maggiori dettagli. «Il fatto è che dal 2017 i soldi ci sono arrivati nel 2021, subito dopo la pandemia. Con tutte le difficoltà del caso. Ci risultava impossibile spendere i fondi secondo le regole e i tempi dettati dal progetto», chiarisce Federica. «Per evitare grane successive, abbiamo dovuto rinunciare e restituire la cifra con tanto di mora», rincara Martino.
«Nonostante avessimo effettuato tutte le operazioni di chiusura, restituendo quanto ci era stato dato, ci è mancato poco che la vicenda finisse sul penale. Questo perché alla Regione nessuno aveva mai letto la pec con cui comunicavamo l’avvenuta e comprovata restituzione dei fondi. Ad oggi, dopo il calvario vissuto, non riteniamo Regione Calabria un interlocutore credibile e affidabile. Abbiamo constatato che, al di là di tante belle parole, il supporto e l’affiancamento ai piccoli imprenditori che la Regione dovrebbe fornire è una chimera. Purtroppo la realtà è questa», conclude Federica. Cui fa eco Martino: «Un po’ ti scoraggi. Perché un ente che dovrebbe darti una mano alla fine ti crea soltanto problemi».
Come facevano gli antichi
Eppure, a dispetto dei molti ostacoli sulla strada, questa trama di relazioni, merci e persone che attraversa e oltrepassa picchi e vallate, si allarga dal Tirreno allo Jonio. Dalla piana di Gioia scavalco la montagna e giungo sul versante jonico, località Ciminà, già famosa per il suo caciocavallo dop. Mi aspetta Pasquale Polifroni, patron di Aspromonte Vini (Aspromonte Vini – Vini artigianali biologici di Calabria), una delle cantine di vini naturali sponsorizzate da Osteria Zero di cui mi aveva molto parlato Andrea Latella, sottolineandone la qualità, i metodi di produzione e quelli di conservazione.
Pasquale Polifroni
Arrivo in località Vignali, un toponimo legato all’antico passato vitivinicolo. «Anche io sono un ritornato. Dopo gli studi a Perugia, mi sono trasferito con un buon contratto di lavoro a Milano nel campo della concessioni pubblicitarie per i media. Ho condotto quella vita per qualche anno fino a rendermi conto che non la trovavo più soddisfacente. Mi sono licenziato e, con la buona uscita, mi sono preso un anno sabbatico alla fine del quale, dopo una serie di vicissitudini, ho deciso di rientrare. La mia attività di agricoltore è cominciata con i frutti di bosco: lamponi, more e i mirtilli, che ancora produco».
Il dettaglio che dai racconti dei ragazzi di Osteria Zero mi aveva colpito di Polifroni era l’utilizzo degli orci di creta per la conservazione dei suoi vini. Mentre ci rechiamo verso la vigna, Pasquale si ferma. «Devo mostrarti qualcosa». Lo seguo fino ad arrivare a quella che, immersa nel verde fitto dei campi, sembra un’antica vasca. «Per l’esattezza si tratta di un palmento romano di 2000 anni fa. Il manufatto è composto di due vasche di roccia arenaria costruite su livelli sfalsati e collegate da un piccolo scolo. La prima serviva da pigiatoio e filtro e riversava nell’altra il succo della spremitura che veniva raccolto in vasi di coccio e trasportato a maturare».Dirigendoci verso la viti, attraversiamo la fiumara dei Gelsi Bianchi sulle cui rive insisteva una fiorente produzione di gelso.
Palmento romano a Ciminà
I vitigni autoctoni
«L’amore per il vino l’ho sempre avuto. Ho cominciato a bere vini naturali – che oggi è la mia nicchia di mercato – e poi ho deciso di impiantare la mia prima vigna: 200 piante per provare a produrre 150 litri di vino. Fosse andata male, avrei registrato una perdita minima. Invece venne fuori un buon prodotto. La mia passione cresceva e mi incamminai su un percorso fatto di visite a fiere, studi dedicati, una formazione da sommelier».
Pasquale oggi è componente della prestigiosa associazione Vi.Te. che anche nel 2023 ha rappresentato il mondo dei vini naturali al Vinitaly. Mi racconta che è partito tutto così: «Ho iniziato a impiantare 3 ettari di vigna. Solo vitigni autoctoni calabresi: magliocco, mantonico e greco nero. Vitigni millenari, come il mantonico, che esiste da 2.500 anni, è stato importato dai greci ed è uno dei padri della viticultura italiana. Chi ne mastica un po’ sa che il mantonico è il papà del gaglioppo e del nerello mascarese. C’è stato tanto lavoro. I contributi pubblici mi hanno aiutato: i fondi del Programma di Sviluppo Rurale 2014/2020 della Regione sono serviti a impiantare la coltivazione di vite sul terreno che vedi, completamente vergine e fino ad allora adibito a pascolo, e a ristrutturare i locali della cantina».
