Fare chiarezza. Sgombrare il campo dalle ideologie. Partire dai dati. Programmare un cambio di paradigma. Quando si parla di aree interne non si può prescindere da questi elementi.
Chiarezza e ideologia
Di fronte al chiasso cui assistiamo da settimane, sarebbe opportuno abbassare i toni e fare pace con un dato incontrovertibile: la strategia del laissez faire ha fallito, territori e comunità vanno indirizzati e governati perché da questo dipende, come in ogni organismo, il futuro e la buona salute di tutto il sistema. Ritenere che il governo di un Paese costituito per buon 80% da cosiddette aree interne voglia abbandonarle a loro stesse è una falsità. Non può esserci strumentalizzazione politica: se siamo giunti a questa zona liminoide, non è accaduto per responsabilità o colpe dell’oggi, ma è il risultato di un processo di abdicazione e abbandono della politica da almeno 50 anni a questa parte. Chiamatela miopia, incapacità di visione, superficialità, ma tant’è. Siamo tutti responsabili, anche le belle addormentate nel bosco risvegliatesi a un tratto da lunga narcolessia.
Un angolo di Papasidero
L’ineludibile durezza dei dati
Crudi, freddi, duri, ci raccontano dinamiche che conosciamo da tempo ma che abbiamo fatto finta di non vedere, disperdendo risorse e fondi in programmazioni e interventi a impatto sociale irrisorio di fronte ai veri elefanti nella stanza: la denatalità, che colpisce tutta la Nazione e il deficit di investimenti produttivi e infrastrutturali. Ora ci accorgiamo che pensare di sostituire il senso di una civiltà, quella contadina, morta da tempo e trucidata dal dominio culturale americano, con botteghine, escursioni, ed enogastronomia è una pia illusione.
La “Restanza” è una illusione
Una società vecchia è una società che va a morire e che per sopravvivere ha bisogno di una cosa: riprodursi. Va da sé che, pur stanti le condizioni attuali, non c’è restanza che tenga di fronte al crollo di sistemi produttivi – pur basati su allevamento e agricoltura – che costituivano le vere catene del valore dell’entroterra. Catene che davano lavoro, opportunità di vita e custodia del territorio e che torneranno prepotentemente di primo piano. Allo stesso modo non c’è fiscalità di vantaggio che attecchisca senza investimenti produttivi (il Meridione d’Italia è già una grande ZES). Non parlo di grandi impianti dell’acciaio o centrali a carbone, ma insediamenti che coinvolgono risorse già presenti sul territorio da mettere a sistema: agricoltura, zootecnica, bioedilizia, filiera delle pietre, ecc. Un moderno Pacchetto Colombo, figlio di queste tempo e delle tecnologie a nostra disposizione.
Categorie e definizioni
Cosa è oggi un’area interna? Per gli immaginari creati da narrazioni erronee, spesso romanzate o edulcorate, le aree interne sono percepite come le famigerate terre dei padri nel panorama mentale degli espatriati, o la panacea per chi fugge dai grandi conglomerati urbani. Aree “pure” dove il tempo è rimasto sospeso e la natura si è riappropriata di ciò che le apparteneva e le apparterrà, in omaggio al modello bomboniera tanto à la page. Invece no. Non stiamo parlando di vallate rigogliose e pizzi di montagna ascetici. Le aree interne corrispondono a quelle periferiche o ultraperiferiche che, da colline e montagne, si sono allargate alle marine. Quelle che la popolazione abbandona per mancanza di opportunità in una dinamica che produce desertificazione.
Scorcio di Pentadattilo
Cambiare paradigma e trovare una strategia
Bisogna individuare una strategia che inverta questa deriva, ricordandoci che il pane si fa con la farina che si ha. A chi parla di rigenerazione, chiediamo: Di cosa? E come? In quanto tempo? Con chi? Troppo facile che amministratori e studiosi si indignino per uno stato di fatto che hanno contribuito a creare se non altro con una muta connivenza. Piegando la testa. Tirando a campare. Pensando a sistemare i propri figli a Milano, Roma, Londra, New York o Katmandù. Vogliamo impegno, visione, coraggio e pragmatismo. A partire dal fatto che pensare di riportare una situazione, per molti versi irrimediabilmente compromessa, alla mitica età dell’oro degli anni Sessanta, dello stavamo-meglio-quando-stavamo-peggio, significa illudersi.
Ripensare i luoghi
Le aree interne vanno ripensate fuori dalle logiche consunte di cui sono sempre state vittime: è necessario razionalizzare la spesa pubblica unendo i servizi essenziali per territori contigui e sostituire certi parametri di valutazione: impossibile oggi commisurare la sopravvivenza dei servizi delle aree interne sul mero numero di residenti permanenti. Bisogna invece commisurare la capacità di programmazione e attuazione di politiche di rinascita di luoghi e comunità e innestare un sistema premiale. Prendiamo Bova o, più recentemente, di S. Agata del Bianco che sono tornate a vivere investendo sul loro capitale culturale e ammiccando alla capacità di poter offrire alti standard di qualità della vita. O Roccella Jonica, sulla carta sopra i 5.000 residenti, che sta realizzando un’importante porto turistico puntando a strutturarsi come presidio portuale diportistico più importante dello Jonio reggino.
Le opportunità che verrebbero dall’applicazione del digitale
Le opportunità del digitale
Non dimentichiamoci del digitale e delle nuove tecnologie che consentiranno presto di migliorare e mutare le condizioni di lavoro e andare in soccorso a settori tradizionali, rivelandosi potenti alleati in questo cambio di paradigma che ha comunque bisogno di persone nuove e nuove energie. Di nascite.
Le proposte della politica
Non sarà certo la recente proposta del PD in Consiglio Regionale di assumere oltre 2.000 forestali per arginare lo spopolamento a rappresentare una soluzione. Un ruolo poteva averlo il PNRR, ma da grande Piano Marshall Europeo si è trasformato in un contenitore di interventi di pseudo-rigenerazioni di varia foggia più attente alle piazzette che alle infrastrutture.
San Donato di Ninea
Ultima chiamata
É necessaria una chiamata alla raccolta: uno sforzo condiviso multilivello e multistakeholder di visione, programmazione e attuazione che sappia coinvolgere quella parte sana del Terzo Settore che da sempre supplisce alle carenze del pubblico, in settori come sanità (13,1% di tutti gli ETS) ed assistenza educativa. A patto che le amministrazioni pubbliche, ivi comprese le università chiamate ad attuare la loro Terza Missione, si assumano finalmente la responsabilità che hanno nei confronti dei territori che amministrano e, nel caso della politica, che la eleggono. Impariamo a remare tutti dalla stessa parte.
L’analisi effettuata nel Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne potrà non piacere, potrà essere cruda e forse anche crudele in alcune considerazioni, ma fotografa una realtà basata su dati e numeri forniti da Istat, Censis e CNEL. Una realtà – e questa è la premessa – che è stata sottovalutata per decenni e sicuramente dal 2022 quando, durante una riunione del Cipess, è stata presentato l’aggiornamento della classificazione degli enti locali che raccontava di un aumento complessivo dei Comuni periferici e ultra-periferici: +7,9%. La faciloneria con cui alcuni hanno titolato che il piano del governo fosse di abbandonare le aree interne è stato un ruggito ideologico che, ahimè, prescinde dall’analisi della complessità dei contesti e dei processi in cui versano quelle aree. Aree che rispecchiano non solo una tendenza italiana all’emigrazione prima dalle ultra-periferie verso i centri e poi dai centri all’estero, ma soprattutto una condizione di denatalità di cui abbiamo il primato in Europa.
La popolazione complessiva e specificatamente quella calabrese, sta invecchiando
Il futuro che ci attende è vecchio
Invecchiamo come sistema-paese, non siamo nelle condizioni di garantire un efficace e strutturale ricambio generazionale, siamo poco attrattivi perfino per noi stessi. Questo accade al Nord, al Centro e al Sud (con maggiore intensità, viste le storiche ed endemiche disparità di cui questo disgraziato Paese soffre). Solo che lì – qui – la crisi è più forte perché ci sono meno lavoro, infrastrutture e servizi e la morfologia territoriale dominata dalla dorsale appenninica acuisce isolamento e difficoltà di progettazione e realizzazione di assi di comunicazione che, spesso, non hanno i numeri – la massa critica – per ritenersi sostenibili in termini di costi di realizzazione e conseguente impatto sociale.
Il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne, prendendo spunto dagli errori del primo ciclo sperimentale della SNAI relativo al settennato 2014-2020, ne sottolinea i risultati metodologici (partenariato multi-livello e multi-attoriale, processi di co-progettazione integrata per ambiti settoriali e ridisegno dei percorsi di sviluppo locale), ne approfitta per intervenire laddove fondi, processi e procedure non hanno funzionato o lo hanno fatto poco e male e illustra come per il ciclo 2021-2027 gli strumenti di pianificazione, attuazione e governance siano stati migliorati di pari passo con un aumento dei fondi dedicati.
