Autore: Sergio Pelaia

  • Primo a promettere, Ultimo a mantenere: l’annuncite di De Caprio

    Primo a promettere, Ultimo a mantenere: l’annuncite di De Caprio

    Suo malgrado e certamente per necessità, almeno sulle mascherine il Capitano Ultimo è stato un precursore. Il volto lo copre da tanti anni, più di quelli trascorsi da quando catturò Totò Riina. Oggi, però, Sergio de Caprio non è più un uomo dell’Arma bensì un politico atipico. Che continua a definirsi «carabiniere straccione» e che ha in mano un settore delicatissimo e complicato qual è l’ambiente calabrese.

    Il video di propaganda

    La delega all’Ambiente gli è stata affidata, com’è noto, la compianta Jole Santelli annunciandolo con una conferenza stampa show – con tanto di trailer che vi riproponiamo sotto – che si tenne a neanche un mese dalla sua elezione a presidente della Regione.

    https://www.facebook.com/345246979000406/videos/191624481921897

    Non in quella Calabria che si disse di voler trasformare in «una grande riserva naturale», ma in un elegante sala di Montecitorio. «Sono nato dove il vento corre libero e non c’è niente che spezza i raggi del sole», dice di sé su Twitter il Capitano Ultimo, impregnando ogni post della retorica del «popolo della strada» e della «fratellanza» contro «l’avidità del dominio».

    Diciotto mesi di annunci

    Se con lui all’assessorato all’Ambiente sia stata fatta «una scelta chiara per la #Calabria che vuole #dialogo e #democrazia contro ogni autoritarismo politico o mafioso» e se si stia concretizzando l’obiettivo di «tutelare l’autodeterminazione delle comunità calabresi» spetta agli stessi abitanti della regione valutarlo. Intanto però dalla sua nomina sono passati 18 lunghi mesi e di annunci Ultimo ne ha fatti tanti. Il più recente riguarda un “problemone” storico come quello della depurazione.

    «Abbiamo sbloccato situazioni – ha dichiarato lo scorso 21 luglio – che erano ferme da anni. Le abbiamo monitorate con i sindaci e con i tecnici dei Comuni. Abbiamo preparato 125 interventi su 120 Comuni e finanziato le progettazioni con 65 milioni di euro già approvati, come anticipo sul Fondo di coesione e sviluppo, ai quali si aggiungeranno quasi 200 interventi, ridimensionati su 100 milioni di euro». Tutto questo «si chiama programmazione», ha aggiunto. Gli effetti concreti sul territorio di tanta capacità programmatica, però, quando la seconda estate del suo assessorato è già in parte compromessa e inchieste come quella della Procura di Paola svelano situazioni quantomeno imbarazzanti, stentano ancora a rivelarsi.

    Certamente la questione è atavica. E il «mare da bere» i calabresi, in particolare in alcuni tratti del litorale tirrenico, se lo sognano fin dai tempi delle scuse pubbliche di Agazio Loiero, i cui successori non sembrano aver fatto meglio. Intanto se ne occupano le Procure: quelle di Vibo e Lamezia hanno creato una sorta di team interforze per monitorare l’inquinamento del mare. E i politici di ogni schieramento che minacciano di denunciare chiunque dica che il mare è inquinato si ritrovano a fare i conti con ciclici imbarazzi.

    L’assessore smentito dal “burokrate”

    A Ultimo capita anche di puntare il dito contro i «tanti burokrati che cercano solo il dominio». Ma chissà cosa pensa di quelli che hanno la responsabilità amministrativa del suo settore alla Cittadella. Un caso, anche questo recente, fa capire quanto sia disarmante misurare la distanza tra le parole e la realtà, tra gli annunci e le carte. È successo a San Ferdinando, Comune della Piana di Gioia Tauro nel cui territorio sfocia un fiume, il Mesima. Attraversa buona parte dell’entroterra vibonese ed è indicato da anni come portatore di inquinamento perché qualcuno ci sversa dentro reflui e liquami di ogni tipo.

    Il Comune di San Ferdinando si dà da fare per cercare di evitare che anche quest’anno arrivi a mare una certa portata di schifezze. Ma con pochi fondi l’unica soluzione praticabile secondo l’ente è ancora una volta quella dello sbarramento. Realizzare, cioè, una sorta di diga di sabbia con dei tubi che ci passano in mezzo per cercare di filtrare i liquidi inquinanti prima che sfocino a mare. Il Comune avvia quelle che vengono definite interlocuzioni istituzionali e già a marzo incontra Ultimo. L’ultima riunione risale al 30 giugno. «L’assessore De Caprio – ha fatto sapere l’amministrazione di San Ferdinando – ha garantito il sopralluogo immediato da parte di Calabria Verde in previsione dello sbarramento della foce».

    Succede però che il Wwf insorga perché ritiene lo sbarramento non risolutorio e dannoso per l’ecosistema dell’area e che chieda alla Regione se abbia autorizzato o finanziato interventi simili. La risposta del direttore generale del dipartimento Ambiente è stringatissima, ma eloquente. «Non risultano al momento interventi finanziati da questo Dipartimento per lavori sul fiume Mesima, né richieste di autorizzazioni per la realizzazione di interventi». In sostanza il dirigente generale smentisce ciò che Ultimo aveva garantito agli amministratori locali.

    Le ultime parole famose

    Il comunicato sul sito web della Regione porta la data del 3 novembre 2020. Il titolo è: «Rifiuti, De Caprio: “Ecco il piano che cambierà la regione”». L’attacco, con le dichiarazioni dell’assessore-carabiniere, è ancora più deciso: «Abbiamo approvato le linee guida del Piano di gestione rifiuti regionale, che ci porterà a discariche zero entro due anni». È un «provvedimento – continua Ultimo – completo, di sistema. Lo faremo alla luce del sole per la Calabria e insieme ai calabresi». Un anno è quasi già passato, quel Piano non è finora mai arrivato nell’aula del consiglio regionale, che intanto approva cose evidentemente più urgenti come il tg web di Palazzo Campanella. È rimasto, dunque, solo un atto di indirizzo.

    Dal privato al… privato

    In vigore c’è invece quello approvato nel 2016 dalla maggioranza che allora sosteneva Mario Oliverio. Prevedeva la realizzazione di una serie di impianti per i quali a distanza di 5 anni si registrano forti ritardi. Le conseguenze di tutto ciò si rivelano in una recente ordinanza. Nel documento la Regione ammette che tra luglio e settembre potremmo portare fuori dalla Calabria 10mila tonnellate di rifiuti «a prezzi esorbitanti» e che comunque ciò non basta. Così siamo tornati a portare i rifiuti alla discarica della società Sovreco a Crotone a cui viene riconosciuta una tariffa di 180 euro a tonnellata per un massimo di 600 tonnellate al giorno. Equivale a oltre 100mila euro ogni 24 ore.

    A proposito del ricorso ai privati, però, Capitano Ultimo aveva assicurato: «La cosa più importante è quella di creare una metodologia di dialogo trasparente e privo di interessi locali». Tutto questo per «affrontare e sostenere la transizione di un sistema della gestione del ciclo dei rifiuti sempre emergenziale, condizionato dalla prevalenza di interessi privati, ad un sistema a prevalenza pubblica». Un anno fa la stessa Santelli aveva respinto la proposta di conferire a Crotone a costi minori di quelli attuali rivolgendosi, peraltro, anche a un paio di Procure.