La vigna di Aspromonte Vini
Dalla Calabria a Milano, ancora una volta
Sul crinale della montagna, completamente in pendenza, si apre di fronte a noi una distesa di viti non trattate con un’ottima esposizione al sole e alle correnti d’aria che trasportano fin qui la brezza marina. E senza potersi ispirare ad altri né una tradizione familiare alle spalle. Nella zona, ad oggi, Pasquale resta l’unico produttore.
«Ho chiesto qualche consulenza e ho iniziato una piccola produzione naturale che contempla il solo utilizzo di prodotti biologici: zero pesticidi, disserbanti e prodotti di sintesi, ma solo l’uso di componenti naturali, come lo zolfo e un uso moderato di solforosa. Alla fine ho mandato i vini a Milano a un buyer ebreo che, dopo qualche settimana, ha preso l’aereo e mi ha raggiunto tre giorni. Quando è ripartito, avevamo già chiuso un contratto di distribuzione in tutta Italia».
Le anfora di terracotta dove matura il vino
Da allora le cose sono andate in crescendo. «Oggi produco e poi faccio maturare nelle giare di terracotta, un po’ come si faceva nell’antichità. Come il legno, la creta consente una particolare micro-ossigenazione, ma a differenza del legno e come l’acciaio, non cede nulla, lasciando il vino in purezza. La creta però non fa trasformare l’aceto in vino. La differenza la fanno la qualità delle uve, l’esposizione e la posizione delle coltivazioni, il metodo per tirare su le viti e i procedimenti in cantina. Lavoriamo attraverso fermentazioni spontanee con lieviti indigeni. Il vino ottenuto non viene chiarificato né filtrato e i sedimenti che si possono trovare in bottiglia lo proteggono, conservandone le proprietà organolettiche».
E che non sia stato facile posso solo immaginarlo. «Il comparto enologico è estremamente concorrenziale e l’Italia è uno dei maggiori produttori ed esportatori mondali. Ho avuto dalla mia la passione, l’amore, la cocciutaggine. E un pizzico di fortuna», chiosa Pasquale.
Fare impresa in Calabria
Le storie dell’Osteria Zero di Martino, Rocco, Federica, Antonello o quella di Pasquale sono la testimonianza di come sia possibile fare impresa in Calabria dove, se la fatica è maggiore, le soddisfazioni dei traguardi sono più grandi. A difficoltà oggettive rispetto ad altre regioni italiane – pastoie burocratiche, carenze logistiche, scarsi servizi – imprenditori come loro rispondono con il mutuo soccorso, il coraggio, la determinazione dei sogni. Tra approcci diversi e fortune alterne dove si ha l’impressione che la Regione sia ora madre, ora matrigna.
Se a questi elementi si affiancassero politiche attive di formazione alla cultura di impresa, di incubazione e accompagnamento, di promozione e valorizzazione delle filiere, attente alla geografia e alle relazioni tra territori, l’energia sprigionata e i risultati che ne deriverebbero potrebbero contribuire sostanzialmente a mutare il volto di una terra dalle grandi risorse.
All’Ente Parco Aspromonte è ormai guerra totale tra il presidente Autelitano e il direttore amministrativo Putortì. Da quando I Calabresi hanno dato notizia del parere dell’Avvocatura dello Stato sui quesiti di Giuseppe Putortì in relazione alla legittimità delle assunzionidi 5 ex LSU e LPU volute da Leo Autelitano, è in atto una battaglia senza esclusione di colpi.
Nell’attesa che si svolga la riunione del Consiglio Direttivo il prossimo 24 novembre con, tra i punti all’ordine del giorno, le “Contestazioni al Direttore dell’Ente. Determinazioni”, il presidente e il direttore se le stanno dando di santa ragione.
È di pochi giorni fa, il 17 novembre, la pubblicazione di due atti: un decreto del Presidente, n°3 del 17/11/2023 e una determina del direttore, n° 501 della stessa data.
Parco Aspromonte: Autelitano blocca Putortì
Il primo annulla i provvedimenti disciplinari che ha preso la Direzione amministrativa contro Silvia Lottero. È la funzionaria che firmò i provvedimenti di passaggio nella dotazione organica di 5 dei 17 LSU/LPU stabilizzati. Ad oggi risulterebbe colpevole di un ingente danno erariale per l’ente. Putortì, nella qualità di componente dell’ufficio procedimenti disciplinari, avrebbe infatti dato il via ad un procedimento disciplinare contro di lei.