La minaccia del deserto demografico
Contro l’ineluttabilità del destino
È vero poi che nel Piano si parla di una casistica dedicata a un «accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile», laddove si riscontri «un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento in modo da renderlo socialmente dignitoso per chi ancora vi abita», ma – aggiunge Alessandro Rosina, il demografo dell’Università Cattolica che ha curato i dati inseriti nel Piano – «ogni Comune deve poter valutare in quale di queste quattro tipologie si colloca». (Per le tipologie si veda alle pag.. 44 e 45 del Piano, ndr.). E che, in ogni caso, «nessun Comune ha di fronte un destino ineluttabile in relazione alle coordinate geografiche in cui si trova, ma sono molti i Comuni che rischiano un percorso di marginalizzazione irreversibile per le dinamiche demografiche che li caratterizzano». Un po’ diverso dall’affermare che il Governo voglia lasciare per strada i 1.904 Comuni delle 124 aree di progetto, oltre 4 milioni di abitanti che vanno da Nord a Sud e che rappresentano una parte importante, se non cruciale, dell’Italia.
Il destino delle aree marginali
Chiarito questo punto bisogna però raccontare l’altro pezzo di verità: il come sia stata effettuata la programmazione e l’attuazione degli interventi, come (e se) siano stati spesi i fondi disponibili, quale sia stata la qualità di quella spesa e quale sia il modello alla base. Calcolo sommario: tra le risorse dei cicli 14-20 e 21–27, senza considerare gli incrementi dei fondi solo parzialmente dedicati alle aree interne, si arriva a oltre 1,1 miliardi di euro, cui vanno aggiunti ulteriori 600 mila euro a valere sulla missione 5 del PNRR dedicata al Potenziamento servizi e infrastrutture sociali di Comunità e strutture sanitarie di prossimità.
Si è programmato bene? Si è attuato bene? Si è speso bene? Per le diverse mansioni che ricopro e per i rapporti che intrattengo ho avuto modo di parlare con diversi amministratori locali. Ad esempio, a Cardeto, comune periferico del Reggino, sono stati impiegati 2 milioni di euro per realizzare un asilo nido per un paesino che non ha neonato.
Dalla Regione altri 36 milioni
Qualche mese fa l’inserimento di altre tre aree SNAI calabresi nel ciclo di programmazione 21-27, ha portato la Regione a decretare un cofinanziamento di 36 milioni di euro da aggiungersi alle risorse nazionali destinate ai comuni del Versante Tirrenico Aspromonte, dell’Alto Jonio Cosentino e dell’Alto Tirreno Cosentino Pollino. Questo mentre Maria Foti, sindaca di Montebello Jonico, e nuova referente per la SNAI grecanica, raccontava lo scorso ottobre come quella strategia, dotata di 28 milioni di euro per il periodo 14-20, gestiti in gran parte dalla Città Metropolitana di Reggio Calabria, proseguisse a passo di lumaca e come l’attuazione dei suoi interventi si attestasse attorno al 4% a fronte di un 30% complessivo di realizzazione dell’intera strategia, mentre la Regione chiedeva che le obbligazioni giuridicamente vincolanti venissero presentate entro lo scorso 31 dicembre.
Aree interne a rischio di scomparsa
La Sintesi dello stato di attuazione Aree SNAI 2021-2027 redatta dal Settore “Strategie Aree interne, comuni in via di spopolamento, minoranze linguistiche” del Dipartimento Agricoltura di Regione Calabria, evidenziava un gap di programmazione e attuazione di 2 anni che rischiava di mandare i fondi a revoca, quando sarebbe invece dovuto già partire l’accordo di programma per il biennio 2025 – 2027: «Delle quattro Aree finanziate sul territorio regionale nel precedente periodo di programmazione, tre hanno firmato l’APQ solo nel 2022. Il riconoscimento di Aree interne e il finanziamento a livello nazionale di queste Aree è avvenuto, infatti, solo a fine 2019, e il successivo ritardo nel compimento delle fasi di progettazione e definizione procedurale, a livello locale, hanno dilatato i tempi della programmazione territoriale»
La denatalità segna gran parte della aree interne
Denatalità e disinteresse delle istituzioni sono i due nemici
Ma, volendo pure mettere da parte i tecnicismi, non si può procedere ad alcun ragionamento senza considerare due dimensioni: il disinteresse dei governi e delle Regioni nel programmare e attuare politiche di mitigazione delle crisi e di sviluppo locale per aree considerate appendici da dimenticare, con un destino segnato; e la tendenza, oggi divenuta drammatica realtà, alla denatalità. E qui arriviamo al punto: perché senza nuovi nati, senza giovani, non c’è vita, non ci sono prospettive di crescita, non ci sono strade, servizi o prospettive di invecchiamento attivo che tengano.
Ripensare presto il modello di intervento
Il modello allora va ripensato dalla base: le aree interne non sono luoghi da turismo esperienziale, trattorie, amenità naturalistiche o residenze di artista. Sono luoghi reali, con opportunità concrete, che vanno ricalibrate. Sono i luoghi dell’allevamento, dell’agricoltura 5.0 e quelli delle risorse primarie. Sono i posti dove la qualità di vita può essere migliore, dove il paradigma digitale, ancora agli albori, può fare una differenza che noi nemmeno ancora immaginiamo. Ma sono soprattutto i luoghi che hanno bisogno di figli, di uomini, donne, ragazze, ragazzi in grado di attivare processi di produzione e promuovere strategia di vita sostenibili e lungimiranti. Strade e servizi arrivano appresso, ma arrivano meglio quando viene messa una visione concreta di futuro.
Precacore di Samo
Un processo lungo e per nulla scontato, ma necessario
Il processo è lungo e complesso e la sua riuscita non è scontata. Bisogna però cominciare a lavorare affinché si creino le condizioni per vivere, rimanere e prolificare. E noi possiamo contare su un formidabile alleato: gli immigrati. Sono loro che fanno figli, che non temono la fatica, il lavoro nei campi o con gli animali. Portarli nelle aree interne, dove è più facile interagire e riconoscersi, promuovere progetti di imprenditorialità legati all’agricoltura, all’allevamento, alla zootecnia, può dare una nuova chance di vita a loro, a noi e ai territori. A patto che a questo si aggiunga la consapevolezza che siamo di fronte a una sfida epocale che come tale va trattata. Con idee e risorse capaci di programmare e agire a 360 gradi. Perché che manchino strade e servizi è sotto gli occhi di tutti, ma bisogna porre le condizioni e le necessità affinché siano realizzati.
La piccola borghesia da cui provengo, che è quella che Brunori Sas ha ben descritto in una sua canzone, è la borghesia che non ce l’ha fatta. Non è riuscita a fare il salto di qualità che le aveva promesso la falsa ideologia di uno sviluppo infrangibile verso le praterie dell’abbaglio capitalista. È quella che ha edificato in centro, sì, ma appena fuori dal centro che conta. La borghesia che continua a fare della Calabria il regno dei “vorrei, ma non posso”, tradita ed orfana di certe velleità che ha comunque riversato, di generazione in generazione, sui figli come un imprinting.
Quale Eldorado?
La generazione di quelli come me, educati a questo inganno, è cresciuta nel velleitarismo di essere attesa dall’Eldorado vagheggiato dai propri genitori. Ma quell’Eldorado lo avremmo dovuto cercare ovunque tranne che in Calabria. Perché qui, dove oggi sono tornato, niente c’era e niente ci sarebbe stato.
Avremmo dovuto emigrare al Nord in sella a destrieri di risentimento e disprezzo. Tutti figli di quel senso di vergogna ereditato e interiorizzato da genitori che si sono arresi – se non accomodati – al processo di abdicazione delle proprie radici e di quella cultura contadina da cui tutti proveniamo. Qualcosa che il Boom economico degli anni Sessanta era chiamato a spazzare via.
Radici nella plastica
Un abbraccio mortale a pattern culturali, antropologici e sociali estranei che, in enclavi come Cardeto, o Pentedattilo o Roccaforte del Greco, avevano condotto alla sistematica sostituzione del rame e della terracotta con la plastica. Una nuova deificazione del benessere legato a un modernismo che solleticava i più sordidi istinti di invidia sociale. L’erba – o la plastica – del vicino era sempre più verde e sarebbe toccata anche a noi. Così mi ha raccontato un mastro zampognaro aspromontano descrivendo lo spasimo di sua madre verso i nuovi utensili sfoggiati dalla vicina modernista.