    Le pale girano ancora

    Anche qui partiamo da un annuncio. Ansa, 9 febbraio 2021: «Sono state sospese in Calabria le autorizzazioni per la realizzazione di impianti eolici ed elettrodotti “in quanto rappresentano una violenza alla bellezza della regione e allo sviluppo del turismo”. Lo ha disposto l’assessore alla Tutela dell’ambiente della Regione, Sergio De Caprio». Ci si aspettava che a una dichiarazione del genere, accolta con un certo favore dagli ambientalisti, seguisse una legge regionale. O, almeno, un atto di indirizzo politico. Invece nulla, nessun provvedimento ufficiale. Forseci si è resi conto che la Corte costituzionale ha già bocciato un tentativo analogo fatto dalla Regione Campania nel 2016.

    Intanto succede, per fare due esempi, che a Cirò (Crotone) solo una sollevazione dei viticoltori impedisca che venga costellata di pale eoliche la “collina del vino”. E che a San Vito sullo Jonio (Catanzaro) si decida di tagliare 750 alberi per fare spazio ai moderni mulini a vento. Su quest’ultima vicenda non è noto il parere di Ultimo.

    La multiutility? Sorical permettendo

    Tranquillizza, però, sapere che «la Calabria si allontana dalla palude del localismo condizionato da lobby e ‘ndrangheta e crea una multiutility pubblica che gestirà rifiuti, acqua ed energia rinnovabile in una dimensione interregionale, insieme al Mezzogiorno del Mediterraneo, portando benessere e sviluppo per il popolo calabrese».

    Di concreto, in realtà, al momento c’è solo una delibera di indirizzo con cui la Regione prova a verificare se ci siano le condizioni per acquisire le quote private di Sorical e, così, far uscire dalla liquidazione avviata 9 anni fa la società che gestisce l’acqua calabrese, magari per farne un vessillo elettorale della Lega. Ma aspettiamo fiduciosi.

  • Pentiti, i rampolli dei clan vibonesi si ribellano

    Pentiti, i rampolli dei clan vibonesi si ribellano

    Da delfini a pentiti. Quando si parla di casato si evoca qualcosa di aristocratico e di antico. Di nobiltà ce n’è in verità molto poca nei racconti che delle dinastie mafiose del Vibonese fanno i loro stessi rampolli. Sono cresciuti a pane e ‘ndrangheta ma, adesso, hanno cominciato a ribellarsi al loro stesso sangue e a quello che hanno visto scorrere fin da bambini tra la costa degli Dei e le montagne delle Serre. Sono storie diverse ma emblematiche quelle di Emanuele Mancuso e Walter Loielo. Viaggiano su binari distinti e paralleli ma, in determinati momenti, si avvicinano pericolosamente.

    Un tipo alternativo

    Nato il giorno di San Valentino di 33 anni fa, Emanuele secondo sua padre era come un surici. «Dove passavo io facevo danni» – dice. E il padre, che ha un nome diffuso in famiglia, Pantaleone, è conosciuto come “l’ingegnere” e per essere stato protagonista di un arresto da film. Alla fine di agosto del 2014 lo catturò la gendarmeria argentina in una città alla frontiera con il Brasile, Puerto Iguazù. Cercava di passare il confine a bordo di un bus turistico con un documento argentino falso intestato a tale Luca de Bortolo e con 100mila euro addosso.

    All’epoca, per dire che aria tirasse in famiglia, era accusato del duplice tentato omicidio di sua zia Romana e del figlio, che era avvenuto 6 anni prima al culmine di dissidi sfociati nel sangue tra i vari rami della famiglia. Il danno più grosso, osserva sornione lo stesso Emanuele in collegamento con l’aula bunker di Rinascita-Scott, lo ha fatto collaborando con la giustizia.

    I parenti e la ex compagna vogliono indurlo a ritrattare

    Secondo la stessa Dda di Catanzaro i suoi parenti, e anche l’ex compagna da cui ha avuto una bimba, volevano indurlo a ritrattare in ogni modo: la promessa di un ristorante tutto suo in Spagna, pressioni di ogni tipo facendo leva anche sulla figlia neonata, le minacce urlate dai vicini di cella al carcere di Siano. Volevano farlo passare per pazzo. In effetti lo conoscevano bene, perché Emanuele tanto “normale” non lo è mai stato. Un «tipo alternativo», si è definito lui stesso, perché non seguiva il protocollo di famiglia. Faceva furti e rapine mentre i suoi gli dicevano che «fare quelle cose fosse una vergogna perché un Mancuso non doveva abbassarsi a tanto».

    Molto ferrato nelle nuove tecnologie, tanto da essere spesso addetto alle bonifiche per gli uomini del clan, lo era altrettanto nella coltivazione di marijuana su scala industriale. Ne piantava tanta ma sostiene di non fumarla perché gli fa abbassare la pressione. La cocaina invece sì, ammette di averla usata spesso. Ma a uno degli avvocati difensori che lo controesaminava ha risposto irritato di «non aver mai sostenuto alcuna visita psichiatrica».

    Un cadavere nel bosco

    Walter lo chiamano “batteru” ed è ancora più giovane. Classe 1995, ha anche lui un padre ingombrante. Anzi, aveva: si chiamava Antonino ed è sparito nel nulla un giorno di aprile del 2017. Né suo figlio, che al contrario di Emanuele non è il primo pentito della sua famiglia, né gli altri familiari all’epoca ne denunciarono la scomparsa. Oggi invece Walter è indagato per avere occultato il cadavere del genitore. Sarebbe stato lui stesso ad indicare la carcassa di una Cinquecento rossa seminascosta nei boschi di Gerocarne vicino a cui avevano seppellito il padre. Avevano, sì, lui e suo fratello Ivan, che è quello accusato di averlo ucciso.

    Il movente è ancora un mistero: non è di ‘ndrangheta, hanno detto gli inquirenti quando hanno scoperto il corpo a novembre del 2020, il contesto evidentemente sì. Perché è quello della famiglia Loielo, una storia criminale lunga decenni che da banda di rapinatori alla fine degli anni ’70 li vede poi diventare l’ala armata della “società” di Ariola, frazione-epicentro nelle Preserre vibonesi di una faida ventennale con il clan Emanuele, che li ha scalzati dal dominio militare decapitando la loro cosca con un efferato duplice omicidio nel 2002. All’epoca caddero, per mano del boss emergente Bruno Emanuele, Pino e Vincenzo Loielo, di cui il padre di Walter era primo cugino.

    Anni dopo i rampolli dei Loielo avrebbero tentato di rialzare la testa per vendicare i loro morti. A soffiare sul loro rancore sarebbe stato un altro Pantaleone Mancuso, “Scarpuni”, tentando da dietro le quinte di ridimensionare gli odiati Emanuele. È finita con una scia di morti e altrettanti tentati omicidi. In uno di questi, ad ottobre del 2015, rimase ferito proprio Antonino mentre era a bordo della sua vecchia Panda. Con lui c’era la compagna incinta di sei mesi e un altro figlio, Alex. Pochi giorni dopo tentarono di ammazzare anche lo stesso Walter, che era assieme a due cugini e che era stato già in precedenza bersaglio di un ulteriore attentato. Sangue, vendette, famiglie non esattamente da Mulino Bianco, ma a un certo punto arriva qualcuno che la catena dell’odio la spezza.