Il Consiglio Direttivo, lo scorso 23 ottobre 2023, aveva audito Lottero in merito alle circostanze. In quell’occasione nessuno avrebbe sollevato osservazioni, almeno secondo quanto riportano le premesse del decreto di Autelitano.
La nostra redazione ha dato piena disponibilità a raccogliere le dichiarazioni della funzionaria sulla vicenda in corso. In risposta, ad oggi, nessuna nota o sollecitazione però.
Leo Autelitano, il presidente dell’Ente Parco dell’Aspromonte
Ora, nonostante i richiami alla violazione dell’articolo 4, commi 1 e 4, del regolamento disciplinare dell’Ente Parco, il decreto presidenziale potrebbe configurarsi come un abuso.
Non rientrerebbe nelle prerogative del presidente né del Consiglio direttivo – il primo dei quali è, ricordiamolo, un organo di indirizzo e orientamento politico – annullare atti datoriali. Né tantomeno potrebbero occuparsi dei procedimenti disciplinari. Essi sono prerogativa esclusiva del datore di lavoro e/o dell’ufficio procedimenti disciplinari per questo nominato.
Parco Aspromonte: Putortì, Autelitano e la determina
Il secondo provvedimento emanato lo scorso 17 novembre annulla con effetto immediato la determina 295/2021 che portò a quelle assunzioni e stabilizzazioni.
In particolare, il documento dichiara
«la caducazione automatica dei rapporti di lavoro stipulati in data 01 Luglio 2021 (…) essendo venuto meno il presupposto in base al quale il rapporto di lavoro è stato costituito»;
la ricollocazione «con effetto immediato tra i soprannumeraricon conseguente ed immediata modifica del proprio status e trattamento retributivo e contributivo di cui al contributo assegnato per i lavoratori ex Lsu-Lpu stabilizzati»;
il recupero di «tutte le somme (…) corrisposte e versate dalla data di stipula dei singoli contratti di lavoro (…) per effetto della [loro] illegittima assunzione in ruolo sino alla data della disposta risoluzione» da reinserire nel bilancio dell’Ente Parco.
La determina è stata trasmessa alla Procura Generale della Corte dei Conti, al Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, al Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, e a quelli dell’Economia e del Lavoro, nonché alla Regione Calabria ed al Collegio dei revisori dei conti.
Pino Putortì, il direttore del Parco dell’Aspromonte
In sostanza le contestazioni sarebbero di tre ordini:
l’assunzione illegittima di 5 delle 17 risorse in oggetto;
la procedura illegittima, con una commissione – cui avrebbe preso indebitamente parte la Lottero – che avrebbe effettuato le prove selettive in violazione di un avviso secondo cui per le categorie C sarebbe stato necessario un concorso, sotto la gestione del Dipartimento della Funzione Pubblica;
l’assorbimento dei 12 con competenze e funzioni diverse da quelle che avrebbero dovute avere.
Il Consiglio direttivo ratificherà?
Sono i due volti di quel Giano bifronte su cui si fonda l’attuale governance degli Enti Parco Nazionali italiani (legge 394/1991), le cui criticità aveva richiamato proprio Putortì in un’intervista su questo giornale.
Ora a ratificare il decreto del presidente, come richiama il documento stesso, dovrà essere il Consiglio Direttivo. Vi siedono anche i rappresentanti dei Ministeri competenti, dell’ISPRA e delle associazioni di tutela ambientale. Ammesso che l’atto per cui si richiede ratifica ottenga il via libera, la presenza di tutti i componenti e il raggiungimento del numero legale valido darà già la misura di quanto ancora possa crescere l’intensità del conflitto in atto. E rappresenterà un forte segnale politico.
La posizione delle associazioni
Nel frattempo molto si è mosso. L’Associazione Guide Ufficiali del Parco ha rilasciato un comunicato in cui ha dichiarato come da tempo si conoscessero «i problemi e le criticità all’interno dell’Ente Parco». Così come che «il quadro delineato dalla pronuncia dell’Avvocatura dello Stato è a dir poco preoccupante» perché «la funzionalità e il regolare svolgimento dell’attività amministrativa dell’Ente pare sia stata compromessa da azioni e scelte dell’attuale governance».