Paesi e radici chiusi come reliquie nei musei
Identità in estinzione
Rame e terracotta, però, non erano simboli di un passato straccione da dimenticare. Erano elementi distintivi del nostro genoma di popolo che lentamente – e manco troppo – venivano relegati in teche da museo etnografico, col loro numero di serie da esemplare in estinzione. Fin quando turismo esperienziale e marketing territoriale li avevano elevati allo status di “marcatori identitari”, una sorta di olio crismale con cui consacrare miracolose strategie di sviluppo territoriale. Più supposte che reali, tanto per rimanere in tema di quote WWF.
C’è una generazione, con competenze sofisticate, che ha lasciato la Calabria
Calabria: una generazione non c’è più
Eradicazioni, perdite, sostituzioni culturali unite a fenomeni come la carenza di lavoro, l’ineducazione alla sua cultura, deficit infrastrutturali tramutatisi in mutilazioni di competitività, narrazioni ideologizzate e criminalizzanti hanno provocato la perdita della mia generazione. Invece di origini e radici, ci hanno trasmesso un senso di colpa e arrendevolezza già appartenuto ai nostri genitori: per loro si è manifestato con la violenza dello stigma; per noi si è annacquato nel grottesco, se non nel folkloristico, da ritrovare una o due volte l’anno. Il tempo dedicato al ritorno del fuorisede da su.
Trenta e quarantenni in Calabria non ci sono più e, se ci sono, si tratta di appartenenti a due categorie: quelli che non sono potuti partire e i romantici che hanno fatto della vocazione al riscatto della propria terra una missione impossibile. Una vocazione al martirio.
Eterna nostalgia e mezze verità
Un fenomeno speculare a quello verificatosi nella Calabria greca, con esiti ancora più disastrosi, quando gli anziani, apostrofati come stupidi, parpatuli e paddhechi, di fronte al tramonto del greco di Calabria come lingua veicolare, decisero di smettere di parlarlo per dare una nuova chance di vita ai propri figli, che non sarebbero così stati condannati a un destino da caprari.
Il biennio di insegnamento al liceo classico della mia città mi ha reso evidente questo sradicamento poi trasmesso alle generazioni successive. Davanti a me c’erano ragazzi privi di memoria e coscienza storica. Poco o nulla conoscevano del passato del proprio popolo o territorio, convinti anche loro di essere capitati per errore in una terra di mezzo che presto avrebbero abbandonato per sempre.
Una terra da dimenticare, senza opportunità, per cui non vale la pena di combattere, ma per la quale tenere vivo un senso di eterna nostalgia, straziati tra il dover andare e l’eco del bisogno di tornare.
In tutto questo nessuno si è reso conto che le mezze verità a furia di raccontarle, sostituiscono le vere verità.
Non c’è due senza tre. È di queste ore la notizia del provvedimento di scioglimento del Consiglio Comunale di San Luca per infiltrazioni mafiose. Un atto che si va ad aggiungere al commissariamento preventivo della Fondazione Corrado Alvaro attuato dalla Commissione di Controllo della Prefettura di Reggio Calabria e, ancora prima, a quello assunto dopo che alle scorse elezioni amministrative determinate dalle dimissioni dell’ex sindaco Bartolo, nessuno aveva presentato candidature per guidare il comune aspromontano.
San Luca, il paese condannato a essere ‘ndrangheta
A San Luca pare tutto essere ‘ndrangheta, mala gestione, omertà, terrore. È ‘ndrangheta il Consiglio Comunale intriso di infiltrazioni malavitose. È mala gestione la Fondazione Corrado Alvaro accusata di ipotesi di default da imputarsi a costanti perdite di esercizio, a iniziative culturali episodiche e circoscritte, a limitate garanzie di onorabilità e indipendenza dei suoi consiglieri di amministrazione. È omertà e terrore l’assenza di candidati sindaco alle ultime elezioni. San Luca sarebbe lo specchio di quella peggiore Calabria che Corrado Augias ha definito “terra perduta”.
Corrado Alvaro. La Fondazione che curava il suo patrimonio culturale è stata commissariata.
Oppure si fa di tutto per appioppargli un marchio di infamia per antonomasia che, alla luce delle cronache di oggi, è direttamente proporzionale al fallimento dello Stato. Lo ha detto chiaramente Bartolo ai microfoni dell’Ansa: «Non ha avuto seguito, in sostanza, la promessa fatta dall’allora prefetto di Reggio Calabria, Michele Di Bari, secondo la quale lo Stato ci sarebbe stato vicino, invitando a candidarci. Ma così non é stato».
La Fondazione Alvaro commissariata
Lo indicano diversamente le controdeduzioni presentate alla Prefettura di Reggio Calabria dalla Fondazione Corrado Alvaro che dimostrano un’incessante attività scientifica e di ricerca svolta in anni in cui non un solo euro di fondi pubblici è stato sovvenzionato ad un ente che ha rappresentato un presidio culturale e di legalità universalmente riconosciuto.
La Casa di Corrado Alvaro a San Luca
Germogli di fiducia decapitati
Spesso provvedimenti prefettizi e vie giudiziarie (ben vengano quando c’è di mezzo la lotta vera alle ‘ndrine) producono macerie. E queste macerie sono territori e comunità dove lo Stato decapita germogli di fiducia, presidi di cultura, tentativi di rinascita. Succede in Aspromonte e in tutta la Calabria. Si ha allora la percezione che lo Stato a volte agisca in nome di logiche sommarie: da una parte omettendo le buone prassi di una necessaria mediazione dei conflitti; dall’altra puntando sul legalitarismo: un certo cieco oltranzismo nell’applicazione di procedure di bandiera cui non segue una commisurata prossimità umana, sociale e culturale delle istituzioni.
Una punizione senza margine di redenzione. E l’impressione che l’onta di certe parentele e di una pur remota consanguineità con ambienti malavitosi vada lavata sacrificando quei territori e quelle comunità. La storia continua a ripetersi, in un remake sempre uguale, troppo spesso basato su ipotesi. Come nell’impianto accusatorio del provvedimento di scioglimento preventivo della Fondazione Alvaro. Un passo oltre c’è il crollo di ogni forma di patto sociale.
Il Parco nato come una opportunità
Quando l’Aspromonte uscì dalla stagione dei sequestri camminatori, amministratori e forze dell’ordine, procedendo insieme diedero vita al Parco Nazionale, oggi conosciuto in tutto il mondo per le risorse naturalistiche e culturali che contiene e per l’accoglienza che riserva a un numero sempre maggiore di trekker e biker che vengono a visitarlo.
Il punto di forza delle azioni legate alle attività e all’offerta del Parco e all’acquisizione del riconoscimento Geosito Unesco fu questo: non negare un passato drammatico o condizioni complesse, ma trasformare quei punti di debolezza in punti di forza. Un consiglio e un monito per scongiurare ordalie rigide, cieche e deterministiche.
In un articolo comparso qualche tempo fa su Repubblica a firma di Fiammetta Cupellaro
si tornava a parlare dei gradi temi che riguardano le politiche di coesione e sviluppo dell’Italia. Tra questi, le aree interne di cui ormai tutti conosciamo i dati horror: dal numero di Comuni coinvolti, 4mila (il 48,5% del totale di quelli italiani), al tasso di invecchiamento della popolazione e del loro abbandono, in un Paese che già soffre di un livello di emigrazione giovanile preoccupante.
Riguardo i giovani, il Meridione registra un -6,3% contro il -4,3% del Centro e il -2,7% del Nord. Al Sud i Comuni in declino sono per oltre i due terzi nelle aree interne. Ed è dalle stesse aree meridionali che proviene la metà dei flussi migratori nazionali (46,2%), confermando il triste primato che tutti conosciamo da almeno settanta anni a questa parte. Tra 20 anni l’80% dei Comuni delle Aree interne sarà in declino e la Calabria entro il 2050 scenderà sotto 1,5 milioni di abitanti, con una perdita di circa 368.000 persone rispetto al 2023.
La Calabria che si svuota
L’ultimo rapporto Demografia e Forza Lavoro del Cnel sottolinea poi come la Calabria sia quella che soffre di più con una continua erosione del suo capitale umano e con un ritardo feroce nel recupero dell’occupazione rispetto ad altre aree, interne e non, del Sud.
Bassa natalità, alto tasso di emigrazione giovanile, poca offerta di lavoro. Elementi che cozzano con la nuova narrazione di una Calabria proiettata nel futuro che cerca di vendersi a tutte le fiere internazionali come nuova mecca di un turismo ancorato al rafforzamento del sistema aeroportuale regionale in atto.