    Il coraggio di sfidare il “supremo”

    Emanuele è iperattivo, spregiudicato, ha mostrato un’indole violenta ma anche un’intelligenza vivace. Una cosa che pochi sanno di lui, per esempio, è che era in grado di scriversi da solo le istanze da presentare ai giudici in relazione a misure di sorveglianza a cui era sottoposto. Raccontano che in alcuni casi le firmasse lui stesso, a nome dei suoi avvocati, e che qualche volta il Tribunale le abbia anche accolte. Non sorprende, dunque, il piglio con cui parla durante i processi. Il coraggio non gli difetta: è stato capace di stringere un’amicizia fraterna con Peppe Soriano – nipote del boss Leone, «uno psicopatico criminale» – a cui offriva soldi e assistenza legale proprio tramite lo zio, incurante che questi fosse parecchio inviso al “supremo” Luigi Mancuso, prozio di Emanuele che «con una parola riesce ad entrare nel tuo cervello, non usa metodi brutali ma ha un carisma inaudito».

    Cinquemila euro per ammazzare un vecchietto

    Walter è più introverso, quasi impacciato. Terza media, condizioni familiari «difficili» e qualche saltuario lavoro agricolo alle spalle. Al suo esordio in un processo, lo scorso 23 giugno, si è un po’ impappinato parlando davanti alla Corte d’Assise di Catanzaro. È stato chiamato a rendere in aula le sue prime dichiarazioni da pentito nel procedimento sull’autobomba di Limbadi che il 9 aprile 2018 ha ucciso il biologo 42enne Matteo Vinci e ferito il padre Francesco. Un crimine che ha fatto rumore e che forse qualcuno della galassia Mancuso ha ordito senza farlo sapere ai boss che contano.

    Il 26enne ha raccontato che due indagati accusati di essere gli esecutori materiali – per cui però il Riesame ha annullato i relativi capi d’imputazione – tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018 gli avrebbero portato una “’mbasciata” da parte di «quelli di là sotto», locuzione con cui nel Vibonese sono inequivocabilmente identificati i Mancuso. Gli avrebbero proposto di «uccidere un vecchietto in campagna per 5mila euro». Lui, però, si sarebbe rifiutato senza nemmeno chiedere quale fosse l’identità della potenziale vittima.

    Walter ne avrebbe poi parlato con Giuseppe Mancuso, fratello di Emanuele che avrebbe aiutato in un periodo di latitanza. E quello gli avrebbe risposto che era stato un cognato degli imputati a dare l’ordine dell’omicidio senza farlo sapere ai parenti. Walter è però inciampato nel controesame. Ha detto rispondendo a un avvocato di non aver capito a quale cognato Mancuso si riferisse, ammettendo di essersi «un po’ confuso».

    Gli incroci pericolosi e la storia che cambia

    Così si sono in qualche modo incrociate le storie di questi due rampolli che pur essendo giovani ne hanno viste tante. Uno viene da un contesto rurale e, oltre ad aver seppellito il suo stesso padre, si sarebbe trovato in prima persona nel mezzo di una faida che ha visto morire ammazzati anche ragazzi che non c’entravano nulla. Come Filippo Ceravolo, che aveva appena due anni più di lui ed è stato raggiunto dai pallettoni del suo clan, appena 19enne, solo perché aveva chiesto un passaggio al vero obiettivo dei killer, un ragazzo legato agli Emanuele che è rimasto illeso.

    L’altro è un predestinato, un principino della ‘ndrangheta «di serie A». Non ha paura a bollare addirittura come «carabinieri senza divisa» alcuni dei suoi «zii grandi» accusandoli di aver coltivato per anni amicizie e collusioni tra insospettabili colletti bianchi.
    In attesa di capire se e quanto le loro dichiarazioni possano superare il vaglio della credibilità in sede giudiziaria è un fatto, inedito, che i rampolli di due casati di ‘ndrangheta rompano in questo modo il legame di omertà con i loro consanguinei e provino a riscrivere la storia. La loro e quella della loro terra.

  • Epidemia permanente: i buchi neri della sanità e il vuoto della politica

    Epidemia permanente: i buchi neri della sanità e il vuoto della politica

    Ci sono un centralinista, un elettricista e un giardiniere. Non caricature da barzelletta, ma dipendenti della sanità pubblica almeno fin dagli anni ’70, quando a gestire gli ospedali erano i Comitati di gestione delle Unità sanitarie locali (Usl) con assunzioni scientificamente lottizzate tra i partiti della Prima Repubblica. Per capire in che condizioni sia la sanità calabrese oggi bisogna partire proprio da qui. L’emergenza non è arrivata con il Covid. Ha radici nell’epoca in cui la sanità pubblica era la vera, grande industria del Mezzogiorno, l’unica che per decenni ha permesso a tante famiglie di contrarre il mutuo e mandare i figli all’università. Poi l’assetto di potere ha cambiato forma, così come sono mutati, almeno all’apparenza, i partiti che ne costituiscono l’ossatura.

    Nel nuovo millennio per fare nuove clientele si esternalizzano i servizi. Le Usl diventano Aziende (prima Asl e poi Asp) e il lavoro che dovrebbero fare il centralinista, l’elettricista e il giardiniere va in appalto a coop private che assumono le persone indicate dal politico di turno. Senza dimenticare i legami, cementati con milioni di euro pubblici, tra politica e sanità privata. La bolla alla fine scoppia perché è un sistema che proprio non si sostiene. Tutto a un tratto ci si accorge che si devono far quadrare i conti e arrivano i tagli orizzontali. Si chiudono anche ospedali di zone molto disagiate che erano l’unico approdo sanitario per tanta gente che sopravvive nella periferia della periferia del Paese.

    Oltre dieci anni di commissari, ma la sanità peggiora

    L’involuzione della sanità calabrese si è dunque tramutata in un commissariamento ultradecennale accentuato da quel “decreto Calabria” che, nelle ultime ore, la Corte costituzionale ha bocciato solo in parte. Le reazioni e le interpretazioni circa la pronuncia della Consulta si sprecano, ma è sempre bene ricordare come e quando questa vicenda abbia avuto origine.

    La “tutela” governativa sulla Salute dei calabresi inizia con il governatore-commissario Peppe Scopelliti – anche se i tagli erano arrivati già con Agazio Loiero – e prosegue con i suoi successori: l’ingegnere toscano Massimo Scura; il generale dei carabinieri in pensione Saverio Cotticelli; l’ex superpoliziotto Guido Longo. Quest’ultimo è attualmente in carica, gli altri si sono avvicendati in un decennio in cui le cose non sono affatto migliorate.