Per loro è ora di «difendere il Parco, che deve funzionare e deve farlo bene», in virtù della sua funzione per tutto il territorio della Città Metropolitana di Reggio. Operazione che si può realizzare solo se prevalgono istanze di chiarezza e trasparenza troppo spesso disattese o perdute in quello che ad oggi, per opacità, si configura come un vero e proprio porto delle nebbie.
La prossima puntata della saga andrà in onda dopo il 24 novembre.
L’arresto di Patrizio Bevilacqua lo scorso sabato notte rappresenta un nuovo capitolo nelle vicende della criminalità legata ai clan rom di Reggio Calabria. L’uomo aveva già riportato una condanna per estorsione in relazione al caso Ventura. Stavolta lo hanno fermato mentre trasportava su un’Audi di sua proprietà un ingente quantitativo di stupefacenti assieme a dei bilancini di precisione.
Il tutto avviene a qualche giorno dalla conferenza stampa sull’operazione Garden contro la ‘ndrangheta reggina dello scorso 14 novembre. A condurla, la Guardia di Finanza del Comando provinciale di Reggio Calabria col coordinamento della Procura distrettuale antimafia diretta da Giovanni Bombardieri.
Il procuratore Giovanni Bombardieri
Il do ut des tra i rom e la ‘ndrangheta
L’indagine, che colpisce le attività delle cosche Borghetto-Latella e ha portato alle misure cautelari per 27 persone, conferma le ipotesi tracciate nell’inchiesta de I Calabresi sul nuovo ruolo dei clan rom all’interno della ‘ndrangheta. Secondo gli inquirenti, i rom dei quartieri Modena-Ciccarello e Arghillà sarebbero ormai organici alla criminalità reggina nell’organizzazione dello spaccio di stupefacenti, di traffico di armi, estorsioni e usura, in continuità con le vicende che riguardano anche altre aree della Calabria, come la Piana di Gioia Tauro, la Sibaritide, il Lametino.
In particolare i rom avrebbero fornito le armi da guerra trovate dalla Finanza. In cambio avrebbero ottenuto l’autorizzazione a esercitare i crimini in modo libero e autonomo. Potrebbero, infatti, contare su «un’organizzazione autonoma con all’attivo decine e decine di persone, soprattutto giovanissimi», hanno affermato alcune fonti investigative.
Una veduta del quartiere Arghillà
Patrizio Bevilacqua e i guai a casa Ventura
Si tratta di due vicende che seguono a un altro segnale inquietante: l’attentato intimidatorio dello scorso 24 ottobre alla famiglia Ventura. Ignoti, appropinquandosi all’abitazione dei Ventura, hanno esploso cinque colpi armi da fuoco contro la loro auto. Tutto ciò nonostante la Prefettura di Reggio Calabria avesse messo Francesco Ventura sotto tutela.
L’episodio è avvenuto dopo l’uscita di diversi articoli sul tema e a margine di un’ulteriore condanna riportata da Patrizio Bevilacqua per violazione dei sigilli. Osservando le immagini dell’attentato registrate dalle telecamere a circuito chiuso posizionate fuori dall’abitazione la mente torna gli anni Ottanta, quando a Reggio si sparava e vigeva una sorta di coprifuoco non dichiarato.
Patrizio Bevilacqua, la politica e i Ventura
Estorsione, trasporto e spaccio di stupefacenti, minacce: questi i segmenti di un filo che legherebbe Bevilacqua a logiche e azioni che vanno ben oltre la bassa manovalanza criminale per saldarsi al racket delle case popolari e alle nuove piazze di spaccio sotto il controllo dei clan rom.
In merito al tema delle case popolari, la ricostruzione pubblicata da I Calabresi dopo l’analisi dei verbali di alcune commissioni consiliari del Comune di Reggio tratteggiava una situazione opaca e caotica. L’avevano denunciata sia l’allora dirigente del settore, l’avvocata Fedora Squillaci, sia l’ex delegato al patrimonio edilizio Giovanni Minniti. Si va avanti così da diversi anni, senza trovare soluzione. E senza che, alla luce delle nuove notizie, la politica abbia speso una parola o un gesto di solidarietà verso i Ventura che da anni, anche alla luce delle risultanze delle loro audizioni in quelle stesse commissioni, denunciano una condizione di illegalità diffusa e perdurante.
Che diranno Ripepi e Lamberti?
Le domande (e le risposte) che una politica usualmente prodiga di dichiarazioni – ma in questo caso muta – non può più ignorare sono di due ordini.
Massimo Ripepi
Il primo riguarda quali provvedimenti si vogliono prendere per diradare la cortina di nebbia che regna sul settore dell’edilizia popolare del Comune di Reggio.