Un aereo sulla pista dell’aeroporto di Lamezia
Ci si chiede allora: su quale modello di sviluppo sta puntando la Calabria? Può il turismo Ryanair rappresentare il motore della produttività regionale? Qual è il ruolo di piccoli comuni e aree interne in questo processo? E, più in generale, come il governo intende rimettere al centro la metà delle aree del Paese in via di desertificazione demografica, sociale ed economica?
È chiaro a tutti che la questione meridionale, spesso derubricata a retaggio del passato, sia più contemporanea che mai e rappresenti una delle principali zavorre per la competitività di un Paese che ha lasciato le politiche di sviluppo e coesione territoriale a bagnomaria
Le aree interne e la risposta della bomboniera
Le prime a cadere sono state le aree interne, abbandonate a loro stesse, e in costante emorragia di risorse pubbliche, private e capitale umano. Da qualche anno a questa parte, a queste aree interne è stata data la risposta della cosiddetta “bomboniera”: trasformare lande abbandonate e cosiddetti “borghi” in paeselli vetrina ad uso e consumo dei turisti della domenica. Un giro in moto, una camminata, una mangiata, una dormitina in un b&b del luogo, qualche foto da condividere sui social con relativo hashtag. Poi tutti a casa. Una strategia del mordi e fuggi non sorretta da flussi turistici in grado di creare un’economia stabile e attrattività strutturale per aree che restano con pochi servizi, e deficit logistici enormi.
L’Europa e lo Stato
Lo dicono chiaro anche le scelte politiche effettuate: l’inutile legge salva-borghi, lo squilibrio dei finanziamenti PNRR tra territori di serie A – “borghi pilota” a rischio abbandono finanziati con decine di milioni di euro e un fondo complessivo nazionale di 420 milioni con Gerace che è assegnatario di 20 milioni -, e territori di serie B – 229 borghi ”qualunque” con un fondo di 580 milioni su base nazionale cui la Calabria partecipa con 133 progetti.
La sede del Parlamento europeo
Un piano di attrazione degli investimenti non esiste. Men che meno la capacità amministrativa per lasciare l’attuazione degli interventi finanziati in mano a piccoli comuni, sempre a corto di personale: ingegneri e architetti lavorano a scavalco e gestiscono uffici tecnici di diversi comuni. E i finanziamenti europei programmati nel settennato 2021-2027 per lo sviluppo e il potenziamento di tale capacità amministrativa non sono strutturali. Ci investe l’Europa, ma lo Stato no. E, come è noto, per gli organismi di attuazione dei fondi comunitari conta più dimostrare di saper raggiungere i target di spesa, la quantità, piuttosto che la qualità di quella spesa.
Si investe male, poco e in modo sperequato rispetto ad un fabbisogno che solo in minima parte riguarda la rigenerazione urbana, la creazione di parchi di varia natura, di percorsi tematici, di azioni di valorizzazione un tanto al chilo che si rivelano progettualità alimentate col respiratore artificiale. Incapaci di stimolare una crescita strutturale basata su politiche di sviluppo di lungo periodo. Il modello “bomboniera” non serve a nulla.
Strategie per le aree interne
Oltre un anno fa Poste Italiane inaugurava il progetto Polis – Case dei servizi di cittadinanza digitale: 1,24 miliardi di euro per il potenziamento dei servizi digitali alla cittadinanza tramite i 6.933 uffici postali coinvolti nei Piccoli Comuni con meno di 15 mila abitanti. Un progetto di cui non si conosce il livello di attuazione e che comunque non prende di petto il problema dell’occupazione, della logistica e dell’accessibilità che, ad esempio, nella nuova programmazione 2021- 2027, Regione Sicilia ha caratterizzato come Obiettivo di Importanza Strategica.
Bisognerebbe in ordine sparso:
aggregare i servizi tra comuni contigui delle aree interne con l’obiettivo di realizzare un’unione tra enti;
riprogrammare politiche e interventi di sviluppo per il miglioramento delle condizioni di vita e di mobilità nei territori. L’anticamera per attrarre capitali umani e finanziari;
diversificare gli investimenti pubblici, sganciandosi dall’assunto che il turismo (quale turismo?!?) sia panacea di tutti i mali;
Puntare sulla creazione di filiere del lavoro guardando alle caratteristiche e alla vocazioni dei territori;
Stimolare l’attrazione di investimenti privati per la creazione di imprese e posti di lavoro, unico argine allo spopolamento.
Due “sorprese”
I dati ISTAT esposti all’inizio danno un elemento curioso quanto ovvio: la speranza di vita nei Comuni Ultraperiferici del Mezzogiorno è più alta di quella riscontrata nei Poli di attrazione dell’emigrazione. In certe aree del Sud, come la Calabria, c’è l’aspettativa di vivere di più.
C’è poi un altro date interessante sul patrimonio culturale: su 4.416 tra musei, gallerie, aree archeologiche e monumenti e complessi monumentali pubblici e privati italiani, quasi quattro su 10 (39,4%) si trovano nei piccoli Comuni delle Aree Interne, gestiti più o meno alla buona, stagionalmente, spesso ad accesso gratuito, con una striminzita offerta di attività ad essi collegate, poco digitalizzati e senza poter contare su grandi risorse. Un capitale immobilizzato a metà che deve essere sbloccato.
Collegando questi elementi con investimenti in infrastrutture digitali, in un’agricoltura e allevamento moderni, in servizi avanzati, in produzione di energia pulita, in forme di turismo residenziale e non stagionale, qualcosa potrebbe muoversi.
Si chiude la controversia legata alla gestione dell’Ente Parco Aspromonte, con una sconfitta per l’ex Presidente Autelitano. Lo scorso 10 febbraio, infatti, è uscita la sentenza del TAR Calabria sul ricorso effettuato dallo stesso Autelitano e da Carmelo Nucera, membro dell’ex Consiglio Direttivo del medesimo Ente, contro il provvedimento di commissariamento emanato dal Ministero dell’Agricoltura e della Sicurezza Energetica (Decreto del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica n. 0000046 del 06.02.2024).
La difesa di Autelitano e gli attacchi alla stampa
Le truppe di Autelitano avevano iniziato a muoversi ben prima: già a novembre Patrizia Foti, Segretaria Generale Territoriale della UILPA aveva indetto una conferenza stampa in cui, accusando una certa stampa cialtrona di diffondere notizie false e tendenziose, aveva minacciato di scrivere alla Presidenza del Consiglio dei Ministri per denunciare il “disastro” che – a suo dire – il Direttore avrebbe prodotto annullando le illegittime assunzioni volute dall’ex Presidente. Dopo il commissariamento, a metà maggio dello scorso anno, si era mosso Autelitano in persona, convocando una seconda conferenza stampa per strillare la sua vera verità, annunciando il ricorso al TAR oggi bocciato e parlando di un decreto punitivo (https://www.ilreggino.it/politica/2025/02/15/metrocity-lappello-della-fondazione-mediterranea-non-lasciare-falcomata-solo-in-questa-battaglia/). Era presente anche il senatore Auddino del M5S.
Arriva la sentenza
In effetti la sentenza acclara che il provvedimento di commissariamento è sanzionatorio, non punitivo «in quanto costituisce espressione dell’esercizio di un potere di vigilanza sull’operato dell’Ente di cui (…) è esclusivo titolare il Ministero dell’Ambiente» sulla scorta di un’evidente mala gestione del Parco. E questo perché è riscontrabile «una stretta interconnessione» alla base dell’illegittima programmazione adottata dalla Presidenza durante il suo mandato.
Le assunzioni illegittime
Tale gestione, solo in ultima istanza sarebbe sfociata negli «improvvidi», seppur legittimi, nulla osta al personale di stanza al Parco verso la Città Metropolitana (deliberazione n. 8 del 27 ottobre 2020, “Programmazione triennale del fabbisogno di personale. Aggiornamento triennio 2020-2022”), effettuati per fare spazio all’assunzione e all’immissione in ruolo illegittime di 5 ex LSU/LPU.
Morale della favola: non solo il Presidente e il Consiglio Direttivo non potevano agire come hanno fatto, ma hanno esposto l’Ente ad eventuali future azioni risarcitorie «con conseguente successiva
eventuale responsabilità erariale a carico dell’Ente medesimo».
Questo significa che gli effetti dell’azione di Autelitano hanno compromesso per il prossimo futuro la buona amministrazione dell’Ente Parco, minando il buon governo del territorio. Con buona pace di chi si è sgolato ad affermare il contrario.
A babbo morto. Dopo che anche quest’anno si è sfiorato il disastro col fuoco divampato nel cuore del Parco Aspromonte a pochi chilometri dalle faggete vetuste, si fa la conta dei danni: 50 ettari andati in fumo a Polsi in piena area protetta (zona A) cui si somma il vasto incendio dei Piani di Lopa di Bagaladi dello scorso agosto.