    Spulciando tra le carte del Ministero della Salute ci si accorge infatti che i Livelli essenziali di assistenza (Lea) nel 2011 si attestavano a un «punteggio pari a 128», collocando la Calabria «in una situazione “critica”». Dopo 10 anni, stando ai verbali del Tavolo interministeriale (detto “Adduce”) che monitora le Regioni in Piano di rientro, la situazione è addirittura peggiore di prima. Nella riunione romana del 22 dicembre 2020 si registra, per il 2019, un «punteggio provvisorio pari a 119, in rilevante peggioramento rispetto alla precedente annualità e collocando la regione nella soglia di non adempienza».

    Nelle ultime ore dalla nuova riunione del Tavolo Adduce è emerso che il disavanzo al 2020 si dovrebbe attestare sui 90 milioni. È una voragine finanziaria da cui non sembrano in gradi di farci risalire né i commissari-poliziotti con i superpoteri dei decreti Calabria né tantomeno gli stessi politici che in questa cavità ci hanno precipitato e che ora scalpitano per riprendersi “tutt’ chell’ ch’è o’ nuost”.

    Le (poche) proposte dei candidati

    La candidata del centrosinistra Amalia Bruni è del mestiere, le forze politiche che la sostengono, a partire da Pd e M5S, hanno fatto subito sapere che lei «conosce perfettamente i limiti del sistema sanitario regionale». E che questo sarà un «tema centrale dell’azione politica e amministrativa a cui intendiamo guardare».

    L’aspirante presidente del centrodestra Roberto Occhiuto ha annunciato di volere chiedere al governo di «mettere a disposizione della Regione la Ragioneria generale dello Stato insieme ai reparti operativi della Guardia di Finanza per ricostruire i conti della sanità».

    Luigi de Magistris si è schierato «per la sanità pubblica, per una sanità che funzioni e dia garanzia a tutte e tutti» attaccando non tanto Bruni quanto chi la sostiene che, a suo dire, «ha contribuito in questi anni, come il Pd a livello regionale, allo smantellamento della sanità pubblica». Insomma, come proposta politica ancora c’è davvero poco di sostanziale sul piatto della campagna elettorale.

    I ritardi della sanità

    In attesa che si faccia chiarezza (documenti alla mano) sull’ultimissima riunione del Tavolo interministeriale, vale la pena ricordare che a Roma hanno già messo nero su bianco nei mesi scorsi «la gravità concernente la mancata adozione dei bilanci 2013-2017 della Asp di Reggio Calabria», aprendo un capitolo sui buchi milionari finiti al centro di indagini giudiziarie che di recente hanno investito anche l’Asp di Cosenza. E poi le «fortissime criticità sui tempi di pagamento da parte degli enti del Servizio sanitario della Regione Calabria: sulla base delle informazioni fornite dalle aziende, Tavolo e Comitato rilevano che tutte le aziende del Servizio sanitario calabrese non rispettano la direttiva europea sui tempi di pagamento, con ritardi fino a oltre 800 giorni».

    Persistono, secondo i tecnici dei Ministeri, «gravi criticità nell’adesione ai programmi di screening oncologici» e anche le assunzioni restano ferme, tanto da spingere il governo a sottolineare «l’urgenza di dare piena attuazione ai decreti Covid». Al di fuori delle carte ministeriali, invece, va ricordato che se da un lato gli operatori sanitari sono stati costretti a combattere a mani nude la guerra al Covid, con gli infermieri che hanno denunciato turni massacranti e straordinari non pagati, dall’altro sono stati annullati o posticipati migliaia di ricoveri e di interventi. Per non parlare delle prestazioni ambulatoriali, letteralmente crollate.

    I vuoti sul territorio

    In un quadro simile sono in forte ritardo sia la conversione degli ospedali dismessi in Case della salute che la piena operatività delle Usca (Unità speciali di continuità assistenziale). Sono strumenti che, con la pandemia in atto, avrebbero potuto rivelarsi essenziali per evitare le morti, le code delle ambulanze, il caos vaccini, i dati aggiornati a mano perché nessuno ha ancora effettuato la digitalizzazione del sistema.

    «Siamo una regione “ospedalocentrica” ma senza avere gli ospedali», spiega Rubens Curia, ex manager della sanità pubblica e portavoce di “Comunità competente”. Si tratta di una rete di enti di terzo settore, associazioni, persone, sindacati, che da due anni porta avanti una «battaglia culturale» invocando gli interventi previsti dalla legge per la medicina territoriale. «Quando abbiamo rilanciato le nostre proposte, a novembre scorso, c’erano solo 17 Usca attive in tutta la regione, nei mesi successivi ne hanno attivata qualcun’altra ma a ranghi ridotti e con giovani medici che fanno un lavoro massacrante».

    Secondo la legge dovrebbe essercene una ogni 50mila abitanti, ma quella che c’è a Cosenza in via degli Stadi, per esempio, ne ha serviti oltre 160mila. Gli ospedali da campo non hanno impedito che si ingolfassero di nuovo i reparti. E non si sa che fine abbiano fatto i Covid Hotel – il bando della Protezione civile prevedeva per le strutture individuate il pagamento di 65 euro per le camere occupate e 15 euro per quelle rimaste inutilizzate. Ci sono stati anche tanti anziani che, per seguire le paradossali indicazioni della piattaforma di prenotazione, hanno dovuto fare fino a 200 km per vaccinarsi. Qualcuno, addirittura, è dovuto arrivare fino in Sicilia per la sua dose.

    Intanto alla Cittadella si avvicendano ciclicamente gli stessi burocrati che sopravvivono ai commissari inviati dal governo per gestire questa epidemia permanente. Inamovibili più del centralinista, del giardiniere e dell’elettricista.

  • Il Gigliotti magico: la carriera lampo del prof in quota Morra

    Il Gigliotti magico: la carriera lampo del prof in quota Morra

    «Gigliotti? Si è trovato al posto giusto al momento giusto». Un professore che sa bene come vanno le cose nell’Università Magna Graecia di Catanzaro commenta così, chiedendo di restare anonimo, la folgorante carriera di Fulvio Gigliotti, ordinario di Diritto privato al Dipartimento di Giurisprudenza, economia e sociologia dell’ateneo del capoluogo e, dal luglio del 2018, componente del Csm.

    Nel massimo organo della magistratura Gigliotti ci arriva come membro “laico”, ovvero eletto dal Parlamento, in quota M5S. Ai grillini spettano all’epoca – sono i “bei” tempi in cui anche per questi incarichi bisogna passare dal voto sulla piattaforma Rousseau – tre caselle nel Csm. E dopo Alberto Maria Benedetti e Filippo Donati, il prof catanzarese supera di 76 clic il quarto candidato, Vito Mormando. Dopo qualche mese (ottobre 2018) c’è per lui un ulteriore scatto. Il plenum lo elegge quale componente laico della Sezione disciplinare, organismo permanente dello stesso organo costituzionale che si occupa dei procedimenti contro i magistrati ordinari. Giusto per capire quanto sia rilevante e delicata la funzione: Gigliotti presiede il collegio giudicante che espelle Luca Palamara dalla magistratura.

    Lupacchini, Palamara e i bordini bianchi

    Qualche passaggio ironico sulla sua scalata al Csm lo dedica di recente, intervistato da Nicola Porro a “Quarta Repubblica”, l’ex procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini. Il quale a sua volta, nella seduta della commissione disciplinare – che poi ne avrebbe confermato il trasferimento a Torino per gli scontri con il procuratore capo Nicola Gratteri – viene interrotto spesso proprio da Gigliotti che lo invita a rimanere sull’argomento.