Il secondo concerne la posizione che Massimo Ripepi ed Eduardo Lamberti Castronuovo assumeranno nei confronti di Bevilacqua. Quest’ultimo con Ripepi è stato candidato al Consiglio Comunale. Con Lamberti, invece, intratterrebbe rapporti di lavoro tali da avere a disposizione, per stessa ammissione di Lamberti, le chiavi di casa sua.
Eduardo Lamberti Castronuovo
Entrambi i politici reggini hanno già da tempo lanciato la propria campagna elettorale per le prossime amministrative come papabili candidati sindaco.
In attesa di ulteriori sviluppi dei filoni d’indagine, non guasterebbe una presa di posizione da parte dei due.
Tanto tuonò che piovve. Potrebbe riassumersi così la vicenda della stabilizzazione a tempo indeterminato degli ex Lsu e Lpu già assunti dall’Ente arco Aspromonte.
Adesso emergono novità su almeno una delle tre criticità – governance del territorio, programmazione e risorse umane – di cui aveva ampiamente parlato a I Calabresiil direttore amministrativo Pino Putortì.
Lsu ed Lpu l’Avvocatura dello Stato dice no
Si tratta del parere dell’Avvocatura dello Stato su due quesiti posti proprio da Putrortì riguardo la legittimità dell’assunzione degli ex Lsu e Lpu voluta da Leo Auteliano lo scorso giugno 2023.
Per dirla con un luogo comune, abbiamo scherzato: l’Avvocatura ha dichiarato illegittima la determina 295 del 30 giugno 2023 con cui sono stati assunti i 17 ex Lsu e Lpu. Questa determina, nello specifico, violerebbe l’articolo 3 della legge 56 del 2019 e il comma 7 dell’articolo 14 del DL 95 del 2012. Spieghiamo meglio: la procedura di stabilizzazione fuori organico dei 17 lavoratori socialmente utili è corretta. Viceversa, risulterebbe illegittimo il passaggio nella dotazione organica di 5 dei 17 stabilizzati.
L’Avvocatura dello Stato ha sottolineato, inoltre, che le indebite assunzioni hanno «compromesso la funzionalità e il regolare svolgimento dell’attività amministrativa» dell’ente dovuta alla «perdita della capacità assunzionale in termini di spesa massima consentita».
Pino Putortì, il direttore del Parco dell’Aspromonte
Lsu ed Lpu: un danno erariale da 300mila euro
Infatti, la copertura delle 9 unità che hanno ottenuto provvedimenti di mobilità in uscita, sarebbe dovuta avvenire in regime di finanza invariata. Così non è stato. Perciò l’Avvocatura dello Stato ha profilato un danno erariale di circa 300mila euro a carico di Silvia Lottero, la direttrice che aveva preceduto Putortì.
L’Avvocatura avrebbe anche chiesto a Putortì di portare tutte le carte in Procura. E il direttore ha dovuto informare il Consiglio direttivo del Parco.
Lsu ed Lpu: assunzioni illegittime
La bomba è esplosa. E il botto dà ragione a chi, nel corso del tempo, aveva accusato Autelitano di una gestione personalistica del Parco. E ci sarebbero profili di reato, va da sé da verificare: i contratti di stabilizzazione violerebbero infatti una normativa di rango superiore.
Inoltre, le assunzioni, inserite nel Piano integrato di attività e organizzazione (Piao) 2023-2025 recentemente approvato, invaliderebbero lo stesso documento di programmazione con un effetto domino dirompente su una serie di provvedenti adottati dall’Ente Parco.
Quello che accadrà nei prossimi giorni è da vedere. Per ora sembra si sia arrivati a un punto di non ritorno. Con un unico vantaggio indebito agli assunti e un danno all’Ente e tutta la sua comunità.
Leo Autelitano, il presidente dell’Ente Parco dell’Aspromonte
Silenzi, proteste e dimissioni eccellenti
La Comunità del Parco che, come noto, riunisce i rappresentanti dei 37 Comuni del territorio dell’Ente, ha mandato deserta l’ultima seduta dedicata all’approvazione del bilancio. Un segno chiaro di sfiducia nei confronti dell’operato del presidente.
La parola dovrebbe quindi passare alla Procura, nel rumoroso silenzio del Ministero dell’Ambiente, destinatario di numerosi dossier sul tema.
E non è detto che non si registrino nel frattempo reazioni eclatanti. Come le già paventatedimissioni di chi, già funzionario di prefettura e con una specchiata carriera alle spalle, ha cercato di mettere ordine nella situazione.
La politica, sempre prodiga di nomine, resta a guardare un disastro annunciato?
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