Il 28 maggio 2024 la Prefettura di Reggio aveva presieduto una riunione di coordinamento per la mitigazione del rischio incendi boschivi con Comune, Metrocity, Ente Parco, Calabria Verde, Vigili del fuoco, Anas, Rfi, Prociv regionale e forze dell’ordine. Mezzi e uomini erano stati garantiti da Calabria Verde (11 Dos, 20 squadre, 5 autobotti a Oppido Mamertina, Bagaladi, Bova, Bovalino e Mammola). Il Parco aveva annunciato i contratti di responsabilità con 15 associazioni di volontariato per le attività di prevenzione, avvistamento e primo spegnimento nelle 15 aree in cui è suddiviso. Tutto il resto a cascata, ognuno per la propria area di competenza. E non è bastato.
Oggi è una beffa conoscere il destino di quei mezzi forniti da Calabria Verde. Due vasche mobili erano state posizionate al Santuario di Polsie a Bagaladi, le aree che hanno bruciato di più e per ordini di ragione presumibilmente diversi, se è vero che il fuoco di Bagaladi è stato causato da un fulmine. Per Polsi si parla di un incendio ripartito nella stessa notte almeno 3 volte in una zona impervia, difficilmente raggiungibile, in generale poco battuta e fuori dai normali circuiti di frequentazione del grande pubblico. Un incendio divampato alla fine di una stagione particolarmente secca e proprio a chiusura delle annuali celebrazioni della Madonna della Montagna, quest’anno ancora più restrittive: inibiti l’area mercatale, il transito dei veicoli a diversi km dal santuario e la presenza degli ambulanti privi di certificazioni Haccp e di registratori per gli scontrini fiscali. Nonostante fosse stata predisposta una navetta, non è stata sufficiente e sono comunque mancati coordinamento e comunicazione della logistica per permettere ai fedeli di organizzare gli spostamenti.
Proprio la scorsa settimana al TG1 andava in onda un servizio sulla prevenzione agli incendi adottato da Regione Calabria con la legge regionale del 27 marzo 2024 e basato sull’utilizzo dei droni: 30 al momento quelli che sorvolerebbero giornalmente i territori. Il provvedimento stanzia 2,5 milioni l’anno per il triennio 2024-2026 e traccia un indirizzo politico preciso: utilizzare il modello droni per costruire tutta la strategia regionale per la tutela del territorio richiamandola nel Piano contro gli incendi boschivi 2024, approvato con delibera 174 dello scorso 15 aprile, cui dovrebbero essere allegati i piani dei singoli parchi. Tutti confluiti nel Programma regionale ponte per lo sviluppo nel settore della forestazione e per la gestione delle foreste regionali 2024. Una serie di atti di indirizzo e norme transitorie in attesa della finalizzazione e dell’approvazione del “redigendo nuovo programma regionale per le attività di forestazione e per la gestione delle foreste regionali”.
Nonostante il commissariamento l’Ente Parco Aspromonte ha approvato il proprio Piano antincendio boschivo 2024 –2028, con un modello che guarda invece alla sperimentazione avviata da Perna e Bombino e prevede il coinvolgimento attivo delle comunità attraverso i contratti di responsabilità con avvio previsto dalla determina 257 del 17 luglio 2024. A ogni zona del Parco avrebbe dovuto essere assegnata un’associazione tra coloro che avevano inviato la propria manifestazione di interesse a collaborare con il Parco. Tutto bene, si dirà. Invece no, perché, a quanto riferiscono alcune fonti, le manifestazioni di interesse giunte sarebbero state inferiori al fabbisogno stimato. Questo ha condotto a un dato e due riflessioni: per coprire l’intera zonizzazione, il Parco avrebbe assegnato la sorveglianza di più zone alla stessa associazione, da una parte impattando sull’efficacia e sull’efficienza dell’azione di quelle associazioni e, dall’altra, dimostrando che diversi operatori del territorio non troverebbero interesse a collaborare con l’Ente Parco.
La prima parte della determina dell’Ente Parco nazionale d’Aspromonte n° 257 del 17 luglio 2024
Emergono dunque una serie di criticità: se il modello droni, non ancora a regime, può rappresentare un sistema di monitoraggio e raccolta dati utile, non è sufficiente ad fronteggiare un problema che non può essere risolto con azioni repressive di giusta tolleranza zero, ma che deve prevedere il coinvolgimento e la sensibilizzazione delle comunità e delle loro associazioni. Serve un approccio misto, anche perché i droni possono essere utilizzati con ottimi risultati per la lotta agli incendi di vegetazione che colpiscono le aree al confine tra aree urbanizzate e vegetazione – come descritto nel servizio del TG1, ma poco possono fare contro gli incendi boschivi che si sviluppano sotto il fitto manto degli alberi che inibisce la visuale dell’occhio elettronico, spesso oggetto di attacco di specie rapaci molto territoriali. E perché non battere anche la strada del monitoraggio satellitare concludendo le interlocuzioni avviate tra Nasa, Città Metropolitana ed Ente Parco prima del commissariamento?
Per Luca Lombardi, Presidente dell’Associazione Guide Parco Aspromonte il punto non riguarda solo il metodo, ma come viene applicato: “Perché l’area intorno a Polsi, così come altre zone spesso interessate dai roghi, non vengono monitorate maggiormente”. Dalla zona di San Luca e Natile di Careri abbiamo potuto raccogliere testimonianze di chi è arrabbiato per lo stato in cui versa Polsi, madre di uno dei culti mariani più importanti del Meridione, tutt’oggi poco accessibile, senza una strada sicura che conduca al Santuario. Questo il ragionamento: Polsi è rimasta come secoli fa, della strada annunciata da Occhiuto non c’è traccia e i divieti sono sempre più stringenti e quest’anno è stato vissuto un disagio enorme da parte di fedeli e operatori commerciali. Può questo elemento costituire un movente che spinge qualche scellerato a ricorrere al fuoco come arma di protesta?».
E può una politica puramente repressiva rappresentare una soluzione di lungo periodo senza azioni di educazione, formazione e mediazione dei conflitti? Nell’attesa di una risposta i boschi calabresi, nostro patrimonio, continuano a bruciare.
Che cosa sta succedendo alla Vari di Palmi? Tante cose, se lo scorso 2 agosto si è arrivati a un’interrogazione parlamentare di Ettore Rosato in merito ai debiti della Fondazione Varia di Palmi, di cui – denuncia l’opposizione in Comune di Palmi – non si conosce ancora il bilancio 2023. O meglio non si conosceva perché qualche ora fa la Fondazione ha reso noto di averlo approvato lo scorso 28 giugno 2024 (https://www.facebook.com/100064814703758/posts/897787495725066/?rdid=0kZXgVcuzgvWpcNh).
L’opposizione attacca il sindaco
E perché i consiglieri di opposizione, che hanno fatto richiesta di accesso agli atti evasa senza risposta, ce l’hanno col sindaco? Perché dicono che in qualità di Presidente onorario e membro del Consiglio Direttivo della Fondazione, non può non conoscere la situazione finanziaria dell’ente. E anche se lo scorso 5 giugno 2024 Comune e Fondazione uscivano con una nota per spiegare l’intoppo tecnico dovuto al ritardo nella presentazione del bilancio, ci sono volute polemiche e la richiesta di intervento del Ministro competente per fare uscire fuori un bilancio con una passività di oltre 325.855,00 euro, approvato mesi fa, tenuto nascosto e reso pubblico solo all’inizio di agosto. Ma di questo ci occuperemo nella prossima puntata.
Più in generale non si respira aria tranquilla, se il 2 agosto il Presidente del Sodalizio dei Facchini di Santa Rosa di Viterbo, una delle comunità praticanti della Rete UNESCO delle grandi Macchine a spalla italiane di cui Palmi fa parte insieme a Nola e Sassari, parlava di qualche frizione che non avrebbe consentito la loro partecipazione alla Varia 2024 (https://www.tusciaweb.eu/2024/08/ad-oggi-sodalizio-dei-facchini-santa-rosa-non-partecipera-alla-varia-palmi/). Probabilmente, a far storcere il naso è stata la gestione di questa edizione, ivi compresa la ricerca di volontari lanciata dalla Fondazione bypassando proprio le comunità praticanti.
Varia 2024 edizione “speciale”
Lo scorso 17 Luglio il Comune, con delibera 124, approvava il “protocollo di intesa per le operazioni di marketing territoriale nel Comune di Palmi (…) in occasione dell’edizione speciale della Varia 2024”, destinando 140.000 di contributo metropolitano per l’acquisto di spettacoli e servizi di marketing in occasione della Varia.
Ma poi “speciale” perché? Non è nella tradizione della Varia la cadenza annuale, da sempre né sembrerebbe esserci alcuna occasione speciale in vista: il Giubileo sarà l’anno prossimo.