    L’ex magistrato Luca Palamara

    Ma l’ex segretario dell’Anm ne parla con toni non proprio lusinghieri già nel libro-intervista Il Sistema con Alessandro Sallusti. Palamara dice di essere stato avvicinato «direttamente e indirettamente» da Gigliotti – «uno sconosciuto professore calabrese uscito per magia, nella migliore delle ipotesi, dalle primarie che i Cinque Stelle avevano indetto su Internet per scegliere i candidati al Csm» – il quale sarebbe stato tra quanti avrebbero tentato di dividerlo da Cosimo Ferri, parlamentare renziano considerato fautore del “Patto del Nazareno” che, in quella fase di guerra correntizia tra toghe, avrebbe condiviso con Luca Lotti e lo stesso Palamara l’obiettivo di «sbarrare la strada all’ascesa dei Cinque Stelle nel governo della magistratura».

    Un’altra citazione Palamara gliela dedica raccontando un retroscena frivolo sull’elezione (settembre 2018) del nuovo vicepresidente del Csm: «Tra i candidati – meglio sarebbe dire autocandidati – c’è Fulvio Gigliotti, membro laico eletto dai Cinque Stelle. Sa qual è la battuta che circolava nelle sacre stanze del Csm che si erano indignate per Mesiano (il giudice dai calzini “strani” che condannò Fininvest, ndr)? Questa: “Uno che si presenta con scarpe blu con i bordini bianchi per definizione non può fare il vicepresidente”». Per la cronaca: a imporsi è David Ermini, deputato – «renzianissimo», tuonano all’epoca i 5 stelle – e avvocato penalista.

    Il curriculum di Gigliotti

    Per i curiosi interessati al curriculum vitae del professor Gigliotti viene in soccorso una rivista specializzata, “Giustizia Civile”, diretta da Giuseppe Conte – “quel” Giuseppe Conte – e Fabrizio Di Marzio. Nato a Catanzaro – si legge nella versione online del giornale – il 13 giugno 1966, Gigliotti si laurea a 24 anni con 110 e lode e dignità di pubblicazione della tesi. Dal 1994 è abilitato all’esercizio della professione forense mentre, nel 1999, entra nei ruoli universitari come ricercatore.

    Qui c’è il primo salto con tempistica definita «non comune» da chi conosce le dinamiche universitarie. Da ricercatore in Diritto della navigazione e dei trasporti diventa, nel giro di soli 2 anni, professore associato di Istituzioni di diritto privato (2001). Quindi l’altro passaggio «sorprendente». Nel 2005, a soli 6 anni da quando è entrato nei ruoli dell’ateneo, è professore ordinario di Diritto privato. Quindi entra nel Cda dell’Università e della Fondazione universitaria Umg. Insegna in (e dirige) diversi Master. Fa parte di commissioni di concorso per docenti e ricercatori universitari e in quelle per gli esami da avvocato e commercialista.

    Negli anni è anche componente del Consiglio giudiziario istituito presso la Corte d’Appello di Catanzaro, membro del Comitato di consulenza giuridico-amministrativa del Commissario delegato per l’emergenza ambientale in Calabria, consulente della Regione per la formazione del Quadro territoriale regionale e consulente della Field, fondazione regionale in house finita in una bufera giudiziaria per presunte «spese pazze» nell’era (Scopelliti) in cui a presiederla era Domenico Barile. È autore di molti saggi e pubblicazioni ma è ricordato anche per aver iniziato (dal 1993 e fino al 1999) l’attività di avvocato nell’Ufficio legale dell’Enel.

    Il mentore e la guerra in facoltà

    «Ha indubbiamente scritto molto – commenta ancora la nostra anonima fonte – e non metto in dubbio la qualità dei suoi lavori. Ma è altrettanto indiscutibile che nella sua ascesa abbia giocato un ruolo importante l’essere stato allievo di Ciccarello». Sebastiano Ciccarello è il (compianto, è scomparso nel 2017) preside della Facoltà di Giurisprudenza proprio negli anni in cui Gigliotti passa velocemente da ricercatore a professore associato.

    L’Università di Catanzaro

    A Catanzaro ha insegnato per più di un ventennio. Ha ricoperto l’incarico di direttore di Dipartimento (dal 1989 al 1995) e, appunto, di preside dal 1995 al 2001, anno in cui viene eletto alla guida della facoltà di legge a Reggio, dove è poi confermato anche per il mandato successivo. Ciccarello è espressione di quella “fazione” accademica che nei corridoi dell’ateneo del capoluogo identificano come «messinese», da sempre in contrasto con quella «napoletana» che invece governa il Dipartimento da qualche anno a questa parte. Si tratta di “scuole” potenti, i cui allievi hanno spesso fatto carriere veloci.

    Lo sponsor politico

    In politica invece su chi sia lo sponsor di Gigliotti non ci sono molti dubbi. Se lo si chiede off the record a diversi parlamentari calabresi del M5S rispondono tutti in coro che per farlo arrivare al Csm è stato decisivo il ruolo di Nicola Morra. Come presidente della Commissione Antimafia, si racconta nel sottobosco grillino locale, Morra ha sempre esercitato una sorta di ultima parola sulle nomine che contano. Ed è sempre riuscito anche ad avere una certa influenza su alcuni gruppi di attivisti che in determinati frangenti possono risultare decisivi nelle votazioni online.

    Pare che alcuni deputati pentastellati abbiano provato ad opporsi alla nomina al Csm di Gigliotti. In che modo? Utilizzando le voci, rimaste solo tali, su una sua presunta e mai confermata appartenenza alla massoneria. Sono i mesi in cui nel M5S scoppia il caso del candidato massone Bruno Azzerboni e qualcuno prova a fare leva su quelle dicerie per sbarrare la strada al prof catanzarese. Non c’è però nessuna conferma su quanto sussurrano all’orecchio di Alfonso Bonafede le malelingue istituzionali. Così l’allora ministro si adegua alle indicazioni di Rousseau. Quello scarto di 76 clic entra nella storia della magistratura italiana che, forse, nelle sue pieghe più nascoste è ancora tutta da scrivere.

  • Guarascio, tasche piene e pallone sgonfiato

    Guarascio, tasche piene e pallone sgonfiato

    Per i suoi concittadini – è nato a Parenti ma vive a Lamezia Terme – Eugenio Guarascio è un po’ un oggetto misterioso. Lo conoscono di più, loro malgrado, i cosentini. Non tanto per l’azienda che si occupa della spazzatura in città, quanto per essere il patron della loro squadra di calcio. Che davano per retrocessa in serie C e ora potrebbe trovarsi miracolosamente ad affrontare la quarta stagione consecutiva nel campionato cadetto. Lo scorso 15 luglio il Consiglio federale ha infatti deliberato la mancata iscrizione del Chievo Verona aprendo, per adesso ufficiosamente, le porte alla riammissione in B dei lupi. La società Cosenza Calcio ha dunque rotto un lungo silenzio e ha fatto sapere di essere «in procinto di depositare tutta la documentazione necessaria per la riammissione al Campionato di Serie B 2021/2022 comprensiva della fideiussione di 800mila euro».

    La fortuna e il Chievo tornano in soccorso

    Uno scenario inaspettato che ha dato la stura all’ironia social sulla fortuna di Guarascio. Per la società si tratta del «risultato di una gestione societaria decennale improntata sui principi di legalità, trasparenza e sul rispetto delle norme e dell’equilibrio economico». Ma nessuno può davvero sapere se in cuor suo il patron sia contento. Non è mai sembrato uno sfegatato ultras rossoblu, d’altra parte. Tant’è che c’è chi pensa che sotto sotto possa essere quasi contrariato per l’impegno economico che la B imporrebbe.

    guarascio-portafortuna
    L’ennesimo colpo di fortuna di Eugenio Guarascio ha scatenato l’ironia del web: qui il suo santino portafortuna circolato in rete

    Certo è che il rapporto con la piazza sembra compromesso irrimediabilmente, a prescindere dalla categoria. Salvata, se il verdetto del Consiglio federale trovasse conferma, di nuovo solo grazie ai veronesi. Già nella penultima stagione, infatti, era stato un goal del clivense (ma cosentino doc) Garritano ad assicurare ai lupi una miracolosa permanenza nella serie cadetta.

    C’è poi chi instilla il dubbio, sulla scia di quanto dichiarato pubblicamente da un assessore comunale già prima dell’ipotesi ripescaggio, che questo ulteriore impegno per la squadra bruzia possa magari tradursi in un potenziale vantaggio da ottenere in veste di imprenditore dei rifiuti. Le solite malelingue che dicono tutto e il contrario di tutto.

    Gli affari a Gioia Tauro e nella Locride

    In provincia di Reggio Calabria, specie al porto di Gioia Tauro e nella Locride, la sua creatura imprenditoriale Ecologia Oggi – nata nel lontano 1987, divenuta poi Srl e dal 2008 Spa, oggi parte della holding 4EL Group – è nota per avere una buona fetta di appalti sui rifiuti. Nello scalo portuale della Piana gestisce un centro che tratta anche gli scarti che arrivano dalle navi e i rifiuti sanitari infetti provenienti dal circuito internazionale di natura organica.

    Sulla sponda jonica reggina invece la sua azienda rappresenta il partner privato della “Locride Ambiente S.p.a.”, una società mista che si occupa della raccolta differenziata, del trasporto e del conferimento. I soci pubblici sono i Comuni di Bagnara, Bovalino, Condofuri, Grotteria, Melito di Porto Salvo, Monasterace, Palmi, San Luca, San Pietro di Caridà e Siderno. In questa zona i disservizi sui rifiuti non mancano, soprattutto nei centri più popolosi come quello sidernese, ma la società mista che se ne occupa fa notare che i problemi – come in verità in molte altre aree della Calabria – sono dovuti alla saturazione di impianti e discariche.

    Guarascio e Cosenza, 10 anni di appalti milionari

    Più complesso – e per certi versi misterioso – è il rapporto che lega da ormai un decennio il Comune di Cosenza e l’azienda di Guarascio è presidente del Cda e socio di maggioranza. Il primo appalto viene aggiudicato il 20 maggio del 2011 e, tra le due ditte ammesse, lo vince “Ecologia Oggi” per un importo di poco superiore ai 40 milioni di euro. Appena dieci giorni dopo Mario Occhiuto sarebbe stato eletto sindaco al ballottaggio per la prima volta.

    Il secondo appalto con “Ecologia Oggi” – tra la scadenza naturale del primo, le successive proroghe e soprattutto i primi alti e bassi nei rapporti con l’amministrazione comunale – ottiene il via libera da Palazzo dei Bruzi nell’agosto del 2017. È più oneroso (circa 10 milioni di euro all’anno per 5 anni), viene aggiudicato con un ribasso dello 0,79% e, secondo qualcuno, prevederebbe meno servizi del primo.

    Al di là dei tecnicismi, sull’efficienza del servizio i cittadini possono giudicare con i loro occhi. Le condizioni di lavoro degli operatori, invece, sono materia di rapporti spesso burrascosi con i sindacati. Tra i lavoratori, in verità, Guarascio non sembra essere malvisto. Discorso diverso per quanto riguarda la dg Rita Scalise – il suo braccio destro sui rifiuti cosentini – che spesso si è scontrata con i rappresentanti delle tute gialle.

    Guerra e pace

    Il rapporto altalenante tra Palazzo dei bruzi e la società resta comunque il vero nodo della questione. Se ne occupa una sorta di triumvirato composto dal sindaco Occhiuto e due assessori: uno più compassato (Carmine Vizza), l’altro più battagliero (Francesco De Cicco). I problemi affiorano a inizio del 2018. A Palazzo dei Bruzi arriva un decreto ingiuntivo di “Ecologia Oggi” per il pagamento di 9,2 milioni di euro per «non meglio specificati servizi di igiene ambientale». Il Comune impugna il decreto. Ma, soprattutto, chiede alla società di Guarascio 4,4 milioni di euro «a titolo di sanzioni amministrative comminate per disservizi contestati nel corso di un rapporto di fatto». Poi, in un caldo consiglio comunale di giugno 2019, alla presenza dei lavoratori in stato di agitazione, per la prima volta è lo stesso Occhiuto ad ammettere apertamente che «la qualità del servizio è peggiorata».

    Oggi il centrodestra – e in particolare Salvini – ha concesso al fratello Roberto ciò che ha negato a lui. Ma all’epoca Mario è attivissimo nella prospettiva di diventare «il sindaco della Calabria». Dunque si capisce che in ballo c’è una fetta importante di consenso sociale in cui si incastra anche il destino calcistico del Cosenza. Comunque: Guarascio vuole oltre 9 milioni dal Comune, che risponde che invece è lui che deve pagarne quasi 4,5. Il contenzioso finisce con una sentenza del Tribunale civile di luglio 2020. Nessuna istruttoria e, dopo vari rinvii per tentare una definizione bonaria, le parti si mettono d’accordo. Decreto ingiuntivo ritirato e silenzio sulle sanzioni.

    Il Cosenza come “contentino”?

    Ma è recente una coda politica che forse è un po’ passata sotto silenzio. L’autore è l’assessore De Cicco che adesso, con Occhiuto in scadenza del secondo mandato, vuole candidarsi a sindaco. In una dichiarazione pubblica, commentando la parabola calcistica del Cosenza, dice: «Al presidente Guarascio interessava l’appalto della raccolta differenziata a Cosenza e l’ha ottenuto per la quinta volta. Assumere il comando della squadra è il classico “contentino”». Affermazione grave: sobbarcarsi la squadra, secondo un assessore in carica, sarebbe stato una sorta di piccolo sacrificio in cambio dell’appalto per i rifiuti. Non si ha notizia, al momento, di smentite o repliche.