Alla 124 -che individuava le risorse da impiegare per la Festa nel bilancio previsionale 2024/2026 dell’Ente- faceva poi eco la 126 nel disporre trasferimento di oltre 14.000 euro a Fondazione Varia per le spese 2023, dichiarava pure che, ove la rendicontazione non venisse riconosciuta dalla Regione, il Comune non avrebbe risposto del debito della Fondazione di cui è socio. Tra i capitoli di spesa del 2023 vi era anche la voce relativa al montaggio delle tribune dedicate alle Autorià UNESCO. Peccato che abitualmente sono ospiti all’interno di un palazzo privato che affaccia sul Corso Garibaldi e consente la visione di tutto il trasporto.
Nel frattempo lo stesso Comune che, con delibera 106 dello scorso 24 giugno, demandava l’organizzazione delle Festa di quest’anno alla Fondazione Varia, aveva già inviato al Presidente Occhiuto una richiesta di contributo per l’anno 2024 a valere sull’art. 4 della legge Mattiani. Che anziché contenere “la relazione illustrativa delle iniziative proposte e predisposte secondo un processo caratterizzato dalla più ampia partecipazione di comunità, gruppi e individui che creano, mantengono e trasmettono tale patrimonio culturale”, era accompagnata da un file excel con voci di spesa per 844.500 euro, di cui solo 411.000 euro per spettacoli ed eventi, 255.000 per il marketing e la comunicazione e 147.500 sul “capitolo” Varia di Palmi. Un mero 17,5 % dedìcato all’oggetto di tutela della legge. Tant’è che lo scorso 26 luglio il Comitato scientifico per la salvaguardia, la valorizzazione e la promozione della Festa della Varia di Palmi, preposto a valutare al congruità delle proposte del Comune di Palmi, ha chiesto via pec approfondimenti e integrazioni a quanto presentato.
Molti interrogativi ancora senza risposta
Le domande che emergono sono diverse:
Quali sono i rapporti tra la il Comune e la Fondazione; tra questa e le associazioni delle comunità praticanti e tra queste ultime e il Comune, che sembrerebbe essere poco attento nei loro confronti e che, a parte l’associazione Mbuttaturi, non le avrebbe ancora incontrate per l’edizione 2024?
Come mai Rosato nel testo della sua interrogazione ha chiamato in causa la prefettura competente sottolineando il ruolo del Comune e del sindaco all’interno della Fondazione?
E come mai il 2023 è stato il primo anno in cui l’organizzazione della Festa della Varia ha prodotto debiti per diverse centinaia dii migliaia di euro. Nonostante i ripetuti tentativi, non sono riuscito a rivolgere queste domande a Daniele Laface, Presidente della Fondazione Varia ETS e a Giuseppe Ranuccio, Sindaco di Palmi. I telefoni hanno squillato a vuoto.
L’impressione è di trovarsi di fronte a una situazione confusa dove fine e mezzo paiono scambiarsi di posto: è la Festa della Varia l’oggetto di tutela e salvaguardia di un patrimonio UNESCO regolato da una convenzione internazionale? O piuttosto uno strumento da tirare in ballo per fare “marketing e promozione territoriale”? Nel qual caso – un uso strumentale di un patrimonio UNESCO – ricorrerebbe una delle cause di decadenza del riconoscimento. E, ci si chiede ancora, è lecito declinare lo sviluppo di un territorio piegando un patrimonio UNESCO alla celebrazione di un evento una tantum che si configura come uno spettacolo qualsiasi dell’Estate Palmese? E a quanto serve una legge regionale di tutela della Varia quale Patrimonio UNESCO, sicuramente meritoria, ma priva di copertura finanziaria, che si affida di anno in anno a contributi dalla Presidenza della Regione?
Varia 2024 verrà celebrata il prossimo 25 agosto. Siamo solo all’inizio.
Quella di oggi è una storia di passione, morte e rinascita. Contemporaneamente anche un racconto di community building, incubazione di “proto-imprese”, collaborazione e azioni dal basso per la rinascita delle aree interne. Perché dietro – o, meglio, attorno – al protagonista si snodano le strade e le scelte di altri protagonisti che contribuiscono a formare una nuova narrazione corale dell’Aspromonte. Sono le vite degli altri nella storia di Demetrio D’Arrigo, per tutti Demi e meglio conosciuto sui social come AspromonteWild. Per me il cicerone con cui ho alle spalle molte giornate condivise, tanti chilometri percorsi, tracce di speleologia e geologia e un confronto serrato sui temi che riguardano le aree interne, i restati e i ritornati. Il nostro rapporto, nato durante la visita a Pietra Cappa in occasione dell’intervista ad Annamaria Sergi , si è strutturato nel tempo e Demetrio è diventato compagno di esplorazioni e amico.
La nostra tappa stavolta è stata a Roghudi Vecchio, antico insediamento aggrappato a uno sperone di roccia nel ventre dell’Amendolea, versante Sud dell’Aspromonte. Diverse volte alluvionato, dichiarato inagibile, è in stato di abbandono fin dagli anni Settanta. Terra di vento, crepacci e leggende nel cuore della Calabria greca dove ci sono cascate che, per la loro conformazione, fungono da prima palestra per i neofiti del torrentismo.
«Pronto a fare l’esperienza delle corde?», chiede mentre ci appropinquiamo alla meta. L’idea è di realizzare un’intervista in natura, cercando di documentare le attività e le passioni di Demetrio D’Arrigo, voce autorevole tra gli operatori del settore e leader indiscusso del comparto sport di montagna.
La seconda vita di Demetrio D’Arrigo
«Sono alla mia seconda vita. La prima, un passato nel mondo della post-produzione musicale, si è chiusa diversi anni fa. Di quella conservo il mio orecchio assoluto. Abbracciare la montagna, perdendomici in solitudine anche per giorni, mi ha risollevato da un momento cupo e mi ha indicato una nuova strada. Il mio percorso inizia nel 2007, anno del mio ingresso nel Soccorso alpino. Nel 2009 lancio la mia associazione impegnata nella valorizzazione del territorio e nella promozione dei percorsi escursionistici in Aspromonte. Nel 2013, grazie alla legge sulle professioni non regolamentate, avvio la mia attività di guida canyoning. Poi nel 2015, finalmente, dopo un corso di formazione promosso dall’Ente Parco, divento una sua guida ufficiale. Oggi sono socio fondatore dell’ENGC e unico calabrese a farne parte. Sto cercando di diventare una guida completa, sia sul versante sportivo che escursionistico, accompagnando su più terreni, su diversi territori e in varie attività sportive».
Oblio e alleanze
Formatore, istruttore di canyoning molto conosciuto e riconosciuto, Demetrio D’Arrigo è un incredibile facilitatore: oltre al proprio lavoro coi gruppi turistici, si dedica a promuovere e divulgare le risorse del territorio ai calabresi, collaborando con le comunità e svolgendo una vera e propria attività di coaching e capacity building.
È quello che gli ho visto fare durante le uscite di gruppo e i sopralluoghi a due durante tutti questi mesi: disseppellire da un oblio collettivo patrimoni naturalistici ed escursionistici e, contemporaneamente, rafforzare il fronte dellealleanze per lo sviluppo tra i territori. È stato lui a introdurmi e presentarmi a Giuseppe Murdica, Stefano Costantino con la moglie Arianna Branca e i tanti altri restati e ritornati con cui collabora e che ha spronato a credere nella possibilità di uno sviluppo endogeno.
Demetrio D’Arrigo e Peppe Murdica
«Tento di ricucire i territori con le loro comunità, spesso inconsapevoli delle loro risorse naturalistiche e di quello che può essere attivato. Una cosa che è diventata quasi naturale, perché è parte integrante della natura stessa delle attività escursionistiche e sportive che propongo. I residenti dei territori inseriti nei miei itinerari sono un elemento essenziale: sono i loro custodi. Tra loro ci sarà sempre qualcuno con una storia da raccontare e un patrimonio da divulgare». Praticamente la nuova frontiera del marketing territoriale di prossimità.
È quello che è successo nella piccola comunità di Armo, media collina a un passo da Reggio; a Piminoro, versante occidentale del lato più tropicale dell’Aspromonte che domina la Piana di Gioia Tauro; a Pietrapennata, tre case, qualche decina di abitanti e nemmeno un forno, più in quota di Palizzi Vecchio, dove allena i suoi allievi su una delle palestre di roccia utilizzate dagli scalatori.