    Il mantra di Guarascio: la «legalità»

    Nel curriculum consultabile sul suo sito personale, dopo la stringata voce “Istruzione e formazione” («completa gli studi tecnici»), c’è quella identificata come “capacità e attitudini”. E lì si legge: «Sostenitore della trasparenza e legalità, principi cardine del percorso personale ed imprenditoriale». La parola «legalità» compare più volte, quasi come un mantra, nella descrizione del profilo dell’imprenditore. Non c’è motivo di dubitare che ne sia un indefesso sostenitore, ma un episodio recente e uno più datato vanno citati per completezza d’informazione.

    Il fatto più vecchio riguarda notizie di stampa su alcune dichiarazioni del collaboratore di giustizia lametino Gennaro Pulice. Ritenuto in generale attendibile anche dalla Cassazione con la sentenza “Andromeda”, Pulice avrebbe riferito agli inquirenti di una presunta e mai dimostrata protezione dell’imprenditore da parte del clan Pesce di Rosarno. Va però chiarito che si tratta di una dichiarazione di un killer pentito che non ha avuto, per quel che se ne sa, nessuna conferma in sede giudiziaria finora.

    Più recente è invece la richiesta di rinvio a giudizio per il caso Santapaola. Guarascio è imputato per maltrattamenti di cui, secondo la Procura di Cosenza, sarebbe stato vittima Pietro Santapaola, calciatore 17enne che è stato messo alla porta dalla società che lo aveva sotto contratto. Pur avendo un cognome e parentele ingombranti, il ragazzo non avrebbe nulla a che fare con la criminalità organizzata siciliana.

    In missione per conto di Doris

    A Lamezia, dove è anche editore di un quotidiano online molto seguito in città e nell’hinterland, Guarascio è più in vista come politico che come imprenditore. Sul territorio la sua azienda ha un impianto di termodistruzione e una piattaforma di stoccaggio. Le sue attività nel settore dei rifiuti, però, hanno avuto un boom altrove. Non sono note sue iniziative rilevanti in campo sportivo e in molti, infatti, gli contestano di non essersi interessato alla Vigor nei momenti in cui la società ha attraversato forti difficoltà. A novembre del 2019 si è candidato a sindaco, però, a capo del movimento “Nuova era”.

    Nella corsa alle Comunali ha avuto anche il sostegno ufficiale del Pd, ma non è bastato. Alla fine, è arrivato terzo dopo il sindaco (al momento sospeso) Paolo Mascaro e il candidato del centrodestra “ufficiale” Ruggero Pegna. In consiglio comunale non è certo un baluardo dell’opposizione dura e pura. E anche nei lavori delle tre commissioni di cui fa parte è spesso assente. Tutti, a mezza bocca, concordano sul fatto che il suo principale sponsor politico sia Doris Lo Moro, già magistrato, senatrice e assessore alla Sanità dell’era Loiero. Ultima curiosità: la sede legale di “Ecologia Oggi” e lo stesso domicilio di Guarascio si trovano in una via in cui sorgono immobili che, dicono a Lamezia, sarebbero stati almeno in passato di proprietà del marito della senatrice.

     

  • Morire di carcere è crudeltà di Stato

    Morire di carcere è crudeltà di Stato

    Battaglie di civiltà in carcere. Così le chiamano quanti, a parole, si preoccupano della sorte degli “ultimi”, ma poi si voltano dall’altra parte quando qualcuno, davvero, prova a sedersi dal lato sbagliato, nel posto più buio della società, per dare voce e diritti a chi non ne ha. Sandra Berardi, attivista storica della sinistra cosentina, affronta questo conflitto da almeno 15 anni. Cioè da quando con la sua associazione, ha cominciato a occuparsi delle condizioni di vita dei detenuti.

    Ha scoperto un universo di piccoli e grandi abusi, una costellazione di persone e storie che, con grande fatica, cerca di far emergere dal mondo di sotto. E che testimoniano come la Costituzione venga spesso usata come vessillo retorico per essere poi calpestata proprio da chi rappresenta lo Stato nei suoi anfratti più popolati ma meno visibili.

    Com’è si è incastrata la tua storia personale con la nascita di Yairaiha Onlus?

    «La storia di Yairaiha viene da lontano ed è trasversale a molte delle istanze sociali che maturano in contesti di marginalità. Addirittura la lotta per la casa parte da una lotta vincente di Yairaiha. Tutte le lotte sono “totalizzanti”, almeno per quanti ci credono e vi si dedicano con impegno. Sicuramente mantenere rapporti epistolari con centinaia di persone in carcere non è semplice. Spesso ti porta ad interiorizzare le problematiche che ti vengono sottoposte, ma l’aspetto più frustrante è il muro di gomma che ti trovi davanti il più delle volte».

     

    Sandra Berardi, a destra con Haidi Giuliani, ex parlamentare e mamma di Carlo ucciso al G8 di Genova

     

    Ricordi la prima volta che hai incontrato un detenuto in un carcere?

    «È stato nel 1997. Era il carcere minorile di Catanzaro, dove poi ho fatto la volontaria per 8 anni. Nel 2005 ho avuto modo di entrare nelle carceri per adulti: un mondo a parte in tutti i sensi. Nel minorile il “sovraffollamento” era di attività e di volontari. L’abbandono, il degrado, il tempo vuoto della pena, l’assenza di relazioni e finanche le mozzarelle scadute che ho visto negli adulti ha fatto sì che nascesse un’associazione che lottasse per i diritti dei detenuti».

    Decine di vostre denunce non sono bastate. C’è voluto un video “virale” perché tutta Italia si accorgesse di cosa fosse successo a Santa Maria Capua Vetere. E probabilmente non solo lì. Quanto è difficile tentare di rompere ogni giorno quel muro di gomma?

    «Per noi il video è stato solo un’ulteriore conferma di quanto già sapevamo e denunciamo da 15 mesi con il sostegno di pochi giornali (Il Dubbio e Il Riformista). Immagini analoghe sono andate in onda mesi fa, riferite ad un episodio del 2018 nel carcere di San Gimignano (inchiesta aperta a seguito di nostra denuncia pubblica). Però non suscitarono l’indignazione che invece è scaturita, finalmente, da queste immagini».

    Come si lotta contro la retorica della colpa?

    «Quando si parla di carcere e diritti violati la maggior parte delle persone vede i detenuti con molta diffidenza, presuppone che “se stanno in carcere qualcosa devono aver fatto”. I sentimenti che accompagnano molti sono infarciti di pregiudizi e da una buona dose di “retorica della colpa” secondo la quale chi delinque lo fa perché è nato delinquente e vuole delinquere. Periodicamente organizziamo incontri tematici in collaborazione con università, camere penali, circoli culturali, ultimamente anche online. Riscontriamo un grande interesse anche tra la gente “comune” e non solo tra gli addetti ai lavori, tra gli studenti o tra i familiari».

    I media orientano l’opinione pubblica verso una deriva giustizialista?

    «Il problema principale sta nella cattiva informazione che contribuisce a formare l’opinione pubblica in chiave giustizialista e nelle infelici uscite di certi politici che pur di cavalcare i sentimenti che toccano la “pancia del paese” difendono a spada tratta i torturatori. La maggior parte dei media tratta l’argomento carcere in maniera tale che la società non vada oltre l’equazione: “Ha sbagliato? Si buttino le chiavi!”. La politica ha delegato la magistratura a gestire e regolare i meccanismi socio-economici determinando un approccio penalistico alla risoluzione di problemi che necessiterebbero di risposte altre».

    Ora in molti vi cercano, ma le responsabilità dei media nella spettacolarizzazione della cronaca sono innegabili. Quante colpe hanno anche la sinistra italiana, magari quella “radicale”, e il mondo “impegnato” della cultura, per aver snobbato la questione delle carceri?

    «Le forze politiche di “sinistra” hanno avuto la capacità di disperdere un patrimonio di temi e lotte che gli erano proprie per inseguire le forze politiche reazionarie sul piano del giustizialismo. L’ultimo esempio ci è dato dall’affossamento del progetto di riforma Orlando per paura di perdere consenso elettorale. Dopodiché abbiamo assistito alla cancellazione di alcuni temi. Basti pensare al vergognoso silenzio da parte di tutto l’arco parlamentare sui 13 morti e sulle mattanze nelle carceri della scorsa primavera. Non più di tre parlamentari hanno presentato interrogazioni su sollecitazione delle associazioni».

    Solo la sinistra radicale si batte per un carcere più umano?

    «La cosiddetta “sinistra radicale” ha ben presente la questione carceraria, ma sono lontani i tempi in cui entravamo quotidianamente nelle carceri, quando avevamo parlamentari “nostri” come Haidi Giuliani o Francesco Caruso. Non a caso l’ultima parlamentare con la quale abbiamo collaborato è stata Eleonora Forenza (Prc), che purtroppo non è al governo. I parlamentari attuali hanno rinunciato completamente al diritto/dovere di ispezionare le carceri. Quanto al mondo della cultura e dei movimenti, quelli che continuano a mettere genuinamente al centro delle proprie azioni la questione carceraria sono pochi. Molti di più, invece, sono quelli che speculano sull’esistenza delle carceri e dei detenuti spesso destinatari di progetti che soddisfano l’ego dei proponenti più che i bisogni dei destinatari».

    Qual è la storia che più ti ha segnato in tutti questi anni?

    «Purtroppo sono tante, e non saprei davvero da quale iniziare. Tante si sono concluse in modo tragico. La storia di Carmelo Terranova è emblematica: morto a settembre dello scorso anno nel carcere di Parma dove era stato riportato a seguito del decreto Bonafede, varato in tutta fretta per placare le ire di Giletti e del falso scoop sulle “scarcerazioni dei boss”. Ma lui non era uscito per effetto della circolare del Dap. Aspettava già dall’inverno precedente l’esito dell’istanza di sospensione della pena per motivi di salute».

    Tanti hanno i giorni contati in carcere per motivi di salute…

    Carmelo lo avevamo incontrato per ben due volte, a distanza di tre anni, nel carcere di Bari, assieme a Forenza; e prima ancora nel carcere di Palmi e di Siano. La sua vita, da tempo, dipendeva da una macchina per l’ossigeno giorno e notte. Negli anni passati gli erano già stati accordati i domiciliari per motivi di salute; domiciliari che gli furono revocati per le visite dei parenti, peraltro nemmeno pregiudicati. Nel 2019 segnalavamo per iscritto che aveva tre bypass ed era sottoposto ad ossigenazione continua. Ci siamo soffermati a lungo nella sua cella prima e nel corridoio poi, ci mostrò orgoglioso tutta la rassegna stampa sull’attesa delle sentenze di Strasburgo e delle Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo. Le aspettava fiducioso, come tanti. Riusciva ad avere i nostri articoli tramite una parente perché le sue lettere indirizzate all’Associazione Yairaiha, e viceversa, si smarrivano “misteriosamente”. Il comandante che ci accompagnava si sorprese ma non poté smentire il controllo incrociato».

    E poi come è andata a finire la storia di Carmelo?

    Le speranze di Carmelo avevano il fiato corto. Un suo compagno ci prese da parte dicendoci che anche se non lo dava a vedere, non gli rimaneva molto da vivere. I suoi polmoni erano ormai esangui e ridotti notevolmente nel volume. Carmelo sapeva che non ce l’avrebbe fatta a superare in vita l’ergastolo ostativo. Ci volle salutare con un forte abbraccio e un bacio sulle guance, come si fa con un amico che già si sa di non poter rivedere mai più, e la promessa che ci sarebbe venuto a trovare appena libero. Ma non è andata così».

    Come spiegheresti al papà di un ragazzino innocente ucciso “per sbaglio” da un killer di ‘ndrangheta, e che invoca le pene più dure per gli assassini del figlio, la battaglia per l’abolizione dell’ergastolo ostativo?

    «Non sono indifferente davanti a un simile dolore, ma la giustizia di Stato si propone di superare la vendetta. E se la condanna diventa più crudele del reato che si vuole punire non è più giustizia, ma vendetta. Il dolore delle vittime sembra essere diventato un elemento che concorre a stabilire la pena. Sono d’accordo, invece, con Fiammetta Borsellino quando afferma che il dolore dei familiari delle vittime è soggettivo e che per prevenire i fenomeni criminali bisogna intervenire a monte prevenendo la formazione di culture criminali che oggi, nonostante la propaganda securitaria e antimafia, rimane molto una dichiarazione di intenti senza che vi sia applicazione concreta. Poi c’è un’altra cosa che mi sono sempre chiesta, non trovando risposta. Perché la morte provocata in contesto criminale pesa di più di una morte causata da un altro fenomeno (guida in stato di ubriachezza, omicidio domestico, malasanità, eccesso colposo di legittima difesa, ecc.)? Un omicidio è un omicidio».

    Sostenere che si debba abolire il carcere come istituzione a molti sembra un’utopia. Come ci si dovrebbe comportare nei confronti di chi commette atti terribili? Qual è la strada che voi indicate?

    «Partiamo dalla nostra Costituzione. Essa non prevede il carcere come pena a fronte dei reati commessi, ma percorsi di accompagnamento e di ricostruzione dei legami sociali infranti con il reato. Poi ci sarebbe da rivedere il codice penale, ristabilire cosa è reato. In Italia abbiamo oltre 5000 fattispecie penali, ma non tutti possono essere considerati reato. Molti sono reati di sopravvivenza puniti penalmente, ad esempio i parcheggiatori abusivi.

    Quanto incidono le politiche proibizioniste sul sovraffollamento delle carceri?

    «Penso all’ipocrisia di fondo delle politiche proibizioniste rispetto all’uso e consumo delle droghe che alimenta condotte violente e criminali per il controllo del mercato. Di contro, laddove l’uso e il commercio delle droghe è stato legalizzato i benefici sono stati, e continuano ad essere, molteplici. Si va dalla riduzione del danno in senso farmacologico alla riduzione della violenza e degli scontri tra bande per il controllo del mercato, fino alla chiusura delle carceri per mancanza di “criminali”».

    Il carcere ha fallito il suo obiettivo?

    «Ritengo che la prevenzione sia alla base di una società sana e libera dal crimine. Non abbiamo formule, ma sappiamo con certezza che il carcere ha fallito il suo obiettivo. E non è con l’introduzione di nuovi reati o con l’inasprimento delle pene che si ottengono risultati positivi. Di contro, ci sono tanti esempi, come le comunità educanti o la giustizia riparativa, che aiutano le persone a comprendere e superare il male fatto e subito».