Lo schema di Demetrio D’Arrigo
Lo schema di Demetrio D’Arrigo è sempre lo stesso: effettuare sopralluoghi alla ricerca di mete per nuovi percorsi escursionistici; agganciare i loro abitanti per carpire la natura e l’essenza di quei luoghi; costruire itinerari stimolando quelle comunità a creare servizi di accoglienza, promozione delle tipicità, narrazioni autentiche; lanciare quei nuovi punti escursionistici attraverso i suoi canali digitali, aggiungendo ogni volta un nuovo nodo a questa infrastruttura immateriale di relazioni. L’indicizzazione dei motori di ricerca gli dà ragione, il suo sito è da anni in prima posizione su Google. «E nel periodo estivo gli accessi alle pagine hanno notevoli picchi di ingresso».
Mimmo Plutino e Stefano Costantino
A confermarmelo è Stefano Costantino, componente della Cooperativa Sant’Arsenio. Realtà di forte ispirazione cattolica, opera ad Armo dal 2005 aggregando piccole produzioni locali, orti urbani, ospitalità, formazione per le scuole, approccio eco-sostenibile. «Demetrio D’Arrigo è spuntato qualche anno fa per contrassegnare Armo, terra del monaco eremita Sant’Arsenio, come una delle ultime tappe del Cammino Basiliano. “Abitate un luogo straordinario da cui è passata la storia del monachesimo di Calabria. Siatene fieri”».
Da Armo a Piminoro
Mimmo Plutino, diacono della parrocchia, è più esplicito: «Quando, qualche anno fa, tornai a visitare il canyon dei Rumbulisi, condividendone le foto, Demetrio D’Arrigo mi contattò per organizzare un itinerario che unisse il canyon e la grotta del santo, mostrando contemporaneamente le formazioni rocciose di arenaria del luogo e la visita in paese. La sua idea ha funzionato, alimentando un nuovo flusso di visitatori». Che, oltre all’accoglienza e alle piccole produzioni, trovano ad Armo, conosciuta in zona per il modello di raccolta differenziata a impatto zero fatta con gli asinelli, un dedalo di murales a cielo aperto realizzato dal gruppo Creativi Armo.
Murales ecosostenibile realizzato ad Armo con il recupero dei tappi di plastica
Lo stesso copione è andato in scena a Piminoro: dall’incontro di Demi con Giuseppe Murdica, già impegnato nella rivalutazione di vecchi sentieri verso le tante vie dell’acqua di questa frazione, sono germogliate iniziative nuove. Da un primo tentativo di ristorazione familiare ed ospitalità alla riattivazione, nel 2019, della Cooperativa Monte dei Pastori. «Ho conosciuto Demetrio 13 anni fa, in occasione di uno dei suoi sopralluoghi. Dopo avergli mostrato una delle tante cascate che abbiamo in zona, l’ho invitato a pranzo. Da lì sono nati un confronto e una sinergia che non si sono mai fermati».
L’area dell’ex caserma Naps a Piminoro
Oggi Giuseppe con la sua famiglia ha creato un punto di riferimento per escursionisti e camminatori. Non solo: la cooperativa ha chiesto al Comune di Piminoro la concessione dell’area della vecchia caserma NAPS (Nuclei Anti Sequestri della Polizia di Stato), passata dal Comune all’Ente Parco che l’aveva lasciata in abbandono dopo un periodo transitorio in cui vi erano stati ospitati i richiedenti asilo. L’idea è di creare un villaggio polifunzionale con 300 posti letto e servizi per roulottes e camper. I lavori sono già partiti.
La montagna che collassa
Se questa emergente strategia complessiva sia consapevole o meno non posso dirlo, ma che inneschi un processo di auto-sostentamento è fuori di dubbio. Ed è funzionale alla battaglia contro l’abbandono e la deriva di territori in cui, emigrati gli uomini che li abitavano, la Natura si è ripresa spazi di vita e comunicazione un tempo antropizzati. «L’abbandono porta al collasso delle aree interne. Questi movimenti di persone e idee che cerco di accompagnare rappresentano un antidoto e una risorsa in un mondo dove il comparto del turismo e dei servizi collegati prende sempre più piede.
Torrentismo a Piminoro
Se prima il modello di sviluppo legato a una certa industrializzazione appariva l’unica via possibile, oggi le attrazioni naturalistiche sono parte di soluzioni alternative per la rinascita dei territori. Ogni paese aspromontano ha diverse possibilità di creare un indotto a partire dalle proprie risorse: acqua, legna, pietre, antichi mestieri. Bisogna condurre quegli abitanti a crederci. Una montagna abbandonata non torna più autentica o incontaminata, ma rischia il collasso».
È proprio così: quelli che fino agli anni Settanta e Ottanta erano territori abitati, stanno andando alla deriva. I tornanti che conducono a Roghudi Vecchio, una volta battuti e curati, sono ora invasi da una natura che se ne è riappropriata. Ma dove si attivano certi processi, la storia prende una piega diversa. Il passaggio dall’attività volontaristica o associazionistica a forme imprenditoriali rappresenta un punto di svolta: «L’associazionismo è quello da cui tutti siamo partiti. All’inizio può fare la differenza per la grande capacità di coinvolgere, mostrare e narrare. Ma per chi decide poi di fare questo lavoro, la dimensione volontaristica deve diventare impresa: partite IVA, ditte individuali, cooperative. Un passaggio obbligato che oggi è sempre più evidente: tante guide, tanta scelta per il turista di prossimità e per chi arriva da lontano».
Tutto quello che serve
È un punto su cui Demetrio D’Arrigo batte molto e sul quale io stesso mi sono soffermato durante una delle prime uscite a Natile, quando ho assistito al confronto serrato tra lui e Annamaria Sergi, ex presidente di quella Pro Loco. Riassunto: se vuoi crescere, devi fare il salto. Sergi si è poi messa in proprio: ha fondato una sua associazione programmando un percorso più strutturato per lo sviluppo della vallata delle Grandi Pietre.
«Questa d’altronde è anche la mia storia. Da realtà associativa ho lentamente compiuto un passaggio verso un’imprenditorialità che mi permette di vivere seguendo la mia passione: lavorare con la natura e in natura, accogliere, divulgare, fare formazione e sport. A ben guardare abbiamo già tutto quello che serve: natura, cultura, storia, diverse tipologie di attività e ulteriori servizi da sviluppare. Credo che, se si decide di restare, le opportunità di lavoro non manchino. Però bisogna rafforzare l’acquisizione di competenze specifiche anche in relazione allo sviluppo di filiere produttive».
La filiera delle pietre
L’esempio che ha in mente è specifico e riguarda l’economia circolare: «Anche se i turbo-ambientalisti mi criticheranno vedo un’opportunità nella cosiddetta filiera delle pietre. La provincia di Reggio è localizzata a cavallo di un sistema complesso di fiumare in cui si deposita di tutto e che andrebbe irregimentato. Dalle pietre può derivare una grande ricchezza in ottica di edilizia eco-sostenibile. Ciò consentirebbe di monitorare i torrenti mantenendo stabili, puliti e dragati i loro greti e fornire materiale naturale, resistente e ad impatto minimo per costruire». Ma come al solito serve una visione abbracciata da una politica che dia seguito a soluzioni idonee per le procedure amministrative: ad esempio un sistema di concessioni. «Mi piacerebbe che ci fossero più persone giuste al posto giusto. Se politica e amministratori ascoltassero le richieste e i suggerimenti dai territori, si vivrebbe in modo differente». Ossia migliore.
La fiumara di Roghudi, ideale per la cosiddetta “filiera delle pietre”
Demetrio D’Arrigo tra monaci e politica
Un esempio di questa crasi incomprensibile è la vicenda legata al collegamento dell’ultima tappa del Cammino Basiliano che termina al Duomo di Reggio Calabria: 81 tappe divise tra Calabria e Lucania, con la presenza di 10 dei borghi più belli d’Italia e 3 siti UNESCO. Un progetto finanziato da Regione Calabria per valorizzare, salvaguardare e promuovere la fruizione eco-sostenibile dei patrimoni presenti lungo la dorsale di questo sentiero. Demetrio D’Arrigo, che è membro dell’omonima associazione che lo ha incaricato di elaborare le ultime tre tappe del sentiero, la racconta con diplomazia: «Non sono riuscito a collegare l’ultima tappa che va da Armo a Reggio e a piazzare i cartelli che indicassero le rotte percorse dai monaci perché non ho bussato alla porta giusta».
Una delle 81 tappe – la numero 35, da Villaggio Mancuso a Pentone – del Cammino basiliano, con relativo cartello
La verità è più tragicomica, più à la Totò. Come referente dell’associazione da cui aveva avuto mandato, si era rivolto al Comune di Reggio per individuare settore e responsabile cui inoltrare la richiesta di autorizzazione per l’apposizione della segnaletica. Dopo diversi tentativi era emerso che avrebbe dovuto rivolgersi all’Ufficio Pubblicità. Cosa c’entrasse la pubblicità con la sentieristica e la valorizzazione dei beni naturalistici e culturali è ancora da capire. Fatto sta che tra passaggi, lungaggini, burocrazia e Covid non se ne è fatto nulla. La sua ultima mail al Comune risale al 15 novembre 2021. Poi il silenzio.
Il silenzio di Reggio
«Credo non avessero capito che si trattasse di un sentiero e che, per completare il percorso, da contratto con la Regione che ha finanziato il progetto, si sarebbe dovuta apporre tutta la segnaletica. Il Comune di Reggio è l’unico tra quelli contattati che non mi ha considerato. A Motta San Giovanni mi hanno aperto le porte, a Montebello il sindaco si era addirittura offerto di accompagnarmi per indicarmi il punto esatto in cui le indicazioni andavano apposte, seguendo la posizione di alcune chiese o punti di passaggio. I cartelli li ho ancora a casa e sono pronto a piazzarli appena ce ne sarà possibilità».
Il Comune di Reggio Calabria
Arrivati alle cascate di Roghudi, siamo poi scesi con corde, picchetti, moschettoni e mute. Un’esperienza di straordinaria intensità utilizzata anche nelle sessioni di team building dal management di medie e grandi aziende.
Le note vicende che hanno portato al commissariamento dell’Ente Parco Aspromonte continuano a produrre effetti negativi. Sì, perché nel trentennale dell’istituzione dell’Ente e nell’anno in cui l’Aspromonte attende la verifica dei commissari UNESCO per la conferma dello status di Geoparco Globale, la macchina è completamente inceppata.
Quella verifica, originariamente prevista per lo scorso aprile, è slittata al prossimo luglio.
Una volpe in Aspromonte
Aspromonte Geoparco UNESCO: dalle origini ad oggi
L’ingresso del Parco Aspromonte come Geoparco nella rete mondiale dell’Unesco risale al 21 aprile 2021. La procedura, avviata anni addietro, era risultata vincente in tempi record rispetto a candidature che attendono ancora un semaforo verde. Nel 2018, dopo un lungo lavoro preparatorio coordinato da una struttura amministrativa che ancora funzionava, durante l’Ottava Conferenza Internazionale dei Geoparchi Mondiali tenutasi a Madonna di Campiglio, l’UNESCO aveva presentato una relazione in cui venivano evidenziate delle criticità da sanare. Nel 2021, infine, l’acquisizione dello status di Geoparco.
Rosolino Cirrincione, oggi direttore del Dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali dell’Università di Catania ha collaborato al dossier di candidatura. Cirrincione racconta che dal 2021 non ha avuto più alcuna notizia. L’Ente Parco lo ha però sollecitato, di recente, a supervisionare la bozza di relazione in preparazione per la visita dell’UNESCO del prossimo luglio. Una richiesta all’ultimo minuto che l’accademico non pare aver affatto gradito.
Il professor Rosolino Cirrincione, ordinario di Petrografia e Petrologia a Catania
Certo, diverse attività sono state svolte per adempiere alle procedure che riguardano la vita dei Geoparchi: formazione nelle scuole, produzione di materiale di comunicazione, inaugurazione e apertura di una sede specifica del Geoparco a Bova. Molto altro, però, sembra mancare.
L’Ente Parco non ha all’interno del suo staff un geologo, nonostante l’UNESCO ne suggerisca l’assunzione da anni. Chi si è occupato della candidatura del 2018, la geologa Serena Palermiti, ha collaborato come esterna con incarichi diretti. Terminati quelli, anche lei non ha più avuto dall’Aspromonte alcuna notizia sul Geoparco UNESCO.
Arrivano i commissari e non c’è nessuno
Le attività di cooperazione e trasferimento delle conoscenze con gli altri Geoparchi – precedentemente in capo a Silvia Lottero, la funzionaria che firmò la stabilizzazione illegittima degli LSU/LPU poi accusata di danno erariale – sembrano essere state molto lacunose. Così come lo è il lavoro sulla metodologia di monitoraggio delle presenze per l’implementazione delle visite turistiche.
Quello che i commissari UNESCO troveranno in Aspromonte al momento di valutare il Geoparco sarà dunque non solo un lavoro fatto a metà, ma una ridotta capacità amministrativa dell’Ente. E la capacità amministrativa è tra i principali capisaldi della verifica, assieme al coinvolgimento delle comunità del territorio. Le stesse, cioè, che da anni lamentano di non essere ascoltate dall’Ente.
Due esemplari di coturnice nel territorio del Parco
Dallo stesso Parco arrivano ammissioni che non lasciano dubbi. L’attuale responsabile del dossier Geoparco è Giorgio Cotroneo. In carica dallo scorso febbraio dopo l’insediamento del commissario straordinario Renato Carullo, imputa inefficienze e ritardi alla drammatica situazione della pianta organica e al malgoverno degli ultimi anni.
Lo stesso Carullo, poi, è ancora più netto: «Siamo in ritardo su tutto. La situazione è quella che è: contenziosi interni ed esterni, procedimenti disciplinari, indagini della magistratura. Dieci giorni dopo il mio insediamento (14 febbraio 2024 ndr) ho inviato una relazione al Ministero descrivendo lo stato in cui versa l’ente e la mia difficoltà a mandarlo avanti con una pianta organica praticamente inesistente. Nonostante sia per me un campo nuovissimo, ho accelerato tutti i processi in essere. Ho bisogno che l’Ente abbia un governo che funzioni. A luglio avremo in Aspromonte la delegazione UNESCO per la verifica delle condizioni che garantiscono lo status di Geoparco, ma ci hanno già anticipato in via informale che conferiranno il bollino giallo: meglio il semaforo giallo che quello rosso».
Pietra Cappa
Stop al Geoparco UNESCO: cosa perderebbe l’Aspromonte
Il segretariato dell’UNESCO, nonostante i solleciti via mail di questa redazione, non ci ha dato conferme a riguardo. Se ci troveremo di fronte a un semaforo giallo si tratterà di un alert. E non è detto che l’ammonizione si trasformi in un’espulsione. Ma il rischio è di azzerare un riconoscimento che, se a regime, rappresenterebbe un’opportunità per tutti i territori del Parco: creerebbe flussi turistici focalizzati sul geoturismo, stimolerebbe la creazione di imprese locali innovative, anche legate alla formazione di settore, e attiverebbe nuovi investimenti, generando processi di sviluppo.
Un ciclista in Aspromonte
In tutto questo anche se il nuovo PIAO (Piano integrato delle Attività e Organizzazione) è stato approvato d’urgenza sulla scorta della programmazione lasciata dal direttore Putortì andato in pensione, gli investimenti sono fermi.
Il Parco Aspromonte è l’unico tra quelli calabresi a non avere ancora firmato la convenzione con la Regione sulla ciclovia dei parchi, anche se il commissario garantisce che la questione è in via di definizione.
Il problema è politico
«Vedo tutte le potenzialità inespresse che ci sono, ma la struttura deve essere messa nelle condizioni di operare. Senza dipendenti è come se avessi le mani legate» continua, che sottolinea come si trovi a governare «per la prima volta un ente senza Direttore».
Carullo aveva anche proposto una delibera per avviare le procedure con cui individuare la terna per la nomina del nuovo direttore da parte del ministro. Il Ministero dell’Ambiente l’ha annullata, però, perché la nomina del Direttore dovrebbe arrivare su impulso del Consiglio direttivo e del presidente. Che, dopo il commissariamento, non esistono più. Occorrerebbe, quindi, fare pressione sul Ministro affinché ricostituisca quel Consiglio direttivo. Come sempre, il problema è politico.
Leo Autelitano
Secondo Carullo, l’ex presidente Autelitano, convocato con due pec, non si sarebbe presentato per le consegne dei dossier aperti. Autelitano a sua volta, in una conferenza stampa con accanto il senatore Giuseppe Auddino (M5S), ha denunciato il carattere «trasgressivo, punitivo ed elusivo del decreto di commissariamento», imputandolo a oscure manovre di una certa parte politica. Come a dire: politica per politica, ognuno schiera le armi che ha. Ha poi negato di aver ricevuto la convocazione. Sarebbe potuta essere l’occasione per chiarire la situazione del Geoparco.
Le decisioni dei tribunali
In tutta questa matassa, le uniche certezze al momento sono due decisioni dei giudici. La prima è quella del Tar che rigetta la richiesta di sospensiva in via cautelare del provvedimento di commissariamento dell’ente.
La seconda è la bocciatura del ricorso presentato da Maria Concetta Clelia Iannolo contro l’Ente per il reintegro completo in ruolo.
E con la polemica che non accenna a smorzarsi, a perdere sono sempre cittadini, comunità e territori.
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